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Università degli studi di Pisa

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La salute degli invisibili: pubblicato uno studio sulla diffusione dell’epatite tra le comunità emarginate italiane in Toscana

Un team di ricercatrici e ricercatori delle Università di Pisa e Firenze ha condotto uno screening in Toscana su oltre 1800 persone

Con una serie di campagne di screening pluriennali su gruppi marginali della popolazione, un team di ricercatrici e ricercatori delle Università di Pisa e Firenze è riuscito a monitorare l’incidenza delle infezioni da epatite B (HBV) e C (HCV) tra le comunità più emarginate della Toscana, riscontrando prevalenze molto più alte della media nazionale e in soggetti di età molto giovane. Inoltre, grazie alla collaborazione e al filo diretto con unità assistenziali di Firenze, Empoli, Prato e Pistoia, i soggetti positivi hanno avuto accesso all’assistenza clinica e, se necessario, alla terapia. Lo studio, dal titolo “HBV and HCV testing outcomes among marginalized communities in Italy, 2019–2024: a prospective study”, è stato recentemente pubblicato sulla rivista “The Lancet Regional Health – Europe”, con corresponding author Laura Gragnani, ricercatrice del dipartimento di Ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa, e prima autrice Monica Monti del Centro MaSVE dell’Università degli Studi di Firenze. Lo studio è stato finanziato da Gilead Science, Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dalla Regione Toscana.

Tra il 2019 e il 2024, con una sospensione dovuta alla pandemia di COVID-19, il gruppo di ricerca ha testato marcatori per le infezioni da HBV (antigene di superficie dell’HBV – HbsAg) e da HCV (anticorpi anti-HCV) in 1.812 soggetti che frequentano mense popolari, centri di accoglienza, scuole di italiano per stranieri nelle aree metropolitane di Firenze, Prato e Pistoia. Lo studio ha rilevato che il 4,4% dei partecipanti era positivo all’HBsAg, segno di infezione attiva, mentre il 2,9% presentava anti-HCV, indicativi di un’esposizione al virus. La positività a HBV era più frequente tra gli uomini (91%) e individui di origine non italiana, provenienti soprattutto da aree con basse coperture vaccinali. I partecipanti positivi a HCV includevano una maggiore proporzione di cittadini italiani (51,9%) con storie di marginalità estrema spesso legate ad un pregresso consumo di droghe per via endovenosa. Lo screening è stato effettuato direttamente presso le strutture di accoglienza, con test rapidi su sangue capillare e risultati disponibili in pochi minuti. Questa strategia ha garantito un’alta adesione, pari all’82%. Inoltre, la presenza di mediatori culturali e la collaborazione con gli operatori delle associazioni ha facilitato il collegamento dei pazienti positivi ai centri clinici locali. Il 66,3% dei positivi a HBV e il 37,8% di quelli a HCV hanno intrapreso un percorso di monitoraggio o cura, in base alle valutazione clinica. Tra i pazienti con infezione HCV attiva, tutti quelli trattati con farmaci antivirali hanno ottenuto la guarigione.

“Le infezioni da HBV e HCV possono evolvere in gravi patologie come la cirrosi e il tumore al fegato e molti dei soggetti colpiti non sono consapevoli della loro condizione fino alle fasi avanzate della malattia – spiega la dott.ssa Laura Gragnani  – Questo ritardo diagnostico è evidente nelle comunità marginali, che non sono raggiunte dai programmi di prevenzione e screening nazionali e regionali e che spesso incontrano barriere nell’accesso ai servizi sanitari, come la mancanza di informazioni, fiducia o risorse economiche. I risultati raggiunti col nostro studio dimostrano l’importanza di strategie di screening mirate per ridurre le disuguaglianze sanitarie, ridurre la circolazione di questi virus nell’intera comunità e raggiungere l’obiettivo dell’OMS di eliminare le epatiti virali come minaccia infettiva entro il 2030”.

Laura Gragnani
La salute degli invisibili: pubblicato su The Lancet Regional Health – Europe uno studio sulla diffusione dell’epatite tra le comunità emarginate italiane in Toscana. In foto, Laura Gragnani

“Questa ricerca – aggiunge Monica Monti – ha inoltre evidenziato l’importanza di ‘agganciare’ e curare i soggetti marginali che spesso non accedono ai canali ufficiali di assistenza sanitaria”.

Allo studio hanno partecipato anche la professoressa Gabriella Cavallini e la dottoressa Maria Laura Manca dell’Ateneo pisano e la professoressa Anna Linda Zignego, docente in pensione dell’Università degli Studi di Firenze, direttrice del Centro MaSVE fino all’ottobre 2023.

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Benessere socioeconomico e tutela dell’ambiente: nessun Paese al mondo li garantisce entrambi

Un nuovo studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Ecological Indicators conferma che nessuna nazione rientra nella “ciambella”, la teoria che definisce lo “spazio sicuro e giusto” per l’umanità

C’è uno “spazio sicuro e giusto” per l’umanità che si definisce a partire da indicatori ambientali e socioeconomici, è la teoria economica della cosiddetta “ciambella” lanciata da Kate Raworth, studiosa delle Università di Oxford e di Cambridge. Nessun paese al mondo oggi ci starebbe dentro. Da qui è partita la scommessa di due ricercatori, Tommaso Luzzati dell’Università di Pisa e Gianluca Gucciardi dell’Università degli studi di Milano-Bicocca: cosa succederebbe se si adottassero criteri meno rigidi rispetto a quelli impiegati dagli studi esistenti? Il risultato, come mostra un articolo pubblicato sulla rivista Ecological Indicators, è che, purtroppo, non cambierebbe niente. Nessun paese si salverebbe ancora.

Lo studio di Gucciardi e Luzzati ha analizzato la performance di 81 nazioni stilando anche diverse graduatorie. Come linea generale è emerso che i paesi ricchi sforano i limiti ambientali planetari, mentre quelli poveri non riescono a garantire i livelli minimi di benessere.

“Come è normale che sia, specie per le classifiche, le cose non sono mai bianche o nere, ciò premesso – dice Luzzati – abbiamo trovato che 26 paesi rispettano i parametri socioeconomici. Ai primi posti, come immaginabile, ci sono i paesi scandinavi, ma anche Belgio e Svizzera. L‘Italia raggiunge la “sufficienza” e si colloca al 19mo posto, superando fra le più grandi nazioni europee solo Portogallo, Spagna e Ungheria”.

“Per quanto riguarda gli indicatori ambientali – continua Luzzatti – rispettano i parametri 31 paesi del sud globale, tra cui Malawi, Bangladesh, Tajikistan, Nigeria e Mozambico. Infine, non stanno nella ciambella ma si avvicinano ad essa diversi paesi del Centro e Sud America, quali Messico, Costa Rica, Panama, Ecuador, Colombia, Perù e Cile, in Europa Croazia e Bulgaria e in Asia Cina e Thailandia”.

In totale, lo studio ha preso in considerazione 6 indicatori ambientali (emissioni di CO2, fosforo, azoto, uso del suolo, impronta ecologica e impronta materiale, ovvero il peso complessivo di tutti i materiali  estratti dall’ambiente per sostenere la crescita economica) e 11 indicatori socioeconomici (soddisfazione nella vita, aspettativa di vita sana, alimentazione,  servizi igienico-sanitari, reddito, accesso all’energia, istruzione, sostegno sociale, qualità della democrazia, uguaglianza, occupazione).

“Abbiamo affrontato la questione costruendo due serie separate di indicatori compositi per le dimensioni sociale e ambientale – conclude Luzzati – ma anche con criteri meno rigorosi, nessun paese attualmente si salverebbe, il che indica ancora un divario sostanziale da colmare sia nelle politiche sociali che ambientali”.

Tommaso Luzzati è professore Economia politica al Dipartimento di Economia e Management e fa parte del REMARC Responsible Management Research Center dell’Ateneo pisano.

il professor Tommaso Luzzati
Benessere socioeconomico e tutela dell’ambiente: nessun Paese al mondo li garantisce entrambi; lo studio pubblicato su Ecological Indicators. In foto, il professor Tommaso Luzzati

Link all’articolo scientifico: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1470160X24013219

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino

L’ibuprofene, il cui uso è cresciuto molto durante la pandemia di COVID-19, può ridurre la capacità delle piante marine di rispondere a stress ambientali. La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sul Journal of Hazardous Materials.

Una cura per noi, un pericolo per l’ambiente. Per la prima volta una ricerca dell’Università di Pisa, appena pubblicata sul Journal of Hazardous Materials, ha esaminato l’impatto di diverse concentrazioni di ibuprofene, un comune antinfiammatorio molto utilizzato durante la pandemia di COVID-19, sulle angiosperme marine.

“Le angiosperme marine svolgono ruoli ecologici cruciali e forniscono importanti servizi ecosistemici, ad esempio proteggono le coste dall’erosione, immagazzinano carbonio e producono ossigeno, supportano la biodiversità, e costituiscono una nursery per numerose specie animali”, spiega la professoressa Elena Balestri del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano.

In particolare, la ricerca si è focalizzata su Cymodocea nodosa (Ucria, Ascherson), una specie che cresce in aree costiere poco profonde, anche in prossimità della foce dei fiumi, zone spesso contaminate da molti inquinanti, farmaci compresi.

La sperimentazione è avvenuta in mesocosmi all’interno dei quali le piante sono state esposte per 12 giorni a concentrazioni di ibuprofene rilevate nelle acque costiere del Mediterraneo. È così emerso che la presenza di questo antinfiammatorio a concentrazioni di 0,25 e 2,5 microgrammi per litro causava nella pianta uno stress ossidativo ma non danni irreversibili. Se invece la concentrazione era pari a 25 microgrammi per litro, le membrane cellulari e l’apparato fotosintetico erano danneggiate, compromettendo in tal modo la resilienza della pianta a stress ambientali.

“Il nostro è il primo studio che ha esaminato gli effetti di farmaci antinfiammatori sulle piante marine – dice Elena Balestri – Attualmente, si stima che il consumo globale di ibuprofene superi le 10.000 tonnellate annue e si prevede che aumenterà ulteriormente in futuro, e poiché gli attuali sistemi di trattamento delle acque reflue non sono in grado di rimuoverlo completamente anche la contaminazione ambientale aumenterà di conseguenza”.

“Per ridurre il rischio di un ulteriore aggravamento del processo di regressione delle praterie di angiosperme marine in atto in molte aree costiere – conclude Balestri – sarà quindi necessario sviluppare nuove tecnologie in grado di ridurre l’immissione di ibuprofene e di altri farmaci negli habitat naturali, stabilire concentrazioni limite di questo contaminante nei corsi d’acqua e determinare le soglie di tolleranza degli organismi, non solo animali ma anche vegetali”.

Complessivamente, le strutture dell’Ateneo pisano coinvolte nello studio sono i dipartimenti di Biologia, di Farmacia e di Scienze della Terra, il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e il Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC).

In particolare, la ricerca è stata realizzata grazie alla collaborazione di tre team di ricerca. Il gruppo di Ecologia, costituito dalla professoressa Elena Balestri, dal professore Claudio Lardicci e dalla dottoressa Virginia Menicagli, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Biologia, si occupa da anni dello studio degli impatti di contaminanti, tra cui plastiche, microplastiche, nanoplastiche e filtri solari, e dei cambiamenti climatici sugli organismi vegetali marini e terrestri tipici della fascia costiera. Il gruppo di Botanica, con la professoressa Monica Ruffini Castiglione e quello di Fisiologia Vegetale, con le dottoresse Carmelina Spanò, Stefania Bottega e il dottor Carlo Sorce, studiano invece le risposte delle piante all’inquinamento da metalli e da micro e nanoplastiche. Inoltre, conducono ricerche sulla biologia delle piante degli ambienti costieri, in particolare sui meccanismi di risposta agli stress causati dai fattori ambientali, sia naturali, sia di origine antropica.  Il gruppo di Biologia Farmaceutica, infine, costituito dalla professoressa Marinella De Leo e dalla dottoressa Emily Cioni, dottoranda del Dipartimento di Farmacia, si occupa dello studio chimico di prodotti naturali prodotti dalle piante.

Prateria di Cymodocea nodosa in regressione
Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino; uno studio pubblicato sul Journal of Hazardous Materials. In foto, prateria di Cymodocea nodosa in regressione

Riferimenti bibliografici:

Virginia Menicagli, Monica Ruffini Castiglione, Emily Cioni, Carmelina Spanò, Elena Balestri, Marinella De Leo, Stefania Bottega, Carlo Sorce, Claudio Lardicci, Stress responses of the seagrass Cymodocea nodosa to environmentally relevant concentrations of pharmaceutical ibuprofen: Ecological implications,
Journal of Hazardous Materials, Volume 476, 2024, 135188, ISSN 0304-3894, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jhazmat.2024.135188

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

La chirurgia del futuro ripara le articolazioni con biomateriali e stampanti 3D:  con lo strumento chirurgico EndoFLight sviluppato dal progetto LUMINATE, per riparare le articolazioni, lesioni alla cartilagine

Al via il progetto europeo LUMINATE coordinato dall’Università di Pisa

EndoFlight una infografica sulla tecnologia che verrà sviluppata
una infografica sulla tecnologia che verrà sviluppata

Si chiama EndoFLight, è un rivoluzionario strumento chirurgico avanzato per riparare le articolazioni con biomateriali e stampanti 3D. Il dispositivo sarà sviluppato grazie a LUMINATE, un progetto coordinato dall’Università di Pisa e finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Horizon Health 2024.

“EndoFLight utilizza una combinazione di tecniche di biostampa 3D, cellule del paziente e biomateriali avanzati, per riparare le cartilagini delle articolazioni in maniera personalizzata – spiega il professore Giovanni Vozzi del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa e responsabile di LUMINATE – Il sistema ha una piccola telecamera che viene inserita nell’articolazione durante l’intervento per scansionare la lesione e determinare la dimensione e la forma dell’area danneggiata grazie ad algoritmi di intelligenza artificiale, quindi EndoFLight riempie la lesione con biomateriali avanzati studiati appositamente per integrarsi con i tessuti circostanti e promuovere la rigenerazione della cartilagine”.

LUMINATE mira così ad offrire una soluzione più efficace e meno invasiva per il trattamento delle lesioni alla cartilagine, migliorando la qualità della vita dei pazienti e riducendo la necessità di interventi chirurgici più complessi. La cartilagine articolare è infatti un tessuto fondamentale per la salute delle nostre articolazioni. Grazie alla sua funzione di ‘cuscinetto’ naturale, permette movimenti delle articolazioni fluidi e senza sforzo. Tuttavia, quando si danneggia, ad esempio a causa di un trauma, possono insorgere diversi problemi, tra cui dolore, infiammazione e limitazioni funzionali. Le statistiche mostrano un aumento significativo delle lesioni cartilaginee negli ultimi anni. L’incidenza annuale in alcuni paesi è passata da 22 a 61 casi per 100.000 persone tra il 1996 e il 2011. Un rischio particolarmente grave è lo sviluppo dell’artrosi post-traumatica: secondo recenti studi, fino al 50% dei pazienti che subiscono gravi traumi al ginocchio sviluppano questa condizione entro 10 anni. L’artrosi post-traumatica può portare a disabilità cronica, limitando significativamente la qualità della vita e richiedendo spesso interventi chirurgici.

LUMINATE vuole fare la differenza in questo scenario – conclude Vozzi . il progetto durerà 4 anni a partire da gennaio 2025 e coinvolge un vasto consorzio con partner accademici e industriali provenienti da nove paesi. In particolare, oltre al coordinamento generale noi ci occuperemo dello sviluppo di EndoFLight insieme al Politecnico Federale di Zurigo”.

il gruppo di ricerca Unipi con al centro (quinto da destra con occhiali rossi) Giovanni Vozzi
il gruppo di ricerca Unipi con al centro (quinto da destra con occhiali rossi) Giovanni Vozzi

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Chirurgia genica: arrivano le nanoparticelle d’oro per riparare il DNA

Il risultato frutto di I-Gene, un progetto coordinato dall’Università di Pisa che è stato premiato per l’alto contenuto innovativo dall’European Innovation Council

La chirurgia genica ha un nuovo alleato, sono le nanoparticelle d’oro grazie alle quali i principi attivi riescono ad entrare nel nucleo delle cellule e agire sul DNA eliminando le mutazioni dannose. La scoperta arriva dal progetto europeo I-Gene appena giunto a conclusione e premiato dall’European Innovation Council per il suo alto contenuto innovativo. Si tratta di un riconoscimento che la Commissione Europea concede in caso di risultati estremamente rilevanti.

“Siamo un’epoca in cui possiamo editare i genomi e questo significa che se ci sono degli errori, noi tendenzialmente li possiamo correggere, ma per trasformare tutto questo in terapie e applicazioni utili c’è un collo di bottiglia”, spiega la professoressa Vittoria Raffa del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, coordinatrice del progetto.

“I principi attivi che fanno questo editing sono infatti degli enzimi che da soli non riescono a penetrare nelle cellule, – continua Raffa – per risolvere la questione noi abbiamo inventato dei vettori che sono delle nanoparticelle d’oro. Rispetto ai vettori attualmente utilizzati che impiegano virus presentano alcuni vantaggi: non sono tossici, il che consente un loro utilizzo più ampio senza controindicazioni, e si attivano con la luce”.

Vittoria Raffa
Vittoria Raffa

La sperimentazione delle nanoparticelle d’oro è stata fatta in vitro e in vivo su embrioni di zebrafish, i casi studio hanno riguardato il COVID-19 e il melanoma, sfruttando in quest’ultimo caso proprio la fotoattivazione attraverso laser.

A livello tecnico, I-Gene ha dunque proposto un nuovo concetto di ingegneria genetica con una metodologia basata sull’attivazione laser di un nano vettore capace di innescare una rottura o scissione del DNA. La superiorità rispetto alle metodologie attuali risiede anche nell’integrazione delle funzioni temporale, spaziale e di fedeltà: l’editing avviene solo quando il laser è acceso, dove il laser è focalizzato e solo sul bersaglio. Complessivamente, questo consente il controllo dell’editing a singola cellula e fornisce un livello di sicurezza assoluto per lo sviluppo di un editing genomico efficace per applicazioni biotecnologiche e terapeutiche.

Insieme alla professoressa Vittoria Raffa hanno lavorato al progetto per l’Università di Pisa la professoressa Chiara Gabellini del dipartimento di Biologia, il professore Mauro Pistello e il dottore Michele Lai del dipartimento di Medicina Traslazionale, e il professore Francesco Fuso del dipartimento di Fisica.

Chirurgia genica nanoparticelle d’oro il team di ricerca UniPi
il team di ricerca UniPi

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Circuiti elettrici su foglie, lenti e bucce d’arancia: a Pisa le nuove frontiere della microelettronica

Dagli scienziati del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa un dispositivo elettronico flessibile e sottile, che può essere posizionato su ogni superficie

Un dispositivo elettronico ultrasottile, dello spessore di tre micron, può essere applicato a tutti i tipi di superficie, irregolari, curve, delicate e flessibili, come foglie, lenti ottiche o bucce d’arancia.

Realizzato dal team di ingegneri elettronici del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione (DII) dell’Università di Pisa, rappresenta un grande passo avanti nelle ricerche sull’elettronica conformabile, arrivando a realizzare dispositivi funzionanti su superfici così sottili da poter essere applicate ovunque. 

La ricerca, frutto di una collaborazione tra Università di Pisa, IIT Milano e EPFL, è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista Nano Letters.

Adattare l’elettronica perché si conformi perfettamente a superfici curve e irregolari è un obiettivo difficile, ma che al tempo stesso può aprire la strada a una serie infinita di applicazioni, sia a livello industriale che in campo medico”, spiega Gianluca Fiori, docente di elettronica al DII. “Il dispositivo che abbiamo messo a punto ha uno spessore estremamente ridotto, dell’ordine di pochi micron, e ha come substrato un polimero flessibile, che può aderire perfettamente ad ogni tipo di superficie. In un centimetro quadrato possiamo integrare moltissimi transistori e la nostra prossima sfida sarà quella di realizzare circuiti complessi, in grado di essere applicati per esempio al cibo, per monitorarne il deterioramento all’interno della catena di produzione, trasporto e vendita, in modo da ridurre gli sprechi alimentari, oppure al corpo stesso, per monitorare parametri fisiologici in modo non invasivo”.

L’applicazione di nanodispositivi flessibili e conformabili al campo biomedicale è una ricerca di frontiera che Gianluca Fiori sta portando avanti nel progetto SKIN2TRONICS, finanziato di recente dall’Unione Europea con ERC Synergy Grant, i finanziamenti più competitivi e prestigiosi per la ricerca.

“Il lavoro di produzione del dispositivo – aggiunge Federico Parenti, dottorando al DII e primo autore dell’articolo – prevede un processo complesso, e che richiede macchinari all’avanguardia, realizzati dal nostro team. In particolare, abbiamo messo a punto una stampante a getto d’inchiostro in grado di definire strutture con risoluzione micrometrica, superando i limiti delle stampanti attualmente in commercio. Il dispositivo elettronico è il risultato di una combinazione di tecniche microelettroniche standard di deposizione dei materiali e più avanzate, come appunto la deposizione per mezzo di inchiostri”

“I transistori così fabbricati – conclude Elisabetta Dimaggio, ricercatrice in elettronica al DII – riescono a raggiungere ottime prestazioni, e sono quindi perfettamente integrabili in circuiti elettronici più complessi, sia digitali che analogici. Inoltre, la nostra ricerca ha dimostrato che questi dispositivi mantengono i livelli di performance richiesti anche sotto ripetuti stress da piegamento. Questa resilienza è cruciale per l’elettronica conformabile.
Date le enormi potenzialità di sviluppo e applicazione, quella sui dispositivi elettrici flessibili è una delle ricerche di punta dei nostri laboratori dedicati alla transizione digitale delle imprese e all’industria 5.0, dove le ricerche all’avanguardia per i futuri processi industriali vengono condotte in modo integrato e interdisciplinare in diverse aree”.

Riferimenti bibliografici:

Nano Lett. 20244 Novembre, 2024
© 2024 American Chemical Society
DOI: https://doi.org/10.1021/acs.nanolett.4c04930

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

Creata la prima banca dati per l’analisi dei meccanismi molecolari che causano la sindrome di Rett: RettDb consentirà di ridurre il ricorso alla sperimentazione animale

Lo studio dei dipartimenti di Biologia e Informatica dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Database di Oxford Academic

RettDb Sindrome di Rett

Pisa, 18 novembre 2024 – È nata RettDb, la prima banca dati per l’analisi dei meccanismi molecolari che causano la sindrome di Rett. La risorsa web è accessibile a tutta la comunità scientifica e consente di fare sperimentazioni in silicocioè attraverso l’analisi dei dati, consentendo così di ridurre il ricorso alla sperimentazione animale. Il risultato è frutto di una ricerca pubblicata sulla rivista Database di Oxford Academic e condotta dai dipartimenti di Biologia e Informatica dell’Università di Pisa.

“La sindrome di Rett – spiega il professore Ugo Borello autore delle studio – è un raro disturbo neuroevolutivo che si verifica quasi esclusivamente nelle femmine con una frequenza di 1 su 10.000 nascite, ed è la seconda causa di grave disabilità intellettiva nelle ragazze dopo la sindrome di Down. E’ noto che in oltre il 95% dei casi, la sindrome sia dovuta a mutazioni nel gene MECP2 legato al cromosoma X, ma i meccanismi molecolari che la determinano sono attualmente sconosciuti”.

RettDb nasce quindi proprio per svelare questi meccanismi e con l’obiettivo di farne uno strumento di riferimento per tutti i ricercatori che studiano questa patologia. La ricerca è partita dal laboratorio del professore Borello dove si studiano i meccanismi molecolari di sviluppo della corteccia cerebrale in diversi sistemi sperimentali e con tecniche diverse, che spaziano dalla bioinformatica, alla biologia molecolare, e alla neuroanatomia.

“Un grande lavoro è stato fatto da due studenti in tesi, Nico Cillari e Giuseppe Neri, che hanno accettato questa sfida che non era scontato avremmo portato a termine con successo – ha sottolineato Borello – ma la complessità in biologia richiede un approccio multidisciplinare, da qui la fruttosa collaborazione con il professore Paolo Milazzo e la professoressa Nadia Pisanti del dipartimento di informatica, con l’ausilio della tesista Marta Scalisi che si è occupata dello sviluppo web, e grazie al fondamentale supporto di Fabio Pratelli e di Maurizio Davini, responsabile del Green Data Center dell’università di Pisa”.

Lo studio è stato finanziato dalla Commissione europea con i fondi del PNRR NextGeneration Program nell’ambito dello Spoke 6 del THE, Tuscany Health Ecosystem, Precision medicine & personalized healthcare.

il gruppo ricerca UniPi: da sinistra, Ugo Borello, Nico Cillari e Giuseppe Neri
il gruppo ricerca UniPi: da sinistra, Ugo Borello, Nico Cillari e Giuseppe Neri

Riferimenti bibliografici:

Nico Cillari, Giuseppe Neri, Nadia Pisanti, Paolo Milazzo, Ugo Borello, RettDb: the Rett syndrome omics database to navigate the Rett syndrome genomic landscape, Database, Volume 2024, 2024, baae109, DOI: https://doi.org/10.1093/database/baae109

Testo e immagini dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Fiumi e torrenti: grazie all’intelligenza artificiale ora è possibile prevedere le alluvioni fino a sei ore di anticipo

Lo studio dell’Università di Pisa e del Consorzio di Bonifica Toscana Nord pubblicato su Scientific Reports

 

Nuovi modelli previsionali basati sull’intelligenza artificiale consentono di prevedere fino a sei ore di anticipo le alluvioni provocate da fiumi minori e torrenti, corsi d’acqua che sono ad oggi i più difficili da gestire e monitorare. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa e del Consorzio di Bonifica Toscana Nord pubblicato su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature.

“Le forti precipitazioni concentrate in breve tempo e su aree ristrette rendono difficile la gestione dei corsi d’acqua minori, dove la rapidità di deflusso delle acque piovane aumenta il rischio di piene improvvise, basti pensare agli eventi alluvionali avvenuti nel novembre 2023 nella provincia di Prato dove sono esondati i torrenti Furba e Bagnolo e, più recentemente, a quelli che hanno colpito la Valdera e la provincia di Livorno” spiega Monica Bini, professoressa del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa che ha coordinato la ricerca.

I modelli predittivi basati sull’intelligenza artificiale sono stati addestrati a partire dalla banca dati pluviometrica e idrometrica fornita del Servizio Idrologico Regionale della Toscana. Il passo successivo sarà quindi di sviluppare software semplici e facili da usare per anticipare le criticità dei corsi d’acqua e di mitigare i danni.

“L’intelligenza artificiale si è rivelata uno strumento prezioso per dare preallerta in piccoli bacini anche con sei ore di anticipo, ma resta fondamentale che le decisioni operative siano sempre supervisionate da esperti,” ha sottolineato il dottor Marco Luppichini, primo autore dell’articolo e assegnista di ricerca del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano.

“La disponibilità di dati pluviometrici forniti dal Servizio Idrologico Regionale e il finanziamento del Consorzio di Bonifica, per cui ringraziamo il presidente Ismaele Ridolfi, sono stati fondamentali per il successo della ricerca a cui  ha collaborato sempre per il Consorzio l’ingegnere Lorenzo Fontana – dice Monica Bini  – è per me inoltre motivo di orgoglio la partecipazione al lavoro di Giada Vailati, studentessa del corso di laurea magistrale in Scienze Ambientali del quale sono presidente, credo sia l’esempio tangibile di come il corso affronti tematiche di estrema attualità e come i nostri studenti possano da subito diventare protagonisti di ricerche internazionali e incidere sulla gestione del territorio”.

“È un risultato che ci rende orgogliosi del lavoro fatto e della collaborazione stretta in questi anni con un’eccellenza come il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa – sottolinea il presidente del Consorzio di Bonifica Toscana Nord, Ismaele Ridolfi – In queste settimane, l’emergenza climatica in atto ha dato una terribile dimostrazione degli effetti disastrosi che può avere sulle nostre vite con i casi di Emilia-Romagna, Marche, la stessa Toscana fino ad arrivare alle più recenti alluvioni che hanno colpito la Spagna e in particolare il territorio di Valencia. Oltre alle necessarie manutenzioni ordinarie e alle opere straordinarie per ridurre il rischio, abbiamo il dovere di sfruttare al meglio i nuovi strumenti in grado di prevedere il prima possibile eventi pericolosi e gli eventuali effetti sui nostri territori. La collaborazione continuerà – conclude Ridolfi -, grazie alla nuova convenzione sottoscritta nei mesi scorsi, per approfondire il tema ed estendere gli studi ad altri corsi d’acqua”.

Monica Bini e Ismaele Ridolfi
Monica Bini e Ismaele Ridolfi

Riferimenti bibliografici:

Luppichini, M., Vailati, G., Fontana, L. et al. Machine learning models for river flow forecasting in small catchments, Sci Rep 14, 26740 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-024-78012-2

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Scoperti i più antichi antenati del bue domestico: i resti di uro nella valle dell’Indo e in Mesopotamia risalgono a 10mila anni fa

La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, ha coinvolto il paleontologo dell’Università di Pisa, Luca Pandolfi

I più antichi antenati del bue domestico sono stati scoperti nella valle dell’Indo e nella mezzaluna fertile in Mesopotamia: si tratta di resti di uro (Bos primigenius) risalenti a circa 10mila anni fa. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature e condotta dal Trinity College di Dublino e dall’Università di Copenaghen, ha coinvolto Luca Pandolfi, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che da tempo si occupa dell’evoluzione e dell’estinzione dei grandi mammiferi continentali anche in relazione ai cambiamenti climatici.

Cranio di uro conservato al Museo di Storia Naturale dell'Università di Breslavia, Polonia (foto Luca Pandolfi)
Cranio di uro conservato al Museo di Storia Naturale dell’Università di Breslavia, Polonia (foto Luca Pandolfi)

Gli uri addomesticati erano animali abbastanza simili a quelli selvatici, ma un po’ più piccoli, soprattutto con corna meno sviluppate ad indicare una maggiore mansuetudine. Giulio Cesare nel De Bello Gallico (De Bello Gallico, 6-28) descrive infatti l’uro selvatico come un animale di dimensioni di poco inferiori all’elefante, veloce e di natura particolarmente aggressiva. Dai resti fossili emerge che gli uri selvatici potevano raggiungere un’altezza di poco meno di due metri, i 1000 kg di peso ed avere corna lunghe più di un metro. La loro presenza ha dominato le faune dell’Eurasia e del Nord Africa a partire da circa 650 mila anni fa, per poi subire un forte declino dalla fine del Pleistocene, circa 11mila anni fa, fino alla sua estinzione in età moderna. L’ultimo esemplare di cui si ha notizia fu abbattuto il Polonia nel 1627.

“Lo studio su Nature ha analizzato per la prima volta questa specie per comprenderne la storia evolutiva e genetica attraverso resti fossili rinvenuti in diversi di siti in Eurasia, Italia inclusa, e Nord Africa”, dice Luca Pandolfi.

Dai reperti, che includono scheletri completi e crani ben conservati, sono stati estratti campioni di DNA antico. La loro analisi ha quindi permesso di individuare quattro popolazioni ancestrali distinte che hanno risposto in modo diverso ai cambiamenti climatici e all’interazione con l’uomo. Gli uri europei, in particolare, subirono una diminuzione drastica sia in termini di popolazione che di diversità genetica durante l’ultima era glaciale, circa 20 mila anni fa. La diminuzione delle temperature ridusse infatti il loro habitat spingendoli verso la Penisola Italiana e quella Iberica da cui successivamente ricolonizzarono l’intera Europa.

“Nel corso del Quaternario, epoca che va da 2 milioni e mezzo di anni fa sino ad oggi, l’uro è stato protagonista degli ecosistemi del passato, contraendo ed espandendo il proprio habitat in relazione alle vicissitudine climatiche che hanno caratterizzato questo periodo di tempo – conclude Pandolfi – le ossa di questi maestosi animali raccontano ai paleontologi la storia del successo, adattamento e declino, di una specie di cui noi stessi abbiamo concorso all’estinzione e rivelano la complessità e fragilità delle relazioni che legano gli organismi viventi al clima del nostro Pianeta”.

Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Crediti per l'immagine: Prof. Saxx, CC BY-SA 3.0
Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Crediti per l’immagine: Prof. Saxx, CC BY-SA 3.0

Journal reference: The genomic natural history of the aurochs, Nature, 2024; DOI: 10.1038/s41586-024-08112-6

 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

Repistat: individuata una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa

L’Università di Pisa partner dello studio che ha guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry.

Si chiama REPISTAT, è una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa, una rara patologia genetica che può portare negli anni alla totale cecità. La scoperta arriva da uno studio, che si è guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry. A progettare e sintetizzare la molecola è stato un gruppo di ricerca di chimica farmaceutica dell’Ateneo di Siena in collaborazione, per le prove biologiche, con il Dipartimento di Farmacia dell’Ateneo pisano, e con l’Istituto di Neuroscienze del CNR – Pisa, la University College London e l’Università di Ferrara.

La sperimentazione è stata condotta in vitro e su modelli animali e la speranza è che in futuro REPISTAT possa essere alla base della formulazione di un nuovo farmaco, magari un collirio, capace di ritardare l’evoluzione della malattia.

“La retinite pigmentosa è una rara malattia genetica tuttora priva di una cura risolutiva, a causarla sono circa 200 mutazioni su una sessantina di geni, la cura più efficace è la terapia genica, con costi altissimi però, tanto che sono state attualmente sviluppate delle terapie solo per due mutazioni – spiega la professoressa Ilaria Piano del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa – ci sono tuttavia degli elementi che accomunano tutte le forme di retinite pigmentosa, come ad esempio i processi infiammatori, ossidativi o l’apoptosi, cioè il meccanismo che regola la morte programmata delle cellule. La molecola che abbiamo sviluppato è in grado di agire come modulatore epigenetico e attraverso questo meccanismo interviene proprio su questi processi aprendo un’opportunità per trattare su larga scala i pazienti, indipendentemente dalla mutazione genica”.

La ricerca è frutto di RePiSTOP, un progetto di ricerca di interesse nazionale del 2022 finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca.

Link articolo scientifico “Targeting Relevant HDACs to Support the Survival of Cone Photoreceptors in Inherited Retinal Diseases: Identification of a Potent Pharmacological Tool with In Vitro and In Vivo Efficacy”, Journal of Medicinal Chemistry, DOI10.1021/acs.jmedchem.4c00477

J. Med. Chem. 2024, 67, 17, 14946–14973, Link:https://doi.org/10.1021/acs.jmedchem.4c00477
Pubblicato il 4 Luglio 2024
Copyright © 2024 American Chemical Society
J. Med. Chem. 2024, 67, 17, 14946–14973, Link:
https://doi.org/10.1021/acs.jmedchem.4c00477
Pubblicato il 4 Luglio 2024
Copyright © 2024 American Chemical Society

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa