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Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario

Un team di ricercatori dell’IFOM, dell’Università di Torino e dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, l’Ospedale San Raffaele e l’Istituto di Candiolo, ha individuato una strategia innovativa per rendere i tumori del colon-retto sensibili all’immunoterapia, combinando due chemioterapici specifici. La scoperta, resa possibile grazie al sostegno dell’European Research Council (ERC) e della Fondazione AIRC, è stata pubblicata sull’autorevole rivista scientifica Cancer Cell e apre nuove possibilità terapeutiche per il tumore al colon-retto.

Il problema che affligge, ancora oggi, migliaia di pazienti oncologici è rappresentato dalla mancanza di terapie efficaci sebbene enormi passi avanti siano stati fatti. L’immunoterapia rappresenta una vera rivoluzione in oncologia negli ultimi 15 anni, incrementando le possibilità di cura per pazienti con melanoma, tumore del rene e alcune forme di cancro al polmone. Tuttavia, quando si tratta di tumore del colon-retto metastatico, questa terapia innovativa funziona solo in meno del 5% dei pazienti. La ragione sta nelle caratteristiche molecolari specifiche di questo tipo di cancro, che lo rendono praticamente “invisibile” al sistema immunitario.

“Da circa dieci anni nei nostri laboratorio studiamo una categoria di tumori che presentano un sistema di riparazione del DNA difettoso, chiamato mismatch repair”, spiega Alberto Bardelli, Direttore Scientifico di IFOM e Professore Ordinario del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, coordinatore dello studio. “Questi tumori definiti immunoresponsivi – prosegue Giovanni Germano, Ricercatore di IFOM e Professore associato di Istologia all’Università Statale di Milano, che ha coordinato lo studio insieme a Bardelli – sono particolari perché, a causa di questo difetto, accumulano centinaia di mutazioni che creano nuovi antigeni, ovvero molecole che funzionano come ‘bandierine rosse’ per richiamare l’attenzione del sistema immunitario.”

L’obiettivo era quindi trovare un modo per trasformare i tumori “freddi”, che il sistema immunitario non riesce a vedere, in tumori “caldi” che invece può attaccare efficacemente.

“In questa fase sperimentale, grazie al sostegno di Fondazione AIRC, avevamo già scoperto che alcuni farmaci come la temozolomide riescono a far emergere nel tumore le cellule in grado di presentare quelle bandierine rosse, quelle che il sistema immunitario riesce ad attaccare meglio – spiega Bardelli. – Il problema era che questo approccio funzionava solo per una piccola parte dei pazienti: meno del 20% di chi ha un tumore al colon-retto metastatico.”

“Partendo da queste considerazioni, quattro anni fa abbiamo avviato un percorso di studio innovativo. – illustra Pietro Paolo Vitiello, Ricercatore IFOM e Oncologo medico presso l’Università di Torino, primo autore dello studio pubblicato su Cancer Cell – Abbiamo pensato di osservare cosa succede quando esponiamo le cellule tumorali a specifiche combinazioni di chemioterapici.”

La svolta è arrivata studiando la combinazione di due farmaci: la temozolomide, già nota per la sua capacità di selezionare cellule con difetti nel riparo del DNA, e il cisplatino.

“La combinazione di questi due chemioterapici – prosegue Vitiello – riesce a indurre nelle cellule tumorali uno stato adattativo particolare. Per sfuggire all’azione distruttiva dei farmaci, infatti, le cellule riducono la loro capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA”.

Il meccanismo di difesa del tumore si trasforma paradossalmente in una vulnerabilità:

“Le cellule trattate con questa combinazione – aggiunge Germano – hanno iniziato ad accumulare un numero elevatissimo di mutazioni, creando così tantissime nuove proteine, situazione simile a quando un batterio o un virus invadono da estranei il nostro organismo. È come se il tumore, nel tentativo di proteggersi dalla chemioterapia, si fosse reso riconoscibile e attaccabile dal sistema immunitario.”

Ma i benefici non si fermano qui: “Grazie ad una collaborazione con l’Ospedale San Raffaele – illustra Vitiello – abbiamo osservato che la combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare anche l’ambiente circostante il tumore, il cosiddetto microambiente tumorale, rendendolo più favorevole all’attivazione della risposta immunitaria contro il cancro”.

La ricerca, sostenuta dall’Advanced Grant “TARGET” erogato dall’European Research Council e da un finanziamento della Fondazione AIRC, non è rimasta confinata ai laboratori: grazie a una collaborazione con il gruppo di Luis Diaz al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, i primi 18 pazienti sono già stati trattati con questo approccio chemioterapico sperimentale.

“Il passaggio dai laboratori ai pazienti ha prodotto i primi risultati incoraggianti. – sottolinea Bardelli – le analisi dei campioni ematici di questi pazienti ci confermano che il trattamento funziona: aumenta effettivamente le mutazioni nelle cellule tumorali. Tuttavia – precisa lo scienziato – è ancora necessario un lavoro di ottimizzazione prima di poter proporre questo nuovo regime terapeutico a un numero maggiore di pazienti.”

Questa scoperta rappresenta un cambio di paradigma significativo: invece di combattere direttamente i meccanismi di resistenza del tumore, i ricercatori hanno imparato a sfruttarli.

“Possiamo pensare – riflette Bardelli – a trattamenti sempre più personalizzati che guidino l’evoluzione delle cellule tumorali verso uno stato che è più facilmente trattabile con le terapie immunologiche a disposizione.”

Il prossimo passo? “sarà di valutare – anticipa Bardelli – altre strategie per rendere i tumori più sensibili all’immunoterapia, agendo sia sulla produzione degli antigeni tumorali che sull’interazione tra sistema immunitario e cancro.”

“Questo lavoro dimostra quanto sia importante accorciare le distanze tra le scoperte biologiche e l’applicazione clinica”, conclude lo scienziato “È un risultato che non sarebbe stato possibile senza il programma IFOM dedicato ai Medici-Ricercatori, di cui Vitiello è stato parte integrante fin dal suo arrivo nel nostro istituto. Un programma che crea figure professionali dalle competenze trasversali e fortemente traslazionali.”

 

APPROFONDIMENTO SCIENTIFICO 

Il ruolo del sistema mismatch repair (MMR). I tumori con alterato sistema di riparo del DNA mismatch repair rappresentano il prototipo dei tumori responsivi all’immunoterapia. Questo perché a causa dell’alterato riparo del DNA, questi tumori accumulano centinaia di mutazioni che portano alla formazione di nuovi antigeni, molecole di derivazione proteica in grado di attirare l’attenzione del sistema immunitario.

Meccanismo molecolare della scoperta L’aggiunta di cisplatino alla temozolomide induce nelle cellule tumorali uno stato in cui il riparo del DNA è depotenziato. I due chemioterapici inducono numerosissime mutazioni al DNA tumorale, spingendo le cellule tumorali a ridurre la capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA per sfuggire all’azione dei farmaci. Questo adattamento, che protegge transitoriamente le cellule dall’effetto della chemioterapia, crea però una nuova vulnerabilità sfruttabile terapeuticamente, rendendo i tumori più riconoscibili al sistema immunitario e più sensibili all’immunoterapia.

I due chemioterapici protagonisti

  • Temozolomide: farmaco alchilante che danneggia il DNA delle cellule tumorali introducendo lesioni specifiche. È efficace contro tumori con specifiche caratteristiche molecolari, ed è attualmente utilizzato principalmente nel trattamento di alcuni tumori cerebrali.
  • Cisplatino: composto a base di platino che forma legami crociati con il DNA, impedendo la replicazione cellulare. È uno dei chemioterapici più utilizzati in oncologia per il trattamento di tumori solidi come quelli del testicolo, dell’ovaio, della vescica e del polmone.

Modifiche del microambiente tumorale I tumori sono costituiti sia da cellule tumorali che da cellule dell’organismo che circondano e interagiscono con esse, come quelle del sistema immunitario, che costituiscono il cosiddetto “microambiente tumorale”. La combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare le caratteristiche delle cellule presenti microambiente tumorale, potenziando gli elementi in grado di sostenere l’attivazione immunitaria contro il tumore.

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Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario. Foto di StockSnap

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

AREE PROTETTE SOTTO PRESSIONE: IL CAMBIAMENTO CLIMATICO SPINGE GLI UCCELLI PIÙ IN ALTO, MA LA CONSERVAZIONE NON TIENE IL PASSO

Uno studio condotto dai ricercatori di UniTo nelle Alpi Cozie e Graie rivela che le specie adattate al freddo stanno scomparendo anche dove la natura è tutelata

Le montagne sono hotspot di biodiversità a livello globale, ma sono anche tra gli ambienti più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Nelle Alpi europee, il riscaldamento globale e le trasformazioni del paesaggio stanno rapidamente modificando la vegetazione, con effetti diretti sulle comunità di uccelli, in particolare su quelle di alta quota. Le aree protette rappresentano strumenti fondamentali per salvaguardare queste specie adattate al freddo, ma quanto sono realmente efficaci in un mondo che si riscalda?

A questa domanda hanno cercato di rispondere il dott. Riccardo Alba e il prof. Dan Chamberlain del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino nello studio Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, recentemente pubblicato sulla rivista Biological Conservation. Coprendo un periodo temporale di 13 anni di dati raccolti lungo un ampio gradiente altitudinale nelle Alpi Cozie e Graie, i ricercatori hanno utilizzato il Community Temperature Index (CTI) – un indicatore della tolleranza termica delle comunità – per valutare l’evoluzione delle comunità ornitiche all’interno e all’esterno delle aree protette.

I risultati mostrano un dato sorprendente: mentre al di fuori delle aree protette il CTI è rimasto stabile, all’interno delle stesse è aumentato rapidamente, riflettendo un incremento delle temperature medie annuali di oltre 1,19 °C nel periodo di tempo coperto. Questo indica che qualcosa sta avvenendo all’interno delle aree protette alpine, dove le comunità ornitiche stanno diventando sempre più simili a quelle presenti in zone non tutelate, probabilmente a causa del declino delle specie di alta quota ma anche per la colonizzazione di specie più comuni dalle quote più basse, come ad esempio la capinera e lo scricciolo.

Le variazioni più marcate si osservano in prossimità del limite del bosco, una fascia sensibile dove la vegetazione arbustiva e forestale sta avanzando verso le alte quote a causa dell’abbandono delle attività pastorali e del cambiamento climatico. Gli autori individuano proprio il cambiamento della copertura vegetale come principale motore di trasformazione delle comunità, sottolineando come la semplice esistenza di aree protette dai confini stabili potrebbe non bastare più a garantire la sopravvivenza degli uccelli più specializzati alle quote estreme.

Per contrastare questi effetti, lo studio suggerisce misure gestionali adattive come il pascolo mirato e la conservazione della connettività altitudinale, oltre a un monitoraggio continuo delle comunità ornitiche negli anni a venire. Solo espandendo la protezione formale e integrando azioni concrete sul campo sarà possibile mantenere habitat eterogenei e resilienti, in grado di ospitare anche in futuro le specie simbolo delle Alpi evitando la loro scomparsa.

Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0
Aree protette sotto pressione: il cambiamento climatico spinge gli uccelli più in alto, ma la conservazione non tiene il passo. Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0

Riferimenti bibliografici:

Riccardo Alba, Dan Chamberlain, Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, Biological Conservation Volume 309 2025, 111267, ISSN 0006-3207, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2025.111267

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

METCL (METAPHOR ELABORATION IN TYPICALITY-BASED COMPOSITIONAL LOGIC), INTELLIGENZA ARTIFICIALE E CREATIVITÀ: UN SISTEMA PER LA GENERAZIONE E IL RICONOSCIMENTO DELLE METAFORE

Tre ricercatori italiani sviluppano una tecnologia innovativa capace di creare e identificare metafore, ispirata ai meccanismi della cognizione umana

La capacità di creare e interpretare metafore, una delle competenze cognitive più sofisticate dell’essere umano, potrebbe presto diventare patrimonio anche dei sistemi di intelligenza artificiale. Un passo in questa direzione è rappresentato dal lavoro di tre ricercatori italiani, recentemente selezionato per la conferenza mondiale sull’intelligenza artificiale IJCAI (International Joint Conference on Artificial Intelligence), che si terrà il prossimo agosto a Montréal, in Canada.

Il paper, dal titolo “The Delta of Thought: Channeling Rivers of Commonsense Knowledge in the Sea of Metaphorical Interpretations”, è firmato da Antonio Lieto (Università di Salerno), Gian Luca Pozzato (Università di Torino) e Stefano Zoia (Università di Torino) e introduce un nuovo sistema chiamato METCL (Metaphor Elaboration in Typicality-based Compositional Logic), in grado di generare e classificare metafore sfruttando un motore logico ispirato ai meccanismi della cognizione umana.

“Combinazione e composizione sono aspetti centrali del nostro modo di esprimerci – spiega Stefano Zoia, dottorando del Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino – e ciò è particolarmente evidente nel caso delle metafore. Per esempio, dire che qualcuno ha un cuore di pietra vuol dire associare metaforicamente il cuore alla pietra per evocare freddezza e insensibilità. METCL combina la conoscenza tipica legata ai concetti coinvolti per generare un concetto ibrido che cattura il significato della frase”.

Alla base del sistema c’è una logica composizionale basata sulla tipicalità, in grado di fondere concetti e creare nuove strutture di senso. 

“Il cuore del nostro lavoro – racconta Antonio Lieto, direttore del CIIT Lab dell’Università di Salerno – è un motore di ragionamento in grado di operare in maniera simile ai processi cognitivi umani. Questo approccio è cruciale per replicare funzioni cognitive complesse, come la comprensione e la produzione di metafore, che richiedono una vera capacità di astrazione e generalizzazione”.

Un aspetto chiave del sistema METCL è la sua spiegabilità, ovvero la capacità di fornire motivazioni per le sue decisioni in modo comprensibile agli umani: il suo funzionamento è trasparente e fondato su solide basi formali, a differenza di molti modelli sub-simbolici oggi dominanti nel panorama dell’IA.

“In un’epoca in cui si tende a pensare, erroneamente, che i grandi modelli linguistici possano fare tutto, METCL dimostra quanto sia ancora fondamentale il contributo delle logiche per la rappresentazione della conoscenza – aggiunge Gian Luca Pozzato, Professore Ordinario del Dipartimento di Informatica e presidente dei corsi di studio SUISS dell’Università di Torino. – La nostra logica descrittiva basata sulla tipicalità permette al sistema di essere interpretabile e riutilizzabile in contesti anche molto diversi tra loro”.

Le innovazioni introdotte da METCL sono molteplici. Non solo migliora le prestazioni dei sistemi attualmente disponibili nella generazione e nell’identificazione di metafore, ma lo fa in maniera complementare rispetto ai grandi modelli linguistici neurali – come GPT-4o, Qwen 2.5 Max o DeepSeek R1 – e ai precedenti approcci simbolici basati su risorse come MetaNet (UC Berkeley). Inoltre, il lavoro offre un contributo teorico rilevante: mostra come la generazione di metafore possa essere considerata un processo cognitivo di categorizzazione creativa, in linea con alcune delle teorie più influenti nelle scienze cognitive.

L’impatto potenziale di METCL va ben oltre l’ambito accademico. Le metafore non sono solo abbellimenti stilistici, ma strumenti potenti per semplificare concetti complessi. Per questo, un sistema capace di generarle o identificarle automaticamente può rivelarsi prezioso per: insegnanti, che vogliono spiegare in modo più chiaro concetti astratti o difficili; scrittori, sceneggiatori e giornalisti, che cercano ispirazione creativa; professionisti della comunicazione e del marketing, interessati a formulare messaggi più evocativi.

In definitiva, METCL dimostra come approcci alternativi e integrati possano affiancare, e potenziare, i modelli neurali nell’ambito dell’IA generativa. Un passo in avanti importante per realizzare sistemi intelligenti più simili all’essere umano, non solo in termini di prestazioni, ma anche nella capacità di “pensare in modo creativo”.

Simulare l’attività cerebrale con l’intelligenza artificiale
Immagine di Gerd Altmann

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

COME GLI UCCELLI SI ADATTANO ALL’URBANIZZAZIONE DEI TERRITORI: TORINO È UN RIFUGIO VERDE PER I VOLATILI FORESTALI

Uno studio condotto in sei città italiane da parte dell’Università di Torino e appena pubblicato su Scientific Reports rivela come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione in maniera differente in base alle stagioni.

L’espansione delle città è una delle principali cause del declino globale della biodiversità, ma le comunità di uccelli possono rispondere in modo sorprendentemente diverso a questa minaccia nei vari periodi dell’anno. È quanto emerge dalla ricerca “Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons”, pubblicata oggi sulla prestigiosa rivista Scientific Reports e frutto di una collaborazione tra ricercatori di diverse università italiane e straniere, sotto la guida del National Biodiversity Future Center (NBFC).

Coordinato da Riccardo Alba, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino e del Bird Lab Torino, lo studio ha analizzato come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione lungo un gradiente che va dai centri cittadini fino alle periferie rurali. La ricerca, che ha coinvolto le città italiane di Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli e Campobasso, ha adottato un approccio multi-stagionale, includendo sia il periodo riproduttivo che quello invernale, per cogliere appieno la complessità delle dinamiche ecologiche urbane. Una particolare attenzione è stata posta ai tratti funzionali delle specie – come dieta, strategia riproduttiva, comportamento sociale e modalità di nidificazione – per comprendere quali caratteristiche favoriscano o penalizzino le diverse specie in ambienti urbanizzati.

I risultati mostrano come alcune specie, definite “winners”, riescano a prosperare in città grazie alla nidificazione coloniale, un’elevata numero di covate o una lunga durata della vita. In inverno, invece, prevalgono le specie solitarie e opportuniste, dotate di una dieta generalista. Al contrario, le specie “losers” tendono ad essere insettivore, migratrici e a nidificare al suolo – caratteristiche che le rendono vulnerabili alla perdita di habitat e alle pressioni dell’ambiente urbano. Tuttavia, la maggior parte delle specie rientra nella categoria degli “urban adapters”: non completamente favorite dagli ambienti urbani, ma comunque in grado di sfruttare efficacemente i contesti con un livello intermedio di urbanizzazione. Alcune specie, inoltre, mostrano però notevoli capacità di adattamento stagionale, frequentando aree urbane in inverno ma non durante la stagione riproduttiva e viceversa.

Torino si distingue tra le grandi città del Nord Italia per la sua eccezionale estensione di aree verdi e parchi urbani, che creano un mosaico urbano capace di ospitare una notevole diversità di uccelli, inclusi quelli tipici degli ambienti forestali. I grandi parchi urbani come il Parco della Colletta, il Meisino, il Valentino e la Pellerina offrono habitat idonei a molte specie sensibili, spesso rare in altri contesti metropolitani. In alcuni di questi parchi, ad esempio, si possono osservare specie come la cincia bigia, il rampichino comune e il picchio muratore, ma anche specie più rare nidificano, come il picchio rosso minore, il picchio nero, la colombella o il lodolaio.

Un ruolo chiave è svolto anche dalla collina di Torino, che con il Parco Naturale della Collina di Superga rappresenta un importante polmone verde a ridosso della città, fungendo da serbatoio di biodiversità e da zona di nidificazione per molte specie. Inoltre, il fiume Po, con le sue fasce perifluviali alberate, agisce come un vero e proprio corridoio ecologico, facilitando gli spostamenti e il collegamento tra le aree verdi urbane e quelle naturali circostanti. Questi elementi, inclusi i grossi viali alberati della città, rendono Torino un esempio virtuoso di come le città possano contribuire concretamente alla conservazione della biodiversità, anche di specie forestali più esigenti. Allo stesso tempo, la presenza di una fauna ricca e diversificata nelle aree verdi urbane migliora la qualità della vita dei cittadini, offrendo occasioni di contatto con la natura. Così la biodiversità urbana diventa un patrimonio sociale e culturale da valorizzare.

“Lo studio – dichiara Riccardo Alba – evidenzia la straordinaria capacità degli uccelli di adattarsi a una vasta gamma di condizioni ambientali, anche all’interno di paesaggi fortemente modificati dall’uomo. Considerare le variazioni stagionali è fondamentale per comprendere pienamente le risposte ecologiche delle specie all’urbanizzazione. Questo approccio può contribuire a migliorare la pianificazione del tessuto urbano, rendendolo più sensibile alle esigenze della fauna selvatica e più efficace nel promuovere città sostenibili e ricche di biodiversità”.

Riferimenti bibliografici:

Alba, R., Marcolin, F., Assandri, G. et al., Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons, Sci Rep 15, 16181 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-00350-6

un picchio rosso minore. Foto di Carlo Caimi, CC0
un picchio rosso minore. Foto di
Carlo Caimi, CC0

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

L’IMPATTO DEL TUMORE DEL COLON-RETTO SUL BENESSERE PSICOLOGICO DEI PAZIENTI

Uno studio esplorativo condotto dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera Universitaria “Città della Salute e della Scienza” di Torino, ha indagato l’impatto del cancro del retto e dei trattamenti medici sul benessere psicologico.

 

Una ricerca condotta dal gruppo di ricerca ReMind the Body” del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino in collaborazione con l’equipe del reparto di Radioterapia Oncologica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria “Città della Salute e della Scienza” ha indagato l’impatto del cancro del colon-retto e dei trattamenti medici sul benessere psicologico dei pazienti. ùIn Italia, il tumore del colon-retto è il secondo più frequente dopo quello della mammella. Le ricercatrici Valentina TesioAgata Benfante e Annunziata Romeo, coordinate dal Prof. Lorys Castelli, dell’Università di Torino, hanno seguito per un periodo di circa 18 mesi dalla diagnosi oncologica e dall’inizio dei trattamenti un gruppo di 43 pazienti che avevano da poco ricevuto una diagnosi di cancro del retto localmente avanzato.

Lo studio, durato due anni e culminato in due lavori pubblicati rispettivamente sulle riviste scientifiche internazionali Clinical and Translational Radiation Oncology e Psychological Trauma: Theory, Research, Practice, and Policy, ha analizzato l’impatto della diagnosi e dei successivi trattamenti previsti per questa patologia oncologica non solo sulla qualità della vita e sui livelli di distress psicologico (ossia sintomi ansiosi e depressivi), ma anche sulla crescita post-traumatica (Post-Traumatic Growth – PTG), un cambiamento psicologico positivo nelle priorità e nelle nuove possibilità, nell’apprezzamento della vita, nella dimensione spirituale, nelle relazioni interpersonali e nel senso della vita, conseguente al fronteggiamento di circostanze di vita traumatiche che mettono in discussione le convinzioni personali, come può accadere con una diagnosi di cancro.

Al fine di esplorare quali fattori medico-psicologici possano predire gli esiti connessi al benessere psicologico di questa popolazione oncologica, la ricerca ha seguito i pazienti e le pazienti durante l’intero percorso di cura, che prevedeva la combinazione fra resezione chirurgica e trattamento chemioterapico e radioterapico, rivalutando la condizione medico-psicologica nelle seguenti fasi del trattamento: dopo la prima visita radioterapica, durante la quale venivano comunicate le indicazioni per la (chemio)radioterapia preoperatoria (T0 – diagnosi), almeno 1 mese dopo la fine del trattamento preoperatorio (T1, in media 3 mesi dopo la diagnosi), almeno 1 mese dopo la resezione chirurgica (T2, in media 6 mesi dopo la diagnosi) e al follow-up di almeno 1 anno dopo la resezione chirurgica (T3, in media 18 mesi dopo la diagnosi).

Alla valutazione iniziale i pazienti e le pazienti presentavano lievi sintomi fisici di tipo intestinale e dolorosi, direttamente associabili al tumore del retto localmente avanzato, con livelli moderati di distress psicologico e ansia per la salute probabilmente dovuti al carico emotivo iniziale connesso alla diagnosi di cancro e alla preoccupazione per gli effetti collaterali dei trattamenti preoperatori, in particolare quelli legati alla radioterapia, di cui i pazienti e le pazienti con cancro sono spesso poco consapevoli, come emerge anche dalla letteratura precedente sul tema.

Durante le fasi di trattamento attivo, si è evidenziato un peggioramento della qualità di vita, in particolare dopo l’intervento chirurgico, al quale è seguito un miglioramento nel follow-up a medio termine. L’ansia ha, invece, mostrato una traiettoria molto più fluttuante, con livelli elevati alla diagnosi che diminuiscono dopo il trattamento preoperatorio (solo il 10% presenta sintomi clinicamente rilevanti in questa fase), per aumentare nuovamente dopo l’intervento chirurgico (il 27% presenta sintomi clinicamente rilevanti in questa fase) e, infine, diminuire al follow-up. Inoltre, se da un lato è stata confermata la forte influenza dei sintomi fisici correlati al cancro e degli effetti collaterali dei trattamenti sulla qualità di vita dei pazienti e delle pazienti, particolarmente al momento della diagnosi e durante i trattamenti attivi, d’altra parte è emerso che la reazione psicologica alle prime fasi di diagnosi e trattamento (ossia gli stili di coping adottati per fronteggiare tali eventi stressanti) fosse determinante nel predire la qualità di vita dopo i trattamenti attivi e a medio termine.

Per quanto riguarda la crescita post-traumatica, si è riscontrato un suo aumento progressivo nel tempo, suggerendo che il processo di crescita psicologica si sviluppi gradualmente ma precocemente nei pazienti e nelle pazienti con cancro del retto, per poi mostrare un aumento più significativo tra la valutazione postoperatoria e il follow-up a medio-lungo termine. Inoltre, i livelli di crescita psicologica iniziali, ovvero quelli post trattamento preoperatorio, sono risultati essere il fattore predittivo più forte dei livelli di crescita misurati al follow-up, quasi un anno dopo, seguiti dagli stili di coping adottati nelle fasi iniziali del trattamento. Considerata la scarsità degli studi che hanno valutato longitudinalmente questa popolazione specifica sin dalle prime fasi di malattia/trattamento, questo dato è nuovo e incoraggiante da un punto di vista clinico, suggerendo l’importanza di sostenere e monitorare la reazione psicologica e il processo di crescita psicologica positiva fin dalle fasi iniziali della presa in carico oncologica.

“Questo studio – dichiara la Dott.ssa Agata Benfante – si inserisce in un ambito scientifico ancora poco approfondito e per il quale saranno necessari ulteriori studi longitudinali al fine di implementare interventi psicologici su misura e nei tempi più opportuni. La ricerca ha evidenziato come le diverse fasi del trattamento oncologico mostrino specifiche peculiarità, sia a livello di impatto psico-fisico, sia a livello di risposta psico-fisica del soggetto, che possono avere ripercussioni nel determinarne sul medio-lungo termine la qualità di vita e il benessere psicologico. Risulta pertanto di fondamentale importanza monitorare le risposte psicologiche nei pazienti e nelle pazienti con cancro del retto sin dalla diagnosi e durante le diverse fasi del trattamento, per identificare tempestivamente sintomi di disagio psicologico clinicamente rilevanti, per promuovere risposte adattive al cancro e per sostenere il processo di crescita psicologica”.

“La diagnosi di cancro – ha aggiunto la Ricercatrice Dott.ssa Valentina Tesio – può non solo portare a esiti di salute mentale negativi, come il disagio psicologico clinicamente rilevante, ma può, e deve, anche innescare cambiamenti psicologici positivi, come la crescita post-traumatica, e sono proprio le diverse caratteristiche intrapsichiche dell’individuo a contribuire al suo adattamento alla malattia e ad influenzare gli esiti psicologici. È, quindi, necessaria una valutazione in chiave biopsicosociale, a partire dalla comunicazione della diagnosi, attraverso tutte le fasi successive del processo terapeutico fino al follow-up, poiché ogni fase presenta specificità fisiche e psicologiche. Sulla base di queste specificità, i servizi di supporto dovrebbero essere adattati sia al singolo individuo sia alla fase di trattamento, in particolare attuando interventi preventivi e pre-abilitativi multidisciplinari e multimodali nei momenti più opportuni per migliorare sia le reazioni legate al cancro che la qualità della vita e la salute psicologica nel medio termine”.

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Foto di tahabaz

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

FARMACI ONCOLOGICI: PERCHÉ EUROPA E STATI UNITI D’AMERICA PRENDONO DECISIONI DIVERSE? 

Uno studio dell’Università di Torino evidenzia le discrepanze tra le due principali agenzie regolatorie nell’approvazione dei medicinali per il cancro.

 

L’Università di Torino ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet Oncology uno studio intitolato Differences in the on-label cancer indications of medicinal products between Europe and the USA, che mette a confronto le decisioni della Food and Drug Administration (FDA) e della European Medicines Agency (EMA) nell’approvazione dei farmaci oncologici.

La sicurezza dei medicinali è garantita da un’attenta analisi dei dati da parte delle Agenzie Regolatorie. Solo dopo la revisione approfondita dei dati derivanti dagli studi clinici, i farmaci possono essere messi a disposizione dei pazienti. Negli Stati Uniti, questa funzione è svolta dalla FDA, mentre in Europa è di competenza dell’EMA. Tuttavia, lo sviluppo di un farmaco è ormai globale e le diverse Agenzie Regolatorie valutano gli stessi studi clinici, sebbene possano arrivare a conclusioni differenti.

“Ci saremmo aspettati che le due agenzie più importanti del mondo, considerando gli stessi dati, arrivassero alle stesse conclusioni” – spiega Gianluca Miglio, professore di farmacologia all’Università di Torino – “ed invece oltre la metà dei farmaci è approvata per popolazioni leggermente diverse. In altre parole, vi sono pazienti dai due lati dell’Atlantico che hanno o non hanno accesso ad un dato medicinale a seconda della zona geografica in cui vivono”.

Nella ricerca sono state analizzate 162 indicazioni terapeutiche di 80 medicinali per tumori solidi e tumori del sangue autorizzate dall’EMA tra gennaio 2015 e settembre 2022 con le corrispondenti indicazioni approvate dalla FDA. Sono state identificate discrepanze clinicamente rilevanti per il 51,9% delle indicazioni valutate. Le differenze riguardano la collocazione nella terapia, la necessità che i pazienti siano refrattari a terapie precedenti, i requisiti di eleggibilità dei biomarcatori, i trattamenti concomitanti o le caratteristiche dei pazienti.

“Il nostro lavoro non è disegnato per definire quali delle due agenzie sia la migliore, sono entrambe eccezionali” – sottolinea Armando Genazzani, anche lui docente dell’Università di Torino, con esperienze sia in EMA che nell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) – “ma evidenziare quanto sia difficile prendere delle decisioni che impattano su milioni di malati in presenza di incertezze. Da un lato le agenzie mirano a concedere l’accesso del farmaco al maggior numero di persone possibile, e dall’altro, invece, devono essere sufficientemente sicure che per tutti i malati per i quali il farmaco è indicato vi è una ragionevole certezza di efficacia e sicurezza. Quello che cambia tra le due agenzie è il diverso bilanciamento tra questi due obiettivi”.

Le differenze osservate sono sottili, e derivano principalmente dalle discrepanze legislative e dalla differente inclinazione a estrapolare i dati in popolazioni non studiate direttamente nei trial clinici. 

“Le ragioni per le differenze osservate sono molteplici così come lo sono le implicazioni” – continua Genazzani – “La nostra analisi sembra suggerire che l’FDA sia più incline ad allargare il bacino dei pazienti che potenzialmente potrebbero beneficiare del farmaco, mentre l’EMA è più conservativa e maggiormente incline a riservare il farmaco ai pazienti per i quali vi è una dimostrazione chiara. Questo vuol dire che i pazienti americani hanno più opportunità terapeutiche mentre i pazienti Europei hanno maggiori certezze sui farmaci che assumono”.

Con questo studio dell’Università di Torino mira a fornire un contributo fondamentale alla comprensione delle dinamiche di approvazione dei farmaci oncologici a livello internazionale, evidenziando il delicato equilibrio tra accesso alle terapie e sicurezza dei pazienti.

Riferimenti bibliografici:

Perini, Martina et al., Differences in the on-label cancer indications of medicinal products between Europe and the USA, The Lancet Oncology, Volume 26, Issue 2, e103 – e110, DOI: https://doi.org/10.1016/S1470-2045(24)00434-0

cancro intelligenza artificiale nuovo metodo CEST-MRI Case report of first woman of color possibly cured of HIV
Farmaci oncologici: perché Europa e Stati Uniti d’America prendono decisioni diverse? Lo studio è stato pubblicato su The Lancet Oncology. Foto di StockSnap

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

CAMBIAMENTO CLIMATICO: QUALI I RISCHI PER LA SALUTE INFANTILE

 Pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Environment International una nuova ricerca che evidenzia i possibili effetti cronici dell’esposizione a eventi estremi legati al cambiamento climatico sulla salute respiratoria nella prima infanzia.

I cambiamenti climatici causati dalle attività antropiche influenzano la frequenza e l’intensità di eventi estremi. Fenomeni come ondate di calore, siccità, inondazioni e incendi hanno potenziali conseguenze sulla salute delle persone e sono collegati a un rischio più elevato di mortalità, lesioni acute e ricoveri ospedalieri nei giorni e anche nelle settimane successive al loro verificarsi.

I risultati dello studio “Exposure to climate change-related extreme events in the first year of life and occurrence of infant wheezing”, pubblicato sulla rivista Enviroment International e condotto da un team di ricerca dell’Università di Torino e dell’Unità di Epidemiologia AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, suggeriscono che il cambiamento climatico abbia un impatto sulla salute sin dalle primissime fasi della crescita, mettendo in evidenza la necessità di misure di mitigazione e adattamento al clima per proteggere non solo le future generazioni, ma anche per tutelare la salute delle attuali fasce di popolazione più fragili, come i bambini e le bambine nei primi anni di vita.

Condotta nell’ambito del progetto NINFEA, la più grande coorte italiana arruolata tramite Internet  che raccoglie dal 2005 dati su più di 7000 coppie di mamme e bambini sull’intero territorio italiano, la ricerca ha riscontrato un aumento del rischio di fischi e sibili al torace associato all’esposizione a siccità estrema e ondate di calore durante il primo anno di vita. A differenza di studi precedenti, focalizzati sugli effetti acuti degli eventi estremi, questo lavoro mette in rilievo gli effetti cronici che si manifestano già nelle prime fasi dello sviluppo e sono associati all’esposizione ripetuta durante il primo anno di vita.

Il campione della ricerca è composto da circa 6000 bambini per i quali si dispone di informazioni sull’insorgenza di fischi e sibili al torace tra 6 e 18 mesi. La comparsa di questi episodi durante l’infanzia è considerata un indicatore di alterata salute respiratoria in età successive. Combinando gli indirizzi di residenza geocodificati dei partecipanti allo studio con i dati climatici, sono state ricavate informazioni sulla loro esposizione, durante il primo anno di vita, a diversi tipi di eventi estremi. L’esposizione agli eventi estremi è stata messa in relazione alla salute respiratoria tenendo conto di multipli fattori (socioeconomici, ambientali, ecc.).

“I risultati di questo studio – spiega Silvia Maritano, prima autrice dell’articolo e ricercatrice del dell’Università di Torino presso l’Unità di Epidemiologia AOU Città della Salute e della Scienza di Torino – sottolineano l’importanza di considerare le conseguenze del cambiamento climatico come potenziali determinanti di patologie croniche in ottica longitudinale. Questo lavoro apre la strada a nuove ricerche sui rischi a lungo termine del cambiamento climatico, mettendo in luce l’urgente necessità di politiche congiunte di mitigazione e prevenzione volte a ridurre l’esposizione ai fenomeni meteorologici estremi fin dalle prime fasi di vita delle persone”.

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Su Environment International una nuova ricerca sui possibili effetti cronici dell’esposizione a eventi estremi legati al cambiamento climatico sulla salute respiratoria infantile. Foto di Lisa Runnels

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo

Passo, trotto e galoppo: le andature equine seguono dei veri e propri modelli ritmici. Due studi condotti dalla Sapienza e dall’Università di Torino indagano sulla loro musicalità.

La sequenza degli zoccoli di un cavallo che colpiscono il terreno sembra intuitivamente ritmica, ma lo è davvero? Un team di ricercatori guidato da Marco Gamba dell’Università di Torino e da Andrea Ravignani della Sapienza Università di Roma, finanziato dal progetto ERC The Origins of Human Rhythm (TOHR), ha risposto a questa domanda in due studi pubblicati sul Journal of Anatomy e Annals of the New York Academy of Sciences mettendo in luce le somiglianze tra i ritmi della locomozione dei cavalli e quelli musicali. Questa connessione potrebbe spiegare perché le diverse andature equine – passo, trotto e galoppo – risultino così ritmiche e riconoscibili.

Il ritmo musicale in molte culture occidentali si basa su sequenze di intervalli temporali che seguono rapporti di numeri interi, ciascuno dei quali definisce una categoria ritmica. Una nota, per esempio, può durare quanto la precedente, oppure il doppio o il triplo. Negli ultimi anni, studi su diverse specie animali hanno già rivelato che simili rapporti si trovano nelle vocalizzazioni di altre specie, confermando il ruolo chiave di queste strutture temporali nella percezione del ritmo.

Per la prima volta, i ricercatori hanno dimostrato che anche l’andatura dei cavalli condivide queste stesse strutture temporali: gli intervalli tra zoccoli successivi che colpiscono il terreno sono caratterizzati da categorie ritmiche. In particolare, il passo e il trotto dei cavalli sono isocroni,  poiché il terreno è colpito a intervalli regolari, come il ticchettio di un orologio;  il galoppo, invece, presenta una sequenza di tre intervalli in cui il terzo dura il doppio degli altri due, vale a dire un pattern 1:1:2, richiamando il ritmo base del brano “We Will Rock You” dei Queen.

“Questo pattern di 1:1:2 incidentalmente si ritrova anche nell’Overture del Guglielmo Tell di Rossini. Forse questo spiega perché spesso questo brano venga usato come colonna sonora nei film in cui si vedono cavalli al galoppo”, dichiara Andrea Ravignani.

“Questi studi proseguono un filone di ricerca che vede unite le nostre Università al fine di indagare le caratteristiche ritmiche dei comportamenti di animali e umani, cercando di scovare similarità e differenze che sono ancora da interpretare per ciò che concerne il loro significato evolutivo”, aggiunge Marco Gamba.

Oltre alle categorie ritmiche, “un altro elemento fondamentale nella distinzione tra le andature dei cavalli è il tempo, ossia la velocità con cui si susseguono i battiti in un qualsiasi pattern ritmico, analogamente a quanto osserviamo tra diversi generi musicali” spiega Teresa Raimondi, postdoc di Sapienza Università di Roma.

In particolare, passo e trotto risultano facilmente distinguibili grazie alla maggiore durata degli intervalli, e quindi un pattern ritmico più lento nel trotto rispetto al passo.

“La scoperta di schemi ritmici comuni tra musica, comunicazione animale e locomozione rafforza l’idea che locomozione e controllo motorio possano aver giocato un ruolo cruciale nell’evoluzione del ritmo, sia nella comunicazione umana che in quella di altre specie”, conclude Lia Laffi, dottoranda dell’Università di Torino in collaborazione con la Fondazione Zoom.

I risultati delle due ricerche discriminano quantitativamente le andature dei cavalli in base al ritmo, rivelando sorprendenti comunanze con la musica umana e con alcuni segnali comunicativi animali. L’andatura e la ritmicità vocale condividono caratteristiche chiave, e la prima è probabilmente precedente alla seconda. La capacità di produrre e riconoscere ritmi legati alla locomozione potrebbe infatti aver costituito un preadattamento fondamentale per lo sviluppo di ritmi vocali più complessi in una fase evolutiva successiva. In particolare, la percezione della ritmicità locomotoria potrebbe essersi evoluta in diverse specie sotto la pressione del riconoscimento dei predatori e della selezione degli accoppiamenti; in seguito potrebbe essere stata adattata alla comunicazione vocale ritmica.

A questo sforzo di ricerca internazionale, hanno partecipato anche professori e ricercatori dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna, dell’Università di Copenaghen e dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

 

Riferimenti bibliografici:

Laffi, L., Raimondi, T., Ferrante, C., Pagliara, E., Bertuglia, A., Briefer, E. F., Gamba, M., & Ravignani, A. (2024). “The rhythm of horse gaits”, Ann NY Acad Sci., 1–8. DOI: https://doi.org/10.1111/nyas.15271

Laffi, L., Bigand, F., Peham, C.,Novembre, G., Gamba, M. & Ravignani, A. (2024) “Rhythmic categories in horse gait kinematics”, Journal of Anatomy, 00,1–10. DOI: https://doi.org/10.1111/joa.14200

Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo, secondo due studi appena pubblicati. Un cavallo (Equus ferus caballus) frisone. Foto di Andizo [1], CC BY-SA 3.0
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

CECILIA PAYNE E HENRIETTA LEAVITT. DUE ASTRONOME, UN CENTENARIO 

Una mostra fotografica e un ciclo di conferenze per celebrare due donne che hanno cambiato la nostra comprensione dell’Universo 

Inaugurazione con la divulgatrice statunitense Dava Sobel che presenterà anche il saggio su Marie Curie 

1925 - 2025 Payne e Leavitt - Due astronome, un centenario

Mercoledì 29 gennaio alle ore 18, al Rettorato (via Verdi 8, Torino), prende il via l’iniziativa promossa dall’Università di Torino con Accademia delle Scienze, Infini.to – Planetario di Torino, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari”, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e patrocinata dal Cirsde, con l’inaugurazione della mostra fotografica 1925 – 2025 Payne e Leavitt – Due astronome, un centenario prodotta da UniVerso per celebrare le straordinarie figure di Cecilia Payne e Henrietta Leavitt, due scienziate dello Harvard College Observatory che, con le loro ricerche, hanno segnato una svolta nella storia dell’astrofisica. 

Esattamente cento anni fa, nel 1925, due loro scoperte hanno infatti rivoluzionato la comprensione dell’Universo: grazie a Cecilia Helena Payne abbiamo capito di cosa sono fatte le stelle e grazie a Henrietta Swan Leavitt che la nostra galassia, la Via Lattea, è solo una tra miriadi di galassie. Queste due scoperte fondamentali non solo hanno aperto nuove frontiere per la conoscenza umana, ma hanno anche ispirato generazioni di scienziati e scienziate. 

La mostra fotografica 

La mostra, curata da Infini.to – Planetario di Torino, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari” con il coordinamento scientifico di Antonaldo Diaferio, ripercorre attraverso testi e immagini le vite di Cecilia Payne e Henrietta Leavitt, che iniziarono il loro cammino scientifico seguendo percorsi inizialmente lontani dall’astrofisica – Payne studiando botanica e Leavitt interessandosi alla musica – per poi essere attratte dalla sfida di comprendere l’Universo. La loro dedizione, creatività e tenacia permisero loro di superare le barriere di un mondo scientifico dominato dagli uomini, contribuendo in modo determinante alla nostra comprensione del cosmo. Questa iniziativa non è solo un tributo alle loro scoperte, ma anche un invito a riflettere sulle qualità imprescindibili di chi si dedica alla scienza: una curiosità instancabile e una tenacia indomabile. 

La mostra, allestita nel Cortile del Rettorato (via Verdi 8, Torino), sarà inaugurata alle ore 18 alla presenza di Dava Sobel, divulgatrice scientifica autrice del libro Le scienziate che misurarono il cielo, che terrà un discorso per rendere omaggio al contributo di Payne e Leavitt alla conoscenza umana. 

Il ciclo di conferenze per esplorare l’Universo 

Sempre il 29 gennaio, alle ore 21, presso l’Accademia delle Scienze di Torino, con la lectio dal titolo Cecilia Payne e Henrietta Leavitt: lo Harvard College Observatory nei primi decenni del XX secolo, Dava Sobel aprirà il ciclo di 16 conferenze pubbliche tenute da astrofisiche e astrofisici di fama internazionale. Gli incontri si svolgeranno nell’arco di tutto il 2025 in tre sedi prestigiose: l’Accademia delle Scienze di Torino, Infini.to – Planetario di Torino Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari”, e l’Archivio di Stato di Torino. Il programma completo delle conferenze è disponibile sul sito del Planetario. 

Infine, a corollario dell’iniziativa, giovedì 30 gennaio, alle ore 21 al Circolo dei lettori (via Bogino 9, Torino) si terrà l’incontro con Dava Sobel dal titolo Gli elementi di Marie Curie a partire dal suo libro Nel laboratorio di Marie Curie (Rizzoli, 2025). Dialogando con Silvia Rosa Brusin, l’autrice accompagnerà il pubblico con originalità e competenza nella vita di Marie Curie, una delle figure più importanti e influenti del nostro tempo, con le sue straordinarie scoperte, e delle scienziate sue eredi. Per informazioni: https://torino.circololettori.it/gli-elementi-di-marie-curie/   

Informazioni utili 

Mostra fotografica 1925 – 2025 Payne e Leavitt – Due astronome, un centenario
Università di Torino, Cortile del Rettorato, via Verdi 8/via Po 17
Dal 29 gennaio al 29 marzo 2025
Orario di apertura da lunedì a sabato ore 10-18 Ingresso gratuito 

Inaugurazione 29 gennaio, ore 18, Palazzo del Rettorato 

Ciclo di conferenze 

Gli appuntamenti si terranno presso Accademia delle Scienze di Torino, Infini.to – Planetario, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari” e Archivio di Stato di Torino.
Per info sul programma completo https://planetarioditorino.it/calendario-cicli-payne-e-leavitt 

Inaugurazione 29 gennaio, ore 21, Accademia delle Scienze di Torino 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

STUDIO DEI PROCESSI METABOLICI E INFIAMMATORI LEGATI A CANCRO E MALATTIE CRONICHE: NASCE A UNITO IL NUOVO CENTRO DI RICERCA ATLANTIS
 
Il centro interdipartimentale, diretto dalla Prof.ssa Paola Costelli è specializzato nello studio dell’infiammazione e del metabolismo nel cancro e nelle malattie cronico-degenerative
 

 

È stato inaugurato ieri, venerdì 20 dicembre, il nuovo centro di ricerca Atlantis, nato dalla collaborazione tra il Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, il Dipartimento di Oncologia e il Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino.
Il centro, diretto dalla Prof.ssa Paola Costelli, è specializzato nello studio delle vie metaboliche e della loro interazione con i processi flogistici nella patogenesi del cancro e delle malattie cronico-degenerative.
Atlantis si propone di promuovere la ricerca di base, preclinica e clinica nel campo del metabolismo e dell’infiammazione sfruttando un approccio innovativo ed interdisciplinare, anche nell’ottica di favorire le collaborazioni nazionali ed internazionali. Oltre agli obiettivi di ricerca, Atlantis favorirà la formazione superiore e la divulgazione scientifica, attraverso l’interazione con corsi di dottorato, scuole di specializzazione, centri di ricerca e associazioni di pazienti. Inoltre, promuoverà la collaborazione con l’industria biotecnologica per lo sviluppo di brevetti e tecnologie innovative, facilitando il trasferimento dei risultati della ricerca al settore industriale.
Dal punto di vista tecnologico, Atlantis offre la possibilità di eseguire analisi metabolomiche e proteomiche ‘targeted’ e ‘untargeted’ sia su fluidi biologici (bulk) che su matrici solide (spatial metabolomic/proteomic). Più semplicemente, le strumentazioni presenti in Atlantis rendono possibile analizzare il profilo metabolomico/proteomico di un campione biologico, identificare i metaboliti di interesse e analizzare la loro distribuzione a livello cellulare.
“L’inaugurazione di Atlantis è un momento importante non solo per il Polo di Medicina Orbassano-Candiolo, ma per tutta la Scuola di Medicina e per l’Università di Torino” – afferma Paola Costelli, direttrice del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche e del centro di Ricerca Atlantis“Il Centro Atlantis si pone come una realtà di ricerca all’avanguardia sul territorio regionale e nazionale, essendo equipaggiato per effettuare analisi metabolomica e lipidomica su diverse matrici biologiche. Anche se al momento siamo ancora relativamente lontani dal rendere l’analisi metabolomica una routine nella pratica clinica, le applicazioni di queste tecnologie in ambito biomedico sono vastissime. A solo titolo di esempio, possiamo citare l’identificazione di biomarcatori utili a fini diagnostici, prognostici e di follow-up della malattia, permettendo così di personalizzare l’approccio terapeutico”.
Inaugurazione del Centro di Ricerca Atlantis, da sinistra Cristian Fiori, Cristina Prandi, Andrea Graziani, Elisabetta Bugianesi, Paola Costelli
Inaugurazione del Centro di Ricerca Atlantis, da sinistra Cristian Fiori, Cristina Prandi, Andrea Graziani, Elisabetta Bugianesi, Paola Costelli

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino