Antibiotico resistenza: ecco gli anticorpi monoclonali contro il superbatterio Klebsiella pneumoniae NDM
Lo studio dell’Università di Pisa e dell’Aoup pubblicato su Nature apre nuove prospettive di prevenzione e cura delle infezioni da Klebsiella pneumoniae NDM, tra le più pericolose minacce alla salute pubblica secondo l’OMS.
Dalla Toscana e da Pisa un risultato che potrebbe segnare una svolta nella lotta contro i batteri resistenti agli antibiotici. Su Nature è stato pubblicato uno studio innovativo sull’efficacia degli anticorpi monoclonali (cioè copie identiche prodotte in laboratorio di un anticorpo naturale) nel contrastare il superbatterioKlebsiella pneumoniaeNDM considerato dall’Organizzazione mondiale della sanità una minaccia prioritaria per la salute pubblica.
Il lavoro nasce dall’attività clinica e di ricerca dell’Unità operativa di Malattie infettive dell’Azienda ospedaliero-universitaria pisana, diretta da Marco Falcone, professore di malattie infettive dell’Università di Pisa, con la partecipazione delle infettivologhe Giusy Tiseo e Valentina Galfo, in collaborazione con la Sezione di Microbiologia batteriologica guidata da Simona Barnini. Analizzando i campioni di sangue di pazienti ricoverati e guariti da infezione da Klebsiella pneumoniaeNDM i ricercatori hanno identificato anticorpi naturali capaci di neutralizzare il batterio. Questi anticorpi sono stati successivamente ingegnerizzati in laboratorio dal team di Rino Rappuoli, direttore scientifico della Fondazione Biotecnopolo di Siena e figura di spicco mondiale nell’immunologia, già protagonista nello sviluppo degli anticorpi monoclonali anti-COVID.
Come emerge dallo studio, gli anticorpi isolati si sono dimostrati particolarmente efficaci contro il clone ST147 della Klebsiella pneumoniaeNDM, responsabile di casi clinici endemici in Toscana e diffuso anche in altre aree. Nei test di laboratorio e negli studi condotti in modelli animali presso l’Università di Hartford (USA), questi anticorpi monoclonali hanno mostrato un’azione battericida potente.
“Questo risultato – sottolinea Marco Falcone – conferma l’eccellenza della ricerca toscana sulle infezioni da patogeni multiresistenti e apre scenari concreti per nuove strategie terapeutiche. In futuro questi anticorpi potrebbero essere utilizzati sia per la profilassi dei pazienti fragili colonizzati dal batterio, sia come supporto terapeutico nelle infezioni gravi”.
L’Italia è tra i Paesi europei con i più alti livelli di resistenza antimicrobica e la diffusione di enterobatteri multiresistenti, come la Klebsiella NDM, è ormai un problema endemico, in particolare in Toscana. Questo batterio, resistente ai carbapenemi – antibiotici di ultima generazione – può causare infezioni gravi alle vie respiratorie, urinarie, al sangue e alle ferite, con un rischio elevato per anziani, neonati prematuri, pazienti ospedalizzati e persone immunocompromesse.
Riferimenti bibliografici:
Roscioli, E., Zucconi Galli Fonseca, V., Bosch, S.S. et al., Monoclonal antibodies protect against pandrug-resistant Klebsiella pneumoniae, Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09391-3
Antibiotico resistenza: ecco gli anticorpi monoclonali contro il superbatterio Klebsiella pneumoniae NDM; lo studio pubblicato su Nature. Foto di Konstantin Kolosov
Testo dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa.
La luce si trasforma in elettricità: da un semiconduttore organico, la molecola P3TTM, le celle solari del futuro
Pubblicata su Nature Materials la ricerca internazionale con la partecipazione dell’Università di Pisa
Un semiconduttore organico è riuscito a fare ciò che finora sembrava impossibile: trasformare quasi tutta la luce che riceve in elettricità. La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature Materials e frutto di una collaborazione tra l’Università di Pisa, l’Università di Cambridge (UK) e l’Università di Mons (Belgio), potrebbe rivoluzionare il futuro delle celle solari e dei dispositivi elettronici alimentati dalla luce.
Il protagonista di questa ricerca è il P3TTM, una molecola appartenente alla famiglia dei radicali organici. I radicali sono specie chimiche che hanno almeno un elettrone spaiato, e questo li rende particolarmente reattivi. Finora erano conosciuti soprattutto per la loro capacità di emettere luce (vengono già usati nei moderni schermi OLED), ma non per produrre elettricità in modo efficiente.
La novità è che, illuminando sottilissimi film di P3TTM con luce blu-violetta, le molecole non solo si eccitano ma si scambiano elettroni tra loro, creando coppie di particelle cariche. Quando queste vengono separate da un semplice campo elettrico, la conversione in corrente elettrica è quasi perfetta: un’“efficienza di raccolta” vicina al 100%. In altre parole, quasi tutta l’energia della luce viene trasformata in elettricità utilizzabile.
I vantaggi sono enormi. Nelle celle solari organiche tradizionali — dispositivi elettronici che convertono l’energia della luce solare in elettricità attraverso l’effetto fotovoltaico — una parte consistente della luce va sprecata perché le cariche rimangono intrappolate. Con il P3TTM, invece, la luce diventa corrente in modo semplice e diretto, senza bisogno delle complesse architetture finora utilizzate. Questo apre la strada a celle solari più economiche, leggere e facili da produrre, ma anche a nuovi sensori ottici e magnetici, e a dispositivi elettronici innovativi che sfruttano la luce come fonte diretta di energia.
“Il nostro contributo come Università di Pisa è stato quello di comprendere, attraverso calcoli quantomeccanici, come le molecole di P3TTM interagiscono tra loro dopo essere state colpite dalla luce”, spiega Giacomo Londi, ricercatore del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale. “Questa analisi computazionale è stata fondamentale per confermare che la separazione di carica non dipende da eterogiunzioni o materiali ausiliari, ma è una proprietà intrinseca del radicale organico. In altre parole, abbiamo dimostrato che il meccanismo alla base di questo processo si deve alla natura stessa della molecola, aprendo la strada a una nuova generazione di celle solari più semplici e sostenibili”.
Riferimenti bibliografici:
Li, B., Murto, P., Chowdhury, R. et al., Intrinsic intermolecular photoinduced charge separation in organic radical semiconductors, Nat. Mater. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41563-025-02362-z
Melatonina e bambini: pubblicato su Sleep Medicine Reviews, lo studio di Università di Pisa e IRCCS Fondazione Stella Maris fornisce le prime raccomandazione per un uso efficace a medici e famiglie, indicazioni fondamentali dato che le terapie a disposizione dei bambini sono inferiori rispetto agli adulti. La finestra di somministrazione ideale è circa 3 ore prima di dormire, in anticipo rispetto a quanto scritto nei foglietti illustrativi.
Attenzione! Il presente articolo ha carattere scientifico, illustrativo e divulgativo: le nostre conoscenze scientifiche possono modificarsi nel corso del tempo.
In generale, i risultati di un qualsiasi studio scientifico possono essere confutati, ribaltati, adeguati, completati, aggiornati da ulteriori studi in futuro.
In caso di disturbi del sonno è altamente consigliabile innanzitutto un consulto medico. La somministrazione di melatonina, nei bambini come negli adulti, dovrebbe essere supervisionata da un medico (a partire dal dosaggio).
Nel caso in cui ci si rispecchi nei contenuti di questo articolo, invitiamo quindi a riferirsi innanzitutto al proprio medico di fiducia e a non agire di impulso. ScientifiCult non si assume alcuna responsabilità in relazione ai risultati o conseguenze di un qualsiasi utilizzo delle informazioni pubblicate.
Non esistono ad oggi linee guida condivise e realmente efficaci su come usare la melatonina nei bambini con disturbi del sonno e le indicazioni disponibili sono spesso incomplete o discordanti. Da qui la novità dello studio congiunto dell’Università di Pisa e dell’IRCCS Fondazione Stella Maris, appena pubblicato sulla rivista internazionale Sleep Medicine Reviews, che offre per la prima volta raccomandazioni operative su dose, orario di somministrazione e durata del trattamento per una massima efficacia. Secondo le indicazioni emerse riguardano l’orario di somministrazione della melatonina rispetto all’orario di addormentamento desiderato, e la dose più indicata, oltre alla durata ideale del trattamento.
“La melatonina è una sostanza naturale che il nostro corpo produce in condizioni normali e che tra le tanti funzioni serve a regolare il ciclo sonno-veglia – spiega il professore Ugo Faraguna dell’Università di Pisa e dell’IRCCS Fondazione Stella Maris, co-autore dello studio – in questo lavoro abbiamo dimostrato che l’orario di somministrazione è fondamentale e andrebbe personalizzato, ma in generale, andrebbe anticipato di qualche ora rispetto a quanto spesso indicato dal foglietto illustrativo“.
A livello metodologico, lo studio ha raccolto e analizzato in modo sistematico la letteratura fino al 30 aprile 2024, includendo 21 studi clinici su bambini e bambine in età prepuberale con gruppi ai quali è stata somministrata la melatonina e gruppi di controllo ai quali è stato dato un placebo. Il trattamento somministrato secondo le nuove raccomandazioni ha facilitato il sonno in tutti i pazienti e l’effetto è stato più evidente nei bambini con disturbi del neurosviluppo.
“Quando si assume la melatonina come farmaco o integratore è importante fare particolare attenzione specialmente nei bambini, dove le terapie a disposizione sono inferiori rispetto agli adulti – conclude Faraguna – tuttavia a fronte di un uso sempre più diffuso della melatonina in pediatria, mancavano sinora indicazioni condivise su quanto darne, quando somministrarla rispetto all’ora di sonno e per quanto tempo proseguire la terapia. Le raccomandazioni che proponiamo colmano questo vuoto, offrendo una cornice pratica e verificabile che può orientare medici e famiglie “.
Ugo Faraguna, Professore Associato di Fisiologia presso il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia della Scuola di Medicina dell’Università di Pisa, si dedica da anni allo studio della fisiologia del sonno e dei suoi disturbi. Il suo lavoro di ricerca si concentra in particolare sulla relazione tra sonno e plasticità cerebrale, indagando l’influenza del sonno sui processi di apprendimento e memoria e il ruolo della sua alterazione in diverse patologie. Faraguna collabora strettamente con l’IRCCS Fondazione Stella Maris, un’affiliazione che gli permette di focalizzare la sua ricerca anche sui disturbi del sonno in età evolutiva. Oltre all’attività clinica e di ricerca, ha contribuito allo sviluppo di soluzioni tecnologiche innovative, come l’impiego di algoritmi di intelligenza artificiale per l’analisi e il monitoraggio dei dati relativi al sonno.
Il lavoro è frutto della collaborazione tra il gruppo di ricerca dell’Università di Pisa e del’IRCCS Fondazione Stella Maris, rappresentato da Simone Bruno, Giovanni Cenerini, Letizia Lo Giudice, Francy Cruz-Sanabria, Davide Benedetti, Gabriele Masi e Alessio Crippa del Karolinska Institutet di Stoccolma, Simona Fiori dell’Università di Firenze e Raffaele Ferri dell’IRCCS Associazione Oasi Maria SS. ONLUS e attuale Presidente della World Sleep Society il cui congresso annuale si è appena concluso a Singapore (5-10 settembre 2025).
Riferimenti bibliografici:
Simone Bruno, Giovanni Cenerini, Letizia Lo Giudice, Francy Cruz-Sanabria, Davide Benedetti, Alessio Crippa, Simona Fiori, Raffaele Ferri, Gabriele Masi, Ugo Faraguna, Optimizing timing and dose of exogenous melatonin administration in neuropsychiatric pediatric populations: a meta-analysis on sleep outcomes, Sleep Medicine Reviews, Volume 84, 2025, 102158, ISSN 1087-0792, DOI: https://doi.org/10.1016/j.smrv.2025.102158
Scoperta una cavità nascosta sotto i Campi Flegrei: nuova luce sulla dinamica dei flussi magmatici e sulla gestione dei rischi
Lo studio, pubblicato su Nature Communications Earth and Environment, rivela l’esistenza di una frattura profonda che risuona sotto la caldera napoletana. Il lavoro è frutto di una collaborazione tra Università di Pisa, INGV e GFZ-Potsdam.
Risuona nello stesso modo dal 2018, è così che un team internazionale guidato dall’Università di Pisa ha scoperto una cavità nascosta sotto i Campi Flegrei a 3,6 km di profondità, relativamente vicina alla superficie. La ricerca, pubblicata su Nature Communications Earth and Environmente frutto di una collaborazione con l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e il Centro GFZ Helmholtz per le Geoscienze di Potsdam (GFZ Helmholtz Centre for Geosciences, Potsdam, Germania), apre nuove prospettive per comprendere l’evoluzione del sistema vulcanico e valutare meglio i rischi associati.
La cavità individuata per la prima volta mette in comunicazione il serbatoio profondo responsabile del sollevamento del suolo con le fumarole superficiali di Solfatara e Pisciarelli. È lunga circa un chilometro, larga circa 650 metri con uno spessore medio di 35 centimetri e un volume complessivo intorno ai 220.000 metri cubi. Le analisi non ha rivelato con certezza il contenuto forse gas ad alta pressione o fluidi magmatici.
“Abbiamo individuato la cavità grazie all’analisi di segnali sismici di lunghissimo periodo (VLP) – spiega Giacomo Rapagnani, dottorando dell’Università di Pisa e e primo autore dello studio – Questa struttura risuona sempre alla stessa frequenza (0,114 Hz) da almeno sette anni, segno che le sue dimensioni e la sua composizione sono rimaste stabili nel tempo, si tratta di un indizio prezioso per comprendere come si evolvono i flussi di fluidi nel sottosuolo e individuare eventuali segnali di variazione strutturale che potrebbero indicare un aumento del rischio vulcanico”.
I Campi Flegrei, situati nel Golfo di Napoli, sono tra i complessi vulcanici più monitorati al mondo. Dal 2005 l’area è interessata da una nuova fase di sollevamento del suolo, nota come bradisisma, accompagnata da terremoti di intensità crescente. L’evento sismico più forte, di magnitudo Md 4.6, è avvenuto il 30 giugno 2025.
“Abbiamo analizzato oltre cento terremoti avvenuti dal 2018 a oggi – continua Rapagnani – è così emerso che in coincidenza con i terremoti più intensi si attiva una “risonanza” a bassa frequenza che ha rilevato appunto l’esistenza della frattura. È un comportamento simile a quello osservato in altri vulcani attivi, ma mai documentato prima nei Campi Flegrei”.
“Questo studio evidenzia come lo sviluppo e l’applicazione di tecniche sofisticate per l’analisi dei dati sismologici siano fondamentali per comprendere a fondo processi geofisici complessi, come i terremoti e le eruzioni vulcaniche – aggiunge Francesco Grigoli coautore dell’articolo e professore di Geofisica dell’Università di Pisa – Solo spingendo al limite le nostre capacità di analizzare grandi quantità di dati eterogenei possiamo migliorare la comprensione di questi fenomeni e mitigare con maggiore efficacia i rischi a essi associati”.
Lo studio è frutto della collaborazione tra l’Università di Pisa, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e il Centro GFZ Helmholtz per le Geoscienze di Potsdam (GFZ Helmholtz Centre for Geosciences, Potsdam, Germania). Gli autori sono Giacomo Rapagnani, Simone Cesca, Gilberto Saccorotti, Gesa Petersen, Torsten Dahm, Francesca Bianco e Francesco Grigoli.
da sinistra, Giacomo Rapagnani, Anthony Salvatore Cappetta (Master student Unipi), Francesco Grigoli, Giulio Pascucci (dottorando Unipi), Emanuele Bozzi (Postdoc Unipi)
Riferimenti bibliografici:
Rapagnani, G., Cesca, S., Saccorotti, G., Petersen, G., Dahm, T., Bianco, F., Grigoli, F. (2025). Coupled earthquakes and resonance processes during the uplift of Campi Flegrei caldera, Communications Earth & Environment, 6, 607, DOI: https://doi.org/10.1038/s43247-025-02604-7
Testo e foto dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa.
Come batte il nostro cuore: una collaborazione tra ingegneri e matematici dell’Università di Pisa risolve un problema aperto da anni; un metodo matematico applicato alla serie dalle misure della frequenza cardiaca per stabilire se la dinamica del sistema cardiovascolare è regolare
Lo studio è stato riconosciuto con il Best Student Paper Award alla Conferenza della Società Internazionale di Ingegneria biomedica
Una collaborazione tra studiosi del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e del Dipartimento di Matematica dell’Università di Pisa ha risolto un problema ancora aperto nella comunità scientifica medica e della bioingegneria sin dagli anni novanta. La scoperta porta a una maggior comprensione della dinamica del sistema cardiovascolare aprendo la strada alla definzione di nuovi biomarcatori in grado di quantificare il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari.
Lo studio applica infatti un metodo matematico innovativo alla serie ricavata dalle misure della frequenza cardiaca e ha stabilito che la dinamica del sistema cardiovascolare è regolare e non caotica.
Un metodo matematico applicato alla serie ricavata dalle misure della frequenza cardiaca e ha stabilito che la dinamica del sistema cardiovascolare è regolare. Al centro Martina Bianco, alla sua sinistra Riccardo Valenza
Lo scorso 16 luglio, durante l’International Conference of the IEEE Engineering in Medicine and Biology Society (EMBC), la principale conferenza internazionale di ingegneria biomedica, il lavoro ha ricevuto il “Best Student Paper Award”. Gli autori sono Martina Bianco, dottoranda al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e prima autrice dell’articolo, Andrea Scarciglia e Gaetano Valenza (Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione ) e Claudio Bonanno (Dipartimento di Matematica). La conferenza ha visto la partecipazione di studiosi da oltre 70 paesi, e l’articolo premiato ha superato la concorrenza di lavori di ricercatori da Cina, Giappone, Australia, Messico, Stati Uniti, Emirati Arabi e diversi stati europei.
“Gli intervalli di tempo tra battiti cardiaci consecutivi – spiega Martina Bianco, dottoranda in ingegneria biomedica e con una laurea in matematica alle spalle – formano una serie chiamata serie della Variabilità della Frequenza Cardiaca (HRV). Questa serie, composta da intervalli successivi ottenuti dell’elettrocardiogramma deriva da molteplici input fisiologici, come quelli del sistema nervoso centrale, simpatico e parasimpatico, la respirazione, la pressione sanguigna e l’attività ormonale”.
Martina Bianco
“Durante il mio lavoro di tesi al dipartimento di matematica – continua Bianco – avevo messo a punto un metodo per capire se una serie di dati può essere interpretata come output di un sistema regolare, il cui stato cioè è determinabile in ogni momento, oppure caotico, cioè dipendente in modo essenziale dalle condizioni iniziali, e che quindi si evolve in modo non predicibile se tali condizioni cambiano anche di poco. E’ stata per me una bellissima sfida applicare un metodo matematico elaborato in astratto a dati numerici reali, come sono le serie derivanti dagli elettrocardiogrammi. Questo perché nei dati reali spesso è presente una componente casuale ”di disturbo” ,il cosiddetto “rumore fisiologico”. che non dipende solo dall’errore di misurazione, ma soprattutto da interazioni e fluttuazioni interne al sistema in esame. Il risultato che abbiamo ottenuto è abbastanza netto: la dinamica del sistema cardiovascolare è regolare, e non caotica”.
“Sono molto contento di questa collaborazione tra due dipartimenti di eccellenza dell’Università di Pisa – aggiunge Gaetano Valenza, docente di bioingegneria all’Università di Pisa – Il metodo sviluppato consente di avere una conoscenza più approfondita del sistema cardiovascolare e, più in generale, delle dinamiche neurofisiologiche. Questa maggiore conoscenza ci potrebbe consentire, per esempio, di definire nuovi biomarcatori in grado di quantificare il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, che ancora oggi rimangono una delle principali cause di morte a livello mondiale.”
“Questo riconoscimento – conclude Claudio Bonanno, docente di fisica matematica all’Università di Pisa – premia innanzitutto il lavoro di tesi di Martina, ma anche quello di Andrea, anche lui laureato in matematica e con la cui tesi è iniziata la collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione. Premia anche il coraggio di Martina e Andrea nel decidere di spendere le loro competenze matematiche nelle applicazioni alla bioingegneria. Mi auguro che questo riconoscimento, che nasce da una fruttuosa collaborazione tra due dipartimenti del nostro ateneo, serva a ribadire l’importanza del portare avanti, in contemporanea, la ricerca di base e la ricerca applicata.”
Testo e immagini dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa.
Ecco Aurora, il robot trova tutto per la gestione digitale dei magazzini
Il prototipo realizzato dal Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa
È alta meno di un metro, dal design compatto e leggero. Si chiama AURORA, ed è il robot progettato nei laboratori del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, una innovazione che promette di rivoluzionare la gestione dei magazzini. Aurora è in grado di mappare gli ambienti con il laser rilevando gli eventuali ostacoli, grazie a radiofrequenze trasmesse da etichette intelligenti (RFID) identifica la posizione di tutti gli oggetti presenti e la trasmette a un database, costruendo una mappa continuamente aggiornata del magazzino e delle scorte ad ogni scansione.
da sinistra, Giovanni Stea e Andrea Montroni con il robot Aurora
il robot Aurora per la gestione dei magazzini
“Il robot Aurora – spiega Andrea Motroni, ricercatore in ingegneria delle telecomunicazioni all’Università di Pisa – è in realtà un sistema di telecomunicazioni avanzato che sfrutta dei segnali elettromagnetici per identificare e trovare la posizione di tutti gli oggetti presenti nell’ambiente. Dopodiché, trasmette queste informazioni ad un database, costruendo così la mappa completa del magazzino o di un grande negozio. La particolarità inoltre è che le etichette non hanno batteria, non necessitano di manutenzione, sono sottilissime e si integrano facilmente nei vari materiali, dai tessuti alla carta”.
Il risultato è che industrie, grandi negozi ed e-commerce possono avere in tempo reale la situazione delle scorte, anche in casi molto delicati come per esempio le forniture di farmaci, e sapere quali prodotti vengono venduti di più, e quindi devono essere riordinati più di frequente, e quali invece risultano più difficili da vendere.
“Aurora è una delle tecnologie progettate nel Centro 5.0 del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione – dice Giovanni Stea, docente di Ingegneria Informatica all’Università di Pisa – il Centro supporta aziende e pubbliche amministrazioni nell’adozione di nuove tecnologie per l’Industria 5.0. Sostenere la sovranità digitale del nostro Paese e aumentare la resilienza del sistema produttivo in modo sostenibile e centrato sulle persone è ciò che ci può consentire di mantenere competitivo e moderno il nostro sistema industriale e il nostro territorio”.
da sinistra, Giovanni Stea e Andrea Montroni con il robot Aurora per la gestione dei magazzini
Testo e immagini dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa
Stampare l’elettronica a due dimensioni: da una collaborazione tra l’Università di Pisa e l’Università di Manchester passi avanti nella ricerca che porterà al computer su carta
Pubblicato uno studio sulla rivista “Advanced Functional Materials” a firma del team di ricerca composto da scienziati degli atenei di Pisa, Manchester, Salerno e L’Aquila
Forse, in un futuro non troppo lontano, potremmo arrivare a stampare da soli il nostro ipad o il nostro smartphone, con una semplice stampante a getto di inchiostro e un foglio di carta. Questo grazie all’evoluzione della ricerca nel campo dell’elettronica stampata basata su materiali bidimensionali, nella quale l’Università di Pisa e l’Università di Manchester rappresentano due eccellenze assolute. Da un lato, l’esperienza dell’Università di Manchester nello studio e nella manipolazione del grafene, materiale al centro di ricerche premiate con il Nobel nel 2010; dall’altro, il contributo dell’Università di Pisa, che da anni porta avanti attività riconosciute a livello europeo nel campo dell’elettronica flessibile e delle tecniche di stampa basate su materiali avanzati, grazie anche ai progetti finanziati dall’European Research Council (ERC) coordinati da Gianluca Fiori, docente di Elettronica presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione.
Ora un altro passo avanti è stato fatto grazie a uno studio che ha visto ancora una volta la collaborazione tra Pisa (Dipartimento di Fisica e Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione) e Manchester (Dipartimento di Chimica), assieme alle Università di Salerno e l’Aquila, e che è stato pubblicato su Advanced Functional Materials, una delle principali riviste del settore.
“Il lavoro nasce da una sinergia tra teoria ed esperimenti – spiega Damiano Marian, ricercatore al Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa – che ha permesso di affrontare uno studio di rilievo nel campo dell’elettronica stampata basata su inchiostri di materiali bidimensionali, una tecnologia chiave per lo sviluppo di dispositivi flessibili e indossabili. Il lavoro si concentra sulla comprensione della conducibilità di questi inchiostri, con particolare attenzione alle transizioni indotte da variazioni di temperatura e da processi di annealing”.
“L’elettronica stampata tramite inchiostri bidimensionali – aggiunge Alejandro Toral-Lopez, ricercatore al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa – oltre a garantire leggerezza, flessibilità e costi contenuti, offre anche il vantaggio di poter essere realizzata con infrastrutture minimali, permettendo la produzione in ambienti non industriali avanzati, come piccoli laboratori o aziende locali. Assumerà quindi un’importanza sempre più strategica anche nell’industria di prossima generazione, la cosiddetta “industria 5.0”, sulle cui tecnologie abilitanti stanno lavorando diversi gruppi di ricerca nel nostro Dipartimento. Comprendere a fondo i meccanismi di trasporto di questi materiali è diventato quindi sempre più urgente, e disporre di un modello flessibile e versatile, capace di riprodurre accuratamente i dati sperimentali, risulta di fondamentale importanza.”
“Capire come si comporta la corrente elettrica in dispositivi stampati realizzati con materiali bidimensionali non è semplice – afferma Alessandro Grillo, Research Fellow nel Dipartimento di Chimica dell’Università di Manchester – è un po’ come cercare di seguire il percorso dell’acqua in un intricato labirinto di canali microscopici. Con questo studio siamo riusciti a fare luce su questi meccanismi complessi, fondamentali per trasformare in realtà dispositivi elettronici flessibili, leggeri e a basso costo. Il nostro modello descrive con precisione ciò che osserviamo sperimentalmente, portando la comprensione di questi materiali a un nuovo livello e avvicinando sempre di più la ricerca alle applicazioni concrete.”
Un piccolo passo verso un futuro ancora lontano, ma affascinante, in cui potremo usare un personal computer che un giorno potremo usare e appallottolare, e poi smaltire nella carta.
Stampare l’elettronica a due dimensioni: da una collaborazione tra l’Università di Pisa e l’Università di Manchester passi avanti nella ricerca che porterà al computer su carta
Testo e immagine dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa
Elettronica impiantabile e riassorbibile per la medicina di precisione: lo stato dell’arte e sfide future (anche in campo non medico)
Su Nature Reviews Electrical Engineering un articolo del team di microelettronica del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa
I sistemi elettronici bioriassorbibili impiantabili, costituiti da dispositivi miniaturizzati che rilevano, elaborano e rispondono a segnali del corpo stanno rivoluzionando la medicina di precisione nella direzione di un approccio sempre più personalizzato, sostenibile, non invasivo ed ecocompatibile.
Su Nature Reviews Electrical Engineering un articolo a firma del gruppo di ricerca del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa guidato da Giuseppe Barillaro, da anni impegnato nella ricerca sui sensori per la medicina del futuro, fa il punto sullo stato dell’arte. In particolare, il lavoro traccia gli scenari applicativi di questi sistemi in medicina, sottolineando come potrebbero arrivare a rivoluzionare l’assistenza sanitaria grazie alla combinazione di funzionalità, biocompatibilità e sostenibilità ambientale.
Oltre a Giuseppe Barillaro, sono autori dell’articolo Martina Corsi, Elena Bellotti e Salvatore Surdo.
“Questi sistemi – afferma Barillaro, docente di elettronica al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione – forniscono un monitoraggio in tempo reale dei parametri vitali, dei marcatori biochimici e degli indicatori specifici di una patologia all’interno del corpo e trasmettono dati in modalità wireless che consentono interventi tempestivi e personalizzati. Realizzati con materiali biodegradabili, i dispositivi si dissolvono in sicurezza dopo aver completato la loro funzione, eliminando la necessità di rimozione chirurgica e riducendo le complicanze. Questi fattori posizionano l’elettronica bioriassorbibile all’avanguardia delle tecnologie sostenibili ed ecocompatibili per la medicina personalizzata”.
“Negli ultimi 15 anni – continua Barillaro – i progressi nella scienza dei materiali, nelle tecnologie di microfabbricazione e nell’ingegneria dei dispositivi hanno notevolmente ampliato la funzionalità e la versatilità dei sistemi elettronici bioriassorbibili impiantabili. Le innovazioni chiave includono lo sviluppo di sensori bioriassorbibili per il monitoraggio di pH, glucosio, lattato e altri biomarcatori; stimolatori elettrici transitori che promuovono la guarigione delle ferite e la rigenerazione dei tessuti; fonti di energia in grado di ricavare energia dai movimenti naturali del corpo.”
Nell’articolo, gli autori passano in rassegna le funzioni essenziali dei sistemi elettronici bioriassorbibili, dalla rilevazione e l’elaborazione delle informazioni alla raccolta di energia e alla comunicazione wireless, in termini di componenti, materiali, tecniche di fabbricazione e strategie di integrazione.
“Affrontiamo anche le principali sfide tecnologiche – prosegue Barillaro – come la biocompatibilità dei materiali, la stabilità dei dispositivi, l’affidabilità dei dati, la degradazione controllata e l’efficienza energetica, che rappresentano i principali ostacoli all’applicazione clinica”.
Biocompatibilità e biodegradabilità sono infatti i punti cruciali di questa tecnologia. Sebbene i materiali bioriassorbibili siano progettati per degradarsi senza danneggiare i tessuti circostanti, gli effetti dei sottoprodotti di degradazione sui tessuti devono essere attentamente valutati, soprattutto a lungo termine, così come deve essere valutato l’impatto sull’ambiente dei lettori esterni e unità di trasmissione che interagiscono con i sensori. Da questo punto di vista, nell’immediato futuro, l’utilizzo di sensori con circuiti elettronici alimentati dall’esterno e la realizzazione dei lettori esterni con materiali riciclabili o parzialmente biodegradabili, potrebbero costituire ulteriori passi avanti. Infine, futuri sistemi bioriassorbibili completamente impiantabili potrebbero eliminare i rifiuti medici, poiché tutti i componenti, inclusi sensori, alimentazione e trasmissione dati, verrebbero riassorbiti in modo sicuro all’interno del corpo, segnando un passo importante verso una tecnologia medica sostenibile e senza sprechi.
“È necessario affrontare anche considerazioni etiche – conclude Barillaro – in particolare quelle relative alla riservatezza dei dati e all’autonomia del paziente. La capacità dei dispositivi indossabili e impiantabili di raccogliere dati sanitari in modo continuativo solleva importanti interrogativi su come queste informazioni vengano gestite e protette, e richiede una solida normativa per la protezione dei dati.”
il team di Giuseppe Barillaro, autore del nuovo studio sull’Elettronica impiantabile e riassorbibile
L’articolo si chiude tracciando uno scenario applicativo dei dispositivi bioriassorbibili che va oltre il sistema sanitario, per esempio nei settori del monitoraggio ambientale, della tecnologia indossabile e dell’elettronica di consumo, dove questi sistemi potrebbero contribuire alla riduzione dei rifiuti elettronici e alla creazione di prodotti più sostenibili.
L’elettronica bioriassorbibile, sottolineano gli autori, potrebbe rivoluzionare l’assistenza sanitaria, rendendola più accessibile al paziente e più sostenibile, ma questo richiede una continua collaborazione interdisciplinare, innovazione responsabile, adeguamento normativo e disponibilità di finanziamenti. Affrontare queste sfide potrebbe rendere i sistemi bioriassorbibili una tecnologia chiave dei trattamenti medici di prossima generazione e un modello per la tecnologia sostenibile in altri settori.
Riferimenti bibliografici:
Corsi, M., Bellotti, E., Surdo, S. et al. Implantable bioresorbable electronic systems for sustainable precision medicine, Nat Rev Electr Eng (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s44287-025-00190-6
Testo e foto dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa
Un nuovo oceano nascerà: due studi internazionali riscrivono l’evoluzione geologica dell’Africa orientale
L’Università di Pisa protagonista di una doppia scoperta: nel triangolo dell’Afar (Etiopia), la rottura del continente e la risalita del mantello mostrano come il magma risalga ad impulsi ritmici cadenzati dalla separazione delle placche terrestri
Nella regione dell’Afar, in Africa orientale, tre grandi placche tettoniche si stanno separando e, in prospettiva geologica, nascerà un nuovo oceano. Due ricerche appena pubblicate su riviste del gruppo Nature riscrivono sotto una nuova luce questo fenomeno. In entrambe le ricerche l’Università di Pisa ha svolto un ruolo chiave, con i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra coinvolti nell’analisi dei dati, nella campagna di campionamento e nella conservazione del materiale geologico di riferimento.
“Questi due studi ci permettono di osservare con chiarezza un processo geologico di portata enorme: la formazione di un nuovo oceano, anche se naturalmente si parla di tempi geologici molto lunghi, dell’ordine di decine di milioni di anni – spiega la professoressa Carolina Pagli del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa – I nostri dati mostrano che la risalita di materiale caldo dal mantello è profondamente connessa ai movimenti delle placche che causano l’apertura della crosta terrestre. Questo movimento non solo fa ‘strappare’ la crosta, ma condiziona anche la risalita dei magmi. È un cambio di prospettiva importante, che migliora la nostra comprensione dei grandi processi geologici e dei processi sismici e vulcanici nelle aree soggette al fenomeno.”
Il primo studio, coordinato da un team dell’Università di Pisa e pubblicato su Communications Earth & Environment, ha ricostruito l’evoluzione del rift— ovvero la frattura nella crosta terrestre — dell’Afar negli ultimi 2–2,5 milioni di anni. Attraverso la datazione di sedici colate laviche, i ricercatori hanno dimostrato che la zona attiva del rift si è andata restringendo e spostando in modo asimmetrico, avvicinandosi sempre più a una configurazione simile a quella dei fondali oceanici.
Il secondo studio, guidato dall’Università di Southampton con la partecipazione dell’Università di Pisa, e pubblicato su Nature Geoscience, fa un’analisi di oltre 130 campioni lavici. Attraverso sofisticati modelli statistici, è emerso che il mantello sotto l’Afar si muove e si distribuisce in modo diverso nei tre rami del rift (Mar Rosso, Golfo di Aden, Rift Etiopico) in funzione della velocità di estensione e dello spessore della crosta sovrastante. In altre parole, è la tettonica a plasmare il comportamento del mantello, e non il contrario.
Il primo studio, pubblicato su Communications Earth & Environment, è stato condotto da un team italo-britannico con la partecipazione di Anna Gioncada e Carolina Pagli del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e di Gianmaria Tortelli dell’Università di Pisa e di Firenze. Carolina Pagli ha inoltre partecipato alla ricerca pubblicata su Nature Geoscience e guidata da Emma J. Watts dell’Università di Southampton.
il gruppo di ricerca UniPi che ha partecipato ai due studi internazionali
Testo e foto dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa
Pannelli solari in plastica riciclata: a Pisa nasce il fotovoltaico urbano e colorato che rispetta l’ambiente
L’Università di Pisa sviluppa concentratori solari fluorescenti con materiale acrilico rigenerato: meno emissioni, più sostenibilità e un’energia solare su misura per le città. Lo studio premiato dalla Royal Society of Chemistry tra i migliori contributi agli obiettivi dell’ONU.
Pannelli solari realizzati non con silicio o vetro, ma con plastica riciclata: è questa l’idea alla base del nuovo progetto dell’Università di Pisa, che ha sviluppato e testato una tecnologia innovativa per produrre elettricità dal sole in modo più sostenibile. Si tratta di concentratori solari luminescenti: lastre trasparenti e colorate in materiale acrilico (PMMA) ottenuto da rifiuti plastici rigenerati, capaci di catturare la luce solare e convogliarla verso piccoli moduli fotovoltaici installati sui bordi.
Questa tecnologia, pensata per essere integrata in vetrate, pensiline, serre e facciate trasparenti, unisce prestazioni elevate e ridotto impatto ambientale.
“Abbiamo dimostrato che è possibile ottenere concentratori solari per pannelli fotovoltaici efficienti utilizzando plastica rigenerata invece di materie prime fossili – spiega il professor Andrea Pucci, coordinatore della ricerca – il nostro obiettivo è portare il solare dentro le città, in modo colorato e sostenibile”.
La ricerca ha confrontato per la prima volta, in modo sistematico, le prestazioni di pannelli realizzati con plastica acrilica vergine e con quella ottenuta da processi di riciclo chimico. I risultati hanno mostrato che, a parità di prestazioni ottiche ed elettriche, i pannelli in plastica riciclata permettono una riduzione delle emissioni di CO₂ fino al 75%. I test di laboratorio e in condizioni reali (su tetti e facciate esposte al sole) hanno confermato la validità dei materiali e la loro durata nel tempo. Una prima applicazione di questa tecnologia intanto è già visibile nella pensilina fotovoltaica installata a Livorno nel 2023, nata da un progetto dell’Università di Pisa finanziato dalla Regione Toscana, in cui però erano state utilizzate un lastre di acrilico da sintesi, non riciclate.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista RSC Applied Polymersed è stato selezionato dalla Royal Society of Chemistry per una collezione dedicata agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. Il lavoro si è svolto nell’ambito LUCE, un progetto PRIN finanziato dall’Unione Europea- Next Generation EU, Missione 4 Componente 1 CUP I53D23004190006.
Per l’Università di Pisa, insieme al professor Pucci, lavorano a LUCE il dottor Marco Carlotti, e i giovani ricercatori Alberto Picchi e Hanna Pryshchepa, in collaborazione con il CNR-ICCOM di Firenze e l’Università di Napoli Federico II.
Testo e immagini dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa