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Ateneo in lutto per la scomparsa del professor Ubaldo Bonuccelli

Neurologo di fama internazionale, ha dato uno straordinario impulso alla ricerca sulla Malattia di Parkinson

È scomparso all’età di 75 anni il professor Ubaldo Bonuccelli, a lungo docente di Neurologia all’Università di Pisa, in pensione dal 2021.

Qui di seguito inviamo un ricordo del professore a firma di Gabriele Siciliano e Roberto Ceravolo e dei colleghi e delle colleghe del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale.

 

Ubaldo Bonuccelli si è laureato con lode in Medicina e Chirurgia all’Università di Pisa nel 1975, dove nel 1979 si è specializzato in Neurologia. Ha quindi intrapreso la sua attività professionale presso la Clinica Neurologica diretta dal professor Alberto Muratorio, dedicandosi al contempo ad argomenti di ricerca nelle malattie neurodegenerative. Nel 1989 ha conseguito la Specializzazione in Farmacologia presso l’Università di Cagliari su tematiche di neurofarmacologia nella malattia di Parkinson.

È stato professore associato di Neurologia, fino al 2007, quindi ordinario di Neurologia all’Università di Pisa. È stato Direttore della UOC di Neurologia dell’Ospedale Versilia dal 2001 al 2011, quando poi è diventato Direttore della UOC Neurologia presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa.

Dopo la iniziale formazione a Pisa, ha maturato esperienze di neurofarmacologia di base e clinica con soggiorni in istituzioni nazionali e in USA, dedicandosi in particolare a numerosi aspetti di ricerca sulla Malattia di Parkinson, sviluppando nel tempo qualificate collaborazioni con i più importanti istituti di ricerca a livello internazionale in tale ambito. Ha organizzato numerosi congressi e convegni nazionali e internazionali dedicati in particolare al Parkinson. È autore di oltre 500 pubblicazioni.  Fellow dell’American Academy of Neurology (dal 1990), ha ricoperto importanti cariche statutarie in società scientifiche, Presidente dell’European Society for Clinical Neuropharmacology (1996-1997), Presidente dell’Associazione Autonoma Disturbi del movimento e Malattia di Parkinson (DISMOV-SIN) (2004-2005), affiliata alla Società Italiana di Neurologia, Presidente Società LIMPE (2010-12).

Ha dato uno straordinario impulso alla ricerca sulla Malattia di Parkinson e ha contribuito in modo significativo alla realizzazione delle linee guida per la gestione della malattia, curando altresì aspetti divulgativi nella conoscenza delle malattie neurologiche come nel caso della Associazione per la Ricerca Neurologica ATORN-ARNO fondata negli anni 80, del periodico “Amici del Cervello news” e del libro di grande successo di pubblico e critica “Intervista al Cervello. Come funziona, come potenziarlo e mantenerlo efficiente”, scritto insieme al giornalista Fabrizio Diolaiuti.

Persona di grandissimo acume e intelligenza, con raffinatissimo intuito clinico e profonda cultura neurologica e coinvolgente curiosità, ha trasmesso a decine di allievi oggi operanti in Italia e all’estero la passione per la ricerca, l’entusiasmo per esplorare strade innovative e impervie, ribadendo sempre il fondamento dell’arte medica di attenzione empatica e partecipativa ai bisogni dei pazienti.

 

Gabriele Siciliano e Roberto Ceravolo, con i colleghi e le colleghe del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Il cortile del Palazzo della Sapienza dell’Università degli Studi di Pisa. Foto di Antonio D’Agnelli, in pubblico dominio

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Conchiglie fossili: testimoni che raccontano i cambiamenti climatici del tempo profondo; conchiglie fossili di brachiopodi dall’Iran permettono di studiare i cambiamenti climatici dopo l’estinzione di fine Permiano Medio

Un team di ricercatori dell’Università Statale di Milano ha analizzato dal punto di vista geochimico conchiglie fossili di brachiopodi provenienti dall’Iran, che si sono dimostrate preziosi archivi di dati per aiutare a ricostruire le temperature delle acque marine nel Paleozoico. Questo studio, pubblicato su Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, ci può fornire importanti strumenti per comprendere gli attuali cambiamenti climatici e le loro conseguenze.

Milano, 6 febbraio 2025 – Com’era il clima nel passato remoto? Quali cambiamenti si sono verificati e con quali conseguenze ambientali?

Le risposte a queste domande sono state trovate in quelli che si possono definire veri e propri bioarchivi fossili: le conchiglie dei brachiopodi. A dimostrarne l’efficacia come strumento per comprendere le variazioni climatiche del passato è uno studio multidisciplinare condotto da un team di ricercatori dell’Università Statale di Milanodell’Università degli Studi di Ferrara, dell’Università di St. Andrews in Scozia e dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco pubblicato su “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology”.

Gli scienziati hanno analizzato alcune conchiglie fossili di brachiopodi provenienti dall’Iran, e in questo modo sono riusciti a ricostruire le variazioni stagionali di temperatura delle acque marine avvenute 260 milioni di anni fa, durante il Paleozoico. Un’era geologica (570-245 milioni di anni fa) che ha registrato drammatici cambiamenti ambientali e climatici e alcune delle più letali estinzioni di massa e per questo motivo di fondamentale importanza per gli studi paleoclimatici.

Conchiglie fossili di brachiopodi dall’Iran permettono di studiare i cambiamenti climatici dopo l’estinzione di fine Permiano Medio. Gallery

In particolare lo scopo della ricerca è stato quello di studiare la durata della fase fredda avvenuta dopo l’estinzione di fine Permiano Medio (circa 260 milioni di anni fa), causata da intensa attività vulcanica nell’attuale Cina meridionale, e di analizzare la risposta dei brachiopodi al raffreddamento climatico.

I brachiopodi, oggi rappresentati da qualche centinaio di specie, ma particolarmente diffusi e abbondanti nel Paleozoico, producono una conchiglia incorporando gli elementi chimici presenti nell’acqua del mare. Questi elementi possono quindi essere analizzati per ricostruire le condizioni ambientali e climatiche in cui questi animali hanno vissuto” spiega Marco Viaretti ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università Statale di Milano e primo autore dello studio.

Attraverso un approccio multidisciplinare volto a verificare lo stato di conservazione delle conchiglie e mediante la raccolta di polveri attraverso un campionamento ad alta risoluzione lungo le linee di accrescimento delle conchiglie, il team ha misurato i rapporti isotopici dell’ossigeno e del carbonio registrato dalle conchiglie. Gli isotopi dell’ossigeno, infatti, forniscono importanti informazioni per ricostruire le temperature dei mari del passato. Grazie all’approccio utilizzato in questo studio, è stato possibile ricostruire i cambiamenti stagionali di temperatura dell’acqua marina registrati dalle conchiglie su scala annuale.

Le analisi isotopiche hanno permesso di definire la durata della fase fredda post-estinzione, pari a circa 2 milioni di anni e di indentificare un’alta variazione stagionale. Successivamente alla fase fredda, le conchiglie hanno registrato la presenza di condizioni climatiche più calde caratterizzate da una bassa variazione stagionale. Le associazioni di brachiopodi si sono dimostrate particolarmente resilienti al raffreddamento climatico e non hanno registrato significativi cambiamenti di biodiversità.

Si tratta di uno studio straordinario poiché non solo ha permesso di ricostruire le variazioni stagionali di temperatura delle acque marine avvenute 260 milioni di anni fa, ma anche dimostra le potenzialità dei brachiopodi come archivi di cambiamenti climatici del passato” aggiunge Viaretti.

Le metodologie impiegate in questo studio potranno costituire un punto di partenza per l’analisi di altri intervalli del tempo geologico caratterizzati da variazioni del clima e offrire strumenti preziosi per comprendere meglio i cambiamenti climatici attuali e il loro impatto sugli ecosistemi e sulla biodiversità” conclude Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

PROGETTO NOCTIS: UNA RETE NAZIONALE PER LO STUDIO DEL CIELO

progetto NOCTIS Network Osservativo Coordinato di Telescopi per l’Insegnamento e la Scienza

Unire tecnologia, passione e collaborazione per esplorare l’universo: NOCTIS trasforma l’osservazione del cielo in un’esperienza condivisa e accessibile a tutti. Guidato dall’Università di Genova in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica e l’Università della Calabria, il progetto viene inaugurato oggi.

Connettere telescopi, coinvolgere persone e osservare il cielo con un approccio collaborativo: è questa la missione di NOCTIS, il Network Osservativo Coordinato di Telescopi per l’Insegnamento e la Scienza. Il progetto, guidato da Silvano Tosi dell’Università di Genova in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università della Calabria, le cui unità di ricerca sono coordinate da Serena Benatti e Sandra Savaglio, rispettivamente. NOCTIS mira a creare una rete italiana di telescopi ottici automatici e robotici, distribuiti da nord a sud del Paese.

Con sei osservatori già attivi in Liguria, Toscana, Campania, Calabria e Sicilia, NOCTIS offrirà una copertura coordinata del cielo a livello nazionale, consentendo di monitorare fenomeni astronomici come i transiti di esopianeti, la variabilità stellare, i detriti spaziali e le esplosioni cosmiche. L’obiettivo è raccogliere dati scientifici utili e complementari a quelli raccolti con strumentazione tecnologicamente più avanzata, contribuendo a una visione più completa dell’universo.

La vera forza di NOCTIS, però, non è solo nella tecnologia, ma nelle persone. Attraverso il modello della citizen science, appassionati, studenti e curiosi potranno partecipare attivamente alle osservazioni e all’analisi dei dati, come spiega Serena Benatti dell’INAF di Palermo, coordinatrice dell’unità di ricerca di INAF per il progetto NOCTIS:

“Non serve essere scienziati per contribuire alla conoscenza del cosmo. Chiunque potrà raccogliere dati, analizzarli e persino diventare coautore di pubblicazioni scientifiche. Un modo per rendere tutti protagonisti della scienza”.

Serena Benatti, INAF di Palermo
Serena Benatti, INAF di Palermo

Oltre alla ricerca, infatti, NOCTIS punta a offrire opportunità educative, di formazione e divulgative. Sono previsti incontri pubblici, workshop e sessioni di osservazione guidata dai ricercatori del progetto e accessibili anche da remoto. Questa modalità permetterà a chiunque di familiarizzare con strumenti avanzati e di esplorare più a fondo i segreti del cielo.

“È incredibile pensare che un appassionato possa contribuire a scoprire nuovi mondi o monitorare eventi straordinari nell’universo” aggiunge Benatti, che prosegue: “Grazie a NOCTIS possiamo valorizzare il lavoro e la territorialità degli osservatori sparsi in Italia”.

L’attuale rete di telescopi è solo il punto di partenza. Altri osservatori in Italia si sono già dichiarati interessati a unirsi al progetto. Silvano Tosi, responsabile scientifico del progetto NOCTIS, evidenzia l’importanza del coinvolgimento pubblico:

“L’osservazione del cielo è un’attività che da sempre affascina persone di ogni età. Vogliamo offrire strumenti che permettano a tutti di partecipare, valorizzando le risorse locali e rafforzando il legame tra ricerca e società”.

NOCTIS non si limita a fare scienza: ambisce a ispirare e coinvolgere nuove generazioni, avvicinando sempre più persone alla ricerca astronomica. Il cielo diventa uno spazio condiviso, dove tecnologia, curiosità e conoscenza si incontrano:

“Contiamo sulla partecipazione di tanti appassionati in tutto il Paese – conclude Tosi – e siamo pronti a partire con grande entusiasmo”.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

L’Eruzione di Maddaloni: scoperta una delle eruzioni più potenti della storia dei Campi Flegrei

Risale a oltre centomila anni fa una delle eruzioni più significative in quest’area. A rivelarlo, uno studio congiunto CNR-IGAG, Sapienza Università di Roma, INGV e Università Aldo Moro di Bari, pubblicato sulla rivista scientifica Communications Earth and Environment di Nature. La conoscenza approfondita della storia eruttiva di questa regione potrà migliorare la valutazione dei rischi vulcanici associati alla zona.

I Campi Flegrei sono un complesso vulcanico attivo, circondato da aree urbane ad alto rischio. Tra i più studiati al mondo, la loro storia eruttiva è ben documentata solo negli ultimi 40.000 anni. Un nuovo studio rivela che, 109.000 anni fa, si verificò un’eruzione di magnitudo simile all’’Ignimbrite Campana’, la più grande eruzione dell’area mediterranea.

A ricostruire l’entità dell’eruzione, un team italiano di ricercatori e ricercatrici dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IGAG), della Sapienza Università di Roma, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), e dell’Università di Bari Aldo Moro. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Communications Earth and Environment di Nature.

“Nell’area dei Campi Flegrei, le testimonianze geologiche dell’attività più antica sono difficilmente accessibili perché giacciono in profondità nel sottosuolo, sotto notevoli spessori di rocce vulcaniche più recenti”, spiegano Gianluca Sottili e Giada Fernandez, della Sapienza Università di Roma. “La ricostruzione dell’intera storia eruttiva di questo vulcano è tuttavia cruciale per evidenziare alcuni parametri fondamentali per la definizione della sua pericolosità, quali la frequenza e la magnitudo degli eventi eruttivi. A tal riguardo, le ceneri prodotte dalle grandi eruzioni depositate in aree remote rispetto al vulcano, offrono la possibilità di estendere molto indietro nel tempo lo studio della storia eruttiva di un vulcano, consentendone una ricostruzione più completa”.

“Come le impronte digitali o il DNA distinguono i singoli individui, alcune proprietà stratigrafiche, chimiche e cronologiche dei livelli di cenere rinvenuti nei sedimenti marini o lacustri, anche a migliaia di chilometri dal vulcano, possono consentire agli scienziati di identificare la sorgente vulcanica e, in alcuni casi, persino il singolo evento eruttivo che le ha prodotte”, aggiunge Biagio Giaccio, del CNR-IGAG. “Più precisamente, attraverso la datazione e l’analisi chimica dei micro-frammenti di pomice, di cui è costituito il materiale vulcanico trasportato dal vento in aree lontane, è possibile ricostruire l’area di dispersione della cenere di uno specifico evento eruttivo”.

“Con i dati già a nostra disposizione e tramite modelli di dispersione delle ceneri vulcaniche, abbiamo potuto ricostruire la dinamica e la magnitudo dell’eruzione”, prosegue Antonio Costa, dell’INGV. “Abbiamo così ottenuto le stime di alcuni parametri fondamentali come, ad esempio, il volume del magma eruttato e l’altezza della colonna o nube di cenere e gas”.

Attraverso questo approccio multidisciplinare, comunemente applicato ad eruzioni recenti le cui tracce sono chiaramente documentate intorno al vulcano, i ricercatori hanno ricostruito i principali parametri eruttivi di un’antica eruzione Flegrea di 109.000 anni fa, denominata ‘Eruzione di Maddaloni, pressoché inaccessibile nell’area del vulcano ma ben documentata dalle ceneri depositate in aree remote, note con la sigla ‘X-6’ e rinvenute in un’ampia area del Mediterraneo, dall’Italia centrale fino alla Grecia.

“Sorprendentemente”, prosegue Antonio Costa, “i risultati della modellazione hanno fornito una stima di magnitudo di 7.6, cioè di poco inferiore a quella della famosa Ignimbrite Campana di circa 40.000 anni fa, definendo l’eruzione di Maddaloni come il secondo più grande evento della storia eruttiva dei Campi Flegrei”.

“Il fatto che questo sistema vulcanico abbia prodotto diverse grandi eruzioni nel corso della sua storia suggerisce che la struttura della caldera, la depressione vulcano-tettonica che si forma durante le grandi eruzioni a seguito del rilascio di un ingente volume di magma in superficie, potrebbe essere molto più complessa di quanto ipotizzato finora”, sottolinea Jacopo Natale, dell’Università Aldo Moro di Bari.

I risultati della ricerca gettano nuova luce sulla ricorrenza degli eventi di grande magnitudo ai Campi Flegrei ed evidenziano come, anche per un vulcano intensamente studiato, una dettagliata e completa ricostruzione della sua storia necessiti di ulteriori indagini per una migliore valutazione della pericolosità vulcanica.

Riferimenti bibliografici:

Fernandez, G., Costa, A., Giaccio, B. et al. The Maddaloni/X-6 eruption stands out as one of the major events during the Late Pleistocene at Campi Flegrei, Commun Earth Environ 6, 27 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s43247-025-01998-8

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo

Passo, trotto e galoppo: le andature equine seguono dei veri e propri modelli ritmici. Due studi condotti dalla Sapienza e dall’Università di Torino indagano sulla loro musicalità.

La sequenza degli zoccoli di un cavallo che colpiscono il terreno sembra intuitivamente ritmica, ma lo è davvero? Un team di ricercatori guidato da Marco Gamba dell’Università di Torino e da Andrea Ravignani della Sapienza Università di Roma, finanziato dal progetto ERC The Origins of Human Rhythm (TOHR), ha risposto a questa domanda in due studi pubblicati sul Journal of Anatomy e Annals of the New York Academy of Sciences mettendo in luce le somiglianze tra i ritmi della locomozione dei cavalli e quelli musicali. Questa connessione potrebbe spiegare perché le diverse andature equine – passo, trotto e galoppo – risultino così ritmiche e riconoscibili.

Il ritmo musicale in molte culture occidentali si basa su sequenze di intervalli temporali che seguono rapporti di numeri interi, ciascuno dei quali definisce una categoria ritmica. Una nota, per esempio, può durare quanto la precedente, oppure il doppio o il triplo. Negli ultimi anni, studi su diverse specie animali hanno già rivelato che simili rapporti si trovano nelle vocalizzazioni di altre specie, confermando il ruolo chiave di queste strutture temporali nella percezione del ritmo.

Per la prima volta, i ricercatori hanno dimostrato che anche l’andatura dei cavalli condivide queste stesse strutture temporali: gli intervalli tra zoccoli successivi che colpiscono il terreno sono caratterizzati da categorie ritmiche. In particolare, il passo e il trotto dei cavalli sono isocroni,  poiché il terreno è colpito a intervalli regolari, come il ticchettio di un orologio;  il galoppo, invece, presenta una sequenza di tre intervalli in cui il terzo dura il doppio degli altri due, vale a dire un pattern 1:1:2, richiamando il ritmo base del brano “We Will Rock You” dei Queen.

“Questo pattern di 1:1:2 incidentalmente si ritrova anche nell’Overture del Guglielmo Tell di Rossini. Forse questo spiega perché spesso questo brano venga usato come colonna sonora nei film in cui si vedono cavalli al galoppo”, dichiara Andrea Ravignani.

“Questi studi proseguono un filone di ricerca che vede unite le nostre Università al fine di indagare le caratteristiche ritmiche dei comportamenti di animali e umani, cercando di scovare similarità e differenze che sono ancora da interpretare per ciò che concerne il loro significato evolutivo”, aggiunge Marco Gamba.

Oltre alle categorie ritmiche, “un altro elemento fondamentale nella distinzione tra le andature dei cavalli è il tempo, ossia la velocità con cui si susseguono i battiti in un qualsiasi pattern ritmico, analogamente a quanto osserviamo tra diversi generi musicali” spiega Teresa Raimondi, postdoc di Sapienza Università di Roma.

In particolare, passo e trotto risultano facilmente distinguibili grazie alla maggiore durata degli intervalli, e quindi un pattern ritmico più lento nel trotto rispetto al passo.

“La scoperta di schemi ritmici comuni tra musica, comunicazione animale e locomozione rafforza l’idea che locomozione e controllo motorio possano aver giocato un ruolo cruciale nell’evoluzione del ritmo, sia nella comunicazione umana che in quella di altre specie”, conclude Lia Laffi, dottoranda dell’Università di Torino in collaborazione con la Fondazione Zoom.

I risultati delle due ricerche discriminano quantitativamente le andature dei cavalli in base al ritmo, rivelando sorprendenti comunanze con la musica umana e con alcuni segnali comunicativi animali. L’andatura e la ritmicità vocale condividono caratteristiche chiave, e la prima è probabilmente precedente alla seconda. La capacità di produrre e riconoscere ritmi legati alla locomozione potrebbe infatti aver costituito un preadattamento fondamentale per lo sviluppo di ritmi vocali più complessi in una fase evolutiva successiva. In particolare, la percezione della ritmicità locomotoria potrebbe essersi evoluta in diverse specie sotto la pressione del riconoscimento dei predatori e della selezione degli accoppiamenti; in seguito potrebbe essere stata adattata alla comunicazione vocale ritmica.

A questo sforzo di ricerca internazionale, hanno partecipato anche professori e ricercatori dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna, dell’Università di Copenaghen e dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

 

Riferimenti bibliografici:

Laffi, L., Raimondi, T., Ferrante, C., Pagliara, E., Bertuglia, A., Briefer, E. F., Gamba, M., & Ravignani, A. (2024). “The rhythm of horse gaits”, Ann NY Acad Sci., 1–8. DOI: https://doi.org/10.1111/nyas.15271

Laffi, L., Bigand, F., Peham, C.,Novembre, G., Gamba, M. & Ravignani, A. (2024) “Rhythmic categories in horse gait kinematics”, Journal of Anatomy, 00,1–10. DOI: https://doi.org/10.1111/joa.14200

Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo, secondo due studi appena pubblicati. Un cavallo (Equus ferus caballus) frisone. Foto di Andizo [1], CC BY-SA 3.0
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La strada dell’immunoterapia per combattere il tumore alla mammella

I risultati di uno studio condotto dal CNR-IEOS e dall’Università Federico II di Napoli hanno individuato nei linfociti T regolatori (Treg) – un particolare tipo di cellule del sistema immunitario – un bersaglio da colpire per consentire al nostro organismo di riattivare la risposta antitumorale e distruggere il carcinoma mammario. I risultati della ricerca, sostenuta da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances.

 

I dati di uno studio svolto congiuntamente da ricercatori dell’Istituto per l’endocrinologia e l’oncologia sperimentale del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IEOS) e dell’Università Federico II di Napoli aggiungono un importante tassello alla comprensione delle complesse interazioni tra il sistema immunitario e il tumore alla mammellaaprendo la strada allo sviluppo di nuove strategie per la prognosi e la cura di questa patologia.

Il gruppo è stato coordinato da Veronica De Rosa, immunologa del CNR-IEOS, in collaborazione con Francesca di Rella dell’Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale, Antonio Pezone e Irene Cantone, afferenti rispettivamente al Dipartimento di Biologia e al Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche dell’ateneo federiciano. I ricercatori hanno scoperto il ruolo prognostico di un particolare tipo di cellule del sistema immunitario nel carcinoma mammario, noti come linfociti T regolatori (in breve, Treg). Tali cellule sono presenti ad alte concentrazioni sia nei tumori primari sia nel sangue delle donne con una prognosi più sfavorevole, e sono inoltre associate allo sviluppo di microambienti tumorali particolarmente aggressivi. In condizioni normali i linfociti Treg sono deputati al controllo delle risposte immunitarie dell’organismo, mantenendone l’equilibrio; ma in questi tipi di cancro possono essere un bersaglio importante di cura: se eliminate selettivamente, infatti, il carcinoma mammario può essere distrutto in maniera efficace.

I risultati, pubblicati sulla rivista Science Advances, sono emersi nel corso di uno studio iniziato nel 2016 grazie al sostegno ottenuto nell’ambito del bando TRIDEO cofinanziato da Fondazione AIRC per la ricerca su cancro e da Fondazione Cariplo. Spiega Veronica De Rosa (CNR-IEOS):

“I linfociti Treg svolgono un ruolo cruciale nel decorso dei tumori e in particolar modo del carcinoma mammario. Essi, infatti, limitano la risposta immunitaria antitumorale attraverso l’espressione di molecole di superficie inibitorie, note con il nome di checkpoint. Ciò in pratica favorisce la progressione e la successiva metastatizzazione del tumore. Tuttavia, se i linfociti Treg sono bloccati, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, ciò potrebbe permettere al sistema immunitario di riattivarsi per distruggere il tumore. Questo è proprio il principio su cui si basa l’immunoterapia, che molto spesso ha proprio i linfociti Treg quale bersaglio terapeutico”.

La messa a punto di una strategia basata sull’eliminazione delle cellule Treg al fine di indurre o incrementare la risposta immunitaria antitumorale è, tuttavia, particolarmente complessa.

“Numerose sperimentazioni cliniche in corso perseguono questo obiettivo. Tuttavia, i linfociti Treg non sono tutti uguali. Proprio la loro eterogeneità rende difficile identificare marcatori specifici con cui discriminare le Treg presenti nel sangue, importanti per mantenere una corretta funzione immunitaria, da quelle presenti all’interno del tumore e che gli consentono di crescere”, aggiunge la ricercatrice.

“Il nostro gruppo di ricerca ha dimostrato che i tumori primari di donne affette da carcinoma mammario ormono-positivo presentano una maggiore quantità di linfociti Treg che esprimono una variante della proteina FOXP3 (FOXP3E2). Misurando la loro frequenza nel sangue con la tecnica della biopsia liquida, siamo stati in grado di predire la prognosi delle pazienti già al momento della diagnosi”.

Lo studio è stato possibile grazie al contributo di Francesca di Rella, oncologa presso l’Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale, e di Antonello Accurso, chirurgo oncologo dell’Università Federico II di Napoli: negli ultimi cinque anni in entrambi i centri sono state arruolate nello studio clinico pazienti con carcinoma mammario in fase precoce, prima che iniziassero la terapia.

Inoltre, l’analisi computazionale di una banca dati nota come The Cancer Genome Atlas (TCGA) su circa mille pazienti è stata condotta da Antonio Pezone, patologo molecolare, e da Irene Cantone, genetista. Le loro analisi hanno confermato che misurando i linfociti Treg che esprimono FOXP3E2 all’interno del tessuto tumorale è possibile anticipare fino a vent’anni sia la prognosi sia le possibili ricadute non solo nelle donne con carcinoma mammario (di tutti i sottotipi), ma anche in pazienti affetti da carcinoma papillare renale, carcinoma a cellule squamose della cervice e adenocarcinoma polmonare.

I risultati ottenuti, se confermati in studi clinici più ampi, potrebbero permettere di sviluppare nuovi marcatori prognostici e predittivi e di individuare bersagli terapeutici altamente specifici, con l’obiettivo di migliorare la vita delle persone malate di cancro.

Mutazioni BRCA
La strada dell’immunoterapia per combattere il tumore alla mammella, lo studio pubblicato su Science Advances. Foto di RyanMcGuire

 

Testo dall’Ufficio Stampa Rettorato Università degli Studi di Napoli Federico II.

La “ragnatela cosmica” della materia oscura che forma l’Universo fotografata da ricercatori di Milano-Bicocca

Grazie a uno studio dell’Università di Milano-Bicocca, ottenute le prime immagini del filamento cosmico che unisce due galassie in formazione, risalente a quando l’Universo aveva solo 2 miliardi di anni

Milano, 30 gennaio 2025 – Le prime immagini ad alta definizione della “ragnatela cosmica” che struttura l’Universo sono state ottenute grazie a uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Grazie a MUSE (Multi-Unit Spectroscopic Explorer), innovativo spettrografo installato presso il Very Large Telescope dell’European Southern Observatory, in Cile, il team ha catturato una struttura cosmica risalente a un Universo molto giovane. La scoperta è stata recentemente pubblicata su Nature Astronomy nell’articolo “High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z=3” e apre una nuova prospettiva per comprendere l’essenza della materia oscura.

Sfruttando le capacità offerte dal sofisticato strumento, il gruppo di ricerca coordinato da Michele Fumagalli e Matteo Fossati, professori nell’unità di Astrofisica dell’Università di Milano-Bicocca, ha condotto una delle più ambiziose campagne di osservazione con MUSE mai completata in una singola regione di cielo, acquisendo dati per centinaia di ore. 

Un solido pilastro della cosmologia moderna è l’esistenza della materia oscura che, costituendo circa il 90% di tutta la materia presente nell’Universo, determina la formazione e l’evoluzione di tutte le strutture che osserviamo su grandi scale nel Cosmo.

«Sotto l’effetto della forza di gravità, la materia oscura disegna un’intricata trama cosmica composta da filamenti, alle cui intersezioni si formano le galassie più brillanti», ha spiegato Michele Fumagalli. «Questa ragnatela cosmica è l’impalcatura su cui si creano tutte le strutture visibili nell’Universo: all’interno dei filamenti il gas scorre per raggiungere e alimentare la formazione di stelle nelle galassie».

«Per molti anni, le osservazioni di questa ragnatela cosmica sono state impossibili: il gas presente in questi filamenti è infatti così diffuso da emettere solo un tenue bagliore, indistinguibile dagli strumenti allora disponibili», commenta Matteo Fossati.

MUSE, grazie alla sua elevata sensibilità alla luce, ha consentito agli scienziati di ottenere immagini dettagliate di questa ragnatela cosmica. Lo studio – guidato da Davide Tornotti, dottorando dell’Università di Milano-Bicocca, e collaboratori – ha utilizzato questi dati ultrasensibili per produrre l’immagine più nitida mai ottenuta di un filamento cosmico che si estende su una distanza di 3 milioni di anni luce attraverso due galassie che ospitano ciascuna un buco nero supermassiccio.

«Catturando la debole luce proveniente da questo filamento, che ha viaggiato per poco meno di 12 miliardi di anni prima di giungere a Terra, siamo riusciti a caratterizzarne con precisione la forma e abbiamo tracciato, per la prima volta con misure dirette, il confine tra il gas che risiede nelle galassie e il materiale contenuto nella ragnatela cosmica», spiega Davide Tornotti. «Attraverso alcune simulazioni dell’Universo con i supercomputer, abbiamo inoltre confrontato le previsioni del modello cosmologico attuale con i nuovi dati, trovando un sostanziale accordo tra la teoria corrente e le osservazioni».

«Quando quasi 10 anni fa Michele Fumagalli mi ha proposto di partecipare a queste osservazioni ultra-profonde con lo strumento MUSE ho accettato con grande entusiasmo perché le potenzialità dello studio erano veramente moltissime», commenta Valentina D’Odorico, ricercatrice INAF e co-autrice del lavoro. «Abbiamo già pubblicato vari lavori basati su questi dati, ma il risultato ottenuto nell’articolo guidato da Tornotti può essere considerato il coronamento del progetto. Infatti, non solo vengono identificate le sovradensità occupate dai nuclei galattici attivi presenti nel campo e il filamento che li unisce, ma tali strutture confrontate in modo quantitativo con le predizioni di simulazioni numeriche sono in accordo con un modello di formazione delle strutture cosmiche che adotta materia oscura fredda».

La ricerca è stata supportata da Fondazione Cariplo e dal Ministero dell’Università e Ricerca attraverso il Progetto Dipartimenti di Eccellenza 2023-2027 (BiCoQ, Bicocca Centre for Quantitative Cosmology).

Riferimenti bibliografici:

Tornotti, D., Fumagalli, M., Fossati, M. et al. High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z = 3, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-024-02463-w

Testo e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica

Rigidità muscolare nella malattia di Parkinson: gli effetti della levodopa, il farmaco più efficace per il trattamento dei sintomi motori della patologia

Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, ha indagato sperimentalmente i meccanismi alla base della rigidità muscolare nella malattia di Parkinson, individuando inoltre un nuovo circuito nervoso sensibile alla dopamina che potrebbe essere responsabile del sintomo. I risultati, pubblicati sulla rivista Movement Disorders, aprono nuove strade a terapie innovative.

L’incidenza della malattia di Parkinson sembra essere in rapida crescita a livello globale. A oggi la patologia colpisce circa 300 mila persone in tutta Italia. Nonostante la rigidità muscolare sia un segno cardine della malattia – come la bradicinesia, ovvero il rallentamento dei movimenti volontari, e il tremore – tale sintomo rimane ancora poco studiato.

La levodopa, considerata un farmaco “miracoloso” per trattare la malattia di Parkinson, rappresenta ancora oggi il trattamento più efficace per gestire i segni motori della patologia. Tuttavia, a oggi non esistono studi che abbiano valutato e chiarito in modo oggettivo l’effetto della terapia dopaminergica sulla rigidità muscolare in pazienti con malattia di Parkinson.

Lo studio, coordinato da Antonio Suppa del Dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza in collaborazione con IRCCS Neuromed, intende colmare questo vuoto. Al fine di chiarire l’effetto della levodopa sulla rigidità muscolare nei pazienti affetti da Parkinson, il gruppo di ricerca ha utilizzato un innovativo approccio sperimentale che combina strumentazioni robotiche e misure neurofisiologiche non invasive. Tale approccio metodologico ha consentito di ricostruire con precisione i meccanismi alla base della rigidità muscolare permettendo così di descrivere in modo più accurato le basi fisiopatologiche della rigidità muscolare nella malattia di Parkinson.

Per indagare l’efficacia del trattamento, i segni e i sintomi motori della malattia sui pazienti sono stati valutati sia in stato di OFF farmacologico (almeno 12 ore dopo l’ultima assunzione della dose abituale di levodopa) che in stato di ON farmacologico (almeno 1-2 ore dopo l’assunzione del farmaco).

“Abbiamo dimostrato che la rigidità muscolare dipende da un riflesso specifico, chiamato long-latency stretch reflex (LLR), che nei pazienti affetti da malattia di Parkinson risulta alterato – spiega Antonio Suppa, professore della Sapienza – La levodopa ha mostrato di ridurre significativamente questa anomalia ripristinando dei patterns di attivazione più fisiologici”.

Sulla base dei risultati ottenuti, i ricercatori hanno poi ipotizzato e descritto un nuovo circuito nervoso responsabile della rigidità nella malattia di Parkinson che collega il tronco encefalico, il cervelletto e il midollo spinale. Tale circuito è influenzato dalla dopamina e potrebbe essere il punto di partenza per nuove terapie.

La ricerca sulla rigidità muscolare è ancora in corso ed è tra i principali argomenti di approfondimento del nuovo laboratorio di “Neurologia sperimentale, neuroingegneria e telemedicina” della Sapienza. Dimostrando oggettivamente e nel dettaglio i meccanismi su cui agisce la levodopa e attraverso i quali il farmaco è in grado di ridurre la rigidità muscolare nei pazienti, lo studio rappresenta un importante riferimento scientifico sul tema. Inoltre, l’individuazione del possibile circuito neuronale alla base della rigidità muscolare suscettibile alla stimolazione dopaminergica, apre strade per terapie innovative.

Riferimenti bibliografici:

Falletti M, Asci F, Zampogna A, Patera M, Pinola G, Centonze D, Hallett M, Rothwell J, Suppa A.Rigidity in Parkinson’s Disease: The Objective Effect of Levodopa, Mov Disord. 2025 Jan 8. doi: 10.1002/mds.30114. Epub ahead of print. PMID: 39777428.

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Foto PublicDomainPictures 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Salute dei bambini: l’impatto su famiglie e sistema sanitario delle infezioni da virus respiratorio sinciziale (RSV)

L’Università di Pisa partner dello studio pubblicato sulla rivista The Lancet Respiratory Medicine

 

Pisa, 28 gennaio 2025 – Le infezioni virus respiratorio sinciziale (RSV) sono una delle principali cause di bronchiolite e di polmonite nei bambini sotto i 5 anni. Uno studio pubblicato su The Lancet Respiratory Medicine, una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali del settore, ha valutato l’impatto sociale di questa patologia su famiglie e servizi sanitari in 5 paesi europei: Italia, Belgio, Paesi Bassi, Spagna e Regno Unito. La ricerca, a cui ha partecipato l’Università di Pisa, è durata dal 2021 al 2023 e ha coinvolto oltre 3.400 bambini.

Dai dati è emerso che quasi un terzo (32,9%) delle infezioni respiratorie acute nei bambini in età prescolare è associato all’RSV. La durata media della malattia è di circa 12 giorni, con oltre il 45% dei genitori che ha dovuto assentarsi dal lavoro e il 70% dei bambini che ha perso giorni di scuola o asilo. I risultati evidenziano inoltre notevoli differenze tra i paesi coinvolti nello studio in termini di approcci terapeutici, di utilizzo delle risorse sanitarie e di impatto sociale.

Il focus sull’Italia rivela che il tasso di positività all’RSV nei bambini è stato del 42,6%, il più alto tra i paesi partecipanti. I bambini RSV-positivi in Italia sono stati sottoposti in media a 3 visite in assistenza primaria, dato che ci mette al pari della Spagna contro le 1,4 dei Paesi Bassi. La durata media della malattia è stata di 11,7 giorni, poco al di sotto della media generale. Il 76,8% dei bambini italiani RSV-positivi ha ricevuto farmaci, con broncodilatatori e antibiotici tra i più prescritti, mentre in paesi come il Regno Unito il ricorso alle medicine è stato più limitato. In linea con il dato generale, il 45,7% dei genitori italiani si è dovuto assentare da lavoro con una media di 4,1 giorni persi, dato che ci equipara al Belgio contro invece 1,3 giorni della Spagna.

“I risultati mettono in luce la necessità di migliorare la prevenzione per alleviare il carico sulle famiglie e sui sistemi sanitari, soprattutto nel periodo invernale in cui il virus circola di più – sottolinea la professoressa Caterina Rizzo, ordinaria di Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Pisa – negli ultimi anni sono stati approvati in Europa nuovi strumenti preventivi contro l’RSV, tra cui un nuovo anticorpo monoclonale che permette di immunizzare i neonati ed un vaccino da somministrare durante la gravidanza, si tratta di  misure che possono avere un impatto positivo non solo sulla salute dei bambini, ma anche sull’organizzazione complessiva delle cure primarie”.

Caterina Rizzo. Crediti per la foto: Fabio Muzzi
Caterina Rizzo. Crediti per la foto: Fabio Muzzi

Caterina Rizzo, docente del dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Ateneo pisano, e il suo gruppo sono un punto di riferimento nel campo della sorveglianza e prevenzione delle malattie infettive emergenti e riemergenti con particolare riferimento alle malattie respiratorie acute. Rizzo ha coordinato per più di dieci anni il sistema integrato di Sorveglianza delle sindromi simil influenzali in Italia presso l’Istituto Superiore di Sanità e fa parte del Gruppo consultivo tecnico nazionale per l’immunizzazione (NITAG).

La ricerca pubblicata su The Lancet Respiratory Medicine è stata finanziata da Sanofi e AstraZeneca attraverso il National Institute for Public Health and the Environment, Paesi Bassi.

 

Riferimenti bibliografici:

Hak, Sarah FAlfayate-Miguélez, Santiago et al., Burden of RSV infections among young children in primary care: a prospective cohort study in five European countries (2021–23), The Lancet Respiratory Medicine, Volume 0, Issue 0, DOI: https://doi.org/10.1016/s2213-2600(24)00367-9

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

CECILIA PAYNE E HENRIETTA LEAVITT. DUE ASTRONOME, UN CENTENARIO 

Una mostra fotografica e un ciclo di conferenze per celebrare due donne che hanno cambiato la nostra comprensione dell’Universo 

Inaugurazione con la divulgatrice statunitense Dava Sobel che presenterà anche il saggio su Marie Curie 

1925 - 2025 Payne e Leavitt - Due astronome, un centenario

Mercoledì 29 gennaio alle ore 18, al Rettorato (via Verdi 8, Torino), prende il via l’iniziativa promossa dall’Università di Torino con Accademia delle Scienze, Infini.to – Planetario di Torino, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari”, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e patrocinata dal Cirsde, con l’inaugurazione della mostra fotografica 1925 – 2025 Payne e Leavitt – Due astronome, un centenario prodotta da UniVerso per celebrare le straordinarie figure di Cecilia Payne e Henrietta Leavitt, due scienziate dello Harvard College Observatory che, con le loro ricerche, hanno segnato una svolta nella storia dell’astrofisica. 

Esattamente cento anni fa, nel 1925, due loro scoperte hanno infatti rivoluzionato la comprensione dell’Universo: grazie a Cecilia Helena Payne abbiamo capito di cosa sono fatte le stelle e grazie a Henrietta Swan Leavitt che la nostra galassia, la Via Lattea, è solo una tra miriadi di galassie. Queste due scoperte fondamentali non solo hanno aperto nuove frontiere per la conoscenza umana, ma hanno anche ispirato generazioni di scienziati e scienziate. 

La mostra fotografica 

La mostra, curata da Infini.to – Planetario di Torino, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari” con il coordinamento scientifico di Antonaldo Diaferio, ripercorre attraverso testi e immagini le vite di Cecilia Payne e Henrietta Leavitt, che iniziarono il loro cammino scientifico seguendo percorsi inizialmente lontani dall’astrofisica – Payne studiando botanica e Leavitt interessandosi alla musica – per poi essere attratte dalla sfida di comprendere l’Universo. La loro dedizione, creatività e tenacia permisero loro di superare le barriere di un mondo scientifico dominato dagli uomini, contribuendo in modo determinante alla nostra comprensione del cosmo. Questa iniziativa non è solo un tributo alle loro scoperte, ma anche un invito a riflettere sulle qualità imprescindibili di chi si dedica alla scienza: una curiosità instancabile e una tenacia indomabile. 

La mostra, allestita nel Cortile del Rettorato (via Verdi 8, Torino), sarà inaugurata alle ore 18 alla presenza di Dava Sobel, divulgatrice scientifica autrice del libro Le scienziate che misurarono il cielo, che terrà un discorso per rendere omaggio al contributo di Payne e Leavitt alla conoscenza umana. 

Il ciclo di conferenze per esplorare l’Universo 

Sempre il 29 gennaio, alle ore 21, presso l’Accademia delle Scienze di Torino, con la lectio dal titolo Cecilia Payne e Henrietta Leavitt: lo Harvard College Observatory nei primi decenni del XX secolo, Dava Sobel aprirà il ciclo di 16 conferenze pubbliche tenute da astrofisiche e astrofisici di fama internazionale. Gli incontri si svolgeranno nell’arco di tutto il 2025 in tre sedi prestigiose: l’Accademia delle Scienze di Torino, Infini.to – Planetario di Torino Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari”, e l’Archivio di Stato di Torino. Il programma completo delle conferenze è disponibile sul sito del Planetario. 

Infine, a corollario dell’iniziativa, giovedì 30 gennaio, alle ore 21 al Circolo dei lettori (via Bogino 9, Torino) si terrà l’incontro con Dava Sobel dal titolo Gli elementi di Marie Curie a partire dal suo libro Nel laboratorio di Marie Curie (Rizzoli, 2025). Dialogando con Silvia Rosa Brusin, l’autrice accompagnerà il pubblico con originalità e competenza nella vita di Marie Curie, una delle figure più importanti e influenti del nostro tempo, con le sue straordinarie scoperte, e delle scienziate sue eredi. Per informazioni: https://torino.circololettori.it/gli-elementi-di-marie-curie/   

Informazioni utili 

Mostra fotografica 1925 – 2025 Payne e Leavitt – Due astronome, un centenario
Università di Torino, Cortile del Rettorato, via Verdi 8/via Po 17
Dal 29 gennaio al 29 marzo 2025
Orario di apertura da lunedì a sabato ore 10-18 Ingresso gratuito 

Inaugurazione 29 gennaio, ore 18, Palazzo del Rettorato 

Ciclo di conferenze 

Gli appuntamenti si terranno presso Accademia delle Scienze di Torino, Infini.to – Planetario, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari” e Archivio di Stato di Torino.
Per info sul programma completo https://planetarioditorino.it/calendario-cicli-payne-e-leavitt 

Inaugurazione 29 gennaio, ore 21, Accademia delle Scienze di Torino 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino