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Citizen Salad: IL PROGETTO DI SCIENZA PARTECIPATIVA DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO PER SVELARE IL MICROBIOMA DELL’INSALATA

Un team di ricerca di UniTo ha attivato una campagna di crowdfunding per mappare i batteri presenti su cespi di insalata coltivati dai cittadini e studiare come possano migliorare la salute umana

È partita ufficialmente Citizen Salad – Chi vive sulle foglie di insalata, una campagna di crowdfunding che si pone l’obiettivo di coinvolgere la cittadinanza in un esperimento di citizen science volto a mappare le comunità di batteri presenti sulle foglie di insalata coltivate in diversi ambienti, sia urbani che rurali, per capire il loro impatto sul benessere della flora batterica intestinale umana.

Il progetto è stato selezionato dall’Università di Torino con la terza edizione del bando Funds Together ed è possibile sostenerlo sulla piattaforma Ideaginger.it.

Per proseguire la ricerca ci occorrono due risorse”, ha dichiarato Marco Giovannetti, ricercatore in biologia e botanica di UniTo e responsabile del progetto di crowdfunding “Fondi per realizzare l’esperimento e persone disponibili a partecipare coltivando delle piantine di insalata. Il crowdfunding ci è sembrato lo strumento perfetto per trovarle entrambe!

Alla scoperta dei batteri che abitano sulle foglie d’insalata

Il progetto Citizen Salad è curato da un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino con l’obiettivo di esplorare il mondo invisibile dei microrganismi che vivono sulle foglie di insalata. Studiando come le condizioni di crescita e la forma delle foglie influenzano la comunità batterica, lo studio fornirà nuove informazioni su come i batteri interagiscono con le piante e, potenzialmente, con la nostra salute.

“Questa ricerca è nata per comprendere meglio come i batteri colonizzano le foglie d’insalata,” spiega Marco Giovannetti. “Negli ultimi tre anni abbiamo scoperto che la forma delle foglie e le condizioni ambientali influenzano la presenza di diversi batteri, ora vogliamo estendere lo studio coinvolgendo la comunità per coltivare le piantine in terreni e climi differenti. Si è scoperto che i batteri che sopravvivono sulle foglie di insalata sopravvivono anche nell’uomo; una possibile ricaduta di lungo periodo della ricerca è capire se questi batteri possano quindi essere utilizzati per il benessere della flora batterica umana, aprendo per esempio nuove possibilità per lo sviluppo di alimenti che possano sostenere la salute intestinale”.

Coinvolgere la comunità attraverso la scienza partecipativa

Un aspetto fondamentale di Citizen Salad è il coinvolgimento diretto della cittadinanza nella ricerca. Sostenendo la campagna di crowdfunding le persone possono finanziare la ricerca con una donazione, ma anche prendere parte all’esperimento coltivando la propria insalata.

Chiunque ci supporti con una donazione di 35 euro può scegliere come ricompensa di ricevere un kit completo per coltivare due varietà di insalata e raccogliere campioni di foglie. Il nostro team analizzerà poi i dati raccolti dai cittadini per mappare il microbioma delle foglie” ha dichiarato Valentina Fiorilli, professoressa di Botanica dell’Università di Torino, che ha poi aggiunto: “Il crowdfunding ci sta offrendo l’opportunità per coinvolgere attivamente le persone nella ricerca scientifica e divulgare in modo innovativo la ricerca sulle piante. Grazie al supporto dei donatori possiamo finanziare l’acquisto dei materiali necessari per l’esperimento, ma possiamo anche ampliare la nostra rete di sperimentatori. Ogni contributo è fondamentale per completare la ricerca, raccogliere più dati e rendere lo studio più rappresentativo.”

Come sostenere Citizen Salad

L’obiettivo della campagna è raccogliere 8.000 euro che serviranno a mappare i batteri presenti sulle foglie di 200 piantine di insalata cresciute in ambienti differenti. In pochi giorni Citizen Salad ha già raccolto il 30% dell’obiettivo, grazie al supporto di molti sostenitori che hanno donato e deciso di entrare a far parte dell’esperimento coltivando anche loro due piantine di insalata. Quando la campagna avrà raccolto il 100% del suo obiettivo l’Università di Torino raddoppierà i fondi raccolti, fino a un massimo di 10.000 euro.

Per sostenere il progetto Citizen Salad con una donazione basta cliccare sul link Citizen Salad – Chi vive sulle foglie di insalata, scegliere la ricompensa preferita e completare la procedura in pochi click.

Fate una donazione, indossate il camice e diventate ricercatori e ricercatrici insieme a noi!” ha aggiunto Marco Giovanetti “Abbiamo bisogno del vostro supporto per completare la nostra ricerca, sosteneteci e preparatevi a diventare anche voi coltivatori di insalata”.

Citizen Salad

Il crowdfunding dell’Università di Torino per sostenere la ricerca scientifica

L’Università di Torino ha selezionatCitizen Salad nell’ambito della terza edizione del bando Funds TOgether, sviluppato in collaborazione con Ginger Crowdfunding, che gestisce Ideaginger.it, la piattaforma di crowdfunding con il tasso di successo più alto in Italia.

L’obiettivo del bando, con cui sono già state supportate 13 campagne di crowdfunding, che hanno raccolto oltre 191.000 euro, è fornire ai ricercatori competenze specifiche per sviluppare campagne di crowdfunding utili sia a raccogliere preziose risorse dedicate alla ricerca, ma anche per comunicare alla società civile il prezioso lavoro svolto quotidianamente in ateneo.

“L’Università di Torino”, ha dichiarato Alessandro Zennaro, Vice-Rettore per la valorizzazione del patrimonio umano e culturale in Ateneo,“ha intrapreso un’azione organizzata di valorizzazione della conoscenza e di divulgazione scientifica, anche attraverso l’iniziativa di crowdfunding. È un’opportunità per avvicinare sempre di più la ricerca scientifica alla cittadinanza, illustrandone gli obiettivi di medio-lungo termine, aprendo le porte dei laboratori dove ricercatrici e ricercatori lavorano, stimolando la curiosità della comunità e soprattutto mettendo in evidenza che i risultati della ricerca hanno ricadute immediate sulla vita quotidiana di tutti e tutte noi. Citizen Salad è un progetto esemplare che mostra come ricerca, tecnologia, coinvolgimento della società civile e innovazione possano cambiare il futuro in meglio e per questo merita di essere sostenuto”.

“Questa campagna è un’occasione di collaborazione e formazione anche per lo staff dell’Università di Torino, che mette a disposizione delle ricercatrici e dei ricercatori dell’ateneo le proprie competenze specialistiche in ambito fundraising e finanza alternativa” ha aggiunto Elisa Rosso, Direttrice della Direzione Ricerca, Innovazione e Internazionalizzazione di UniTo. “Ad esempio, lavoriamo per creare contatti, rafforzare reti di collaborazione e ricercare partner istituzionali e aziendali interessati a supportare il progetto e a svilupparlo anche nel futuro. Promuovere il crowdfunding è un’occasione per raccontare il valore della ricerca scientifica e sensibilizzare la comunità sul lavoro svolto in ateneo, che in questo caso permetterà di proseguire una preziosa attività di ricerca nel campo delle scienze della vita e della biologia”.

Citizen Salad

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

La “plastisfera” di laghi e fiumi (Mekong) ospita organismi che minacciano l’ecosistema

Una nuova ricerca esplora le comunità di microorganismi che vivono sui rifiuti di plastica e il loro impatto sul Mekong inferiore in Cambogia, secondo fiume più ricco di biodiversità al mondo.

 

Milano, 21 giugno 2024 – Fiumi e laghi inquinati in tutto il mondo ospitano una popolazione nuova e in evoluzione di microrganismi e batteri che si sono insediati sulla superficie delle plastiche. Secondo una ricerca pubblicata nel numero di agosto 2024 della rivista Water Research, questo nuovo ecosistema legato ai rifiuti, soprannominato “plastisfera”, sta avendo molteplici conseguenze: dall’esaurimento dell’ossigeno nell’acqua, alla potenziale introduzione di patologie, e sta alterando la salute complessiva dei grandi sistemi fluviali.

“I fiumi offrono un’ampia gamma di servizi ecosistemici, dalla fornitura di acqua potabile, all’irrigazione per le colture, fino al sostegno alla pesca nelle acque interne, che centinaia di milioni di persone utilizzano come risorsa alimentare”,

dice Veronica Nava, ricercatrice dell’Università di Milano-Bicocca e autore principale dello studio.

“Il nostro studio è uno dei primi ad andare oltre la descrizione dei microrganismi che crescono sui diversi materiali plastici che inquinano i corsi d’acqua sul nostro pianeta, e giunge a dimostrare che essi stanno cambiando il ciclo dei nutrienti e la qualità delle acque nel fiume, causando una drammatica riduzione dell’ossigeno nel sistema fluviale. Questi cambiamenti hanno un impatto sulla salute di un fiume e sulla sua capacità di sostenere la biodiversità all’interno dei suoi ecosistemi”.

Un consorzio di istituti di ricerca ha analizzato la plastisfera del sistema del fiume Mekong inferiore in Cambogia, uno dei fiumi più diversificati e produttivi del mondo. Monitorando i diversi impatti sulla salute del fiume, i ricercatori hanno scoperto che le fiorenti popolazioni di batteri che vivono sulla superficie dei residui di plastica alteravano in modo significativo la qualità complessiva dell’acqua e incidevano sui servizi ecosistemici, soprattutto nelle aree con rifiuti mal gestiti. Inoltre, essi hanno osservato la presenza di organismi potenzialmente patogeni che potrebbero avere implicazioni per la salute umana, sebbene siano necessarie ulteriori analisi.

Il consorzio, parte del progetto Wonders of the Mekong, finanziato dall’USAID, comprendeva ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, dell’Università del Nevada, Reno, dell’Istituto di Tecnologia della Cambogia, del Desert Research Institute e dell’Università reale di Phnom Penh.

L’attività di Veronica Nava è stata possibile grazie al finanziamento ricevuto dalla Società Italiana di Ecologia e dall’Università di Milano-Bicocca.

 Gallery sulla “plastisfera” con foto del progetto Wonders of the Mekong

Lo studio si è articolato esaminando l’accumulo di microrganismi sui residui di plastica trovati nei fiumi e valutando in laboratorio l’impatto sulla qualità delle acque legato alla presenza di questi microrganismi sulla plastica stessa. In particolare, il gruppo ha esaminato la selezione dei microrganismi per cercare di capire meglio se il tipo di rifiuti abbia un impatto sulla loro crescita e produttività.

“La combinazione dello studio di quattro diverse plastiche in tre diversi fiumi con i vari tipi di misurazione rende questo studio unico”,

sostiene Monica Arienzo, professore associato presso la Divisione di Scienze Idrologiche al Desert Research Institute.

“Riunire questi dati è importante per comprendere i potenziali impatti della plastica sugli ecosistemi acquatici”.

Sebbene il fiume Mekong fornisca sostentamento a oltre 60 milioni di persone, è anche uno dei fiumi più stressati del pianeta a causa dei cambiamenti idrologici dovuti alla costruzione di dighe e all’impatto degli usi del territorio, tra cui la deforestazione, la pesca eccessiva e il commercio illegale di pesci giganti ambiti in tutta la regione. Il fiume ospita il più grande pesce d’acqua dolce scoperto recentemente al mondo, una pastinaca gigante, oltre ad altre specie rare in via di estinzione. I rifiuti di plastica gettati nel fiume stanno diventando sempre più comuni, con un potenziale impatto sulla ricca diversità fluviale e sulla produttività della pesca.

 

“Il fiume Mekong e i suoi affluenti sono ricchi di biodiversità, ma l’inquinamento da plastica è un problema crescente nel bacino del Mekong, così come nei corpi d’acqua dolce di tutto il mondo”

afferma il professor Sudeep Chandra, uno degli autori dello studio e direttore del Global Water Center dell’Università del Nevada, Reno.

“Se si amplia questo lavoro, è possibile che, a causa dei microrganismi che popolano le isole di plastica galleggianti che stanno riducendo l’ossigeno nel fiume, inizieremo a trovare “zone morte” dove i pesci e altri animali non possono sopravvivere, specialmente durante la stagione secca.”

Si ipotizza che la riduzione dell’ossigeno contribuisca anche alla produzione di gas serra come l’anidride carbonica e il metano.

 

“Elevati livelli di inquinamento da plastica potrebbero creare punti caldi biogeochimici che produrrebbero gas serra all’interno dei fiumi”, continua Chandra. “Semplicemente, non possiamo prendere alla leggera il carico di plastica nelle acque dolci poiché potrebbe innescare tanti cambiamenti nei fiumi e avere un impatto su ciò che stiamo cercando di conservare”.

I corsi d’acqua sono stati spesso studiati come fonte dei residui di plastica nell’oceano, con i fiumi del mondo che trasportano ogni anno fino a 265.000 tonnellate di scarti di plastica in mare. Questa ricerca, la prima nel suo genere, porta alla luce una nuova serie di sfide che devono essere affrontate per proteggere i fiumi e i servizi ecosistemici che forniscono.

Questa nuova e crescente plastisfera d’acqua dolce potrebbe avere impatti di vasta portata secondo i ricercatori:

• La qualità dell’acqua, il calo dell’ossigeno e dei nutrienti potrebbero avere un impatto sulla salute dei pesci e degli altri abitanti dei fiumi. Ciò è particolarmente preoccupante in fiumi come il Mekong, uno dei più ricchi di biodiversità e importanti dal punto di vista funzionale al mondo.

• La colonizzazione di batteri e minuscole alghe che formano il biofilm sulla plastica può spingere organismi più grandi a ingerire i rifiuti di plastica “insaporiti”.

• I microorganismi potenzialmente patogeni, che vivono sulla plastica, possono compromettere l’accesso all’acqua potabile per gli esseri umani.

• I resti di plastica rivestiti con biofilm possono percorrere potenzialmente lunghe distanze, espandendo l’impatto geografico della plastisfera che si sposta lungo il fiume per le correnti.

Nel 2023, Nava e Chandra insieme ad altri co-autori hanno pubblicato una ricerca su Nature sulle alte concentrazioni di microplastiche nei laghi d’acqua dolce di tutto il mondo.. Questa nuova ricerca fornisce la prima prova degli impatti ecologici più ampi dei residui di plastica nei sistemi fluviali ed è un primo passo per comprendere meglio gli impatti della plastisfera sugli ecosistemi di acqua dolce del mondo.

“Questo studio evidenzia le sorprendenti interconnessioni tra l’inquinamento da plastica e gli ecosistemi acquatici e sottolinea la necessità di sviluppare soluzioni per ridurre i rifiuti di plastica”

afferma Zeb Hogan, professore associato di ricerca presso il Dipartimento di Biologia dell’Università del Nevada, Reno e Direttore del Progetto Wonders of the Mekong.

“Politiche che riducano i rifiuti di plastica andranno a beneficio delle persone, attraverso una migliore funzionalità dell’ecosistema, acqua migliore e più pesci”.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

Riscoperta la figura di Carlo Antonio Tortoni, pioniere della microscopia che sviluppò il primo farmaco battericida 

Una ricerca, pubblicata dall’Università di Milano-Bicocca su Internal and Emergency Medicine, riporta alla luce le scoperte pionieristiche del naturalista italiano che nacque a Recanati nel Seicento.

Milano, 29 maggio 2024 – Inventò un microscopio che gli consentì di individuare nel pulviscolo atmosferico quelli che lui chiamava “animalucci”, ovvero microorganismi contro cui sviluppò il primo farmaco battericida della storia. Questi primati appartengono a Carlo Antonio Tortoni la cui figura è stata riscoperta nel recente articolo, Carlo Tortoni (1640–1700) and the Early Use of Microscope in Medical Experimentation, pubblicato sulla rivista internazionale Internal and Emergency Medicine a firma di Michele Augusto Riva, professore di Storia della medicina dell’Università di Milano-Bicocca, e dell’esperto di storia recanatese Vincenzo Buontempo. L’articolo parte proprio dalle ricerche di Buontempo, il primo a scoprire e approfondire la figura del suo conterraneo, finora dimenticata, pur essendo così importante nella storia della scienza. Carlo Antonio Tortoni (1640-1700), nato a Recanati, diede infatti un contributo pionieristico alla microscopia scientifica e alla sperimentazione farmacologica anche se il suo carattere diffidente lo fece rimanere nell’ombra in un’epoca di grandi sviluppi tecnologici.

«Il Seicento segnò l’introduzione del microscopio nella medicina, grazie al contributo di figure rinomate come il bolognese Marcello Malpighi (1628-1694) e l’olandese Antonj van Leeuwenhoek (1632-1723). I primordiali microscopi utilizzati da questi ultimi erano però molto diversi da quelli odierni e il loro impiego era spesso molto complesso», spiega Michele Augusto Riva. «Fu nel 1685 che il naturalista recanatese Tortoni presentò all’Accademia FisicoMatematica di Roma un nuovo modello di microscopio portatile a vite (tipo screw-barrel): si tratta di un microscopio molto simile al modello che viene utilizzato ancora oggi. Questo dispositivo combinava cinque lenti e permetteva osservazioni ad alto ingrandimento anche in condizioni di bassa luminosità. Questa nuova tipologia di microscopio, che rendeva possibili osservazioni più dettagliate, divenne presto noto in tutta Europa, anche se il suo inventore venne dimenticato».

Il progetto del microscopio di Tortoni tratto da Istruzione delle due sorti di MicroscopiiTortoniani nuovamente inventati di Carlo Antonio Tortoni CA (1687, Gio Giacomo Komarek,
Roma)
Il progetto del microscopio di Tortoni tratto da Istruzione delle due sorti di Microscopii
Tortoniani nuovamente inventati di Carlo Antonio Tortoni CA (1687, Gio Giacomo Komarek,
Roma)

Ma quell’innovativo microscopio non fu l’unica scoperta di Tortoni: lo scienziato, che era anche un religioso, fu infatti il primo a osservare nell’aria la presenza di microrganismi, invisibili all’occhio umano, che lui chiamò “animalucci”. Ritenendo che fossero coinvolti nei processi patologici, sviluppò anche un farmaco per eliminarli, da lui definito “Balsamo Tortoriano”: la loro distruzione avrebbe comportato la guarigione della persona dalla malattia. 

Per confermare l’efficacia del suo rimedio, nel corso degli anni Tortoni effettuò numerosi esperimenti con il suo microscopio. Geloso delle sue scoperte e timoroso dei plagi, lo scienziato non rivelò mai la composizione del balsamo terapeutico, rendendo impossibile comprenderne oggi la natura e valutarne l’efficacia e le proprietà battericide. Nonostante ciò, il Balsamo Tortoriano può essere considerato il primo farmaco microbicida sperimentato nella storia.

«Tortoni non era dunque semplicemente uno scienziato tecnico che studiava e perfezionava la forma delle lenti e come dovessero essere posizionate nei microscopi che progettava», continua il professor Michele Augusto Riva. «Egli appare anche come un acuto osservatore, con una apertura culturale verso nuove scoperte. Tortoni potrebbe essere stato il primo scienziato a osservare microrganismi nell’aria con il proprio microscopio e il primo a usare il microscopio per condurre un esperimento sull’efficacia di un farmaco, il balsamo di sua invenzione».

Se la natura diffidente di Tortoni probabilmente portò il suo balsamo a rimanere sconosciuto e quindi non utilizzato in ambito clinico, Vincenzo Buontempo con le sue iniziali ricerche ci ricorda che va al sacerdote recanatese il merito di aver condotto uno dei primi esempi di sperimentazione farmacologica usando un microscopio. Facendo conquistare a Tortoni un posto di rilievo nella storia della medicina e della scienza.

Carlo Antonio Tortoni ritratto in un documento del 1685 (Acta Eruditorum, Apud J.Grossium et J.F. Gletitschium, Leipzig)
Carlo Antonio Tortoni ritratto in un documento del 1685 (Acta Eruditorum, Apud J.
Grossium et J.F. Gletitschium, Leipzig)

Informazioni bibliografiche:

Riva, M.A., Buontempo, V. Carlo Tortoni (1640–1700) and the Early Use of Microscope in Medical Experimentation, Intern Emerg Med (2024), DOI: https://doi.org/10.1007/s11739-024-03642-3

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

È un enzima del batterio Escherichia coli “l’osservato speciale” del tumore del colon-retto

Uno dei fattori alla base dell’insorgenza di questa tipologia di tumore sarebbe l’enzima E.coli pks+, presente nel batterio Escherichia coli. Lo rivela una ricerca congiunta di Milano-Bicocca, Human Technopole e Istituto di ricerca sul cancro di Londra, appena pubblicata su Nature Communications, che apre a nuove prospettive di prevenzione e di cura.

Milano, 19 dicembre 2023 – La sequenza cromosomica pks+, presente nel batterio Escherichia Coli (E.Coli), sembrerebbe contribuire allo sviluppo del tumore al colon. In particolare, vi sarebbe un legame tra le mutazioni associate alla sua presenza e le alterazioni in alcuni geni distintivi di questa tipologia di tumore. Questa scoperta potrebbe fornire opportunità innovative per strategie preventive e terapie personalizzate, specialmente considerando l’incremento dei tumori del colon, soprattutto tra i giovani adulti.

Questo è il risultato dello studio dal titolo “Contribution of pks+ E.coli mutations to colorectal carcinogenesis”, appena pubblicato sulla rivista Nature Communications, realizzato grazie alla collaborazione tra l’Istituto di Ricerca sul Cancro (Londra), Human Technopole e Università degli studi di Milano-Bicocca. Il team di ricerca è stato condotto da Bingjie Chen (Londra), Daniele Ramazzotti (Milano-Bicocca), Trevor A. Graham (Londra) e Andrea Sottoriva (Human Technopole).

La ricerca si è focalizzata sulla formazione dei tumori del colon-retto, analizzando il ruolo del batterio Escherichia coli (E.coli) nell’insorgenza del tumore. Alcuni ceppi di Escherichia coli, infatti, possono contenere un enzima chiamato polichetide sintetasi (E. coli pks+), che codifica per la molecola colibactina, un composto tossico per il DNA. In particolare, dallo studio è emerso che le mutazioni associate alla presenza di E. coli pks+ sono correlate a specifiche alterazioni in alcuni geni chiave del cancro colon-retto.

Le analisi del genoma della mucosa sana nei pazienti affetti da cancro, inoltre, hanno rivelato firme mutazionali distintive, in linea con l’azione genotossica del batterio. Questo fenomeno, finora poco esplorato nella mucosa normale dei pazienti con cancro, emerge come un potenziale iniziatore di mutazioni che contribuiscono allo sviluppo dei tumori del colon-retto.

«Questi risultati mostrano come l’E.coli pks+ potrebbe rappresentare un elemento chiave nella carcinogenesi del colon. – sottolinea Daniele Ramazzotti, uno degli autori principali della ricerca – Ciò non solo offre una nuova prospettiva sulla complessità dell’insorgenza del cancro del colon-retto, ma potrebbe anche aprire la strada allo sviluppo di nuovi biomarcatori di rischio per questa patologia. Approfondire infatti, la connessione tra il microbiota intestinale e la formazione di tumori potrebbe offrire opportunità innovative per strategie preventive e terapeutiche personalizzate, specialmente considerando l’incremento dei tumori del colon, soprattutto tra i giovani adulti».

Escherichia coli
Uno dei fattori alla base dell’insorgenza del tumore del colon-retto sarebbe l’enzima E.coli pks+, presente nel batterio Escherichia coli. Nella foto al microscopio elettronico a scansione, Escherichia coli. Crediti per l’immagine Flickr: Rocky Mountain Laboratories, NIAID, NIH, CC BY 2.0

Testo dall’Ufficio stampa dell’Università di Milano-Bicocca

BATTERI INTESTINALI COME IL LACTIPLANTIBACILLUS PLANTARUM MIGLIORANO CRESCITA ANIMALE PRINCIPALMENTE IN QUANTO PARTNER ATTIVI (SIMBIONTI)

Pubblicato su «Scientific Reports» lo studio dell’Università di Padova in cui si dimostra per la prima volta che se i batteri intestinali (Lactiplantibacillus plantarumsono vivi e attivi entrano in simbiosi benefica con l’animale e sono fonte nutritiva

 

Il microbiota intestinale è l’insieme dei microrganismi (batteri, ma anche virus, funghi e protozoi) ospitati da ciascun essere umano o animale sin dalla nascita e per tutta la sua vita. È una popolazione composta da centinaia di specie diverse formate da cellule e geni.

Queste “comunità”, come è noto da tempo, esercitano un effetto benefico sulla nostra salute: temprano il sistema immunitario, proteggono dalle infezioni di agenti patogeni, favoriscono la digestione e prevengono malattie cardiovascolari. Negli ultimi anni è stato scoperto che specifici batteri intestinali favoriscono anche la nostra crescita in condizioni di denutrizione. Semplificando, se una dieta è povera in nutrienti come ad esempio le proteine e se sono presenti batteri intestinali benefici, questi ultimi favoriscono comunque la crescita compensando la mancanza, come si avesse una dieta standard.

È stato anche dimostrato che ceppi di batteri appartenenti alla specie Lactiplantibacillus plantarum, comunemente isolati da diverse piante e presenti nel microbiota intestinale di molti animali, sono in grado di migliorare la crescita sia di insetti che di mammiferi (ad esempio i topi) se gli animali hanno un deficit nutrizionale.

Rimane da capire, però, il perché alcuni batteri intestinali – tra cui appunto il Lactiplantibacillus plantarum – migliorino la crescita di un animale. Sono batteri simbionti, cioè colonizzano l’intestino, ma al contempo apportano un vantaggio per l’organismo? Oppure sono semplicemente una fonte nutritiva? Su questo argomento la comunità scientifica si è sempre divisa.

Lo studio dal titolo “Gut microbes predominantly act as living beneficial partners rather than raw nutrients” pubblicato su «Scientific Reports» e guidato dalla professoressa Maria Elena Martino del Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione dell’Università di Padova ha dimostrato, per la prima volta, che i batteri intestinali esplicano la loro azione benefica migliorando la crescita animale principalmente in quanto partner attivi (simbionti) e, solo secondariamente, perché costituiscono anche una riserva energetica.

La ricerca è stata condotta sull’attività batterica intestinale nel moscerino della frutta, la Drosophila melanogaster, attraverso l’uso di batteriostatici, cioè agenti in grado di inibire o limitare la replicazione batterica senza però uccidere il microorganismo. Questa metodologia ha permesso di analizzare tre condizioni fisiologiche nei batteri per vedere e quantificare gli effetti sull’animale: la condizione naturale, cioè l’attività di batteri vivi e attivi accoppiata alla crescita; l’attività di batteri vivi, ma che non si replicano; infine l’attività di batteri morti, cioè utilizzati come sola fonte nutritiva dall’animale.

«Lo studio – dice la professoressa Maria Elena Martino – ha evidenziato due importanti risultati: il primo è che l’effetto maggiore di promozione della crescita animale si ottiene esclusivamente in presenza di batteri vivi e attivi, in particolare il 60% dell’effetto benefico esercitato dai batteri intestinali deriva dalla loro interazione attiva con l’organismo. Il secondo è che l’effetto benefico, sempre e solo con batteri vivi e attivi, sulla crescita è il risultato di due componenti: da un lato le cellule batteriche rappresentano comunque una fonte nutritiva, dall’altro vi è sia la produzione di metaboliti (amino-acidi) che una stimolazione del sistema immunitario dell’animale. Specificando ulteriormente abbiamo notato che il 60% dell’effetto benefico, come detto, è dovuto all’attività batterica (vitalità), la risorsa nutritiva è circa il 15%, mentre il resto della percentuale deriva da altri fattori minori. In conclusione, la ricerca ha permesso, per la prima volta, di dimostrare e quantificare l’effetto benefico dei batteri intestinali: esso deriva dall’interazione tra il batterio con il proprio ospite animale. Secondariamente dalla capacità dell’animale di trarre nutrienti dalla biomassa batterica. Questo studio – conclude Martino – non solo rappresenta un significativo passo in avanti nella comprensione delle relazioni tra animali e microbiota, ma determina in maniera inequivocabile il ruolo dei batteri intestinali per la crescita animale e umana».

Maria Elena Martino batteri intestinali simbionti crescita animale
Maria Elena Martino

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41598-023-38669-7

Titolo: “Gut microbes predominantly act as living beneficial partners rather than raw nutrients” – «Scientific Reports» 2023

Autori: Nuno Filipe da Silva Soares, Andrea Quagliariello, Seren Yigitturk & Maria Elena Martino

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

L’enzima che elimina monossido di carbonio dall’aria, scoperto il segreto del suo funzionamento

Alcuni batteri che si nascondono nel suolo potrebbero essere dei validi alleati nella lotta al cambiamento climatico. Lo studio condotto dall’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con altri atenei europei
inquinamento enzima monossido di carbonio
Foto di Steve Buissinne
Milano, 9 giugno 2022 – Scoperto il meccanismo che consente agli enzimi presenti nel suolo in alcuni batteri di eliminare monossido di carbonio (CO) dall’atmosfera. Lo studio condotto dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con i colleghi dell’Università della Calabria e dell’Università di Lund, in Svezia, ha consentito di comprendere nel dettaglio in che modo questi enzimi trasformino il CO in biossido di carbonio (CO2). Un risultato che apre nuove prospettive per quanto riguarda la mitigazione delle emissioni di monossido di carbonio, con effetti benefici sia sulla qualità dell’aria che sul clima dato che questo gas, altamente tossico, contribuisce ad aumentare l’effetto serra.

 

Negli ultimi vent’anni, diversi studi sperimentali e teorici sono stati dedicati alla comprensione del processo di ossidazione del CO da parte di un particolare enzima contenente molibdeno e rame, chiamato MoCu CO deidrogenasi. I meccanismi fin qui ipotizzati, tuttavia, riportavano alcune difficoltà nell’evoluzione del prodotto. Grazie all’esperienza maturata in precedenti attività di studio del sistema mediante modelli computazionali, il gruppo di ricercatori formato dal professor Claudio Greco, vicedirettore del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra, dal professor Ugo Consentino e dalla ricercatrice Anna Rovaletti dello stesso Dipartimento, dal professor Giorgio Moro del Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze, nonché dalla professoressa Emilia Sicilia e dalla dottoressa Alessandra Gilda Ritacca del Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche dell’Università della Calabria e dal professor Ulf Ryde del Dipartimento di Chimica Teorica dell’Università della Lund University, è riuscito a riprodurre per la prima volta un meccanismo di reazione che concorda con i dati sperimentali riportati ad oggi. In particolare, è stato spiegato in che modo l’enzima MoCu CO deidrogenasi trasferisce dall’acqua un atomo di ossigeno trasformando il monossido in biossido di carbonio. La CO2 prodotta viene utilizzata dagli stessi batteri e, quindi, non viene rilasciata nell’atmosfera.

 

Lo studio, dal titolo “Unraveling the Reaction Mechanism of Mo/Cu CO Dehydrogenase Using QM/MM Calculations” è stato pubblicato su ACS Catalysis (DOI: 10.1021/acscatal.2c01408)

 «L’atmosfera contiene, in piccole proporzioni, vari gas dovuti sia a fonti naturali che a emissioni antropiche, come ad esempio proprio il CO – spiega il professor Greco –. Gli enzimi in grado di trasformare CO in CO2 sono presenti in diversi microrganismi del suolo e riescono a “consumare” circa il 15% del monossido di carbonio dell’atmosfera. La scoperta di dettagli fondamentali del funzionamento di questi enzimi segna il passaggio verso la possibilità di progettare composti che funzionano nello stesso modo e che potrebbero essere impiegati sia in sensori di nuova generazione per la rilevazione del CO sia per la riduzione delle emissioni di questo gas in processi industriali».

 

Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

Spot di luce usati come cani da pastore per radunare i “greggi” di batteri 

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Fisica della Sapienza, rivela come controllare la distribuzione spaziale di batteri geneticamente modificati puntandoli con minuscoli riflettori. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Nature Communications

Molti batteri motili, come Escherichia coli, esplorano continuamente lo spazio circostante alla ricerca delle migliori condizioni di crescita.

Come animali da pascolo, se lasciati in uno spazio aperto, i batteri diffondono e si distribuiscono uniformemente sui “prati” ovunque il cibo sia disponibile. Radunarli è una delle responsabilità più difficili, soprattutto quando questi sono numerosi e corrono velocemente.

Spot di luce batteri

Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza ha dimostrato che microscopici spot di luce, come migliaia di cani pastore, possono radunare anche i batteri più veloci in un’area ristretta. Ciò è possibile solo se i batteri sono geneticamente modificati per produrre proteorodopsina, una pompa protonica che, come un mini pannello solare, sfrutta l’energia luminosa per muovere i flagelli (appendici cellulari lunghe e sottili con funzione motoria). Lo studio, pubblicato su Nature Communications, è frutto della collaborazione della Sapienza con il CNR-Nanotec e l’Istituto italiano di tecnologia.

“Questi batteri – spiega Helena Massana-Cid, ricercatrice del Dipartimento di Fisica della Sapienza e primo nome dello studio – si muovono velocemente quando la luce è intensa e più lentamente nelle zone buie. Quindi, per radunarli è stato utilizzato un proiettore di luce controllato dal computer e costituito da minuscoli riflettori puntati sulle singole cellule, in grado di spegnere rapidamente la luce sui batteri che cercavano di fuggire dall’area di raccolta”.

Grazie a una fotocamera digitale associata al microscopio i ricercatori hanno ottenuto le immagini delle sospensioni di batteri, che sono state elaborate in tempo reale attraverso trasformazioni geometriche, per poi essere proiettate sul campione con un ritardo temporale fissato. Così, muovendosi illuminati da questa immagine deformata del loro passato, migliaia di batteri possono dirigersi insieme, come un branco, verso una specifica regione.

Le particelle in grado di consumare energia per muoversi attivamente, come i batteri motili, fanno parte di un’ampia classe di sistemi di non-equilibrio, sia sintetici che biologici, chiamati collettivamente “materia attiva”. Sebbene prevedere e controllare il comportamento di questi sistemi risulti una sfida ancora aperta a cavallo tra fisica e biologia, questo esperimento aggiunge sicuramente apre la strada per sviluppi interessanti sia negli aspetti fondamentali della fisica del non-equilibrio, che nelle sue applicazioni.

“A livello fondamentale – conclude Roberto Di Leonardo del Dipartimento di Fisica della Sapienza e coordinatore dello studio – siamo riusciti a stabilire una relazione matematica tra le proprietà geometriche dei pattern di luce proiettati e il modo in cui i batteri rispondono distribuendosi nello spazio. Riguardo invece le future applicazioni, la luce potrebbe essere utilizzata per intrappolare e trasportare nuvole di particelle attive in laboratori miniaturizzati, che sfruttano l’energia meccanica per azionare micro-macchine con componenti sia biologiche e che sintetiche”.[FV1]

Riferimenti:
Rectification and confinement of photokinetic bacteria in an optical feedback loop – Helena Massana-Cid, Claudio Maggi, Giacomo Frangipane, Roberto Di Leonardo – Nature Communications (2022) https://doi.org/10.1038/s41467-022-30201-1

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

SVOLTA NELLA RISPOSTA IMMUNITARIA A BATTERI, PARASSITI E VIRUS: IDENTIFICATA LA MOLECOLA MIR-210

La ricerca, condotta da un team di scienziati dell’Università di Torino (MBC) e del VIB-KU Leuven, può aprire nuove strade nella gestione delle infezioni

miR-210 macrofagi
Macrofago. Foto Flickr dal NIAID, CC BY 2.0

Venerdì 7 maggio 2021, sulla rivista Science Advances, è stata pubblicata la ricerca Macrophage miR-210 induction and metabolic reprogramming in response to pathogen interaction boost life-threatening inflammation, condotta dal team del Prof. Massimiliano Mazzone (VIB-KU Leuven e Università di Torino) in collaborazione con la Prof.ssa Daniela Taverna (Università di Torino) e il Dr. Federico Virga (Università di Torino e VIB-KU Leuven).

Lo studio ha analizzato i macrofagi, un tipo specifico di globuli bianchi che forma la prima linea di difesa contro gli agenti patogeni. In particolare, il team ha identificato la molecola miR-210 come un regolatore chiave della risposta infiammatoria dei macrofagi a batteri, parassiti e proteine virali. Più nel dettaglio i ricercatori hanno dimostrato che, durante la sepsi e nel corso di diverse infezioni, il miR-210 favorisce uno stato infiammatorio dannoso per l’organismo.

I macrofagi sono tra i principali attori nella lotta contro gli agenti patogeni come batteri, parassiti e virus. Da un lato, l’attivazione dei macrofagi è essenziale per avviare e coordinare la risposta immunitaria per proteggere l’individuo dall’attacco microbico. Dall’altro lato però, possono contribuire ad uno stato infiammatorio esacerbato portando al danneggiamento e alla disfunzione di diversi organi.

Nei laboratori del Prof. Massimiliano Mazzone e della Prof.ssa Daniela Taverna, il Dr. Federico Virga, mettendo a contatto macrofagi sia murini che umani con agenti patogeni, ha studiato il ruolo del miR-210. “L’interazione tra macrofagi e agenti patogeni come batteri, parassiti e la proteina spike della SARS-CoV-2 induce l’espressione del miR-210 nei macrofagi, scatenando una risposta pro infiammatoria”, ha dichiarato il Dr. Virga.

Oltre a queste nuove scoperte, il team ha studiato i monociti, cellule precursori dei macrofagi, isolati da pazienti settici. Questi monociti hanno mostrato livelli più elevati di miR-210 rispetto agli individui sani o ai pazienti con una malattia diversa come il cancro. In una collezione storica di campioni di plasma di pazienti settici, livelli più elevati di miR-210 circolanti sono stati correlati a una ridotta sopravvivenza. Anche se ulteriori studi prospettici sono necessari, questi risultati incoraggiano a indagare il miR-210 come biomarcatore nella sepsi.

Il potenziale traslazionale di questi risultati è stato sottolineato dal Prof. Massimiliano Mazzone“Più di 10 milioni di persone sono morte a causa della sepsi nel 2017. Nonostante l’alta mortalità e morbilità di questa sindrome, l’identificazione e il monitoraggio della sepsi rimangono impegnativi e le opzioni terapeutiche sono limitate. I nostri dati suggeriscono che gli approcci basati sul miR-210 potrebbero aprire nuove strade per una migliore gestione della sepsi”.

La Prof.ssa Daniela Taverna ha aggiunto: “Questo studio sottolinea ulteriormente la rilevanza della ricerca sull’RNA. Infatti, in questo lavoro, siamo riusciti ad evidenziare il ruolo di un piccolo RNA non codificante, il miR-210, nel controllo delle infezioni e il suo possibile collegamento con la clinica. In contemporanea, la pandemia da SARS-CoV-2 ha dimostrato come i vaccini a RNA, sviluppati peraltro molto rapidamente, siano altamente efficaci contro l’infezione. Sicuramente gli sforzi degli ultimi 20 anni, volti a capire meglio il ruolo delle diverse molecole di RNA presenti nelle nostre cellule, ci permetteranno di intervenire in maniera più mirata a livello clinico, in tempi rapidi”.

La ricerca è stata condotta grazie al finanziamento da parte di diversi enti e associazioni. Massimiliano Mazzone è stato supportato da un ERC Consolidator Grant, dal Flanders Research Foundation e dal programma di ricerca e innovazione dell’Unione Europea Horizon 2020. Daniela Taverna è stata sostenuta da AIRCFondazione Cassa di Risparmio Torino e dal Ministero della Salute. Federico Virga ha usufruito di una borsa di dottorato in Medicina Molecolare presso l’Università di Torino.
Testo e foto dall’Università degli Studi di Torino

Fabiana ramulosa: una pianta contro l’antibiotico-resistenza 

Un team multidisciplinare della Sapienza ha individuato in una molecola dell’arbusto originario delle pendici montuose del Cile e dell’Argentina un alleato naturale contro la resistenza agli antibiotici. L’azione antimicrobica della pianta è stata scoperta utilizzando approcci bioinformatici e screening biologici. I risultati del lavoro sono pubblicati sulla rivista Journal of Antimicrobial Chemotherapy

Fabiana densa ramulosa antibiotico-resistenza
Il composto BBN149, estratto da Fabiana ramulosa, inibisce la crescita batterica di batteri resistenti alla colistina. A destra la pianta utilizzata per l’estrazione del BBN149 la cui struttura è riportata al centro. Il grafico a sinistra riporta l’inibizione della crescita (Growth %) di un ceppo di P. aeruginosa resistente alla colistina in presenza di dosi crescenti di BBN149 e colistina (+ colistin). Si può notare che in presenza di colistina il BBN149 inibisce completamente la crescita del ceppo resistente alle concentrazioni comprese tra 125 e 31 mM, mentre non ha alcun effetto in assenza di colistina.

La resistenza agli antibiotici, o antibiotico-resistenza, è un meccanismo che deriva dal naturale sistema di difesa dei batteri nei confronti degli agenti esterni. A livello molecolare si tratta di un processo che normalmente avviene in pochi microrganismi di una popolazione batterica. Tuttavia, quando la popolazione è esposta agli antibiotici, i batteri resistenti per continuare a sopravvivere e a proliferare diffondono velocemente questa capacità a batteri diversi presenti nello stesso ecosistema.

L’antibiotico-resistenza sta compromettendo la possibilità di trattare le più comuni infezioni batteriche, mettendo a rischio anche procedure mediche ordinarie quali gli interventi chirurgici o i trattamenti chemioterapici. La situazione inoltre sta peggiorando con l’emergere di nuovi ceppi batterici capaci di sviluppare resistenza a più antibiotici (multi-resistenza) e persino pan-resistenza a tutti gli antibiotici disponibili. Basti pensare a batteri come Klebsiella pneumoniae, Escherichia coli, Staphlylococcus aureus e Pseudomonas aeruginosa, che sono diffusi in tutti i paesi e mostrano resistenze multiple anche agli antibiotici indicati come ultima risorsa, limitando fortemente le opzioni di cura per i pazienti.

Per il trattamento di infezioni da batteri multi- o pan-resistenti sono stati reimmessi nella terapia vecchi antibiotici che, non essendo stati più stati utilizzati da diversi anni, possono risultare efficaci. Uno di questi è la colistina, una molecola antimicrobica entrata in disuso negli anni ‘50 e recentemente riconsiderata per il trattamento di infezioni da batteri Gram-negativi come la Klebsiella.

Oggi, un nuovo studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma, in collaborazione con altre università e enti di ricerca italiani, ha indagato i meccanismi molecolari alla base della resistenza dei batteri alla colistina, giungendo a identificare un composto naturale in grado di disattivare l’azione dei batteri contro il farmaco.

Lo studio, risultato dell’approccio multidisciplinare di un team di chimici, bioinformatici, microbiologi e biochimici, è stato pubblicato sulla rivista Journal of Antimicrobial Chemotherapy e ha visto il supporto del MUR, della Fondazione Fibrosi Cistica e dell’Istituto Pasteur Fondazione Cenci Bolognetti.

In particolare, i ricercatori hanno osservato che la colistina si lega alla parete dei batteri, nello specifico alla loro componente lipideA del lipopolisaccaride, e ne distrugge l’integrità causandone la morte. Nei batteri che sviluppano resistenza alla colistina invece si attiva l’enzima ArnT, che modifica il lipideA rendendolo inattaccabile.

La conoscenza dei meccanismi molecolari alla base della colistina-resistenza, ha permesso quindi di identificare BBN149, un composto di origine naturale estratto dalla pianta Fabiana densa var. ramulosa, un genere di piante originario delle pendici montuose del Cile e dell’Argentina.

“Poiché in alcuni casi la colistina rappresenta l’ultima opportunità terapeutica disponibile è molto importante preservarne l’attività il più a lungo possibile” – spiega Fiorentina Ascenzioni del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza. “Il nostro obiettivo è stato quello di trovare un composto capace di inattivare ArnT e lo abbiamo fatto attraverso lo screening di una vasta libreria di composti naturali appartenente al gruppo di Bruno Botta del Dipartimento di Chimica e tecnologia del farmaco del nostro Ateneo”.

Successivamente i ricercatori hanno confermato la funzione di BBN149 con dati microbiologici e biochimici e poi attraverso l’utilizzo di tecniche di molecular modeling, utili a simulare il comportamento della molecola.

I dati sperimentali presentati nel lavoro, da una parte confermano ArnT come target anti-colistina-resistenza, dall’altra aprono la strada allo sviluppo di adiuvanti della colistina nel trattamento di infezioni batteriche da Gram-negativi colistina-resistenti, le quali sono rapidamente aumentate da quando è stato ripristinato l’utilizzo della molecola negli antibiotici.

Fabiana ramulosa antibiotico-resistenza
Fabiana ramulosa, dalla quale è possibile estrarre una molecola, alleato naturale contro l’antibiotico-resistenza. Foto di Penarc, CC BY 3.0

Riferimenti:

A novel colistin adjuvant identified by virtual screening for ArnT inhibitors – Francesca Ghirga, Roberta Stefanelli, Luca Cavinato, Alessandra Lo Sciuto, Silvia Corradi, Deborah Quaglio, Andrea Calcaterra, Bruno Casciaro, Maria Rosa Loffredo, Floriana Cappiello, Patrizia Morelli, Alberto Antonelli, Gian Maria Rossolini, Marialuisa Mangoni, Carmine Mancone, Bruno Botta, Mattia Mori, Fiorentina Ascenzioni, Francesco Imperi – Journal of Antimicrobial Chemotherapy (2020), dkaa200, https://doi.org/10.1093/jac/dkaa200

Le piante del genere Fabiana prendono il loro nome dal vescovo Francisco Fabián y Fuero. Qui in un dipinto di Juan Bautista Suñer, olio su tela (201 x 114 cm), all’Università di Valencia. Immagine UV CC BY-SA 4.0

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Sapienza Università di Roma sulla molecola dalla Fabiana densa var. ramulosa, alleato contro l’antibiotico-resistenza.

Giorni d’estate, di mare, di vacanze, la cistite è in agguato, come prevenirla e curarla: le indicazioni della professoressa Elisabetta Costantini, dell’Ateneo di Perugia

“Il caldo e la cistite possono essere collegati, ma per contrastare l’infezione ci sono buone pratiche e comportamenti attenti da seguire”. Lo evidenzia la professoressa Elisabetta Costantini, Professore Associato dell’Università degli Studi di Perugia e Direttore della Struttura complessa interaziendale di Clinica Urologica ad indirizzo Andrologico ed Uroginecologico Azienda Ospedaliera di Terni e Perugia.

 “Il caldo facilita le cistiti, prima di tutto perché è più facile la disidratazione – spiega la professoressa Costantini -. Bere aiuta molto perché urinando più spesso eliminiamo più rapidamente i batteri eventualmente entrati in vescica; l’umidità inoltre, a contatto con i genitali, facilita le vaginiti che a loro volta predispongono alle cistiti. Perciò ricordiamo sempre al mare, a contatto della sabbia, o in piscina o in palestra, di fare attenzione perché l’ambiente umido modifica il microbiota del perineo. È bene inoltre utilizzare indumenti che facilitano la traspirazione, non molto stretti e preferibilmente di cotone o fibre naturali. Infine ricordiamo che l’alimentazione modifica il microbiota intestinale, talora predisponendo alle cistiti. Questo può accadere ad esempio in vacanza e allora il consiglio è di evitare l’alcool, l’eccesso di caffeina, le spezie, i cibi piccanti e gli zuccheri complessi”.

 La cistite è un’infezione batterica a carico delle vie urinarie e in particolare della vescica; molto frequente nelle donne, ma che non risparmia gli uomini. Dati statistici affermano che 1 donna su 2 almeno una volta nella vita ha sofferto o soffrirà di cistite e di queste un 30% andrà incontro a ricorrenze. Colpisce invece circa il 12 % degli uomini, e nel sesso maschile ha caratteristiche diverse perché spesso legata ad una patologia uretro-prostatica, quindi meno frequente rispetto alla donna ma più difficile il suo trattamento.

cistite curarla prevenirla Elisabetta Costantini

Quali sono i sintomi?

“La diagnosi di cistite è clinica, cioè sulla base di sintomi caratteristici: dolore sovrapubico, senso di peso perineale, aumento della frequenza minzionale, urgenza, necessità impellente di urinare, con talvolta incontinenza da urgenza, bruciore e/o dolore durante la minzione, senso di incompleto svuotamento, sangue nelle urine. Il tutto accompagnato dal riscontro nelle urine di batteri uropatogeni, tra cui il più frequente è l’Escherichia Coli, che ha il suo serbatoio nel nostro intestino” evidenzia la professoressa Costantini che ieri ha parlato della cistite, di come si manifesta, di come prevenirla e curarla, a Speciale Tutta Salute, su Rai3, trasmissione condotta da Michele Mirabella, Pier Luigi Spada e Carlotta Mantovan.

E la cura?

“La terapia è fondamentalmente antibiotica ma quello che oggi è diventato prioritario è riconoscere ed agire sui fattori predisponenti che sono la causa dell’alta recidività; ci sono donne che hanno anche una cistite al mese – rileva ancora -. D’altra parte l’uso indiscriminato degli antibiotici, cioè l’uso scorretto nel senso di scelta dell’antibiotico, dosaggio e durata della terapia ma anche l’autoprescrizione, tipico nella cistite è il ‘fai da te’, sono fattori che oggi hanno una estrema importanza data la ormai nota a tutti problematica dell’antibiotico-resistenza”.

Conoscere e agire sui fattori di rischio è la chiave di volta. Oltre a fattori di predisposizione genetici le infezioni urinarie possono essere legate a modificazioni anatomiche o funzionali dell’apparato urogenitale che devono essere riconosciute e trattate: l’alterato svuotamento vescicale; l’alterazione del microbiota intestinale, vaginale e perineale; igiene intima scorretta; rapporti sessuali non protetti; irregolarità intestinali (stipsi o diarrea); errori nell’alimentazione; problematiche legate alla menopausa; terapia antibiotica non adeguata.

 

Perugia, 24 giugno 2020

Testo e foto sui consigli della professoressa Costantini sulla cistite, su come prevenirla e curarla, dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Perugia