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Biologia

Infinitamente piccolo, infinitamente grande: intervista a Mauro Ferrari

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Infinitamente piccolo, infinitamente grande, di Mauro Ferrari, Arnoldo Mondadori Editore – recensione e intervista all’autore

Mauro Ferrari è prima di tutto una persona curiosa, poi un ultra-maratoneta e, non ultimo, anche un accademico e imprenditore, impegnato nella ricerca sulle nanotecnologie applicate alla cura dei tumori. Padova, Berkeley, Bethesda, Houston. Non è il percorso della sua ultima performance sportiva, ma è certamente una parte del suo percorso di vita personale e professionale.

Laureatosi in Matematica all’Università di Padova, nel 1987 si trasferisce negli Stati Uniti, dove consegue il Master e il Ph.D. in Ingegneria Meccanica alla University of California, Berkeley, e inizia subito la carriera come professore di Ingegneria dei Materiali e Ingegneria Civile. Contemporaneamente alla docenza e alla direzione del dipartimento di Ingegneria Biomedica alla Ohio State University, a 43 anni inizia a studiare medicina e collabora con il National Cancer Institute a Bethesda, dove dà inizio al programma federale USA di nanotecnologia oncologica. Nel 2006 si trasferisce in Texas, dove è professore ordinario di Medicina Interna e direttore del dipartimento di Nanomedicina alla University of Texas, Houston, e professore ordinario di Terapie Sperimentali (Anderson Cancer Center). Seguono i dieci anni alla presidenza del Methodist Hospital Research Institute, e la brevissima esperienza all’European Research Council. Attualmente è presidente e amministratore delegato di BrYet Pharma, consigliere d’amministrazione di Arrowhead Pharmaceutics e professore di Scienze Farmaceutiche all’Università di Washington. Non si contano i premi, gli incarichi e le partecipazioni a ricerche dalle quali sono nati alcuni dei farmaci più innovativi per la cura dei tumori. Mauro Ferrari conta 60 brevetti a suo nome e oltre 500 pubblicazioni su riviste internazionali.

Il libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande, edito da Mondadori, è un dialogo coinvolgente con il lettore: si legge come se fosse una chiacchierata con un conoscente. La scienza diventa metafora/analogia di tutte le attività umane. Giochi di parole, salti temporali, gioie e dolori, successi e fallimenti. Il saggio è un viaggio nella mente dell’autore, un’avventura nel flusso di pensieri dello scienziato, a volte condivisibili, altre volte comprensibili e quasi mai superficiali. Nella mente dello scienziato non vi sono solo numeri, formule, specifiche tecniche dei materiali usati per la nanomedicina oncologica, ma anche tanto sport (sembra di correre con lui), moltissima musica, la creatività, la natura, e l’amore. Infinitamente grande è l’amore per il proprio lavoro, per la ricerca scientifica sull’infinitamente piccolo al servizio della comunità. Il libro ha tutte le caratteristiche per essere una fonte di ispirazione per i giovani.

La copertina del libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande, di Mauro Ferrari, pubblicata da Arnoldo Mondadori Editore
La copertina del libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande, di Mauro Ferrari, pubblicato da Arnoldo Mondadori Editore

È anche possibile ascoltare il professore in musica: l’album Mauro Ferrari e LA Rhythm & Blues Band, della Rhythm & Blues Band di Cividale e Mauro Ferrari si può ascoltare su Spotify, Youtube, Amazon Music, e altri distributori musicali. Il disco è la colonna sonora dello spettacolo di scienza e musica che fa con la band.

Ringraziamo Mauro Ferrari, per aver risposto alle domande di ScientifiCult, con grande spontaneità e generosità:

Infinitamente piccolo infinitamente grande Mauro Ferrari

Nel suo libro Infinitamente piccolo, infinitamente grande fa spesso riferimento ai giovani, alla fiducia che meritano e ai talenti che, a volte inconsapevolmente, possiedono. Quanto è importante, nel suo lavoro, incoraggiare i giovani?

Beh, per me a questo punto della vita credo che sia la cosa più importante: incoraggiare/sostenere e talvolta anche avere un po’ di amorevole pazienza (ovvio, viste le quantità industriali che hanno avuto i miei mentori con me). Ci tengo tantissimo. Negli anni ho avuto la fortuna ed il privilegio di fare da mentore a giovani che, nonostante la mia guida (spericolata) sono diventati fortissimi in carriera, come professori e leader in posti importanti come Oxford, EPFL, Berkeley, MIT, Duke, Brown, Univ Washington, Univ Florida, UC San Francisco, Houston Methodist, Brown University, e altre ancora… In Italia ad esempio all’IIT, a Trento e Udine, a Milano e Catanzaro. Anche Torino.

Devo dire che sto ricevendo molto riscontro per il libro proprio tra giovani, specialmente da quelli/e che hanno un interesse per le scienze, ma anche per le altre cose di cui racconto storie. Che so, la musica, le maratone, e quant’altro (mi hanno detto che leggere il libro è come stare in un frullatore acceso – non sai mai se arriva una carota, un pezzo di pomodoro, di arancia, o i semi di qualcosa che non si sa, tra il miele e qualche goccia di cognac, di quelli che non costano troppo). Sto facendo tante conferenze e incontri con gioventù (di ogni età) e mi diverto moltissimo (almeno io, loro non so); spesso porto qualche musicista con me così racconto di scienza con un po’ del linguaggio del jazz e blues, o in stile cantautorale (che sto un po’ imparando, ma non mi riesce troppo bene, sono più a mio agio con blues e jazz, dopo 42 anni negli USA). P.S.: canto e suono il sax.

Ho fatto e sto facendo incontri di questo tipo in università certo, ma anche nelle scuole superiori, medie, elementari e persino negli asili! Ad esempio, qualche settimana fa mi sono trovato a Napoli con un ragazzo delle superiori che ho invitato sul palco in teatro e che si è messo a fare rap, dialogando con i miei messaggi e con altre musiche: era proprio bravo e mi sono divertito tantissimo!

Vedi, magari i presenti si dimenticheranno molto in fretta dei dettagli tecnici e scientifici di cui ho parlato (come capita a tutti, non tiriamocela tanto…) ma l’emozione resta in memoria. Se poi vai via pensando che ti sei divertito ad un incontro con uno scienziato, vedi un po’, magari ti viene voglia di scienza, provi simpatia invece che la paura di non capire.

E l’avrete già capito – INVITATEMI E IO VENGO! I miei contatti sono disponibili per tutti nel libro, a pagina 23, ed eccoli qui di nuovo mauroferrari.boh@gmail.com.

(Perché pagina 23? Beh perché nella smorfia napoletana il 23 è lo scemo del villaggio, così non vi dimenticate più di me, no?)

Rispetto al passato, il mondo della scienza sta cambiando e in diversi campi di studio si assiste ad un progressivo bilanciamento tra i due sessi. Nel suo libro si legge “le donne sono grandi protagoniste dell’ingegneria spaziale”. Tuttavia, vi sono ancora numerosi ostacoli per le donne alla costruzione di una carriera nella scienza. Infatti, sono poche le donne che occupano posizioni da leader e, spesso, eccellenti scienziate non hanno la visibilità che meriterebbero per i loro contributi scientifici. Sulla base della sua esperienza, potrebbe suggerire una via d’uscita al problema?

Io sono stato molto fortunato perché la maggioranza dei successi dei miei mentee sono donne, che nei miei settori di lavoro (almeno lato bio/farma) sono spesso la maggioranza. Ma sul lato ingegneria/fisica/matematica (e pure imprenditoria) c’è tantissimo talento femminile, ma ahimè non abbastanza visibilità, hai ragione. Il mondo fortunatamente si sta svegliando su questo, ma troppo lentamente. Come fare ad accelerare? Ci sono tanto approcci in corso d’opera, in giro per il mondo, e tutti hanno dei meriti importanti, ma credo che alla fine siano le success stories che fanno la differenza, role models di successo reale e profondo, e questo richiede tempo e costanza nell’impegno della promozione femminile: non bastano proclami e operazioni brevi. Ho letto uno studio che diceva che la variabile più importante nel determinare se e quanto un uomo è favorevole al women’s empowerment nelle professioni dipende da quante figlie ha… Io con 4 (due coppie di gemelle) credo di stare abbastanza bene, dai! Di queste, Ilaria sta svolgendo un MD/PhD ed è già laureata in ingegneria meccanica alla Columbia University, Chiara è disegnatrice di cartoni animati e regista per DreamWorks, Kim fa anche lei cartoni animati, ma per la Khan Academy come direttrice dell’animazione, e Federica fa l’indossatrice e modella e gestisce un sistema di palestre. Tutte negli USA, dove sono nate. E poi c’è Giacomo, il primogenito, che è informatico a Seattle.

Nel suo libro è forte il messaggio della scienza come servizio diretto alla comunità e che possa portare beneficio al mondo, soprattutto a chi ne ha più bisogno. Altrettanto forte è l’auspicio/invito alle scienziate e agli scienziati a svolgere il proprio lavoro con responsabilità e di portarlo a termine. La politica le sembra sempre pienamente consapevole del ruolo sociale della scienza?

Chiarisco: io rispetto completamente punti di vista diversi, e non ho nessunissima intenzione di fare il predicatore e/o convincere nessuno a fare come piace fare a me, figuriamoci. Ognuno faccia il suo a modo proprio: che bella la libertà, che bello il rispetto. I due pastori della chiesa (capita che sia Metodista) dove vado quando sono a Houston (la chiesa è St John’s Downtown, vai a vederla online se vuoi: fenomenale chiesa, storicamente nera con grandissima musica e un imbattibile spirito di solidarietà per tutti!) si chiamano Rudy e Juanita e hanno il motto: ”I love you and there is nothing you can do about it” (Ti voglio bene e non ci puoi fare nulla!). Differenze d’opinione, pestate di calli, pure un dito nell’occhio e quello che ti pare, and I still love you! Quindi benissimo quelsiasi approccio alla scienza, e se vogliamo essere amici o comunque comportarci da esseri comunicanti, magari possiamo condividere quali sono le nostre motivazioni interne o no? Beh, per me ormai a questo punto della vita e per quello che resta, piace fare cose utili per chi si può aiutare. E non è che ci riesca sempre, ma quando succede devo dire che dà un senso alla vita, vero?

Quando la ricerca tocca da vicino i temi della salute e si ha davanti un pubblico sofferente e fragile, predatori senza scrupoli possono approfittarne. Si entra nella dimensione della frode e diventano concreti i rischi per la società. Nel suo libro cita il caso Stamina, ma l’elenco delle cure salvifiche senza alcun fondamento scientifico potrebbe essere molto lungo. In ambito oncologico, purtroppo, non mancano le ‘terapie alternative’ (omeopatia, medicina ayurvedica, naturopatia). Come reagisce alle frodi che riguardano la salute?

Tante frodi, tanto sfruttamento della sofferenza, è orribile a vedersi e dolorosissimo a maggior ragione perché è vero danno inferto su persone particolarmente disperate e fragili. Noi come scienziati abbiamo delle responsabilità, perché ci siamo persi tanta della fiducia che avevano in noi le comunità in seno alle quali siamo al servizio (nota: a me piace molto il concetto di essere un servitore della comunità; mi sembra giusto visto che è la comunità che ci fornisce gli strumenti che utilizziamo per fare gli studi che ci piace fare, ti pare?). E così la gente va verso le magie e le superstizioni, invece che verso la scienza. Anche in questo senso Covid è stato un disastro. Tutti in televisione a dare come certezze cose che si sapeva benissimo che non lo potevano essere, esagerando tutte le affermazioni, mescolando la scienza con la politica e l’ideologia, facendo spettacolo di giochi di potere… per forza la gente non si fida! Dobbiamo imparare a dire la verità, nel bene e nel male. Basta complessi di superiorità e onnipotenza! E basta paternalismi, “Noi” (scienza, stato, apparato) a dire a tutti cosa è meglio per loro e per il mondo. Ragà, il dubbio è la chiave della scienza, no? E basta fare credere che la verità scientifica si basa sul numero di persone che “votano a favore”: la scienza che conta succede nelle divergenze! E quindi verità e trasparenza sono le chiavi. E per quanto riguarda le terapie varie, che ci piaccia o no, e che sia migliorabile non ci piove, ma l’unico strumento scientifico che abbiamo sono i trial clinici con sufficienti valenze statistiche. Quello che non è passato per questo sistema magari è ancora meglio – importante dire che non lo possiamo sapere fino a quando non sia stato rigorosamente testato – ma senza trial clinici non ci può essere autorizzazione clinica. E che palle tutte queste teorie della cospirazione che si vedono – credo abbastanza universalmente una grande perdita di tempo ed energie – se non credi a sistema sarebbe tanto meglio mettersi a lavorare per risolvere i problemi, invece che sognarsi follie cospirazioniste, che dici? Ad esempio trovare fondi/modi per testare in maniera rigorosa una strategia terapeutica non tradizionale?

E per rispondere direttamente alla domanda – in politica (Oh My God!) veramente sembra che nessuno capisca nulla di scienza! Ma la realtà è che è peggio dell’ignoranza (che a me è pure simpatica), è una scelta! Che a lungo (e neppure troppo) andare affossa le civiltà e le culture. E temo che l’Italia sia molto a rischio su questo.

Lei si occupa di ricerca contro il cancro, la missione dichiarata della sua vita. Una ricerca che lei porta avanti da molto tempo perché la scienza richiede la verifica dei dati da parte della comunità scientifica. Spesso si ha fretta di divulgare risultati promettenti, anche prima che la comunità scientifica li abbia messi alla prova. Questo, a lungo andare, si traduce in sfiducia nella scienza e disinformazione. Cosa ne pensa al riguardo?

Sempre difficile per lo scienziato stare attento a non dare troppa speranza, è vero – tante volte la comunicazione un po’ troppo gloriosa nasce solo dall’entusiasmo, dall’ottimismo, dalla passione che alla fine sono le cose che ci spingono alla vita nella scienza, no? Ma comunque sia, è nostra responsabilità presentare le nostre conclusioni ed aspettative in maniera equilibrata – non facile, credimi – ed è certamente capitato anche a me di proiettare dell’ottimismo che poi si è rivelato prematuro. Resta la triste realtà che dalla scoperta scientifica al prodotto farmaceutico in clinica ci sono in media almeno 15 anni e 2 miliardi di Euro, e quindi quasi tutte le scoperte promettenti di cui si legge sui giornali non arrivano mai in clinica, e se ci arrivano, arrivano troppo tardi per chi sta oggi soffrendo del male che si vuole curare con la scoperta annunciata. È in qualche modo il prezzo da pagare del sistema dei trial clinici del mondo farmaceutico: un mondo che va certamente riformato, in maniera profondissima, per raggiungere un servizio ottimale alla comunità globale, specialmente nelle sue componenti meno abbienti, che sono quasi completamente abbandonate a se stesse.

La nanomedicina consiste nel veicolare i farmaci tramite particelle (per esempio di silicio, lipidiche, virali), completamente innocue per il corpo, caricate di medicinale. Quale è secondo lei la sfida più urgente della nanomedicina?

La nanomedicina ha tantissime linee tecnologiche che sono presenti nella medicina di tutti i giorni: spesso non ce ne rendiamo conto, ma è veramente dapertutto. Basti pensare al Covid: i test diagnostici usano microfluidica su quantità nanoscopiche di fluidi e reagenti. Cose che ho visto nascere all’alba della nanomedicina, trent’anni fa. E sempre riguardo il Covid: i vaccini con mRNA, ad esempio quelli di Pfizer e Moderna, non funzionerebbero mai senza le nanoparticelle lipidiche (no, non ci sono le nanocose che connettono il cervello a Bill Gates tramite le torri 5G, quelle sono appunto scemenze cospirazioniste). Ho visto nascere anche le nanoparticelle per uso in medicina, anzi ho diretto la formulazione ed il lancio del programma federale USA in questo, che nel tempo ha dato dozzine di farmaci anticancro (e altre malattie) che vengono ormai usate in tutto il mondo. La sfida più importante adesso? Le metastasi, specialmente quelle ai polmoni ed al fegato, indipendentemente dal sito del tumore primario: restano la principale cause di morte in oncologia. È su queste che io lavoro (da trent’anni) e finalmente penso di essere a meno di 12 mesi da sperimentazioni cliniche. Ma anche in passato mi è successo di pensarlo: vedi sopra!

Le dico tre parole estrapolate dal suo libro, che lei chiama “pilastri fondamentali della scienza”: motivazione, conoscenza, amore. Potrebbe spiegarci brevemente cosa intende?

Beh, credo che sia il capitolo centrale del libro, “I (miei) (tre) pilastri della scienza”, che si trova subito dopo agli altri due capitoli fondamentali: “Figure di M… auro” (ce ne sono tante ed è per quello che il libro ha tante pagine) e “I miei 29 anni di fallimenti” (che se lo scrivessi oggi sarebbero quasi trentuno). “Miei” è tra parentesi proprio per il rispetto delle prospettiva altrui, vedi sopra. E pure “tre”, perché comincio a pensare che invece sono quattro.

E non sono pilastri nel senso della topologia e dell’architettura diciamo – dei templi greci – ma spero ci capiremo lo stesso. Il primo: la conoscenza, è ovvio, no? Il nostro mestiere nella scienza è creare conoscenza e condividerla/insegnarla. Bello ed emozionante di per sé, non occorre altro. Ma per qualcuno è importante chiedersi “perché?” – motivazione – secondo pilastro. Perché faccio questo mestiere? E perché è importante scoprire e condividere conoscenza? In modi diversi, per strade diverse, alcuni che se lo chiedono giungono alla conclusione che è per fare del bene al mondo. Fichissimo. Ci si arriva per vie cristiane, musulmane, ebraiche, buddiste, per altre religioni, da nessuna religione come atei, agnostici, militari e metà prezzo come direbbe forse Totò, pure da milanisti, interisti, juventini e tifosi del Darwin Football Club (chi lo sa?!), e pure venendo da filosofie fichissime, da Kant a Popper e Feyerabend e pure da sua zia Evelyn. Sembra sia una costante universale, voler fare del bene al mondo. Bene, comunque ci si arrivi. Ma come si fa a sapere quando ci si è arrivati, alla prospettiva giusta sul perché si fa la scienza? Un bel libro di argomentazioni convincenti e uno splendido teorema del vivere? Ohi, proprio non mi sembra. Non il cervello – neppure per noi scienziati –, ce lo dice il cuore (metaforico!). L’emozione, pure a noi veneratori della ragione scientifica! Ohi ohi ohi! E allora se è vero che è l’ emozione che guida, beh, scegliamocela bene questa emozione fondante, no? Io dico: Amore (Ohi, si può dire in circoli scientifici? Si offende nessuno?). Ma se hai un’idea migliore fammelo sapere e la mettiamo su Internet, ok?

Le dico altre tre parole (non in ordine): correre, idee, salute. La sua vita personale e professionale ha sempre avuto un legame con lo sport. Qual è la migliore idea che le è passata per la mente facendo sport?

Di idee buone non ne ho avute poi tante, anzi. Ma quelle che vengono nella fase creativa delle corse lunghe (per me dopo diciamo un’ora) sono spesso le migliori. Attenzione: come quando si beve alcoolici, anche nella corsa si passa rapidamente dalle fase creativa allo stato di ebbrezza, nel quale le idee non sempre, anzi quasi mai sono da mettere in pratica… Attenzione! Capitolo di riferimento: “Pioggia Neve o Tiri Vento – Me li Faccio Tutti e Cento”, dove racconto le mie esperienze con l’ultramaratona del Passatore (appunto, 100 km di corsa a piedi). La migliore idea venuta correndo? La prossima, spero!

La storia della scienza è sia storia di fallimenti sia di grandi innovazioni e scoperte. Spesso sono più numerosi gli errori e i fallimenti dei grandi risultati. Lei racconta in modo efficace gli errori, i fallimenti e i successi delle sue ricerche. Qual è la cosa più importante che ha imparato dai suoi fallimenti?

Come canta (anzi canterà prossimamente) il grande Piero Sidoti: “Settecento Volte Perdenti, Settecento e Una Sognanti”. Frank Sinatra canta “That’s Life”, per dire che se finisci faccia a terra ti devi rialzare e ripartire: “pick yourself up and get back in the race!” I Samurai dicevano “sette volte a terra, otto volte in piedi”. Nel nostro mestiere, ahimè, molte più di sette… e dopo un po’ ci si rompe le palle di doversi rialzare di nuovo, e magari fa male un po’ dapertutto… E se lo facciamo per noi stessi, per il successo, per la carriera, per le più svariate ragioni, allora dopo un po’ si smette di rialzarsi o si cerca un altro lavoro. A meno che – ed è questa la scoperta! – lo si faccia per aiutare qualcuno che ha bisogno che ci arriviamo a quella scoperta o a portarla in clinica. E se si pensa alle persone che si possono aiutare, che tu le conosca o no, allora per forza ci si rialza tutte le volte che serve!

Nel suo libro si legge “L’idea vincente viene da chi non te lo aspetteresti […] Succede solo se sai ascoltare e sai mettere tutti nella condizione di poter essere ascoltati”. Come si relaziona con i suoi collaboratori?

A tirarsela tanto non finisce mai bene. Il successo è 90% risultato di circostanze fortunate (posto giusto, momento giusto, dove sei nato e cresciuto, che risorse ti hanno dato, e soprattutto chi hai intorno), mentre le sconfitte quelle sì che sono 90% merito nostro – e anche in quelle le persone intorno a noi sono la chiave – perché ci aiutano a rialzarci e a imparare dalle sconfitte (che poi è l’ unico modo per imparare sul serio). Quindi i collaboratori sono la chiave e bisogna trovare quelli giusti per noi – valori condivisi, modo di lavorare compatibile – e soprattutto tanta inossidabile fiducia reciproca! E per citare il presidente Ronald Reagan: “The secret of success is to surround yourself with great people – and get out of their way!”

Infinitamente piccolo infinitamente grande Mauro Ferrari

Fonti:

Dopo la laurea magistrale in Neurobiologia presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2015, ho conseguito il Dottorato di ricerca in scienze biomediche sperimentali all’Università di Padova nel 2020. Da ottobre 2019 sono un’insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado. Attualmente, sono iscritta al Master in Comunicazione della Scienza dell’Università di Parma, grazie al quale ho iniziato a collaborare con Pikaia e ScientifiCult.

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