I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa
Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.
Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.
Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.
I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.
L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.
“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.
“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.
“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.
Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.
Riferimenti bibliografici:
Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.
Sotto la superficie di Io non c’è un oceano di magma liquido, ma un mantello solido
Un nuovo studio pubblicato su Nature, basato sui dati di gravità raccolti dalla sonda Juno della NASA durante dei sorvoli della luna Io di Giove esclude la presenza di un oceano di magma sotto la sua superficie
Sotto la superficie di Io, il satellite Galileiano più vicino a Giove, non c’è un oceano di magma liquido come si era pensato fino ad oggi, ma un mantello solido. A rivelarlo è uno studio pubblicato su Nature realizzato anche grazie al lavoro di diversi ricercatori della Sapienza Università di Roma e dell’Università di Bologna.
La ricerca, coordinata da Ryan Park del Jet Propulsion Laboratory dalla NASA, ha sfruttato i dati collezionati dalla sonda Juno della NASA durante due recenti sorvoli ravvicinati della luna insieme ai dati storici della missione Galileo, la sonda della NASA che tra il 1995 e il 2003 ha esplorato il sistema di Giove.
“La combinazione dei dati acquisiti da Juno con quelli collezionati dalla sonda Galileo oltre 20 anni fa – spiega Daniele Durante, ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale – ha permesso di migliorare la stima della risposta mareale di Io, che fornisce indicazioni dirette della deformabilità della struttura interna della luna.”
Io è un satellite unico nel sistema di Giove grazie alla sua intensa attività vulcanica, che lo rende l’oggetto geologicamente più attivo del sistema solare. Per decenni si è creduto che l’enorme attrazione gravitazionale di Giove fosse sufficiente a creare un oceano di magma sotto la sua superficie, che alimentasse i suoi vulcani. Le misure di induzione magnetica condotte dalla sonda Galileo avevano infatti suggerito la presenza di un oceano di magma sotto la superficie di questa luna.
Questo scenario è stato però rivisto a seguito delle nuove osservazioni realizzate da Juno, la sonda che dal 2016 sta esplorando Giove e, più recentemente, le sue lune. Juno ha sorvolato per due volte Io a circa 1.500 chilometri di quota, raccogliendo dati del campo gravitazionale della luna molto accurati. I risultati dell’analisi mostrano una risposta gravitazionale della luna alle forze di marea piuttosto modesta.
“La risposta della luna alle forze di marea esercitate da Giove è risultata piuttosto bassa – afferma Luciano Iess, professore presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale – indicazione dell’assenza di un oceano di magma vicino alla superficie e, piuttosto, della presenza di un mantello solido profondo al suo interno”.
Lo studio è stato pubblicato su Nature con il titolo “Io’s tidal response precludes a shallow magma ocean”. Per Sapienza Università di Roma hanno partecipato Daniele Durante e Luciano Iess, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Bologna, Luis Gomez Casajus, Marco Zannoni, Andrea Magnanini e Paolo Tortora. Le attività di ricerca sono state realizzate nell’ambito di un accordo finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana.
Riferimenti bibliografici:
Park, R.S., Jacobson, R.A., Gomez Casajus, L. et al. Io’s tidal response precludes a shallow magma ocean, Nature (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08442-5
Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
A Milano-Bicocca un ERC Consolidator Grant da 2 milioni di euro al Progetto MATRICs, per studiare come le emissioni vulcaniche di CO2 abbiano influenzato l’evoluzione del clima
Con il finanziamento europeo vinto dal professore del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra Pietro Sternai, il progetto di ricerca MATRICs ricostruirà gli effetti delle emissioni vulcaniche di CO2 sul clima nel passato geologico della Terra per migliorare la comprensione delle conseguenze delle emissioni antropiche sul clima presente e futuro
Milano, 3 dicembre 2024 – Studiare come le emissioni di CO2 dai vulcani abbiano influenzato il clima nel passato geologico per migliorare le previsioni dei cambiamenti climatici futuri dovuti alle emissioni antropiche di anidride carbonica. È l’obiettivo del progetto di ricerca “MATRICs” (“Magmatic Triggering of Cenozoic Climate Changes”, tradotto: “Innesco magmatico dei cambiamenti climatici del Cenozoico), coordinato da Pietro Sternai, professore di Geofisica al dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, che è stato appena premiato dall’Unione Europea con un ERC da 2 milioni di euro, della durata di 5 anni, nella categoria Consolidator Grant.
Gli ERC Consolidator Grant vengono assegnati dall’European Research Council a quei ricercatori che vantano una decina di anni di esperienza di riconosciuto valore alle spalle e che siano promotori di un progetto di ricerca ritenuto eccellente e particolarmente innovativo. Pietro Sternai coinvolgerà un’equipe di 3 dottorandi e 4 assegnisti di ricerca.
Il progetto “MATRICs” prende spunto da una constatazione.
«Conosciamo l’evoluzione del clima durante l’Era Cenozoica, da 60 milioni circa di anni fa fino a oggi, ma non sappiamo con certezza quali siano stati i motori dei suoi cambiamenti»,
afferma Pietro Sternai. Il primo obiettivo è fare luce sui possibili effetti di uno di questi: lo spegnimento di un arco vulcanico che si estendeva a sud del continente asiatico ma che scomparve dopo la collisione con il continente indiano per effetto della tettonica delle placche.
«La collisione tra India e Asia, tutt’ora in corso e iniziata tra 60 e 50 milioni di anni fa – prosegue il professore di Milano-Bicocca – oltre a portare alla formazione dell’Himalaya e del Tibet con grandi effetti a lungo termine sul clima globale provocò anche lo spegnimento di un arco magmatico che si estendeva per oltre 5mila chilometri, paragonabile a quello che c’è oggi nelle Ande. La domanda del progetto è: cosa succede al clima se cessano le emissioni di CO2 di un arco vulcanico di quel tipo? Il clima si raffredda? Si riscalda? Vogliamo capire come questo processo di variazione del magmatismo possa avere influenzato l’evoluzione del clima su scala globale, durante il Cenozoico inferiore».
L’attività di ricerca prevede analisi petrografiche e geochimiche di campioni di roccia provenienti da tre zone situate lungo il margine collisionale e oggi oggetto di studio geologico: in Iran, nel Ladakh (India nord-occidentale) e in Tibet. «Andremo a campionare le rocce magmatiche – spiega Sternai – e misureremo il loro contenuto di CO2. Campioneremo anche rocce sedimentarie per rilevarne i valori di mercurio e tellurio, che possono dare informazioni indirette sull’attività magmatica in quelle tre zone. I valori misurati verranno interpretati con modelli numerici, integrandoli alla scala di tutto l’arco magmatico, per stimare l’effetto che potrebbe avere avuto sul clima e sul ciclo del carbonio la variazione di emissioni di CO2 dovuta alla cessazione dell’attività vulcanica».
Obiettivo finale: una volta validato il modello, comprendere cosa il passato possa rivelarci sul futuro. «Definita una correlazione tra le emissioni di CO2 vulcanica e le variazioni climatiche sul lungo periodo, l’ipotesi è quella di confrontare i valori ottenuti con le emissioni di anidride carboniche antropiche e i cambiamenti climatici attuali e in divenire. La conoscenza che produrremo sul ciclo geologico del carbonio ci consentirà di valutare meglio i fattori trainanti della variabilità climatica naturale e, per confronto, le conseguenze climatiche delle attuali emissioni antropiche.», conclude il geologo.
Dal 2014 l’Università di Milano-Bicocca ha ricevuto finanziamenti per 19 progetti ERC: 8 Consolidator Grant, compreso quello di “MATRICs”, 2 Advanced Grant, 5 Starting Grant, 2 Proof of Concept e 2 Synergy Grant.
«Lo studio e la comprensione dei meccanismi alla base dei cambiamenti climatici – afferma Guido Cavaletti, prorettore alla Ricerca dell’Università di Milano-Bicocca – rivestono una rilevanza che appare sempre più significativa e spingono ad applicare metodologie sempre più sofisticate. L’approccio proposto da questo progetto è sicuramente molto innovativo, pienamente in linea con lo spirito di una università come Milano-Bicocca».
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca
LA PIÙ ACCURATA MAPPA VULCANICA DEL SATELLITE GIOVIANO IO
Grazie ai dati raccolti dallo stumento JIRAM a bordo della missione NASA Juno, un team di ricerca a guida INAF ha identificato 242 “hot spot”, ovvero zone calde che indicano la presenza di vulcani, di cui 23 non osservati precedentemente sul satellite più interno di Giove. I dati indicano una maggiore concentrazione di punti vulcanici caldi nelle regioni polari rispetto alle latitudini intermedie. Si tratta della mappatura migliore mai ottenuta da remoto.
L’infernale luna Io (la più interna fra quelle regolari del sistema gioviano) è il corpo vulcanicamente più attivo dell’intero Sistema solare. Un recente articolo pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters (GRL) fa nuova luce sulle proprietà vulcaniche di questo satellite, in particolare grazie a nuovi dati raccolti da JIRAM (Jovian InfraRed Auroral Mapper), uno degli otto strumenti a bordo della sonda NASA Juno. Finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e realizzato da Leonardo, lo strumento vede la responsabilità scientifica dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’articolo delinea la mappa più recente della distribuzione degli hot spot (punti vulcanici caldi) di Io prodotta con dati JIRAM da remoto alla migliore scala spaziale attualmente disponibile. I ricercatori, guidati dall’INAF, sono riusciti a ottenere, inoltre, una migliore copertura delle regioni di Io prossime ai poli rispetto al passato.
Francesca Zambon, membro del gruppo JIRAM, ricercatrice dell’INAF di Roma e prima autrice dell’articolo pubblicato su GRL, spiega:
“La mappa degli hot spot presentata nel nostro lavoro è la più aggiornata tra quelle basate su dati di telerilevamento spaziale. Analizzando le immagini infrarosse acquisite da JIRAM, abbiamo individuato 242 punti vulcanici caldi, di cui 23 non presenti in altri cataloghi e localizzati nella maggior parte dei casi nelle regioni polari, grazie alla peculiare orbita della sonda Juno”.
La ricercatrice sottolinea: “Il confronto tra il nostro studio e il catalogo più recente rivela che JIRAM ha osservato l’82% degli hot spot più potenti precedentemente individuati, e la metà degli hot spot di potenza intermedia, dimostrando quindi che questi sono ancora attivi. Tuttavia, JIRAM ha rilevato solo circa la metà degli hot spot più deboli precedentemente segnalati. Le spiegazioni sono due: o la risoluzione di JIRAM non è sufficiente per rilevare questi deboli punti caldi, oppure l’attività di questi centri effusivi potrebbe essersi sbiadita o interrotta”.
Quando la sonda spaziale NASA Voyager 1 avvicinò Io, il più interno dei satelliti galileiani di Giove, nel marzo 1979, le immagini inviate alla Terra rivelarono che la sua superficie appariva punteggiata da una moltitudine di centri vulcanici caldi, con imponenti colate laviche e pennacchi alti fino a qualche centinaio chilometri. In seguito, l’esplorazione condotta soprattutto dalla missione NASA Galileo chiarì che questi punti caldi sono moltissimi: alcune centinaia, molti dei quali con attività pressoché costante.
La luna Io mostra molti centri vulcanici, innescati principalmente dalle potenti forze mareali esercitate da Giove. Lo studio dell’attività vulcanica di questo satellite gioviano è la chiave per comprendere la natura dei suoi processi geologici e la sua evoluzione interna. La distribuzione degli hot spot e la loro variabilità spaziale e temporale sono importanti per definire le caratteristiche del riscaldamento delle maree e i meccanismi attraverso i quali il calore fuoriesce dall’interno.
Alessandro Mura, leader del gruppo JIRAM e ricercatore dell’INAF di Roma, prosegue:
“Uno dei maggiori punti aperti nella comprensione della struttura interna di Io è se l’attività vulcanica osservabile in superficie sia dovuta a un oceano di magma globale presente nel mantello, oppure a camere magmatiche che si insinuano nella crosta a minori profondità. Le osservazioni di JIRAM sono tuttora in corso, e le future immagini a maggiore definizione saranno fondamentali per meglio evidenziare i punti caldi deboli e per chiarire la struttura interna di Io”.
Giuseppe Sindoni, responsabile del progetto JIRAM per l’ASI, aggiunge:
“La superficie della luna gioviana Io è molto dinamica, con vulcani ed emissioni laviche in continua evoluzione, come dimostrato da questo importante risultato ottenuto dal nostro strumento JIRAM e dall’ottimo lavoro svolto dal team. L’estensione della missione Juno fino al 2025 ci permetterà di monitorare questa evoluzione e di comprendere meglio i processi fisici che guidano un corpo così complesso e dalle fattezze simili alla nostra Terra primordiale, anche in previsione di future missioni dedicate.”
La sonda Juno è stata lanciata ad agosto 2011 dalla base di Cape Canaveral ed è in orbita attorno a Giove dal luglio del 2016. Da allora ha percorso 235 milioni di chilometri. Juno è tuttora la sonda in orbita planetaria più distante della NASA, e continuerà le sue indagini sul pianeta più grande del Sistema solare fino a settembre 2025.
Alla fine dell’anno, il 30 dicembre 2023, durante la 57ma orbita attorno a Giove, la sonda Juno effettuerà il suo passaggio più ravvicinato in assoluto a Io, a una distanza minima di circa 4800 chilometri. Le missioni Europa Clipper della NASA e JUICE di ESA, che opereranno nel sistema di Giove negli anni 2030, non potranno mai avvicinarsi a simili distanze. Sarà quindi cruciale che Juno possa condurre osservazioni anche con JIRAM durante tutte le prossime opportunità previste nel 2023.
Per ulteriori informazioni:
L’articolo “Io hot spot distribution detected by Juno/JIRAM”, di F. Zambon, A. Mura, R. M. C. Lopes, J. Rathbun, F. Tosi, R. Sordini, R. Noschese, M. Ciarniello, A. Cicchetti, A. Adriani, L. Agostini, G. Filacchione, D. Grassi, G. Piccioni, C. Plainaki, G. Sindoni, D. Turrini, S. Brooks, C. Hansen-Koharcheck, S. Bolton, è stato pubblicato su Geophysical Research Letters.
Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF sulla mappa vulcanica di Io prodotta dallo strumento JIRAM
Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra
In un nuovo studio (https://www.nature.com/articles/s41561-021-00797-y), pubblicato sulla rivista Nature Geoscience (https://www.nature.com/ngeo/), un team di ricercatori italiani guidato da Alessandro Aiuppa (Università di Palermo) e che vede fra i co-autori Federico Casetta (Università di Ferrara), Massimo Coltorti (Università di Ferrara), Vincenzo Stagno (Sapienza Università di Roma) e Giancarlo Tamburello (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Bologna), ha sviluppato un nuovo approccio per ricostruire la quantità di Carbonio immagazzinato nel mantello superiore della terra, dalla cui fusione sono segregati i magmi.
Il Carbonio, il quarto elemento più abbondante in termini di massa nell’universo, è un elemento chiave per la vita. Il suo ricircolo, da e verso l’interno della Terra, regola i livelli di CO2 nell’atmosfera, giocando quindi un ruolo fondamentale nel rendere il nostro pianeta abitabile. Il Carbonio è un elemento unico, perché può essere immagazzinato nelle profondità della Terra in varie forme: all’interno di fluidi, come componente di fasi minerali, oppure disciolto nei magmi. Si ritiene, inoltre, che il Carbonio giochi un ruolo chiave nella geodinamica terrestre, in quanto questo elemento è in grado di controllare i processi di fusione che avvengono mantello superiore. Vista la sua tendenza ad essere incorporato nei magmi prodotti per fusione delle rocce peridotitiche nel mantello superiore, il Carbonio è facilmente trasportato verso la superficie terrestre, ove viene poi rilasciato come CO2 nelle emissioni gassose di vulcani attivi o quiescenti. I magmi ed i gas derivati dal mantello sono, pertanto, i mezzi di trasporto più efficaci per portare il Carbonio verso l’idrosfera e l’atmosfera, dove gioca un ruolo primario nel controllo dei cambiamenti climatici su scala geologica.
Ma quanto Carbonio è immagazzinato all’interno della Terra?
Questa domanda ha ispirato ricerche in diversi ambiti delle geoscienze, che si sono avvalse di molteplici approcci empirici, quali lo studio dei gas emessi in aree vulcaniche, del contenuto in CO2 nelle lave eruttate lungo le dorsali medio-oceaniche e/o nelle inclusioni di magma all’interno dei cristalli, delle inclusioni fluide in xenoliti di mantello portati in superficie dai magmi, e le misure sperimentali sviluppate con lo scopo di comprendere la massima quantità di CO2 che può essere disciolta nei magmi a pressioni e temperature tipiche dell’interno della Terra. Sfortunatamente, questi approcci hanno portato spesso a conclusioni contrastanti, al punto che le stime sul contenuto di Carbonio del mantello (così come dell’intera Terra) divergono di più di un ordine di grandezza. Le “melt inclusions”, o inclusioni di magma, cioè piccole goccioline di fuso silicatico intrappolate nei cristalli al momento della loro formazione nei magmi, possono essere sorgenti di informazione uniche per quantificare il contenuto di Carbonio del mantello da cui i magmi stessi sono segregati. Tuttavia, il massivo rilascio di gas (degassamento), tra cui CO2, a cui i magmi sono soggetti durante la loro risalita verso la superficie (prima della loro messa in posto ed eruzione) ha rappresentato un fattore limitante nella comprensione delle variazioni di concentrazione di Carbonio nel mantello.
Nel loro studio, Aiuppa e co-autori hanno revisionato e catalogato i dati relativi al contenuto in CO2 (e zolfo) nei gas vulcanici emessi da 12 vulcani di hot-spot e di rifting continentale, i cui magmi sono generati da sorgenti mantelliche più profonde rispetto a quelle del mantello impoverito da cui derivano i magmi delle dorsali medio-oceaniche.
I risultati ottenuti hanno permesso di comprendere che il mantello superiore (50-250 km di profondità) che alimenta il vulcanismo in aree di rifting continentale e di hot-spot contiene in media 350 parti per milione (ppm) di Carbonio (intervallo compreso tra 100 e 700 ppm di C). Questo ampio range conferma la visione di un mantello superiore fortemente eterogeneo, la cui composizione è stata variabilmente modificata, in tempi geologici, dall’infiltrazione di fusi carbonatici-silicatici generati in profondità. Le nuove stime ottenute da Aiuppa e co-autori indicano che il mantello superiore ha una capacità totale di Carbonio di circa ~1.2·1023 g. È possibile che la Terra, nelle sue porzioni interne, sia in grado di contenere ancora più Carbonio, come suggerito dai diamanti provenienti da profondità sub-litosferiche (fino a 700 km), i quali mostrano evidenze dell’esistenza di minerali e fusi che contengono significative quantità di C.
In aggiunta, il team di ricercatori ha stimato che il contenuto di Carbonio aumenta con la profondità di fusione parziale nel mantello. Questa scoperta permette di validare i dati sperimentali, che suggeriscono come il Carbonio giochi un ruolo nel determinare percentuale e profondità di fusione parziale nelle sorgenti di mantello che alimentano i vulcani in aree di rift continentali e di hot-spot. I risultati ottenuti, indicando che le porzioni di mantello ricche in Carbonio fondono più in profondità rispetto a porzioni povere in Carbonio, confermano il ruolo di primaria importanza giocato da questo elemento nel guidare i cicli geodinamici.
L’esistenza di un mantello ricco in Carbonio, evidenziata da Aiuppa e co-autori, ha profonde implicazioni rispetto alle modalità di immagazzinamento del Carbonio primordiale nel mantello, e per il suo riciclo nel tempo e nello spazio. I risultati ottenuti con questo studio sono anche importanti per comprendere le possibili variazioni nel ciclo geologico del Carbonio causate da eventi vulcanici di grande magnitudo, quali la messa in posto delle “Large Igneous Provinces (LIP)”, o grandi province ignee. Se i magmi prodotti dai “plume”, o pennacchi, di mantello sono ricchi in Carbonio, come suggerito da questo studio, allora il rilascio di Carbonio dalle grandi province ignee nel Fanerozoico può aver contribuito a causare le estinzioni di massa, le cui tracce sono preservate nei record sedimentari in tutto il mondo.
Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra
CITAZIONE
Alessandro Aiuppa, Federico Casetta, Massimo Coltorti, Vincenzo Stagno and Giancarlo Tamburello (2021), Carbon concentration increases with depth of melting in Earth’s upper mantle, Nature Geoscience, https://doi.org/10.1038/s41561-021-00797-y
Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra. Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, Università di Palermo, Università di Ferrara, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
Pompei: determinata la durata delle correnti piroclastiche generate dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Una ricerca sugli effetti dei flussi piroclastici dell’eruzione del 79 d.C. su Pompei ha evidenziato come la durata degli stessi abbia avuto un tragico impatto sulla popolazione
Circa quindici minuti fu la durata delle correnti piroclastiche che colpirono Pompei durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.: le loro ceneri vulcaniche, inalate dagli abitanti, furono fatali, provocandone l’asfissia.
Questo è quanto rivela lo studio The impact of pyroclastic density currents duration on humans: the case of the AD 79 eruption of Vesuvius, condotto dall’Università degli Studi di Bari – Dipartimento Scienze della Terra e Geoambientali, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e il British Geological Survey di Edimburgo, appena pubblicato ‘Scientific Reports’.
“Obiettivo del lavoro”, afferma Roberto Isaia, ricercatore dell’Osservatorio Vesuviano dell’INGV “è stato quello di sviluppare un modello per cercare di capire e di quantificare l’impatto dei flussi piroclastici sull’abitato di Pompei”.
I flussi piroclastici, infatti, sono il fenomeno più devastante delle cosiddette eruzioni esplosive. Paragonabili alle valanghe, si generano dal collasso della colonna eruttiva. I densi flussi che ne derivano scorrono lungo le pendici del vulcano a velocità di centinaia di chilometri orari, ad alta temperatura e con un’alta concentrazione di particelle.
“Per la nostra ricerca”, prosegue Isaia, “abbiamo svolto studi sul terreno e in laboratorio dei depositi piroclastici presenti all’interno degli scavi archeologici di Pompei che hanno portato alla misurazione e alla definizione dei parametri fisico-meccanici delle rocce. Con i dati ottenuti abbiamo sviluppato un modello matematico che ci ha permesso di effettuare delle simulazioni numeriche. Da queste abbiamo ricavato i parametri fisici delle correnti piroclastiche e, quindi, stimarne gli effetti sul territorio, uomo compreso. Il risultato principale è che il perdurare del passaggio delle correnti piroclastiche è avvenuto in un lasso di tempo compreso tra i 10 e i 20 minuti”.
“Il modello elaborato” aggiunge il ricercatore, “può essere applicato anche ad altri vulcani attivi di tutto il mondo. L’esempio di Pompei infatti, distante circa 10 km dal Vesuvio, suggerisce come l’applicazione di questo modello potrebbe essere molto utile per comprendere la durata dei flussi piroclastici e, quindi, i danni derivanti da un’eruzione anche a distanze dove la temperatura e la pressione delle correnti piroclastiche non provoca più effetti dannosi sull’uomo e sull’ambiente. La metodologia applicata può quindi fornire nuovi elementi di conoscenza nell’ambito delle valutazioni di pericolosità di una struttura vulcanica attiva”, conclude Roberto Isaia.
“È molto importante riuscire a ricostruire quanto avvenuto nelle passate eruzioni del Vesuvio partendo dal record geologico, per risalire ai caratteri delle correnti piroclastiche ed all’impatto sull’uomo” dichiara il Prof. Pierfrancesco Dellino dell’Università di Bari, referente per il settore vulcanico della Commissione Grandi Rischi nazionale. “L’approccio da noi seguito aggiunge informazioni che sono racchiuse nei depositi piroclastici e che chiariscono nuovi aspetti sull’eruzione di Pompei e forniscono preziosi spunti per interpretare il comportamento del Vesuvio anche in chiave di protezione civile”.
La scheda
Chi: Università degli Studi di Bari, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e British Geological Survey di Edimburgo (UK)
Cosa: Sviluppato un modello che ha consentito di calcolare che a Pompei il perdurare del passaggio delle correnti piroclastiche è avvenuto in un lasso di tempo compreso tra i 10 e i 20 minuti provocando effetti letali sui suoi abitanti
Dove: Lo studio The impact of pyroclastic density currents duration on humans: the case of the AD 79 eruption of Vesuvius in ‘Scientific Reports’.
Link: https://www.nature.com/articles/s41598-021-84456-7
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV)
TESTATO SULLO STROMBOLI UN SISTEMA DI ALLERTAMENTO IN TEMPO REALE DELLE ERUZIONI VIOLENTE
Pubblicati su Nature Communicationsi risultati dello studio coordinato dall’Università di Firenze, in collaborazione con i ricercatori del Dipartimento della Protezione civile, delle Università di Palermo, di Pisa e di Torino e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Napoli
Monitorando la deformazione del suolo dei vulcani è possibile capire in anticipo quando arriverà una violenta eruzione. Lo ha verificato sul vulcano Stromboli il team di ricercatori coordinati da Maurizio Ripepe, ricercatore dell’Università di Firenze, che ha sviluppato un sistema di allerta automatico in tempo reale. All’indagine, i cui risultati sono pubblicati sull’ultimo numero della rivista Nature communications, hanno collaborato i ricercatori del Dipartimento della Protezione civile, delleUniversità di Palermo, di Pisa e di Torino, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) di Napolie dell’Università di Tohoku in Giappone.
“Le eruzioni vulcaniche esplosive sono fenomeni violenti e improvvisi, la cui dinamica è talmente rapida da sfuggire al controllo della maggior parte delle reti di monitoraggio – racconta Ripepe, responsabile del Laboratorio di geofisica sperimentale Unifi –. Tali eruzioni rappresentano un grave pericolo, soprattutto quando le aree circostanti al vulcano sono densamente abitate oppure costituiscono un’attrazione turistica. Come succede a Stromboli, dove migliaia di visitatori sono richiamati dalle deboli ma spettacolari esplosioni che si verificano ogni giorno. Questa moderata attività esplosiva – prosegue il ricercatore – può essere interrotta da eventi parossistici, come quelli che hanno devastato l’isola a luglio e ad agosto 2019, generando colonne eruttive di diversi chilometri di altezza, incendi e piccole onde di tsunami e ricoprendo di cenere e lapilli i centri abitati dell’isola”.
Proprio sull’isola delle Eolie i ricercatori hanno raccolto negli ultimi 15 anni migliaia di dati, utilizzando sensori clinometrici – che misurano cioè l’inclinazione del suolo – molto sensibili. Questi sensori permettono di stabilire come le esplosioni parossistiche siano precedute da una debole ma chiara deformazione del suolo (dell’ordine di un milionesimo di grado), fenomeno che si è ripetuto in maniera identica per ogni singolo episodio, dal più debole al più violento.
“L’intero edificio vulcano – spiega Ripepe – inizia a ‘gonfiarsi’ quasi 10 minuti prima dell’esplosione parossistica per effetto della espansione dei gas durante il processo di risalita del magma nel condotto di alimentazione”.
I segnali rilevati dai ricercatori con la loro rete multi-parametrica sono cruciali non solo per dare allerta per gli eventi esplosivi ma anche per quelli che si verificano in un lasso di tempo successivo, come i maremoti, che possono avere effetti altrettanto devastanti.
“Il sistema di allertamento automatico per le eruzioni parossistiche a Stromboli – spiegano dal Dipartimento della Protezione Civile – è operativo in via sperimentale dall’ottobre 2019 e rappresenta il primo sistema automatico di allertamento al mondo per le eruzioni vulcaniche esplosive”.
Il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino collabora da numerosi anni al monitoraggio geochimico e satellitare di Stromboli e contribuisce allo sviluppo di nuove tecniche di allerta in grado di segnalare repentinamente i cambiamenti di attività di questo vulcano unico nel suo genere
Testo e video dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
Alle ore 7:30 della mattina del 18 maggio 1980, Don Swanson dello USGS dice “the bulge still bulges”. Lo strano rigonfiamento cresciuto sul fianco settentrionale del Monte Sant’Elena (Mount St. Helens in inglese) nelle ultime settimane è ancora lì, ormai da giorni tutto suggerisce una possibile un’eruzione. Inizierà esattamente un’ora dopo.
Per ripercorrere gli episodi dell’evento eruttivo, lo USGS (U. S. Geological Survey) ha riportato la fedele cronaca degli eventi accaduti quaranta anni fa, dettagliandola giorno per giorno sulla sua pagina Facebook. Foto e ricordi affascinanti, registrazioni video esclusive, curiosità e dettagli che nel tempo erano andati persi. Vi proponiamo qui una breve storia geologica del vulcano fino al giorno dell’eruzione, consigliandovi l’ulteriore lettura del racconto su Facebook e del libroIn the Path of Destruction: Eyewitness Chronicles of Mount St. Helens di Richard Waitt, scienziato dello USGS.
Lo stratovulcano
Il Monte Sant’Elena è uno stratovulcano attivo che fa parte dell’arco vulcanico della Catena delle Cascate (Cascades, Stato di Washington, USA), segmento nordamericano della Cintura di fuoco del Pacifico (Pacific Ring of Fire). Un arco vulcanico si forma per risalita di magma in zone di subduzione, ossia quando una placca (oceanica in questo caso) scivola sotto una continentale. La discesa di crosta ricca di fluidi nel mantello a temperature e pressioni sempre maggiori crea instabilità ed una conseguente risalita di materiale fuso. I movimenti tettonici della placca Pacifica e di quelle attorno hanno generato diverse zone di subduzione e conseguenti archi vulcanici nella forma di un anello, la Cintura di fuoco.
Il magmatismo dei vulcani formatisi in zone di subduzione, solitamente ha origine a circa 100 km di profondità. Determinate condizioni di temperatura e pressione sono necessarie affinché il magma si formi e possa iniziare la sua risalita verso la superficie. La peculiarità del Monte Sant’Elena è quella di trovarsi a soli 67 km sopra il piano di subduzione. I risultati dello studio iMUSH (Imaging Magma Under St. Helens) suggeriscono che il vulcano sia posizionato sopra un cuneo di rocce magmatiche (serpentiniti) fredde che si formano quando il mantello reagisce con l’acqua. La sorgente del magmatismo sarebbe invece localizzata ad Est, sotto altri vulcani della stessa catena; il magma poi migrerebbe lateralmente fornendo materiale per le eruzioni del Monte Sant’Elena.
L’edificio vulcanico di uno stratovulcano si forma per imposizione di prodotti emessi nel corso della sua storia eruttiva. La forma del Monte Sant’Elena prima dell’eruzione del 1980 è andata finalizzandosi durante lo stadio Spirit Lake (Olocene, 3900 anni – presente). Lo stadio è suddiviso in sei periodi eruttivi: Smith Creek, Pine Creek, Castle Creek, Sugar Bowl, Kalama, Goat Rocks e quello Moderno iniziato con l’attività del 1980. Questi periodi furono caratterizzati eruzioni prevalentemente esplosive, come dimostrano i prodotti più antichi. L’evento più significativo avvenne durante il periodo Kalama con la crescita del duomo sommitale che definì la forma finale del vulcano. Ci vollero circa cento anni perché il duomo si formasse e dopo il 1720 l’elevazione massima della montagna raggiunse 1800 m, limite utile per la formazione del ghiacciaio in coma. Il vulcano rimase relativamente calmo fino alla metà del mese di marzo 1980.
I segnali precursori
Il 20 marzo 1980, dopo 123 anni di quiete, un terremoto di magnitudo 4.2 (scala Richter) viene registrato nell’area del vulcano. Il suo ipocentro (il punto di origine all’interno della Terra) è poco profondo e segue altri deboli scosse che si verificano ormai da qualche giorno. Nei giorni successivi gli strumenti registrano differenti sciami sismici di bassa magnitudo e non percepiti dalla popolazione; gli esperti dello USGS ancora non sanno determinare l’origine dei movimenti tellurici (se tettonici o vulcanici) né se o quando ci sarà un’eruzione.
L’attività vulcanica inizia il 27 marzo quando dalle vedute aree gli esperti individuano un neonato cratere nel ghiaccio largo circa 70 metri e si alza una nuvola eruttiva fino a 2 km sopra la sommità. Mappano inoltre due sistemi di fratture con direzione Est-Ovest e documentano oltre 50 scosse sismiche di magnitudo superiore a 3.5 in un giorno solo. Nei giorni successivi sia l’attività sismica che eruttiva aumentano, le colonne eruttive si alzano fino a 3 km sopra la cima della montagna.
Nei primi giorni di aprile vengono registrate scosse sismiche armoniche a bassa frequenza. Contrariamente ai terremoti classici causati da rilascio improvviso di energia dalle rocce, le scosse armoniche sono associate ad attività vulcanica; sono generalmente causate da movimenti di magma nel sottosuolo o dal rilascio di gas dal magma. Possono quindi essere indicative di una eruzione imminente, che però sembra farsi attendere.
Il 3 aprile gli esperti notano un cratere largo 450 m e profondo 90 m sul fianco settentrionale, delle fratture visibili nella neve ed una strana zona di terreno esposto, probabilmente prime avvisaglie del rigonfiamento (bulge). Gli esperti raccolgono campioni dei prodotti eruttati e misurano basse concentrazioni di anidride solforosa (SO2), che invece può essere indicatrice di repentina risalita di magma se presente in alte concentrazioni. L’acqua ed il ghiaccio attorno al cratere hanno formato dei laghi fangosi sul fondo; quando nel cratere avviene una nuova immissione di fluidi dall’esterno, essi si riscaldano e vengono gettati in aria come vapore e cenere.
Il “bulge”
Nella prima metà di aprile l’attività eruttiva sembra assestarsi: esplosioni moderate che generano piccole colonne di cenere, tremori armonici, fratture sul fianco settentrionale ed crescita del bulge. Dalla seconda metà del mese l’attenzione degli esperti si concentra proprio sul rigonfiamento sul fianco verticale: alla fine del mese le sue dimensioni raggiungono il chilometro e mezzo di lunghezza, due e mezzo di larghezza e circa 100 m di altezza. La sua origine è una intrusione magmatica nel vulcano (anche chiamata criptoduomo) avvenuta alla fine di marzo. La velocità di crescita a fine aprile raggiunge il metro e mezzo al giorno. Il pericolo derivante dall’esistenza del bulge e dalla sua crescita così repentina è quello di un distaccamento di materiale (neve, ghiaccio e roccia) dal versante e la rapida discesa a valle.
Nonostante gli scienziati concordino sul pericolo derivante dal versante settentrionale, nessuno sa con certezza quando ciò accadrà: i geologi non conoscono la resistenza delle rocce sottostanti né la profondità della deformazione. Il 12 maggio un terremoto di magnitudo 5.0 provoca una valanga di ghiaccio e roccia larga 250 m sul versante settentrionale, confermando la fondatezza del pericolo.
18 maggio 1980
Poco dopo le 8:30 del mattino una frattura lunga un chilometro e mezzo con direzione Est-Ovest si apre a Nord del cratere principale. La scossa sismica che ne segue provoca il distacco di una sezione del versante verso valle e la discesa per 14 chilometri di 2.5 chilometri cubi di materiale, pari al volume di un milione di piscine olimpioniche.
La parte di versante distaccatasi era quella che manteneva il sistema magmatico sottostante pressurizzato; con la rimozione del criptoduomo, l’acqua bollente presente nel sistema si trasforma in vapore dando inizio ad esplosioni idrotermali laterali dalla frattura lasciata esposta dal bulge. L’esplosione crea una colonna eruttiva alta 24 chilometri in meno di 15 minuti ed un flusso piroclastico che viaggia a 130 km/h per 8 km verso Nord. Il flusso abbatte alberi nel raggio di 10 km.
Inoltre, il flusso piroclastico scioglie parte dei ghiacci sul versante dando origine a svariati lahars, fiumi di fango che si muovono velocemente verso valle. Il più distruttivo viaggia fino ad 80 km dal vulcano. I lahars distruggono 27 ponti ed quasi 200 abitazioni.
Le vittime dell’esplosione del 18 maggio 1980 sono 57. Gran parte della popolazione e dei turisti era stata evacuata precedentemente durante la fase. Per via della sua potenza esplosiva, l’eruzione è stata classificata come pliniana nella scala dei tipi di eruzioni.
L’evento eruttivo continua fino ad ottobre dell’anno successivo, caratterizzato da piccoli episodi esplosivi che producono colonne di cenere alte fino a 15 km e flussi piroclastici sul versante settentrionale ed i cui prodotti raggiungono aree metropolitane degli stati di Washington ed Oregon che non erano state interessate dall’eruzione del 18 maggio.
Accostare la parola “marea” alla Geologia può lasciare perplessi in prima battuta, scavando nella memoria difficilmente si recupera un ricordo che le vede accomunate. Un termine notoriamente associato al movimento di masse liquide e la scienza che studia le masse rocciose: in che modo sono legati?
A partire dalla metà del ventesimo secolo, la teoria della tettonica a placche è entrata a far parte stabilmente del pensiero scientifico: da allora gli esperti dibattono sui processi che governano il moto dei blocchi tettonici. Postulata e dimostrata la teoria della deriva dei continenti, gli scienziati hanno ricercato le sue cause nella struttura interna della Terra ed in particolare nei moti convettivi del mantello superiore, che determinano l’allontanamento o la collisione delle placche.
Secondo i dati raccolti, però, i movimenti relativi dei blocchi non sono governati esclusivamente dalla dinamica del mantello: esiste una componente orizzontale regolata da un processo diverso. Da ricercare fuori e non dentro il pianeta. Ecco che entrano in gioco le “maree solide”, movimenti di blocchi di litosfera dipendenti dai moti solari e lunari con lungo periodo di oscillazione (maggiore di un anno).
La sezione di Terra oggetto di studio è la litosfera, l’insieme della crosta terrestre e della parte superiore del mantello. Il suo comportamento – se sottoposta a sforzo – è di tipo rigido, a differenza della sottostante astenosfera più fluida e facilmente deformabile. La separazione tra queste due masse è garantita dalla low velocity zone (LVZ), una fascia a basse velocità delle onde sismiche sulla quale la litosfera scorre con poca frizione.
La ricerca ha analizzato la distanza relativa di una serie coppie di stazioni GNSS (Global Navigation Satellite Systems) collocate su placche differenti (9) ed una coppia di controllo sulla stessa placca. Lo studio si è focalizzato sui moti ciclici del Sole e della Luna con oscillazioni comprese tra uno e 18,61 anni. Cicli più brevi e quindi più frequenti vengono mascherati da effetti climatici sull’atmosfera e sul sottosuolo (influenzando ad esempio pressione dei fluidi). Inoltre, i cataloghi delle misurazioni satellitari hanno a disposizione dati degli ultimi 15-20 anni.
Il professor Carlo Doglioni ha quindi risposto per noi ad alcune domande relative a questo ultimo, importante studio.
Professor Doglioni, ci sono teorie e/o ricerche riguardo oscillazioni astronomiche con periodo maggiore? Che cataloghi e misurazioni vengono usati in quel caso?
Lo studio pubblicato è un tassello importante di un percorso di ricerca iniziato circa 30 anni fa, quando si è iniziato a vedere che le placche (cioè i frammenti della litosfera, il guscio esterno della Terra) non si muovono a caso, ma seguono un flusso primario, descritto da quello che abbiamo definito ‘equatore tettonico’, che fa un angolo di circa 30° rispetto all’equatore geografico.
Guarda caso, la proiezione del passaggio della Luna sulla Terra descrive un angolo molto simile. Poi però negli anni sono state documentate delle profonde asimmetrie della tettonica in funzione della polarità geografica, per esempio le differenze tra le catene montuose legate a subduzioni verso ‘est’ o verso ‘ovest’.
Infine è stato documentato come il guscio litosferico, circa 100 km di spessore, abbia un ritardo verso ‘ovest’ di alcuni centimetri l’anno rispetto al mantello sottostante. Quindi la tettonica delle placche è polarizzata. Queste osservazioni cruciali sono state in larga parte ignorate o liquidate come effetti secondari della sola dinamica interna di raffreddamento della Terra.
Ora abbiamo invece una prova sperimentale che le maree solide – e quindi le forze astronomiche – hanno invece un effetto cruciale sulla dinamica delle placche, in particolare quelle che hanno frequenze compatibili con le alte viscosità del mantello terrestre. L’equatore tettonico, per esempio, sembra avere una inclinazione controllata dalla precessione dell’asse di rotazione terrestre, cioè circa 26.000 anni.
Quindi sì, dovrebbero esserci effetti importanti anche con frequenze con periodi più lunghi a quelli delle nutazioni (18.6 anni). In questo caso però non ci sono cataloghi né sismici, né geodetici che ci possano aiutare, se non i dati geologici di lungo periodo.
Lo studio conferma inoltre la teoria secondo cui l’attività sismica ha un legame con il movimento relativo di Sole e Luna. Che impatto ha questa relazione sullo studio dei terremoti, in particolare sui cataloghi degli eventi sismici passati e sul monitoraggio delle aree attive? Potranno esserci (o esistono già) studi in “tempo reale” (geologicamente parlando) dell’effetto sui diversi tipi di faglia?
La gravità rimane sempre uno dei segreti più straordinari della natura e i suoi effetti sono in parte ancora da scoprire. Basti pensare che pur avendo il Sole il 99% della massa di tutto il sistema solare, il baricentro del sistema solare oscilla continuamente per effetto della massa rimanente inferiore all’1% di cui Giove fa la parte del leone. Le forze mareali, inoltre, vanno con il cubo della distanza, e questo spiega perché la Luna, pur essendo infinitamente più piccola, ha un effetto mareale circa doppio rispetto al Sole.
La tettonica delle placche e quindi la sismicità esistono però perché il mantello terrestre può convettere, e questo è possibile perché la temperatura e la composizione interna della Terra determinano viscosità che permettono questa mobilità. Tuttavia, la domanda è se i moti convettivi sono l’unico motore attivo oppure se esiste un’altra forza che li mette in movimento.
La componente orizzontale della marea solida ora è il candidato ideale per far scivolare la litosfera sul mantello sottostante, per farla sprofondare nelle zone di subduzione o permettere la risalita per isostasia del mantello al di sotto delle dorsali oceaniche che si formano dove i gradienti di viscosità determinano velocità diverse tra le placche a parità di effetto mareale. In sostanza la convezione mantellica viene polarizzata e attivata dalla componente orizzontale della marea solida; una componente che sposta avanti e indietro il suolo di 10-20 cm a ogni passaggio è la miglior candidata a pompare il sistema tettonico.
Vediamo infatti una certa correlazione con la sismicità in funzione dei periodi in cui la componente orizzontale è maggiore. Tuttavia, la sismicità è la liberazione di gradienti di pressione che si formano nei decenni, se non millenni, e la rottura che provoca il terremoto si attua nel momento in cui le rocce non sono più in grado di accumulare energia; viene dunque raggiunta la soglia critica e si attivano le faglie che producono i terremoti.
In sostanza, la correlazione tra maree e terremoti è più subdola, nel senso che c’è una frequenza maggiore di terremoti quando le placche vanno un po’ più veloci, ma i terremoti avvengono anche quando le placche si muovono più lentamente, qualora lo stato limite o condizione critica siano stati raggiunti. La componente orizzontale fornisce l’energia al sistema, mentre la componente verticale della marea modifica e modula continuamente, ogni secondo, la gravità terrestre, alzando e ribassando la litosfera e quindi anche la superficie terrestre di 30-40 cm, e quindi modificando anche il peso delle rocce: questa oscillazione favorisce o sfavorisce i terremoti in funzione della loro natura.
Per esempio, i terremoti estensionali avvengono più frequentemente durante le fasi di bassa marea (quando cioè la gravità terrestre è massima), mentre i terremoti compressivi avvengono più spesso durante le fasi di alta marea perché con una leggera diminuzione della forza di gravità si facilita lo scorrimento contrazionale.
In sostanza, la componente orizzontale carica il sistema, mentre quella verticale può essere il grilletto che innesca i terremoti, ma questi possono avvenire indipendentemente dalla marea quando la ‘misura è colma’. La Terra esercita delle maree solide che innalzano il suolo lunare di circa 10 metri, e la sismicità lunare ha una ciclicità mensile concentrata nell’emisfero rivolto verso la Terra.
La Luna non ha una tettonica delle placche perché evidentemente non ha temperature interne sufficientemente alte da determinare basse viscosità che permettano la convezione e inoltre si trova in tidal-locking, cioè guarda la Terra sempre con la stessa faccia, quindi manca la rotazione del corpo celeste come per il nostro pianeta. Quindi sì, c’è un controllo gravitazionale fondamentale sulla sismicità, ma questo non significa che ora siamo in grado di prevedere i terremoti.
Abbiamo però una chiave di lettura che ci permetterà di approfondire quei settori delle geoscienze che ci possono dare informazioni deterministiche sull’evoluzione delle aree a maggiore pericolosità sismica: dalla geodesia alla geochimica dei fluidi, dalla statistica all’intelligenza artificiale, discipline che ci permettono di riconoscere dei transienti o anomalie che preludono l’attivazione delle faglie, o meglio il rilascio dell’energia accumulata nei volumi adiacenti alle faglie stesse che sono dei piani passivi di rilascio e canalizzazione di una parte di questa energia.
Che impatto può avere questa ricerca sullo studio degli hotspot, ad esempio quello delle Hawaii? Può aiutare a definire la profondità di origine del magma che alimenta l’apparato vulcanico? Può aiutare a determinare la dinamica dello spostamento dell’hotspot stesso (se lo spostamento esiste)?
Uno studio relativamente recente – grazie alla tecnica sismologica delle receiver functions – ha permesso di ricostruire la profondità a circa 130 km della camera magmatica sotto le Hawaii: questo significa che sì, gli hotspot pacifici sono alimentati da magma che proviene appunto da quel livello sotto la litosfera che si chiama canale a bassa velocità (low-velocity zone, LVZ) che costituisce la parte alta dell’astenosfera che va da circa 100 a 410 km di profondità.
I magmi delle Hawaii inoltre, sulla base dei dati petrologici sappiamo che si sono formati a una temperatura di circa 1500°C, a conferma del dato sismologico, e sono quindi relativamente superficiali, non provenienti cioè dal limite nucleo-mantello a 2900 km, come alcuni ricercatori avevano ipotizzato. Le Hawaii, come varie altre catene magmatiche, ci documentano che la litosfera si muove rispetto all’astenosfera e questo dato ci permette di calcolare la deriva della litosfera verso ‘ovest’ rispetto al mantello.
Vi sono anche altri tipi di catene magmatiche che venivano etichettate come hotspot, in particolare posizionate sulle dorsali oceaniche come l’Islanda, le Azzorre, Ascencion, ma è stato dimostrato dalle ricerche di scienziati italiani come Enrico Bonatti e Marco Ligi che in realtà sono zone dove il mantello fonde a una temperatura più bassa per il maggiore contenuto di fluidi, a cominciare dall’acqua stessa. Sono chiamati appunto wetspot o punti bagnati e hanno quindi un’origine e una composizione diversa rispetto agli hotspot come le Hawaii. Lo spostamento degli hotspot e wetspot è documentato, ma ha natura e significato geodinamico diverso. Nessun punto o margine di placca sulla Terra è fisso, tutto si muove, a velocità diverse, rispetto al mantello sottostante.
Quali campi altri di ricerca potranno beneficiare delle conclusioni di questo studio?
Il nostro auspicio (con Davide Zaccagnino e Francesco Vespe, coautori della ricerca, ma anche di numerosi altri colleghi che nel corso degli anni hanno contribuito in modo fondamentale a queste ricerche) è che questa scoperta sia l’inizio di un percorso che ci permetterà di capire sempre meglio non solo la sismicità, ma anche i meccanismi fondamentali di funzionamento della Terra e le sue interazioni con la dinamica planetaria e, perché no, anche dell’origine ed evoluzione della vita.