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DISTURBI DELLA MEMORIA: IDENTIFICATO IL PROCESSO CON IL CUI IL CERVELLO DISTINGUE E CONSERVA EVENTI SIMILI; I NEURONI INIBITORI NELL’AMIGDALA AIUTEREBBERO A MANTENERE DISTINTI I RICORDI DI EVENTI SIMILI

Una ricerca condotta da un team di ricerca del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino potrebbe fornire informazioni utili per sviluppare nuove strategie terapeutiche per i disturbi della memoria.

Formare ricordi di eventi simili costituisce una vera e propria sfida per il nostro cervello. È essenziale che ogni evento venga memorizzato in maniera separata per preservarne la specificità. Tuttavia, è altrettanto importante riconoscere e ricordare gli aspetti comuni tra gli eventi. Se questo delicato processo viene compromesso, le persone rischiano di confondere un evento con un altro, perdendo così la chiarezza e la specificità dei propri ricordi.

Un nuovo studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Cell Reports ha identificato un intricato processo cerebrale che consente di distinguere e memorizzare eventi simili in maniera separatamantenendo al contempo le somiglianze tra di essi. La ricerca è stata condotta principalmente dalle ricercatrici Giulia ConcinaLuisella Milano e Annamaria Renna coordinate dal Prof. Benedetto Sacchetti del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino.

I ricercatori hanno studiato l’attività cerebrale durante l’apprendimento di due eventi distinti ma con elementi in comune, scoprendo che nell’amigdala, una regione cerebrale chiave per la formazione dei ricordi, gruppi separati di neuroni si attivano per memorizzare separatamente eventi distinti. Tuttavia, alcuni neuroni rispondono a entrambi gli eventi, aiutando a ricordarne le somiglianze. Il numero di questi neuroni comuni è regolato da un particolare tipo di cellule chiamate neuroni inibitori. Bloccando queste cellule, i ricercatori hanno notato come il numero di neuroni comuni aumentasse notevolmente causando la confusione e sovrapposizione dei due eventi. Secondo i ricercatori, in conclusione, i neuroni inibitori contribuiscono quindi a mantenere distinti i ricordi di eventi simili.

La ricerca è stata condotta adottando un approccio multidisciplinare che ha integrato metodologie di analisi comportamentale, biologia molecolare, microscopia ad alta risoluzione e modulazione dell’attività cerebrale. In particolare, grazie all’utilizzo della tecnica innovativa della “marcatura chemogenetica”, i ricercatori hanno potuto visualizzare i neuroni coinvolti nella percezione sia degli aspetti distintivi di due eventi, sia delle loro caratteristiche comuni. Questa analisi ha permesso anche di individuare le cellule in grado di limitare il numero di neuroni condivisi, ovvero i neuroni inibitori. Infine, combinando le tecniche di marcatura chemogenetica e di inattivazione dell’attività neuronale, i ricercatori hanno selettivamente bloccato queste cellule, notando che ciò portava i soggetti a confondere gli eventi tra di loro.

“Questa ricerca – spiega il Prof. Benedetto Sacchetti – riveste un’importanza significativa poiché mette in luce l’esistenza di neuroni il cui ruolo è quello di mantenere separate le memorie di eventi distinti ma con aspetti in comune, consentendo così di conservare i ricordi di tali eventi in modo preciso e nitido. Considerando che una delle caratteristiche tipiche dei disturbi della memoria, come le demenze e il disturbo post-traumatico da stress, è la tendenza a confondere gli eventi passati, questa ricerca potrebbe fornire nuove informazioni utili per sviluppare nuove strategie terapeutiche.”

memoria amigdala processo
Immagine di Bernstein0275, CC BY-SA 4.0

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

UNA NUOVA SPERANZA PER LA CURA DEL NEUROBLASTOMA INFANTILE: I RISULTATI DELLO STUDIO DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO ASSIEME AD HARVARD

I dati della ricerca sostenuta dalla Fondazione AIRC, pubblicati sulla prestigiosa rivista “Cancer Cell”, promettono nuovi sviluppi nella lotta contro il neuroblastoma, un tumore pediatrico ancora difficile da curare.

 

Il neuroblastoma rappresenta una sfida complessa per la pediatria oncologica, il tasso di sopravvivenza a cinque anni per questo tumore si aggira intorno al 50% per i bambini con forme ad alto rischio. Tuttavia, i risultati di uno studio, condotto dal gruppo di ricerca guidato dal Prof. Roberto Chiarle del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e professore presso il Boston Children’s Hospital e la Harvard Medical School, ha delineato una nuova strategia terapeutica che potrebbe migliorare l’efficacia delle cure per questo tipo di tumore.

I ricercatori hanno in particolare dimostrato che l’utilizzo di cellule CAR T contro il recettore ALK, in combinazione con inibitori di ALK stesso, può portare a risultati promettenti nella cura del neuroblastoma. Le cellule CAR T sono cellule del paziente stesso, modificate in laboratorio in modo che in superficie abbiano un recettore chimerico in grado di riconoscere, in questo caso, il recettore ALK.

I risultati dello studio, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Cell (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/38039964/).

La terapia con cellule CAR T è una potente arma emergente contro il cancro, che modifica le cellule T dei pazienti in modo che possano riconoscere e attaccare le cellule tumorali in modo più preciso e mirato. Ma le attuali terapie a base di CAR T sono solo parzialmente efficaci contro la maggior parte di tumori solidi, compreso il neuroblastoma, un tumore che in genere inizia nel tessuto nervoso dei bambini e può dare origine a metastasi in diverse aree del corpo.

Roberto Chiarle e colleghi hanno creato in laboratorio una nuova terapia cellulare di tipo CAR T per il neuroblastoma e sperano di iniziare presto a sperimentarla clinicamente nei bambini ad alto rischio. Queste CAR T mirano specificamente al recettore ALK, il cui gene è un noto oncogene implicato in molti altri tipi di tumore. Tuttavia, non tutti i pazienti affetti da neuroblastoma presentano livelli sufficientemente elevati di recettori ALK sulle cellule tumorali per attirare un forte attacco da parte delle cellule CAR T.

Guidato dalla ricercatrice Elisa Bergaggio, il gruppo di Chiarle ha provato ad aggiungere al trattamento con cellule CAR T un farmaco inibitore di ALK. Si è scoperto che l’inibitore non solo silenzia la segnalazione oncogenica da parte dei recettori ALK, ma aumenta anche il numero di questi recettori sulla superficie cellulare, offrendo più bersagli per le cellule CAR T nei pazienti con bassa espressione di ALK.

I risultati preclinici, pubblicati su Cancer Cell, hanno dimostrato l’efficacia di questa combinazione terapeutica in animali con neuroblastoma metastatico, con una significativa riduzione della crescita tumorale e un miglioramento nella sopravvivenza nei topi trattati.

A seguito di queste scoperte, il Dana-Farber/Boston Children’s Hospital sta preparando la richiesta di autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA) americana per avviare uno studio clinico su questa terapia combinata nei bambini affetti da neuroblastoma refrattario alle cure o da una recidiva della malattia. Tale studio clinico si svilupperà a Boston e sarà in parte sostenuto anche dal contributo di filantropi torinesi e piemontesi guidati da Lucio Zanon di Valgiurata.

tumori infantili RNA
Una ricerca per la cura del neuroblastoma infantile aggiunge al trattamento con cellule CAR T un farmaco inibitore di ALK. Foto di RyanMcGuire

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

PER REGISTRARE I SEGNALI DEI PIPISTRELLI È SUFFICIENTE UNO SMARTPHONE

La scoperta dei ricercatori dell’Università di Torino apre nuove prospettive di citizen science, facilitando il monitoraggio di uno dei gruppi di mammiferi più elusivi del nostro ecosistema

Sulla rivista Biodiversity and Conservation è stata pubblicata la ricerca intitolata “Using mobile device built-in microphones to monitor bats: a new opportunity for large-scale participatory science initiatives”Il lavoro, guidato da Fabrizio Gili del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, hanno testato l’efficacia dei dispositivi mobili di uso comune (smartphone e tablet) per rilevare i segnali dei chirotteri a bassa frequenza, confrontandola con quella ottenuta utilizzando strumenti professionali. È stato inoltre avviato un progetto pilota di citizen science, al fine di verificare l’applicabilità del metodo sul campo, ottenendo risultati sorprendenti.

chirotteri, comunemente noti come pipistrelli, rappresentano il secondo gruppo più numeroso tra i mammiferi con oltre 1470 specie note. Distribuiti in tutto il mondo ad eccezione dell’Antartide, svolgono servizi ecosistemici cruciali come regolatori dei parassiti, impollinatori e vettori di dispersione dei semi. In Italia e in Europa, tutte le specie di chirotteri sono protette per legge, e il monitoraggio dello stato di salute delle loro popolazioni è obbligatorio e strettamente regolamentato dall’Unione Europea.

Per orientarsi e comunicare, i pipistrelli emettono segnali ultrasonici rilevabili attraverso dispositivi chiamati bat detector. Costituiti da un microfono a ultrasuoni collegato a un registratore, i bat detector consentono di identificare le specie che vivono in una determinata area. La tecnologia moderna ha reso questi strumenti più compatti e accessibili, consentendo anche a volontari e appassionati di partecipare ai monitoraggi. Nonostante ciò, il costo elevato delle apparecchiature ne limita ancora l’applicazione in progetti di citizen science su larga scala.

Molosso di Cestoni (Tadarida teniotis)
Molosso di Cestoni (Tadarida teniotis)

Tuttavia, i segnali emessi da alcune specie di chirotteri possono essere percepite dall’orecchio umano. Ad esempio, il molosso di cestoni (Tadarida teniotis) emette segnali di ecolocalizzazione a frequenze di 11-12 kHz. I dispositivi mobili, progettati principalmente per le comunicazioni e la registrazione di suoni udibili, incorporano microfoni capaci di registrare fino a 22-24 kHz. Sulla base di questo assunto, ci si è chiesti se fosse possibile utilizzarli per monitorare almeno una parte delle specie di chirotteri esistenti.

La prima fase della ricerca è stata condotta a Torino e in altre aree del nord Italia, con una fase di campionamento in Spagna, dove è stata registrata la nottola gigante (Nyctalus lasiopterus), il più grande e tra i più misteriosi chirotteri europei. Sono state effettuate delle serate di registrazione utilizzando vari smartphone e tablet tra i più venduti globalmente, affiancati da un bat detector. Sono quindi state confrontate la quantità e la qualità delle registrazioni ottenute.

Nottola comune (Nyctalus noctula) ritratta durante le misurazioni
Nottola comune (Nyctalus noctula) ritratta durante le misurazioni

I risultati hanno evidenziato che almeno nove specie di chirotteri europei possono essere monitorate utilizzando i dispositivi mobili, con una quantità e qualità delle registrazioni comparabile a quella ottenuta tramite i bat detector. È emerso che i dispositivi iOS offrono una sensibilità superiore, rilevando segnali a distanze maggiori rispetto ai bat detector, mentre i dispositivi Android hanno mostrato nel complesso una minor sensibilità, con variazioni significative nelle performance a seconda del modello.

In una fase successiva, è stato coinvolto un gruppo di volontari, chiedendo loro di utilizzare i propri smartphone o tablet per registrare i segnali a basse frequenze emessi dai chirotteri nelle vicinanze delle loro abitazioni. Seguendo un protocollo standardizzato, i volontari hanno lasciato i dispositivi a registrare su davanzali, balconi o in giardini, inviando successivamente le registrazioni per le analisi. Sono stati testati 35 modelli di smartphone e tablet, ognuno dei quali ha dimostrato di poter registrare chirotteri.

Pipistrello nano (Pipistrellus pipistrellus) rifugiato in una cavità rocciosa
Pipistrello nano (Pipistrellus pipistrellus) rifugiato in una cavità rocciosa

Una delle considerazioni più interessanti che è emersa dallo studio è che le specie registrabili dai dispositivi mobili sono anche quelle più comunemente presenti nelle aree urbane, come i generi PipistrellusHypsugo e Tadarida, oltre a specie più legate agli ambienti forestali, come le nottole (genere Nyctalus), che molto spesso vengono comunque registrate di passaggio sopra le città. Ciò offre l’opportunità di monitorare la chirotterofauna urbana, soprattutto considerando la natura partecipativa del metodo. Con un’organizzazione adeguata, sarebbe dunque possibile monitorare i chirotteri urbani interamente su base volontaria e senza costi di strumentazione, offrendo ampie possibilità applicative in Europa e nel mondo.

Nonostante i risultati siano promettenti, il metodo presenta ancora alcune sfide. Ad esempio, la disponibilità di app specifiche per la registrazione varia tra i dispositivi Android e iOS. Su Android, l’app Bat Recorder (inizialmente sviluppata per funzionare in associazione a un microfono ultrasonico USB) permette di impostare la modalità di registrazione automatica, attivata cioè dalla rilevazione di segnali potenzialmente emessi da chirotteri, risparmiando spazio di archiviazione e semplificando l’analisi acustica. Questa app non è però disponibile per iOS, che al momento richiede registrazioni continue, più onerose da analizzare.

Un’altra sfida è la variabilità nell’efficacia dei dispositivi, con differenze significative sia tra brand diversi sia tra modelli dello stesso brand. In un progetto di citizen science basato sull’applicazione di questo metodo, i volontari dovrebbero quindi testare la sensibilità del proprio dispositivo per garantire la comparabilità dei dati raccolti. Tuttavia, incorporando i dispositivi mobili nei programmi di monitoraggio già esistenti o creando nuovi programmi dedicati, si potrebbe non solo facilitare la raccolta di dati a costi ridotti, ma anche aumentare la consapevolezza e la conoscenza dei chirotteri presso il pubblico.

Registrazione dei segnali a bassa frequenza dei chirotteri utilizzando uno smartphone
Per registrare i segnali dei pipistrelli è sufficiente uno smartphone. Registrazione dei segnali a bassa frequenza dei chirotteri utilizzando uno smartphone

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

ALLA SCOPERTA DELLA BALENOTTERA AZZURRA, E IN PARTICOLARE SULLE OSSA UDITIVE, PER COMPRENDERE LO SVILUPPO DELLE POPOLAZIONI MARINE

Una ricerca in collaborazione con l’Università di Torino indaga sull’origine del più grande animale vivente, il cui ruolo è fondamentale per la salvaguardia degli ecosistemi oceanici

L’origine della balenottera azzurra, il più grande animale vivente sul nostro pianeta, rappresenta un problema ancora irrisolto. Questa particolare specie, che può superare i 30 m di lunghezza e le 70 tonnellate di peso, ha la capacità di organizzare e strutturare le catene alimentari oceaniche. Grazie ai fanoni, una sorta di filtro con cui questi animali estraggono grandi quantità di invertebrati dall’enorme mole d’acqua che entra nella loro bocca, migliaia di prede vengono catturate e ingurgitate. I prodotti della digestione vengono poi immessi nell’acqua sotto forma di feci ricche di minerali in grado di stimolare la crescita del plancton marino. In questo modo riescono a coordinare, sia pure involontariamente, lo sviluppo delle popolazioni marine, da cui dipende gran parte della vita negli oceani.

Per comprendere l’origine della balenottera azzurra il Dott. Michelangelo Bisconti e il Prof. Giorgio Carnevale del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Torino, insieme a un team internazionale di ricercatori, hanno concentrato i propri sforzi sullo studio di un particolare distretto scheletrico di questo animale: le ossa uditive. Nei cetacei infatti le ossa uditive comprendono due grandi elementi chiamati periotico e bulla timpanica, nei quali si trovano gli organi dell’udito e un certo numero di nervi che possono fornire informazioni circa i rapporti evolutivi che intercorrono tra specie diverse.

scheletro della balenottera azzurra di Bruxelles. Crediti per la foto: Olivier Lambert
scheletro della balenottera azzurra di Bruxelles. Crediti per la foto: Olivier Lambert

L’anatomia e le caratteristiche dello scheletro pongono questa specie tra le più primitive balenottere viventi. Le ossa uditive di uno scheletro di balenottera azzurra conservata a Bruxelles dalla seconda metà del XIX secolo sono state sottoposte a scansione 3D e a TAC rivelando dettagli mai osservati prima, permettendo la ricostruzione della morfologia degli organi dell’udito che si trovano all’interno del periotico. La modellizzazione 3D ha consentito la determinazione delle frequenze che questo animale può udire. I risultati sono stati confrontati con dati simili provenienti da altri studi e basati su specie differenti contribuendo così ad una analisi dei rapporti evolutivi della balenottera azzurra.

Con questo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale The Anatomical Record, si conferma lo status di primitività della balenottera azzurra e si suggerisce una particolare affinità con la balenottera comune che abita anche il Mediterraneo. Inoltre, lo studio dettagliato del periotico ha rivelato che in questa specie esistono caratteristiche peculiari mai osservate prima, che permettono l’identificazione di specie strettamente imparentate con essa nella documentazione fossile.

“Capire l’origine della balenottera azzurra – dichiara il Dott. Bisconti – significa comprendere in che modo il meccanismo di gestione della colonna alimentare oceanica si sia posto in essere nel corso degli ultimi milioni di anni. A partire da questi risultati è forte la speranza di poter ricostruire il percorso evolutivo che ha condotto all’origine del più gigante degli animali e alla strutturazione delle catene alimentari oceaniche, rimaste in auge fino a quando la caccia ai grandi cetacei non le ha radicalmente alterate”.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

UNITO INAUGURA LA BIOBANCA DI NEUROSCIENZE “DAVIDE SCHIFFER”

Raccoglierà campioni biologici (sangue, DNA, liquor, cellule, tessuti) da mettere a disposizione dei ricercatori per favorire nuove conoscenze e individuare nuove terapie

 

Oggi, lunedì 19 febbraio, il Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi Montalcini” dell’Università di Torino – due volte Dipartimento di Eccellenza (2018-2022, 2023-2027) – ha inaugurato, in via Cherasco 15 (Torino), la Biobanca intitolata a Davide Schiffer (1928-2020), neurologo torinese di fama internazionale.

L’inaugurazione, alle ore 13, è avvenuta alla presenza del Prof. Alessandro Vercelli, Vice-Rettore alla ricerca e delegato del Rettore, del prof. Alessandro Mauro, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi Montalcini”, del prof. Adriano Chiò, Responsabile scientifico della Biobanca, e dei familiari del prof. Schiffer, insieme ai quali è stata scoperta la targa di intitolazione.

La Biobanca di Neuroscienze “Davide Schiffer” raccoglierà campioni biologici (sangue, DNA, liquor, cellule, tessuti) per metterli a disposizione dei ricercatori, al fine di favorire nuove conoscenze e individuare nuove terapie, operando in un ambito particolarmente delicato, quello sanitario, dove è necessario implementare precise procedure e criteri di qualità a livello di strutture, processi e personale, volti a garantire i diritti delle persone coinvolte e della collettività.

La struttura si trova al primo piano di via Cherasco, sede del Dipartimento, ed è dotata di tre sezioni dedicate rispettivamente alla preparativa e gestione del campione, allo stoccaggio (camera fredda) e al trattamento tessuti e conservazione della cerebroteca storica.

Una biobanca è una unità di servizio finalizzata alla raccolta organizzata, processazione, conservazione e distribuzione di campioni biologici e di dati correlati, per finalità di ricerca e di diagnosi. Rappresenta uno strumento strategico per favorire lo sviluppo di nuove terapie e la comprensione delle malattie, contribuendo alla tutela della salute pubblica.

 

lo scoprimento della targa con il Prof. Alessandro Mauro e Isabella Schiffer
lo scoprimento della targa con il Prof. Alessandro Mauro e Isabella Schiffer

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Un gruppo di ricercatrici e ricercatori dell’Università di Torino sta studiando il canto del pinguino africano per salvarlo dall’estinzione 

‘Salviamo il Pinguino Africano’ è il progetto di crowdfunding cofinanziato dall’Università di Torino per tutelare una specie di pinguino la cui popolazione ha subito un declino del 98% rispetto all’era preindustriale. Oltre 100 persone hanno già aderito alla campagna.

Francesca Terranova, Anna Zanoli e Livio Favaro
Francesca Terranova, Anna Zanoli e Livio Favaro

Livio FavaroFrancesca Terranova e Anna Zanoli fanno parte del team di biologi marini dell’Università di Torino che da anni si sta dedicando allo studio del pinguino africano, una specie che abita le coste del Sudafrica e della Namibia.

“Il pinguino africano è noto anche come pinguino asino per il suo vocalizzo molto particolare, che ricorda un raglio. Ma al di là dell’elemento di curiosità, proprio sullo studio e il monitoraggio del canto di questi animali si fonda il progetto di ricerca e tutela che da anni portiamo avanti in collaborazione con le autorità del Sudafrica” ha dichiarato Livio Favaro.

Da Torino a Stony Point, Sudafrica

Come ha dichiarato Francesca Terranova anche in occasione del suo intervento alla trasmissione Animal House di Radio Deejay

“Spesso la nostra squadra si reca a Stony Point, in Sudafrica, dove vive una colonia di circa 1.000 coppie di pinguini, con l’obiettivo di studiarli da vicino ma senza essere invasivi dei loro spazi. Trovarsi nel territorio della colonia, alle quattro del mattino, è un’esperienza unica. La voce di ogni pinguino è unica e studiarla, insieme a quella di tutti gli altri componenti della colonia, ci permette di monitorare l’andamento demografico della colonia o ricercare la presenza di patologie ha concluso Francesca Terranova.

Il supporto della comunità per ridurre il rischio di estinzione del Pinguino Africano

“Le attività dell’uomo hanno messo in pericolo la sopravvivenza di questa specie di pinguino” ha dichiarato Anna Zanoli che ha poi aggiunto “a causa della pesca intensiva e dell’antropizzazione degli ambienti in cui solitamente vivono i suoi esemplari”. “Noi cerchiamo di monitorare lo stato di salute della specie studiandone le colonie. Per farlo in modo efficace e non invasivo per i pinguini servono attrezzature tecniche e uno staff in loco che possa portare avanti il lavoro con costanza”.

“Per proseguire e rilanciare il nostro lavoro abbiamo lanciato la campagna di crowdfunding Salviamo il Pinguino Africano’con l’obiettivo di acquistare attrezzatura tecnica e finanziare per un anno lo stipendio di un ranger in Sudafrica. Finora la risposta della comunità è stata straordinaria, ma abbiamo ancora bisogno del supporto di tutti per acquistare ulteriore attrezzatura. Aiutateci con una donazione” è stato l’appello di Livio Favaro.

Copertina Salviamo il Pinguino Africano canto pinguini africani
Un gruppo di ricercatrici e ricercatori dell’Università di Torino sta studiando il canto del pinguino africano per salvarlo dall’estinzione

Sostenere il progetto ‘Salviamo il Pinguino Africano’ è semplice, sul link https://www.ideaginger.it/progetti/salviamo-il-pinguino-africano.html è possibile donare in pochi click tramite PayPal, bonifico bancario o carta di credito. Tra le ricompense per i sostenitori anche la possibilità di adottare a distanza un pinguino e ricevere aggiornamenti sul suo stato di salute.

“Il crowdfunding ci sta aiutando a raccogliere fondi certamente, ma anche a sensibilizzare la comunità. Tante persone che ci hanno sostenuto prima di questa occasione non conoscevano nemmeno dell’esistenza del pinguino africano. Sapere che ora ci sono già oltre 100 donatori che hanno preso coscienza della necessità di salvaguardare questa specie credo rappresenti appieno uno degli obiettivi di ogni ricercatore, quello di divulgare anche ai non tecnici il proprio lavoro” ha concluso Livio Favaro.

Il supporto dell’Università di Torino con Funds TOgether l’Università 

L’Università di Torino ha selezionato Salviamo il Pinguino Africano nell’ambito dell’iniziativa Funds TOgether, sviluppata insieme a Ginger Crowdfunding, che gestisce Ideaginger.it, la piattaforma con il tasso di successo più alto in Italia, con l’obiettivo di aiutare le ricercatrici e i ricercatori ad acquisire le competenze per sviluppare campagne di crowdfunding efficaci e sostenerle economicamente. L’Università di Torino, infatti, raddoppierà i fondi raccolti tramite crowdfunding fino a 10.000 euro.

Il valore del crowdfunding per la ricerca scientifica

“L’Università di Torino”, ha dichiarato Alessandro Zennaro, Vice-Rettore per la valorizzazione del patrimonio umano e culturale in Ateneo, “probabilmente più di qualsiasi altro ateneo, in questa fase storica, ha intrapreso un’azione organizzata di valorizzazione della conoscenza e di divulgazione scientifica, assumendo anche posizioni apicali nella rete degli atenei italiani per il Public Engagement (ApeNet). L’iniziativa di crowdfunding costituisce un’ulteriore opportunità per avvicinare la ricerca scientifica alla comunità territoriale e nazionale, illustrandone gli obiettivi, facendo conoscere le ricercatrici ed i ricercatori coinvolti, stimolando la curiosità e soprattutto dimostrando che, spesso, i prodotti della ricerca hanno ricadute immediate sulla vita di tutti noi, quotidianamente. Salviamo il Pinguino Africano è un progetto importante che coniuga in maniera esemplare la ricerca, la collaborazione internazionale e l’innovazione. Per questo merita di essere sostenuto”.

“Questa campagna è un’occasione anche per lo staff dell’Università di Torino di confrontarsi con le opportunità del fundraising e della finanza alternativa per la ricerca e l’innovazione,” ha aggiunto Elisa Rosso, Direttrice della Direzione Innovazione e Internazionalizzazione dell’Università di Torino, che ha poi aggiunto “Per esempio stiamo contattando e ricercando partner istituzionali e aziendali interessati a supportare il progetto. Promuovere il crowdfunding è un’occasione per raccontare il valore della ricerca scientifica e sensibilizzare la comunità sul lavoro svolto in ateneo, che in questo caso permetterà di proseguire una preziosa attività di ricerca etologica sul campo”.

Funds TOgether è il programma di finanza alternativa per la ricerca e l’innovazione sviluppato dall’Università di Torino insieme a Ginger Crowdfunding. L’Obiettivo è fornire a ricercatori e ricercatrici dell’ateneo le competenze per progettare e promuovere una campagna di crowdfunding, acquisire nuove risorse e avvicinare la comunità universitaria alla società civile attraverso progetti a forte impatto sociale e ambientale.

 

 

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

A TORINO LA PRIMA CAMERA IMMERSIVA INTERATTIVA PER LA FORMAZIONE DI STUDENTI, MEDICI E PROFESSIONISTI SANITARI

La nuova Immersive Interactive Room è un luogo dove tecnologia, creatività e innovazione didattica creano un ambiente multisensoriale senza precedenti con l’obiettivo di migliorare la formazione di studenti e operatori sanitari, aumentare la sicurezza in ambito sanitario e abbattere il rischio clinico. 

Oggi, venerdì 9 febbraio 2024, alle ore 10.30, nell’Aula Magna del Polo Didattico del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche situata presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria San Luigi Gonzaga di Orbassano, si è tenuta l’inaugurazione della nuova Immersive Interactive Room del Centro di Simulazione Medica Avanzata. Sono intervenuti Stefano Geuna, Rettore Università di TorinoDavid Lembo, Presidente del Corso di Laurea in Medicine and Surgery, Massimo Terzolo, Direttore del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche e Davide Minniti, Direttore Generale AOU San Luigi Gonzaga di Orbassano.

Un soccorso sanitario in alta montagna, un intervento d’emergenza immediatamente al di fuori delle mura dell’ospedale e un’attività chirurgica in sala operatoria: sono solo alcuni degli scenari riproducibili nella nuova camera immersiva del Polo Universitario del San Luigi. Un ambiente di simulazione avanzata in grado di trasformare lo spazio in un’altra realtà, reale o immaginaria, con cui si può interagire grazie a speciali proiettori laser che trasformano le sue pareti in schermi touch interattivi.

A Torino la prima camera immersiva interattiva per la formazione di studenti, medici e professionisti sanitari. Gallery

Tecnologie come Rumble Floor per generare vibrazioni nel pavimento, erogatori di oltre 400 odori diversi e di fumi, simulatori di eventi atmosferici come il vento, e un raffinato sistema sonoro che permette di riprodurre rumori ambientali, per la prima volta utilizzate in una sala immersiva, potenziano ulteriormente la sensazione di essere davvero sulla scena e stimolano a mobilitare tutte le risorse intellettive, emotive e sensoriali, necessarie ad affrontare situazioni complesse, ad elevato rischio per il paziente e spesso pericolose per lo stesso medico o infermiere.

La simulazione nella formazione medico-scientifica è riconosciuta come strumento fondamentale per la riduzione del rischio clinico, la probabilità cioè che si verifichino eventi avversi durante un intervento chirurgico, e per la massimizzazione della sicurezza di pazienti e professionisti sanitari. Proprio per questo, la nuova camera immersiva nasce come strumento di formazione di studenti e studentesse del Corso di Laurea in Medicine and Surgery dell’Università di Torino e, per la prima volta, si tratta di una tecnologia messa a disposizione anche di medici e infermieri che lavorano in ospedale.

Il Centro di Simulazione Medica Avanzata del Polo Universitario San Luigi Gonzaga. Gallery

Tutti i principali spazi dedicati all’attività sanitaria dell’Ospedale San Luigi Gonzaga, come sale operatorie e ambulatori, saranno mappati per essere riprodotti nella camera, in cui studenti, medici e infermieri potranno simulare l’attività che si troveranno poi ad affrontare concretamente nella realtà. Problemi, passaggi critici ed errori possibili, saranno trasformati in argomento di discussione con colleghi e colleghe, con lo scopo di poter reagire più efficacemente nella realtà quotidiana e migliorare e rafforzare le proprie competenze.

La Camera Immersiva Interattiva offre la possibilità di ricostruire percorsi diagnostici e terapeutici, comprendere meglio i processi fisiologici che costituiscono le basi del funzionamento del nostro corpo, capire come i farmaci agiscono nell’organismo e realizzare delle vere e proprie escape room che hanno la capacità di mettere alla prova e migliorare le capacità di analisi e decisione di professionisti sanitari e futuri medici.

La nuova Immersive Interactive Room” ha dichiarato il Rettore Stefano Geuna “permetterà a studenti, medici e professionisti sanitari di confrontarsi con situazioni mediche delicate in ambienti clinici diversi realizzati in scenari didattici immersivi e realistici. L’inaugurazione di oggi rappresenta un’ulteriore tappa a favore della formazione universitaria in ambito medico rivolta alla salute delle persone perché consentirà di abbattere il rischio clinico ponendo come obiettivo primario la sicurezza di pazienti e operatori sanitari. L’Università di Torino conferma ancora una volta la sua forte vocazione all’innovazione della didattica e risponde alle aspettative ed esigenze di tutti gli attori coinvolti nel processo formativo in ambito sanitario: studenti, docenti, professionisti sanitari e cittadinanza”.

Dall’orientamento scolastico all’ospedale passando per la didattica universitaria, la nuova Camera immersiva è uno strumento molto efficace di formazione” sottolinea David Lembo, Presidente del Corso di Laurea in Medicine and Surgery. “Realizzata grazie al progetto di eccellenza del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, la camera immersiva è un luogo dove didattica innovativa, ricerca e formazione continua si alimentano a vicenda per permettere agli studenti e al personale sanitario di esercitarsi in un ambiente protetto, ma realistico, che consente loro non solo di acquisire competenze ma anche di commettere errori in sicurezza, analizzarli e quindi perfezionare le abilità pratiche e relazionali a beneficio dei pazienti”.

“È un’occasione straordinaria, per il personale sanitario del nostro ospedale – commenta Davide Minniti, Direttore generale dell’AOU San Luigi Gonzaga – avere a disposizione uno strumento tecnologicamente così avanzato, che è anche veicolo di una sinergia fra Università e ospedale sempre più concreta. Siamo felici di mettere a disposizione di questo progetto risorse professionali particolarmente qualificate, a vantaggio di una crescente qualità dell’offerta della sanità pubblica regionale, in termini di competenza professionale e di sicurezza per i pazienti”.

La Camera Immersiva Interattiva è stata allestita dalla azienda leader mondiale in questo campo, la britannica Gener8, e si tratta del modello più avanzato d’Europa e uno dei più completi e accessoriati del mondo. È collocata presso il Centro di Simulazione Medica Avanzata del Polo Didattico dell’Università di Torino dell’AOU San Luigi di Orbassano realizzato con il contributo della Compagnia San Paolo, uno spazio di circa 240 metri quadri pienamente inseriti nel Centro Didattico universitario. Il Centro è dotato di sistemi di simulazione di eccellenza, di manichini ad alta complessità tecnologica che ricreano il paziente adulto e pediatrico e dei più innovativi sistemi multimedialiTre aule mettono a disposizione di studenti e specializzandi numerosi simulatori ad alta fedeltà, tra i quali simulatori virtuali per artroscopia e per laparoscopia di ultima generazione che consentono l’acquisizione e il perfezionamento di tecniche chirurgiche mini-invasive. Una sala di simulazione, allestita come un reparto di area critica e attrezzata con i più evoluti manichini presenti in commercio, permette ai discenti di eseguire procedure mediche simulate in alta fedeltà, gestite e monitorate da una cabina di regia collegata da vetri unidirezionali e da telecamere e sistemi audio ambientali. Infine, un’aula di riunione plenaria permette la pianificazione e poi la revisione delle attività svolte in simulazione.

Il Centro ospita anche il più avanzato tavolo anatomico per la dissezione virtuale del corpo umano, già utilizzato da molte tra le più importanti scuole ed istituzioni al mondo. Questo strumento consente di visualizzare l’anatomia esattamente come se si trattasse di un cadavere reale con il vantaggio di un’esperienza interattiva in touch-screen che permette un livello di esplorazione e di apprendimento dell’anatomia umana superiore a quello offerto da qualsiasi altro sistema tradizionale disponibile.

Il Centro di Simulazione Medica Avanzata può contare su un team di 6 istruttori espertimedici e infermieri e organizza corsi di alta professionalità, formando sempre nuovo personale che ottiene qui il titolo di Istruttore.

 

 

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

MATEMATICA SENZA BARRIERE: RAGGIUNTO L’OBIETTIVO DI REALIZZARE IL SOFTWARE SPEECHMATE
INNOVAZIONE E INCLUSIONE:
RICERCATORI E RICERCATRICI UNITO RENDONO ACCESSIBILE LO STUDIO DELLE MATERIE STEM CON L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

La campagna di crowdfunding “MatematIcA senza barriere” ha già raggiunto l’obiettivo per la realizzazione di SpeechMatE, un software che permetterà a persone con disabilità agli arti superiori di scrivere e manipolare formule matematiche.

SpeechMatE MatematIcA senza barriere 

“Studiare discipline scientifiche in autonomia è complesso per le persone che hanno una disabilità agli arti superiori o non possono utilizzare le mani”

ha dichiarato Sandro Coriasco, Professore associato del Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino e responsabile della campagna MatematIcA senza barriere insieme alle Dottoresse Tiziana Armano ed Erika Brunetto.

“Un esempio semplice, ma immediato: un software di dettatura standard produrrebbe, dalla lettura della formula “x+3”, il testo “ics più tre”. Inoltre, non è possibile correggere errori e fare modifiche tramite comandi vocali. Queste limitazioni incidono sulla possibilità di accedere allo studio delle materie STEM”

ha proseguito Sandro Coriasco. Dalla volontà di trovare una soluzione per rispondere a questa sfida è nata la campagna di crowdfunding MatematIcA senza barriere sulla piattaforma Ideaginger.it.

La squadra di lavoro SpeechMatE MatematIcA senza barriere 
La squadra di lavoro

Le potenzialità offerte dall’intelligenza artificiale

“È dal 2019 che ci dedichiamo al progetto SpeechMatE. Lo stimolo ce lo ha dato uno studente dell’Università, Jan Berger, diventato tetraplegico a causa di un incidente. Jan ha contattato il Laboratorio Polin, che è parte del Dipartimento di Matematica e, sotto la guida della Prof.ssa Anna Capietto, promuove le nuove tecnologie per l’accesso agli studi da parte di giovani con disabilità. Jan ci ha chiesto quale software utilizzare per scrivere e risolvere le formule, ma alla sua domanda purtroppo non abbiamo trovato una risposta efficace e così abbiamo deciso di svilupparla internamente” ha aggiunto Tiziana Armano.

È nata così la prima versione di SpeechMatE, ma ora, grazie ai modelli di intelligenza artificiale, è possibile ambire a sviluppare uno strumento infinitamente più potente, che permetterà studenti e studentesse con disabilità di dettare, manipolare e navigare all’interno delle formule matematiche in autonomia, utilizzando come comando solamente la loro voce e superando le limitazioni dei sistemi attuali.

“Si tratta di un progetto di grossa portata e molto complesso. Servono competenze da diversi settori della ricerca scientifica contemporanea: didattica della matematica, sviluppo del software, Natural Language Processing, Human-Computer Interaction, Large Language Models. La realizzazione del progetto coinvolge un team di oltre dieci ricercatrici e ricercatori attivi in questi ambiti” ha proseguito Erika Brunetto.

 

La risposta della comunità 

In poche settimane MatematIcA senza barriere ha raggiunto e superato il suo primo obiettivo e ora conta già sul sostegno di oltre 190 donatori.

“Quando abbiamo iniziato a preparare la campagna di raccolta fondi eravamo fortemente motivati e fiduciosi, ma sinceramente non pensavamo che saremmo riusciti a raccogliere oltre il 200% del nostro obiettivo. Grazie al crowdfunding, stiamo costruendo attorno al progetto una rete ampia di sostenitori, alleati e partner, che, oltre al supporto economico, ci aiutano a far conoscere e crescere il nostro lavoro. La risposta della comunità è emozionante” ha aggiunto Sandro Coriasco.

“I fondi che stiamo raccogliendo ci permetteranno di attivare delle borse di ricerca, necessarie per sviluppare e testare il nuovo prototipo di SpeechMatE, che utilizzi i Large Language Models, gli stessi che fanno funzionare ChatGPT, per interpretare correttamente le indicazioni vocali necessarie a scrivere e manipolare una formula. Inoltre, grazie a questo strepitoso risultato, potremo immediatamente avviare le fasi successive del progetto, per realizzare una versione del software utilizzabile dagli studenti. Continuate a sostenerci, abbiamo ancora bisogno dell’aiuto di tutti!” ha concluso Sandro Coriasco.

Sostenere il progetto MatematIcA senza barriere è semplice, sul link https://www.ideaginger.it/progetti/matematica-senza-barriere.html è possibile donare in pochi click tramite PayPal, bonifico bancario o carta di credito.

 

Il valore del crowdfunding per la ricerca scientifica

“L’Università di Torino”, ha dichiarato Alessandro Zennaro, Vice-Rettore per la valorizzazione del patrimonio umano e culturale in Ateneo, “probabilmente più di qualsiasi altro ateneo, in questa fase storica, ha intrapreso un’azione organizzata di valorizzazione della conoscenza e di divulgazione scientifica, assumendo anche posizioni apicali nella rete degli atenei italiani per il Public Engagement (ApeNet). L’iniziativa di crowdfunding costituisce un’ulteriore opportunità per avvicinare la ricerca scientifica alla comunità territoriale e nazionale, illustrandone gli obiettivi, facendo conoscere le ricercatrici ed i ricercatori coinvolti, stimolando la curiosità e soprattutto dimostrando che, spesso, i prodotti della ricerca hanno ricadute immediate sulla vita di tutti noi, quotidianamente. MatematIcA senza barriere è un progetto importante che coniuga in maniera esemplare innovazione tecnologica, accessibilità e diritto allo studio[1] . Per questo merita di essere sostenuto”.

“Questa campagna è un’occasione anche per lo staff dell’Università di Torino di confrontarsi con le opportunità del fundraising e della finanza alternativa per la ricerca e l’innovazione,” ha aggiunto Elisa Rosso, Direttrice della Direzione Innovazione e Internazionalizzazione dell’Università di Torino, che ha poi aggiunto “Per esempio stiamo contattando e ricercando partner istituzionali e aziendali interessati a supportare il progetto. Promuovere il crowdfunding è un’occasione per raccontare il valore della ricerca scientifica e sensibilizzare la comunità sul lavoro svolto in ateneo, che in questo caso permetterà di ampliare le opportunità didattiche con l’utilizzo di una tecnologia innovativa[2] ”.

 

Funds TOgether è il programma di finanza alternativa per la ricerca e l’innovazione sviluppato dall’Università di Torino insieme a Ginger Crowdfunding. Obiettivo è fornire ai ricercatori e alle ricercatrici dell’ateneo le competenze per progettare e promuovere una campagna di crowdfunding, acquisire nuove risorse e avvicinare la comunità universitaria alla società civile attraverso progetti a forte impatto sociale e ambientale.

 

Testo, video e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

COL NUOVO METODO CEST-MRI, INDAGARE I TUMORI CON UN METODO RIVOLUZIONARIO BASATO SULLA RISONANZA MAGNETICA PER IMMAGINI E SULLO STUDIO DEL MOVIMENTO DELL’ACQUA

I risultati del lavoro, realizzato dai ricercatori dell’Ateneo di Torino e pubblicato su Angewandte Chemie Int. Ed., fanno ben sperare per una rapida applicazione clinica di questo nuovo metodo che, spingendosi a visualizzare dettagli funzionali delle cellule tumorali, rappresenta una svolta nella comprensione e nel trattamento dei tumori.

Un team di ricercatori dell’Università di Torino, guidati dai Proff. Giuseppe Ferrauto e Silvio Aime, ha sviluppato un metodo basato sulla risonanza magnetica per immagini (RMI) che va oltre le tradizionali tecniche di imaging, consentendo una valutazione più accurata della malignità dei tumori e dell’efficacia dei trattamenti. Si tratta di un nuovo approccio che promette di cambiare il modo in cui osserviamo i tumori per capirne l’aggressività, a testimonianza del fatto che la scienza avanza di pari passo con la tecnologia.

Capire la complessità dei tumori è fondamentale, poiché ogni tipo di tumore può rispondere in modo diverso ai trattamenti. La chiave per un trattamento mirato ed efficace è localizzare con precisione il tumore e determinare il grado di malignità. La risonanza magnetica (MRI) è un potente strumento che fornisce immagini altamente dettagliate dei tessuti interni del corpo umano, con un’elevata accuratezza e senza rischi per il paziente. Il nuovo metodo sviluppato a Torino va però ben oltre, spingendosi a visualizzare dettagli funzionali delle cellule tumorali.

 

Le novità del nuovo metodo CEST-MRI

Durante una sessione di risonanza magnetica, il paziente si trova all’interno di un “tubo” dove è presente un forte campo magnetico. Mediante l’irradiazione con onde radio, assolutamente non dannose per il corpo umano, gli atomi di idrogeno dell’acqua presente nei tessuti nel corpo vengono “magnetizzati”. Questo processo fornisce immagini tridimensionali dei tessuti, con una estrema risoluzione spaziale. Spesso, al fine di migliorare la capacità diagnostica della tecnica, ai pazienti vengono iniettati, nei vasi sanguigni, agenti di contrasto a base di gadolinio. Tali molecole, escono dai vasi del tumore e si concentrano nello spazio extracellulare, migliorando la definizione delle immagini e facilitando la localizzazione del tumore.

Il team italiano è leader mondiale di una particolare tecnica di RMI chiamata CEST (Chemical Exchange Saturation Transfer), una sorta di “trucco” che sfrutta lo scambio di protoni tra l’acqua e altre molecole al fine di aumentare la sensibilità della risonanza magnetica e di ottenere importanti informazioni sull’ambiente chimico.

Nel lavoro recentemente pubblicato su Angewandte Chemie Int. Ed., una delle più prestigiose e storiche riviste in ambito chimico, la Dott.ssa Enza Di Gregorio, ricercatrice di UniTo, ha mostrato come utilizzare questa metodologia per “osservare” molecole presenti all’interno delle cellule tumorali, come la creatina. Ma la vera innovazione e potenzialità del metodo sviluppato è stata quella di utilizzare queste molecole come “spie” interne alla cellula, per verificare cosa succede nella cellula tumorale. In questa maniera, si riescono ad avere informazioni più dettagliate sulle cellule tumorali e si è trovato un metodo per studiare, tramite la risonanza magnetica, il potenziale aggressivo del tumore.

Obiettivi e prospettive

Le cellule tumorali sono metabolicamente più attive delle cellule sane e hanno diverse proteine e canali di trasporto nella loro membrana. Tramite questi canali e questi trasportatori, la cellula tumorale è in grado di recuperare le sostanze nutritive di cui ha bisogno (zuccheri, amminoacidi etc.) e di espellere i prodotti del metabolismo cellulare. Attraverso questo sistema di trasporto passa anche l’acqua. L’acqua fluisce quindi massicciamente attraverso la membrana cellulare, in quantità che rispondono al metabolismo cellulare. Più la cellula tumorale è attiva (e aggressiva) maggiore è la quantità di acqua che attraversa la membrana.

Usando il metodo CEST sopra riportato, i ricercatori hanno osservato cambiamenti nelle immagini RMI dopo l’aggiunta del mezzo di contrasto a base di gadolinio. Questi cambiamenti riflettono la permeabilità della membrana cellulare del tumore all’acqua, fornendo informazioni cruciali sulla sua aggressività. Il team ha testato con successo il metodo su modelli murini di tumore al seno, e i risultati sono promettenti. Oltre a rivelare dettagli sulla malignità, il metodo si è dimostrato molto importante nel permettere di valutare l’efficacia di una terapia farmacologica. I ricercatori hanno infatti dimostrato come il farmaco chemioterapico Doxorubicina abbia ridotto immediatamente la permeabilità all’acqua, indicando una risposta positiva al trattamento.

Il maggiore punto di forza del metodo sviluppato, che fa ben sperare per una rapida applicazione clinica, è il fatto di utilizzare strumenti di RMI e mezzi di contrasto a base di gadolinio già presenti e utilizzati nella pratica diagnostica clinica. Si richiederà quindi al paziente, durante il normale protocollo diagnostico RMI, di “pazientare” altri 3-4 minuti per un’ulteriore analisi, che però fornirà al medico importanti ulteriori informazioni diagnostiche. Considerando ciò è nato l’interesse da parte dell’IRCCS SDN Synlab di Napoli, guidata dal Prof. Marco Salvatore, di proporre ai pazienti il metodo.

Cooperazione e interdisciplinarietà

Come in moltissimi approcci scientifici moderni, l’interdisciplinarietà è il punto di forza. Questo lavoro è stato reso possibile grazie alla collaborazione di biotecnologi e chimici esperti di imaging molecolare e oncologia sperimentale, medici radiologi, immunologi esperti di oncologia e sviluppo di modelli murini, fisici esperti di analisi di immagini. Solo mettendo insieme esperienze e conoscenza diverse, la scienza può significativamente contribuire allo studio di nuovi approcci per la diagnosi avanzata e il trattamento di malattie complesse, come i tumori.

Questo nuovo approccio alla risonanza magnetica potrebbe rappresentare una svolta nella nostra comprensione e nel trattamento dei tumori. Siamo entusiasti di vedere come questa tecnologia si evolverà e come potrà essere utilizzata per migliorare la vita di coloro che combattono contro il cancro. La ricerca continua, e con essa la speranza di un futuro più luminoso nella lotta contro questa malattia”, spiega il team che ha guidato lo studio.

causa rischio metastasi tumore al seno
Col nuovo metodo CEST-MRI, sarà possibile una valutazione più accurata della malignità dei tumori e dell’efficacia dei trattamenti. Foto di StockSnap

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino sul nuovo metodo CEST-MRI.

Perché alcuni tumori al colon-retto non rispondono alla chemioterapia?

La risposta potrebbe arrivare dal microbiota intestinale

In uno studio tutto italiano, frutto di una collaborazione tra Università di Torino e IFOM, un gruppo di ricercatori ha studiato il ruolo di alcuni batteri intestinali nel promuovere la resistenza alle terapie nel tumore del colon. Con cellule in coltura in due e tre dimensioni, ottenute sia da linee cellulari sia da campioni di pazienti, i ricercatori hanno scoperto che una particolare tossina batterica, chiamata colibactina e presente in alcuni tumori intestinali, è in grado di addestrare il cancro a resistere alle cure. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica internazionale Cell Reports Medicine. Lo studio è stato sostenuto da Fondazione AIRC e da un grant ERC dell’Unione Europea.

 

Milano, 22 gennaio 2024 – La chemioterapia rappresenta ancora oggi un’arma fondamentale nella terapia dei tumori, specialmente di quelli intestinali. Sono disponibili in clinica numerosi farmaci, alcuni dei quali condividono il meccanismo comune di danneggiare il DNA delle cellule tumorali, sgretolandolo pezzo dopo pezzo, finché il tumore rimane senza “istruzioni” e regredisce. Si tratta però di farmaci che possono colpire anche le cellule normali, causando effetti collaterali che possono precludere la prosecuzione del trattamento. Inoltre non tutti tumori intestinali rispondono fin dall’inizio allo stesso farmaco. Ottimizzare, dunque, la scelta terapeutica per massimizzare il beneficio clinico e ridurre la tossicità collaterale è fondamentale. Attualmente, però, non esistono ancora criteri univoci per scegliere la chemioterapia più adatta a ogni paziente.

Un gruppo di ricercatori attivi in Italia, uniti da una collaborazione tra IFOM e il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, ha trovato una nuova strategia per selezionare il trattamento più idoneo ai pazienti con cancro del colon-retto, adottando un cambio di prospettiva innovativo. Anziché concentrarsi solo sul tumore per predire la possibile risposta alla chemioterapia, i ricercatori hanno studiato ciò che lo circonda, tra cui l’insieme dei batteri che popolano l’intestino: il cosiddetto microbiota. Lo studio, svolto grazie al sostegno di Fondazione AIRC e di un grant ERC dell’Unione Europea, è stato coordinato dal professor Alberto Bardelli, Direttore Scientifico di IFOM e Professore Ordinario dell’Università di Torino. I risultati sono stati pubblicati sull’autorevole rivista scientifica Cell Reports Medicine.

“Il microbiota rappresenta un incredibile insieme di microrganismi che dimorano nell’intestino” spiega il professor Bardelli. “Se ognuno di essi fosse una stella, il microbiota sarebbe grande cento volte la Via Lattea. Il microbiota svolge molte funzioni importanti e positive per il nostro organismo, ma ci sono alcuni batteri che promuovono lo sviluppo del cancro. In particolare è noto che alcune specie di Escherichia coli e altri batteri intestinali siano in grado di produrre una specifica tossina, chiamata colibactina, che è stata trovata arricchita in una frazione di tumori colorettali. Questa tossina è in grado di provocare la trasformazione delle normali cellule intestinali in tumorali inducendo delle mutazioni, cioè delle alterazioni nella sequenza del loro DNA, la molecola che è anche il bersaglio dei chemioterapici usati comunemente in clinica. Ci siamo dunque chiesti se ci potesse essere una correlazione, cioè se l’esposizione alla tossina potesse influenzare il modo in cui i tumori rispondono ai trattamenti”.

“Abbiamo avuto l’idea di andare oltre lo studio delle sole cellule tumorali per capire come possano essere guidate dal micro-ambiente che le circonda” prosegue il dottor Alberto Sogari, ricercatore sostenuto da AIRC presso il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo. “Non è stato facile perché questo cambio di approccio ha richiesto l’ideazione di nuovi protocolli sperimentali. Con l’aiuto dei microbiologi del gruppo del professor David Lembo, del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell’Università di Torino, abbiamo coltivato in laboratorio cellule tumorali colorettali e batteri produttori di colibactina, simulando così quello che avviene nell’intestino. Abbiamo utilizzato sia linee cellulari sia i cosiddetti organoidi, ossia colture in tre dimensioni di cellule di pazienti con cui si cerca di approssimare la struttura tridimensionale dei tumori di origine. In questo modo abbiamo studiato l’impatto funzionale della colibactina sulle cellule, con tecnologie di sequenziamento e analisi bioinformatiche all’avanguardia. Abbiamo scoperto che la colibactina funziona come una sorta di “palestra per i tumori”: questa tossina allena infatti le cellule tumorali a sopportare un carico costante di mutazioni al DNA, abituandole. Così, quando si inizia il trattamento con un farmaco chemioterapico con un meccanismo simile molto usato in clinica, l’irinotecano, il tumore è già allenato. Avendo imparato a sopportare le mutazioni causate dalla colibactina, il cancro impara anche a tollerare il danno provocato dalla chemioterapia, diventando così resistente.”

Lo studio apre dunque nuove prospettive. I ricercatori hanno infatti osservato che anche tumori allenati dalla colibactina possono rispondere ad altri approcci chemioterapici che agiscono con un meccanismo diverso. La colibactina, quindi, può costituire la chiave per selezionare la strategia terapeutica adeguata a colpire questi tumori con maggiore efficacia.

“Nell’ambito della cosiddetta oncologia di precisione” conclude il professor Bardelli “è sempre più importante stratificare i pazienti per poter rendere i trattamenti il più possibile precisi e mirati. I nostri risultati mostrano quanto sia importante un approccio integrato a 360 gradi, che guardi sia al tumore sia a ciò che lo circonda. L’obiettivo è anche scoprire nuovi bio-marcatori, cioè nuovi criteri per selezionare i farmaci più adatti a ciascun tumore e ciascun paziente. Partendo dai nostri risultati pre-clinici, abbiamo così cominciato ad analizzare la presenza della colibactina in campioni clinici provenienti da pazienti dell’Ospedale Niguarda di Milano, in collaborazione con il Professor Siena e il Professor Sartore-Bianchi, per correlare l’eventuale presenza della tossina alla risposta clinica ai farmaci. Abbiamo già ottenuto dei primi risultati incoraggianti che confermano le ricadute traslazionali della nostra scoperta”. L’obiettivo dei ricercatori è adesso di validare questo approccio su coorti più grandi e rappresentative di pazienti di cancro al colon.

cancro colon-retto gene
Perché alcuni tumori al colon-retto non rispondono alla chemioterapia? Immagine di Elionas2

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino