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RUOLO CENTRALE PER LA GLUTAMMINA NELLA RIGENERAZIONE DEL MUSCOLO E NELL’INIBIZIONE DELLE METASTASI TUMORALI

 

Due recenti ricerche internazionali guidate dal Prof. Massimiliano Mazzone, docente straordinario al Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute di UniTo e afferente al VIB-KU Leuven Center for Cancer Biology, rivelano l’importanza della glutammina nella risposta infiammatoria in seguito a tumore o a danno degenerativo tissutale.

glutammina muscolo tumori
Tessuto muscolare murino rigenerante

Sono due i lavori pubblicati su prestigiose riviste scientifiche internazionali, Nature il 28 ottobre e EMBO Molecular Medicine il 28 agosto, guidati dal Prof. Mazzone che con il suo team di ricerca ha dimostrato come il metabolismo della glutammina con la sua capacità di influire sulla rigenerazione delle fibre muscolari e sull’inibizione delle metastasi tumorali apre nuove prospettive per la cura dell’invecchiamento muscolare

In particolare Mazzone e il suo team, nel lavoro pubblicato su Nature (“Macrophage-derived glutamine boosts satellite cells and muscle regeneration”), dimostrano un dialogo metabolico tra un tipo di cellule infiammatorie, chiamate macrofagi, e cellule staminali muscolari, chiamate satelliti, che, se potenziato con un inibitore dell’enzima GLUD1, favorisce il rilascio di glutammina. In questo modo l’aminoacido migliora la rigenerazione muscolare stimolando la proliferazione e il differenziamento delle cellule staminali, e quindi aumentando le prestazioni fisiche in modelli sperimentali di degenerazione muscolare come traumi, ischemia ed invecchiamento.

I ricercatori hanno osservato che, in seguito a danni muscolari degenerativi, tra i quali l’invecchiamento, i normali livelli di glutammina nel muscolo diminuiscono in conseguenza della morte del tessuto muscolare. La ri-stabilizzazione dei livelli originali di glutammina stimola la rigenerazione delle fibre muscolari.

La glutammina assume quindi il ruolo di molecola sensore, garante dell’integrità tissutale, per cui i suoi livelli all’interno del tessuto muscolare controllano un programma rigenerativo. Inoltre, lo studio suggerisce l’enzima GLUD1 come bersaglio terapeutico per promuovere la rigenerazione muscolare dopo lesioni acute come traumi o ischemie, oppure in condizioni degenerative croniche come appunto l’invecchiamento.

Lo studio, oltre al suo potenziale traslazionale, fornisce spunti chiave in diversi ambiti medico-scientifici tra cui il metabolismo del sistema immunitario, la biologia delle cellule staminali, e la fisiologia del muscolo.

Gli studi sulla glutammina hanno portato Mazzone e i suoi a fornire un importante contributo anche per la ricerca sul cancro. Il lavoro pubblicato sulla rivista EMBO Molecular Medicine (“Glufosinate constrains synchronous and metachronous metastasis by promoting anti‐tumor macrophages) analizza la glutammina sintetasi (GS), cioè l’enzima che genera glutammina dal glutammato, come il crocevia che controlla il rilascio di mediatori infiammatori. L’inibizione farmacologica della GS nei macrofagi blocca le metastasi aumentando l’immunità anti-tumorali.

Su questa base è stato valutato il potenziale farmacologico di derivati del glufosinato, comunemente usato come erbicida, nel ruolo di inibitori specifici della glutammina sintetasi nella lotta alle metastasi. I ricercatori hanno scoperto che il glufosinato ricabla i macrofagi sia nel tumore primario che nella sede metastatica, contrastando l’immunosoppressione e la formazione di nuovi vasi tumorali. Questo effetto è stato osservato in modelli sperimentali murini in condizioni di malattia primaria e metastatica o dopo rimozione del tumore primaria nel trattamento di ricaduta metastaticaIl trattamento con glufosinato è stato ben tollerato, senza tossicità epatica o cerebrale, né difetti ematopoietici.

Questi risultati, in conclusione, identificano il bersagliamento farmacologico della glutammina sintetasi come prospettiva utile per ricablare le funzioni dei macrofagi. Un potenziale straordinario per il trattamento delle metastasi tumorali.

glutammina muscolo tumori
Cellule staminali proliferanti

“Questi due studi offrono conoscenza biologica sia nel campo della rigenerazione tissutale che della progressione tumorale” spiega il Prof. Mazzone “ma identificano già in questa fase due molecole sulle quali lavorare per creare nuovi farmaci. Le ricerche sono il frutto di un lavoro intenso condotto in Italia, tra le Università di Torino, ed in particolare il Centro per le Biotecnologie Molocolari (MBC) e l’Università di Bari, e in Belgio, all’Università di Lovanio e al VIB. Questo lavoro non si sarebbe potuto realizzare senza il contributo essenziale del Dottor Berardi, la Dottoressa Min Shang, il Dottor Menga, ricercatori in Belgio e a Torino, e la Professoressa Castegna, docente presso l’Università di Bari”.

La Professoressa Fiorella Altruda, direttrice del Centro per le Biotecnologie Molecolari aggiunge con orgoglio: “Siamo contenti di avere riportato un anno e mezzo fa il Professor Mazzone alla sede che lo ha formato 15 anni fa. In poco tempo dalla sua nomina a Professore Ordinario Straordinario, Massimiliano si è ben collocato all’interno del Centro, sviluppando nuove linee di ricerca ed iniziando moltissime collaborazioni con altri gruppi di ricerca nel Centro ma anche a livello nazionale ed internazionale”.

Massimiliano Mazzone

Il Professor Mazzone si è laureato con il massimo dei voti in Bioteconologie Mediche nel 2002 e ha conseguito il Dottorato di Ricerca nel Febbraio del 2007 presso Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro, sempre all’Università di Torino. Trasferitosi per i suoi studi specialistici all’Università di Lovanio nell’Ottobre del 2006, dal 2009 Mazzone dirige il Laboratorio di Infiammazione ed Angiogenesi presso l’Istituto fiammingo per le Biotecnologie VIB e dal 2016 è Professore Ordinario presso l’Università Cattolica di Lovanio. Dal 2019 Mazzone è Professore Straordinario all’Università di Torino dove dirige un secondo gruppo di ricerca presso il Centro per le Biotecnologie Molecolari. Mazzone è autore di 126 lavori in riviste mediche prestigiose che hanno già ricevute, in totale, oltre 10000 citazioni. Il Professore ad oggi è stato invitato più di 150 volte a dare interventi scientifici in tutto il mondo, presiede ad importanti commissioni di valutazione della ricerca accademica ed industriale, ed ha organizzato lui stesso diverse conferenze di importanza mondiale. Ha ricevuto più di 15 premi di prestigio nazionale ed internazionale, tra cui 3 consecutivi riconoscimenti dal Consiglio Europeo della Ricerca. Il Professor Mazzone ha contribuito all’insegnamento in diversi corsi di laurea e di Dottorato, e fino ad oggi ha contribuito alla crescita scientifica di 50 tesisti in Medicina, Farmacia, Biologia e Biotecnologie, 16 ricercatori afferenti a diversi Dottorati di Ricerca, e 14 ricercatori post-Dottorato, tutti insieme provenienti da 20 diverse nazioni. Nel 2017 ha co-fondato una prima industria farmaceutica (Oncurious) e due anni dopo, una seconda industria chiamata Montis Biosciences, e detiene 15 brevetti. Negli ultimi 5 anni, Mazzone ha co-sviluppato due farmaci anti-tumorali che hanno visto la fase sperimentale clinica in collaborazione con due altre aziende farmaceutiche, ed ha maturato l’idea per un kit diagnostico per il cancro al colon. La ricerca del suo team si focalizza da sempre sull’infiammazione in particolare nel tumore ma anche in altre condizioni patologiche come rigenerazione ed infezioni, ponendo la carenza di ossigeno (meglio conosciuta come ipossia) e il metabolismo al centro delle sue scoperte. Recentemente, il focus della sua ricerca si è centralizzato sui meccanismi di resistenza all’immunoterapia dei tumori. Mazzone ha contribuito in maniera fondamentale in questi settori della biologia ed è riconosciuto come un leader mondiale emergente nei campi dell’infiammazione e della regolazione del microambiente tumorale.

 

Testo e immagini dall’Università degli Studi di Torino

Cancro al colon-retto: la scoperta che facilita l’inibizione del gene “incurabile”

 

Pubblicato sulla rivista “Cancer Discovery” lo studio che suggerisce come aggredire clinicamente i tumori con la mutazione G12C del gene KRAS utilizzando farmaci contro il Recettore del Fattore di Crescita Epidermico 

cancro colon-retto gene
Immagine di Elionas2

È stato pubblicato, sulla rivista scientifica Cancer Discovery, lo studio dal titolo “EGFR blockade reverts resistance to KRASG12C inhibition in colorectal cancer”, condotto da un team internazionale di esperti guidato da Alberto Bardelli, direttore del Laboratorio di Oncologia Molecolare all’IRCCS Candiolo e docente del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e coordinato da Sandra Misale, dottorata dell’Università di Torino, e attualmente ricercatrice associata al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York. Il team ha esaminato su modelli cellulari gli effetti di AMG510, un farmaco sperimentale contro il cancro che agisce da inibitore del gene KRAS G12C.

KRAS è uno dei geni mutati più comuni nei tumori umani, come il cancro ai polmoni, al colon-retto e al pancreas. Questo gene è stato considerato incurabile per decenni, fino al recente sviluppo di una nuova classe di inibitori covalenti, tra cui il promettente AMG510, capaci di inibire una delle versioni mutanti del KRAS, la G12C. Tale mutazione è presente in una frazione di pazienti affetti da cancro ai polmoni e al colon-retto. L’utilizzo dell’inibitore AMG510 del gene KRAS G12C, seppur in una fase ancora sperimentale, ha mostrato risultati promettenti sui pazienti colpiti da cancro ai polmoni. Tuttavia, per i pazienti affetti da cancro al colon-retto i risultati sono stati meno positivi.

Lo studio, che ha come primi autori il dottorando dell’Università di Torino Vito Amodio e la ricercatrice Pamela Arcella, ha provato a spiegare i meccanismi di resistenza agli inibitori del gene KRAS G12C nel cancro al colon-retto. Usando modelli in vitro preclinici, hanno dimostrato che, nonostante la presenza della stessa mutazione del gene KRAS, le linee cellulari del cancro ai polmoni e del cancro al colon-retto rispondevano in modo differente all’inibizione del gene KRAS G12C. Le cellule del cancro ai polmoni subivano un’inibizione forte e duratura, mentre la crescita delle cellule del cancro al colon-retto veniva ostacolata solo marginalmente e per un breve periodo di tempo.

“In questo lavoro, abbiamo cercato di comprendere i meccanismi alla base delle differenze di lignaggio nelle cellule del cancro ai polmoni e del cancro al colon-retto”, dichiara Sandra Misale. “I dati ci dicono che, nonostante ospitino la stessa mutazione, ci sono differenze intrinseche nel manifestarsi tra i due tipi di cancro, che si traduce in sensibilità diverse dell’inibizione del gene KRAS G12C. Queste scoperte hanno una rilevanza immediata per i pazienti affetti da cancro al colon-retto con un tumore causato dalla mutazione del gene KRAS G12C”.

 Alla base di questa differenza ci sono vari livelli di attivatori del gene KRAS nei due diversi tipi di tumore. I recettori presenti sulla superficie delle cellule, in particolare i recettori del fattore di crescita epidermico, sono proteine coinvolte nella fisiologica attivazione del gene KRAS nelle cellule. Questo studio ha dimostrato che, nel cancro al colon-retto, tale meccanismo di attivazione è responsabile della limitata risposta all’inibizione di KRAS G12C.

Attaccando i recettori del fattore di crescita epidermico con medicinali mirati, i ricercatori hanno dimostrato che i modelli di cancro al colon-retto trattati con inibitori del gene KRAS G12C possono bloccare la proliferazione e indurre la morte delle cellule tumorali. Questi medicinali mirati – anticorpi monoclonali – sono già approvati per il trattamento di altri sottotipi di cancro al colon-retto. Il gruppo di ricerca ha testato questa combinazione farmacologica in modelli preclinici derivati da pazienti affetti da cancro al colon-retto, fra cui organoidi tumorali, riscontrando una riduzione della crescita del cancro in alcun i casi completa regressione del tumore.​

Nel futuro, grazie a questo studio sperimentale, che necessita di conferme sull’uomo, si potrebbero aprire nuove prospettive per l’approccio ai malati con tumore del colon-retto.

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Mutazioni BRCA: un rischio anche per gli uomini. Caratterizzazione dello spettro dei tumori negli uomini con mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2

Foto di Ryan McGuire

Un nuovo studio internazionale coordinato dal Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza e sostenuto anche da Fondazione AIRC, ha fatto luce sullo spettro dei tumori che insorgono negli uomini con mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista JAMA Oncology

Le mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 rappresentano un rilevante esempio di medicina di genere, pur essendo ereditate in ugual misura dai due sessi. Il loro ruolo nella suscettibilità alle forme ereditarie di neoplasie prettamente femminili, come tumori della mammella e dell’ovaio, è ben conosciuto ed è entrato di routine nella pratica clinica; al contrario, l’impatto sul rischio oncologico delle stesse mutazioni nei soggetti di sesso maschile è meno noto.

Uno studio coordinato da Laura Ottini del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza, in collaborazione con il consorzio internazionale CIMBA (Consortium for Investigators of Modifiers of BRCA1/2), ha evidenziato importanti e peculiari caratteristiche nello spettro dei tumori che insorgono negli uomini con queste mutazioni. I risultati della ricerca sostenuta anche da Fondazione AIRC sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista JAMA Oncology.

“Grazie alla collaborazione di oltre 50 gruppi di ricerca in tutto il mondo, abbiamo ottenuto e analizzato i dati clinici di circa 7000 uomini portatori di mutazioni BRCA1 e BRCA2” – spiega Valentina Silvestri del Dipartimento di Medicina molecolare, responsabile dell’analisi dei dati. “Mentre nelle donne è noto che i due geni BRCA hanno un impatto diverso sul rischio oncologico, poco si sapeva su eventuali analoghe differenze negli uomini. Lo studio ci ha permesso di confrontare le caratteristiche cliniche degli uomini con mutazioni di BRCA1 con quelle degli uomini con mutazioni di BRCA2 in un’ampia casistica, a oggi la più numerosa in letteratura, in modo da mettere in luce eventuali differenze”.

 I risultati mostrano che, a differenza di quanto accade nelle donne, dove è BRCA1 a conferire un maggior rischio, gli uomini con mutazioni di BRCA2 hanno una probabilità circa tre volte maggiore di avere un tumore rispetto a quelli con mutazioni di BRCA1. In particolare, i tumori alla mammella, alla prostata e al pancreas sono significativamente più frequenti negli uomini con mutazioni di BRCA2 rispetto a BRCA1, come pure più comuni in questo gruppo sono più neoplasie nel corso della vita e un’età più giovane di insorgenza della malattia. Di contro, lo spettro di tumori negli uomini con mutazioni di BRCA1 è risultato più eterogeneo, con una maggiore frequenza di cancro al colon.

“Per migliorare l’efficacia dei programmi di screening e sorveglianza oncologica negli uomini con mutazioni BRCA si dovranno prendere in considerazione queste differenze” – afferma Laura Ottini. “In generale, i risultati di questo studio potranno aiutare gli oncologi a sensibilizzare gli uomini con mutazioni BRCA nella percezione del loro rischio oncologico personale, e non più solo delle loro familiari di sesso femminile. Inoltre, questi dati contribuiranno a orientare i prossimi studi, su cui stiamo già lavorando, al fine di sviluppare linee guida sempre più personalizzate e specifiche per genere, in modo da garantire una migliore gestione clinica a tutti i pazienti”.

Riferimenti:
Characterization of the cancer spectrum in men with germline BRCA1 and BRCA2 pathogenic variants: Results from the Consortium of Investigators of Modifiers of BRCA1/2 (CIMBA) – Silvestri V, Leslie G, Barnes DR, … Ottini L. – JAMA Oncology (2020) DOI 10.1001/jamaoncol.2020.2134

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

“Ingrandisci. Ancora. Adesso metti a fuoco”. Si tratta della tipica frase che potevamo registrare alla fine degli anni ’90 in tutti i film e le serie crime, quando un piccolo dettaglio sfocato, rilevato in una registrazione delle telecamere di sorveglianza veniva (poco credibilmente) ingrandito, messo a fuoco, per poi rivelarsi una traccia portante nella risoluzione del mistero.

E se questo stesso piccolo dettaglio esistesse, ma all’interno del nostro cervello? Il paragone, molto alla lontana, è calzante se parliamo di neuroscienze forensi.

Le neuroscienze forensi sono un campo dagli sviluppi relativamente recenti ed innovativi, che si propone di “ingrandire e mettere a fuoco” correlati neurali di alcuni concetti giuridici, per portare a galla la “verità”.

Quando si parla di neuroscienze forensi?

Statua della giustizia - Neuroscienze forensi
Foto di jessica45

Quando è necessario fare ricorso a questa disciplina? Laddove diventa difficile estrarre alcune classi di informazioni, le neuroscienze forensi presentano strumenti innovativi per dare risposte a quesiti impegnativi. Ecco riportati alcuni esempi.

Lo studio del vizio di mente (parziale o totale) e come questo ha influito sulla capacità di intendere e di volere

Il nostro sistema giuridico esercita una “tutela retroattiva” nei confronti dei cittadini. Questo vuol dire che commettere un reato per colpa di una condizione mentale che interferisce con la capacità di intendere e di volere avrà delle conseguenze differenti per la persona. La regolamentazione relativa ad imputabilità e vizio di mente totale o parziale è meglio chiarita negli articoli del codice penale 88, 89 e 90. Particolare attenzione va posta su quest’ultimo articolo che afferma che gli stati emotivi o passionali “non escludono né diminuiscono l’imputabilità”. Qui in particolare spicca il ruolo del perito: cosa è vizio di mente e cosa è semplice stato emotivo o passionale? Quando il vizio di mente è tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere? Quando invece il vizio di mente non giustifica comunque l’atto commesso (come nei casi della pedofilia o nei disturbi di personalità)? Se fino ad oggi si è preferito un approccio convenzionalista, dove vi erano delle regole imposte per “convenzione”, le neuroscienze forensi aprono uno spiraglio sul creare delle basi interpretative più solide ai fini della perizia, non sostituendo ma integrando quella psichiatrica.

L’analisi dell’idoneità

Ma idoneità a fare cosa? Alla guida, al porto d’armi, a testimoniare, a fare testamento. Un cliente che appare sveglio e collaborativo può mettere in atto importanti strategie dette “di compenso” per nascondere in realtà una serie di deficit cognitivi. I referti di neuroimmagine, in combinazione con esami neurologici e test neuropsicologici, possono mettere in evidenza disturbi che a livello ecologico (nella vita di tutti i giorni) potrebbero passare facilmente inosservati.

Scoprire le simulazioni

Probabilmente sembrerà sorprendente, ma per i traumi cranici lievi i soggetti che simulano un danno nella richiesta di risarcimento sono fra un terzo e la metà di tutti i casi (Stracciari, Sartori, & Bianchi, 2010).  Non solo, ancora più sorprendente: la prognosi e la gravità del colpo di frusta a seguito di incidente stradale sembrano essere dipendenti dai sistemi assicurativi e di risarcimento connessi a quel genere di danno (Cassidy et al., 2000). A questo punto, o i soldi hanno un magico potere curativo, o la simulazione è in qualche maniera coinvolta. C’è di più che non si tratta di malfattori convinti e senza rimorso: molto spesso la simulazione è messa in atto a livello inconsapevole. Le neuroscienze forensi hanno diversi modi per scoprire la simulazione. I correlati neurali rilevati con le neuroimmagini spesso possono documentare la reale esistenza di una patologia o meno.  E quando i correlati neurali sono assenti (tipico nei traumi cranici, nelle intossicazioni o nei danni da folgorazione ad esempio) molti test, neuropsicologici e non, presentano delle metodologie o delle sottoscale che permettono di rilevare con un certo livello di accuratezza il danno presente e se la persona sta mentendo o se lo sta esagerando.

Tecniche innovative per un’investigazione innovativa

Detective - Neuroscienze forensi
Foto di SamWilliamsPhoto

Appurati i numerosi usi delle neuroscienze forensi, quali sono alcuni esempi di queste tecniche di cui parlo da inizio articolo? Alcuni li ho già citati nel paragrafo precedente, ma andiamo a vederli insieme più nel dettaglio.

Test neuropsicologici nelle neuroscienze forensi

Test - Neuroscienze forensi
Foto di Tumisu

Elemento portante delle neuroscienze forensi, i test neuropsicologici associano un’affidabilità e un’oggettività moderatamente elevata (grazie alle loro caratteristiche “performance based” ossia di valutazione quantitativa della performance) alla valutazione di caratteristiche funzionali che non è possibile dedurre in altre maniere. Alcuni esempi?

  • Un tumore in una determinata sede non presenta gli stessi effetti in tutte le persone;
  • Essere anziani, avere una demenza in primissima fase o aver subito un trauma cranico non sono di per sé condizioni sufficienti a togliere la patente ad una persona (Dobbs, Carr, & Morris, 2002);
  • Lesioni derivate ad esempio da traumi cranici lievi, colpo di frusta, intossicazione da sostanze, ecc. spesso non presentano alcun correlato neuroradiologico (Stracciari et al., 2010).

Somministrare i test neuropsicologici permette comunemente di valutare lo stato mentale generale oltre che di funzioni specifiche per l’esercizio di determinate abilità. Ad esempio:

  • Verificare lo stato delle funzioni esecutive (pianificazione, inibizione degli impulsi, ecc) si rivelerà ad esempio fondamentale per determinare se la persona è in grado di guidare;
  • Descrivere lo stato delle funzioni di memoria e linguaggio potrebbe essere fondamentale per determinare se un testimone è idoneo a prestare testimonianza;
  • Alcuni importanti indici clinico-anamnestici permettono di valutare quale potesse essere lo stato mentale di una persona prima di un incidente, così da confrontarlo con lo stato post-traumatico e determinare l’entità del danno. Un indice particolarmente usato a questo scopo in Europa è la “formula di Pichot”;
  • Scoprire se una persona sta facendo finta di avere un disturbo o meno:
    • Alcune scale di valutazione psicopatologica ad esempio presentano degli indici che determinano “Quanto si sta fingendo di avere o non avere un disturbo”. Ne è un esempio il Millon Clinical Multiaxial Inventory III (MCMI-III) (che però è un test psicodiagnostico);
    • Dal punto di vista neuropsicologico un esempio è il Test of Memory Malingering (TOMM) che analizza attraverso criteri probabilistici se si sta fingendo di avere un disturbo amnesico o meno.
Aspetti critici dei test neuropsicologici

Sicuramente splendido ma permangono rischi e perplessità. Il rischio che i test diventino strumenti utilizzabili da chiunque e fuori contesto. Molti dei miei professori di neuropsicologia mettevano in evidenza la differenza fondamentale fra un bravo neuropsicologo, in grado di integrare tutta una serie di elementi clinici, e un testista, che semplicemente si limita a somministrare il test.

Due mie esperienze personali sono esemplificative di questa differenza:

  • Recentemente mi è stato somministrato l’MCMI per questioni di indagine clinica. Secondo il test l’unico disturbo che mi caratterizza è un disturbo di personalità schizoide (robetta da poco). La realtà, che viene messa in evidenza solo al colloquio con il clinico, è che in passato ho avuto diverse difficoltà a relazionarmi con le persone: benché le abbia superate, questa situazione ha portato degli strascichi sintomatici che si identificano in parte con il disturbo di personalità schizoide. Ma non ho assolutamente niente e fare una diagnosi di questo tipo sulla base di un singolo test sarebbe davvero improponibile.
  • Mentre assistevo alla mia prima valutazione neuropsicologica dal vivo, il neuropsicologo con cui collaboravo chiese al paziente di ricopiare un disegno di una casa. Si tratta di un test che serve a valutare la presenza di aprassia costruttiva. Il paziente, benché manifestasse segni clinici particolarmente interessanti (altro elemento importante che può essere notato solo dal clinico e non dai risultati del test), eseguì un disegno pressoché accettabile della casetta. Ciononostante, il mio tutor indicò ugualmente una probabile aprassia costruttiva sulla scheda del paziente. Alla mia domanda di ulteriori spiegazioni (ovviamente dopo che il paziente era andato via), il mio tutor mi fece notare come gli errori commessi dal paziente nel disegno fossero accettabili, ma non da un paziente che in passato aveva lavorato in un ambito che richiedeva di eseguire disegni e rappresentazioni con una certa precisione. Tale competenza pregressa indicava che dovesse esserci in corso una reale compromissione perché questa abilità si degradasse.

Alla luce di queste osservazioni diventa evidente come non solo i test non siano di per sé completamente oggettivi, ma che un’interpretazione complessiva e contestualizzata sia fondamentale per comprenderne il significato. La necessità di un’interpretazione può talvolta rappresentare un punto critico sul quale la parte opposta può far leva per far crollare un’ipotesi.

Tecniche di neuroimmagine

DTI - Neuroscienze forensi
Nell’immagine GR_Image: Rappresentazione ottenuta tramite DTI (Diffusion Tensor Imaging), una tecnica di neuroimaging basata sulla risonanza magnetica. Il suo scopo principale è determinare le principali connessioni strutturali fra le aree cerebrali, in particolare per permettere lo studio della sostanza bianca e di alcune sue caratteristiche specifiche.

Avere referti di neuroimmagine rappresenta un’evidenza difficile da mettere in discussione in ambito forense. Una lesione in area prefrontale dorsolaterale, documentata ad esempio con una PET che rileva un calo metabolico focale, associata ad un basso punteggio in batterie che valutano funzioni esecutive e memoria di lavoro, sarà molto difficile da mettere in discussione in diversi contesti forensi.

La scelta dello strumento adeguato necessario a dimostrare la propria ipotesi è fondamentale in ambito forense, dove l’obiettivo non è la “diagnosi clinica”. Se si lavora come perito diventa essenziale trovare l’evidenza che risponda alla domanda posta dal giudice. Se si lavora come consulente tecnico di parte diventa essenziale trovare gli elementi che supportino le tesi dell’avvocato. Fortunatamente, le neuroscienze mettono a disposizione numerosi strumenti tecnici per raggiungere entrambi gli obiettivi:

  • Neuroimmagini strutturali, permettono di rilevare la struttura cerebrale in vivo (ossia nel soggetto ancora in vita, laddove fino a poco tempo fa l’analisi strutturale poteva essere eseguita solo post-mortem). Include esami quali la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) o la MRI (Risonanza Magnetica). Un derivato molto interessante della MRI è la VBM (Voxel Based Morphometry) che permette di eseguire controlli sulla microstruttura cerebrale al fine di determinare la densità della materia grigia (principalmente quella corticale) e della materia bianca (le strutture connettive del cervello) così da rilevare anche microlesioni e piccole differenze rispetto ai soggetti sani. Un’altra tecnica particolarmente utile a valutare la struttura connettiva del cervello è la DTI (Diffusion Tensor Imaging), che permette di rilevare le connessioni presenti fra aree cerebrali (un esempio di DTI è riportato nella figura all’inizio del paragrafo).
  • Neuroimmagini funzionali, complesse tecniche che permettono di rilevare il funzionamento cerebrale in base ad esempio al metabolismo del glucosio o alle variazioni del flusso sanguigno. Ne sono esempi tipici PET  e fMRI. Si basano sull’assunto che una maggior attività cerebrale in un’area si connetta ad una maggiore richiesta di sangue e di glucosio nella relativa area. Sono particolarmente utili quando si vuole verificare il grado di attivazione di un’area a fronte di un compito che si ritiene la coinvolga, per determinare la presenza di correlati neurali al deficit funzionale.
Aspetti critici delle tecniche di neuroimmagine

Purtroppo (o per fortuna) le tecniche di neuroimmagine non necessariamente parlano da sole. Benchè in molti casi una neuroimmagine possa essere autoesplicativa (una lobectomia sinistra associata alla compromissione del linguaggio è più un fatto che un’opinione) in molti altri trarre delle conclusioni è un aspetto tutt’altro che automatico. Un importante caso di studio nell’ambito delle neuroscienze forensi riporta un contrasto non indifferente sopra il danno derivato da un Clivus Chordoma, una forma di neoplasia delle ossa del cranio. L’interpretazione delle alterazioni funzionali derivate è stata forte oggetto di dibattito nel determinare se i comportamenti pedofiliaci del soggetto colpito fossero congeniti o derivati dal danno acquisito. Per approfondimento si rimanda a Farisco & Petrini, 2014; Sartori, Scarpazza, Codognotto, & Pietrini, 2016; Scarpazza, Pellegrini, Pietrini, & Sartori, 2018.

Tecniche psicofisiologiche

Elettrocardiogramma
Foto di PublicDomainPictures

Le tecniche psicofisiologiche studiano la relazione sussistente fra alcuni parametri fisici e il funzionamento cerebrale. Partono dall’assunto che questi parametri fisici rispondano di alcune funzioni cerebrali attraverso l’azione del Sistema Nervoso Autonomo. Alcuni esempi rilevanti per l’ambito delle neuroscienze forensi:

  • La risposta di startle è un riflesso automatico che si verifica in seguito a stimoli intensi e improvvisi volto a proteggere le parti del corpo fragili (in parole povere, il sobbalzo che abbiamo quando sentiamo rumori forti). Essendo mediato dall’amigdala, lo startle è maggiore quando si è in presenza di stimoli negativi (ad esempio di armi) ed è minore quando si è in presenza di stimoli positivi (ad esempio del cibo). In individui psicopatici, la presenza di stimoli negativi non aumenta lo startle, anzi. La vista di immagini connesse a vittime di aggressione sembra ridurre lo startle  (Levenston, Patrick, Bradley, & Lang, 2000). La misurazione dello startle può quindi essere utile nell’identificazione di predisposizioni congenite o acquisite alla psicopatia.
  • La risposta di conduttanza cutanea è una variazione della resistenza elettrica della cute dovuta ad una variazione delle condizioni dei dotti sudoripari. Questa variazione è legata all’azione del sistema simpatico, la branca del Sistema Nervoso Autonomo che si occupa di “proteggerci” con la risposta attacco o fuga. Nel corso di un test chiamato Iowa Gambling Task le nostre emozioni sono in grado di guidare inconsapevolmente le nostre scelte per permetterci di ottenere la prestazione migliore. L’ipotesi dei marcatori somatici di Damasio evidenzia come in presenza di scelte complesse si attivi un complesso sistema di simulazione fisico e mentale che identifica le scelte sbagliate rispetto a quelle giuste. Questo sistema è mediato da un complesso circuito cerebrale che trova la sua principale espressione nella corteccia prefrontale ventromediale. L’attivazione dei marcatori somatici nello Iowa Gambling Task si riflette nella presenza di una risposta di conduttanza cutanea maggiore prima che venga eseguita una scelta scorretta (Damasio, 1996).  È stato evidenziato come invece in pazienti con danno frontale questo stesso meccanismo non si ripresenti. Lo Iowa Gambling Task presenta infatti risultati decisamente peggiori in questi soggetti (Bechara, Damasio, Tranel, & Damasio, 1997). Valutare la risposta di conduttanza cutanea allo Iowa Gambling Test in soggetti con danno frontale può aiutare a determinare la loro capacità di prendere scelte giuste nel corso della loro vita; un’alterazione del sistema dei marcatori somatici può mettere in dubbio la capacità di scelta del soggetto, e quindi quella più generale di intendere e di volere.
  • I potenziali evento relati sono degli elementi che si presentano nel tracciato elettroencefalografico a fronte di determinati stimoli. La loro interpretazione permette di identificare i processi cognitivi in azione nel cervello della persona. Un esempio d’uso dei potenziali evento relati consiste nel valutare i correlati neurali della capacità di inibire le risposte impulsive della persona e quindi la neurobiologia del reato d’impeto.
  • Evidenze psicofisiologiche cliniche, ossia tutti gli elementi psicofisiologici che possono fornire ulteriore evidenza in relazione ad una presupposta condizione psicopatologica. Ad esempio, soggetti con disturbo da stress post-traumatico (PTSD) presentano frequenza cardiaca, conduttanza cutanea e risposta di startle più elevati sia a riposo che in reazione a stimoli negativi (Orr & Roth, 2000).
Aspetti critici delle tecniche psicofisiologiche

Problema principale delle tecniche psicofisiologiche è lo stesso che caratterizza la famosa macchina della verità: gli indicatori psicofisiologici non sono specifici.

L’incremento della frequenza cardiaca, ad esempio, non solo non è univocamente interpretabile in relazione all’azione del Sistema Nervoso Autonomo (ossia, può dipendere sia dal sistema parasimpatico che simpatico, quindi è di difficile interpretazione), ma è presente in numerosissime condizioni psicopatologiche. Non solo: a volte è semplicemente dovuto a condizioni non patologiche, oppure ad alterazioni di tipo fisico che hanno ben poco a che fare con lo stato mentale. La conduttanza cutanea è un indice particolarmente instabile sia nella misurazione che nella sua connessione ad eventi reali. E la rilevazione dei potenziali evento relati, oltre ad essere lunga e faticosa, si confronta con un certo grado di “rumore statistico” dipendente soprattutto dalla qualità della registrazione.
Se si vuole far ricorso a tecniche psicofisiologiche nell’ambito delle neuroscienze forensi bisogna partire dal presupposto che possano solo supportare l’ipotesi e molto difficilmente possano essere la base di partenza.

Genetica comportamentale

DNA
Foto di Darwin Laganzon

La genetica comportamentale è quel campo che si occupa di studiare la maniera in cui determinate strutture genetiche possono influire sullo sviluppo di comportamenti e attitudini. Elemento determinante della genetica comportamentale è il concetto di polimorfismo genetico. In breve, un polimorfismo genetico consiste in una mutazione genetica presente con una frequenza superiore all’1% nella popolazione. Alcuni esempi di polimorfismi e della loro azione sul comportamento sono:

  • Polimorfismi del gene 5-HT sembrano essere coinvolti in diversi disturbi quali “Disturbi dell’umore, PTSD, tendenze suicide, OCD, autismo, ecc” (Margoob & Mushtaq, 2011);
  • Il polimorfismo funzionale (Val/Met) del gene COMT sembra alterare la funzionalità delle funzioni esecutive e la fisiologia della corteccia prefrontale ed è stato identificato come fattore di rischio per la schizofrenia (J. B. Fan et al., 2005);
  • Le monoammino ossidasi (MAO) sono enzimi il cui ruolo è metabolizzare i neurotrasmettitori monoamminergici (come ad esempio serotonina, dopamina, ecc). Di conseguenza un’azione eccessiva  della MAO può portare ad una riduzione eccessiva della serotonina, meccanismo potenzialmente connesso alla depressione. Al contrario, un’insufficiente azione della MAO può essere connessa ad una presenza eccessiva di neurotrasmettitori come la dopamina, potenzialmente connesso a comportamenti aggressivi e impulsivi. Diversi studi supportano il ruolo dei polimorfismi del gene MAOA nella predisposizione a depressione, disturbo bipolare (M. Fan et al., 2010) e impulsività (Huang et al., 2004).
Aspetti critici della genetica comportamentale

Benché le evidenze siano diffuse, è difficile trovare un’opinione univoca e il grado di interferenza reale delle componenti genetiche in un sistema così complesso come il cervello. Come esempio, la precision medicine, una branca della medicina che si propone di generare terapie fatte apposta per il singolo paziente, si ripropone fra le altre cose di recuperare informazioni di ordine genetico per massimizzare l’efficacia terapeutica, ma nel piano pratico diversi studi sull’influenza genetica sono ancora insufficienti per dare un reale contributo su questo piano.

Come se non bastasse, l’azione dei geni è estremamente dipendente dall’ambiente in cui l’individuo è immerso, secondo i moderni principi di epigenetica. Secondo il modello diatesi-stress, una predisposizione genetica a sviluppare una condizione psichiatrica (ad esempio la schizofrenia) può rimanere solo una predisposizione se non si verificano delle condizioni sufficientemente stressanti che causino il manifestarsi della problematica.

Un esempio affascinante e decisamente portante dell’influenza epigenetica riguarda propriamente l’azione dei geni MAOA  e 5-HT. Infatti, benché il polimorfismo esponga i bambini a sviluppare i disturbi sopra discussi nel corso della crescita, questo si verifica solo se tali bambini sono esposti ad un ambiente abusivo. Bambini che presentano tali polimorfismi cresciuti correttamente in un ambiente stimolante diventano, al contrario, più resistenti allo sviluppo di patologie comportamentali e psichiatriche (Belsky & Pluess, 2009; Taylor et al., 2006).

Conclusioni

Detective
Photo by Ali Hajian

In questo articolo abbiamo osservato i potenziali sviluppi giuridici apportati dalle neuroscienze forensi e come questi strumenti, come tutti gli strumenti, vadano utilizzati con cautela e con cognizione di causa. Le neuroscienze forensi non hanno la pretesa di sostituire le classiche perizie psichiatriche o di rigenerare il campo giuridico, quanto piuttosto di fornire un’integrazione volta ad una ricerca di una verità che sia supportabile scientificamente.

Quali prospettive per il futuro? Ancora non possiamo prevedere l’estensione di tecnologie quali il mind reading, che analizza l’attivazione cerebrale associata al pensiero, o l’uso dell’intelligenza artificiale per diversi scopi, quali la detezione delle menzogne o l’avanzamento degli studi sulla memoria e sul riconoscimento dei volti. Ma con lo sviluppo di queste nuove tecnologie non va dimenticato l’importante ruolo dell’etica nell’ambito neuroscientifico, oltre che il fondamentale e insostituibile ruolo dei giudizi di valore, competenza unica ed esclusiva del giudice.

Bibliografia sulle neuroscienze forensi:

  • Bechara, A., Damasio, H., Tranel, D., & Damasio, A. R. (1997). Deciding advantageously before knowing the advantageous strategy. Science, 275(5304), 1293–1295. https://doi.org/10.1126/science.275.5304.1293
  •  Belsky, J., & Pluess, M. (2009). Beyond Diathesis Stress: Differential Susceptibility to Environmental Influences. https://doi.org/10.1037/a0017376
  •  Cassidy, J. D., Carroll, L. J., Côté, P., Lemstra, M., Berglund, A., & Nygren, Å. (2000). Effect of Eliminating Compensation for Pain and Suffering on the Outcome of Insurance Claims for Whiplash Injury. New England Journal of Medicine, 342(16), 1179–1186. https://doi.org/10.1056/NEJM200004203421606
  •  Damasio, A. R. (1996). The somatic marker hypothesis and the possible functions of the prefrontal cortex. Philosophical Transactions of the Royal Society of London. Series B: Biological Sciences, 351(1346), 1413–1420. https://doi.org/10.1098/rstb.1996.0125
  •  Dobbs, B. M., Carr, D. B., & Morris, J. C. (2002). Evaluation and Management of the Driver with Dementia. The Neurologist, 8(2), 61–70. https://doi.org/10.1097/00127893-200203000-00001
  •  Fan, J. B., Zhang, C. S., Gu, N. F., Li, X. W., Sun, W. W., Wang, H. Y., … He, L. (2005). Catechol-O-methyltransferase gene Val/Met functional polymorphism and risk of schizophrenia: A large-scale association study plus meta-analysis. Biological Psychiatry, 57(2), 139–144. https://doi.org/10.1016/j.biopsych.2004.10.018
  •  Fan, M., Liu, B., Jiang, T., Jiang, X., Zhao, H., & Zhang, J. (2010). Meta-analysis of the association between the monoamine oxidase-A gene and mood disorders. Psychiatric Genetics, 20(1), 1–7. https://doi.org/10.1097/YPG.0b013e3283351112
  •  Farisco, M., & Petrini, C. (2014). On the stand. Another episode of neuroscience and law discussion from Italy. Neuroethics, 7(2), 243–245. https://doi.org/10.1007/s12152-013-9187-7
  •  Huang, Y. Y., Cate, S. P., Battistuzzi, C., Oquendo, M. A., Brent, D., & Mann, J. J. (2004). An association between a functional polymorphism in the monoamine oxidase A gene promoter, impulsive traits and early abuse experiences. Neuropsychopharmacology, 29(8), 1498–1505. https://doi.org/10.1038/sj.npp.1300455
  •  Levenston, G. K., Patrick, C. J., Bradley, M. M., & Lang, P. J. (2000). The psychopath as observer: Emotion and attention in picture processing. Journal of Abnormal Psychology, 109(3), 373–385. https://doi.org/10.1037/0021-843X.109.3.373
  •  Margoob, M. A., & Mushtaq, D. (2011, October). Serotonin transporter gene polymorphism and psychiatric disorders: Is there a link. Indian Journal of Psychiatry. Wolters Kluwer — Medknow Publications. https://doi.org/10.4103/0019-5545.91901
  • Orr, S. P., & Roth, W. T. (2000). Psychophysiological assessment: Clinical applications for PTSD. Journal of Affective Disorders, 61(3), 225–240. https://doi.org/10.1016/S0165-0327(00)00340-2
  • Sartori, G., Scarpazza, C., Codognotto, S., & Pietrini, P. (2016, July 1). An unusual case of acquired pedophilic behavior following compression of orbitofrontal cortex and hypothalamus by a Clivus Chordoma. Journal of Neurology. Dr. Dietrich Steinkopff Verlag GmbH and Co. KG. https://doi.org/10.1007/s00415-016-8143-y
  •  Scarpazza, C., Pellegrini, S., Pietrini, P., & Sartori, G. (2018). The Role of Neuroscience in the Evaluation of Mental Insanity: on the Controversies in Italy: Comment on “on the Stand. Another Episode of Neuroscience and Law Discussion from Italy.” Neuroethics, 11(1), 83–95. https://doi.org/10.1007/s12152-017-9349-0
  •  Stracciari, A., Sartori, G., & Bianchi, A. (2010). Neuropsicologia forense. Il mulino.
  •  Taylor, S. E., Way, B. M., Welch, W. T., Hilmert, C. J., Lehman, B. J., & Eisenberger, N. I. (2006). Early Family Environment, Current Adversity, the Serotonin Transporter Promoter Polymorphism, and Depressive Symptomatology. https://doi.org/10.1016/j.biopsych.2006.04.019

Tumori del seno: un nuovo algoritmo indicherà la cura su misura

Identificato allo IEO, dai ricercatori guidati da Di Fiore e Pece, lo studio è stato sostenuto da Fondazione AIRC.

I ricercatori del Programma di Novel Diagnostics dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), guidati da Pier Paolo Di Fiore e Salvatore Pece, direttore e vice direttore del Programma e docenti del dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università Statale di Milano, hanno messo a punto e convalidato un nuovo modello di predizione del rischio individuale di metastasi in donne con tumori mammari di tipo luminale, che rappresentano i tre quarti di tutti i tumori al seno.
Il modello sarà quindi una guida per gli oncologi per orientare le scelte terapeutiche paziente per paziente, evitando sia il sovra che il sotto-trattamento nelle terapie post-chirurgiche. Gli studi che hanno portato a questo importante risultato per la cura dei tumori del seno, sostenuti da Fondazione AIRC, saranno presentati al convegno annuale dell’ASCO (American Association of Clinical Oncology), il più importante meeting internazionale di oncologia medica.

Il nuovo modello – spiega Di Fiore – si basa sulla combinazione del predittore genomico (un set di geni che formano una “firma molecolare”) StemPrintER, che noi stessi abbiamo scoperto e validato un anno fa, con due parametri clinici: stato dei linfonodi e dimensione del tumore. In sostanza, abbiamo creato un nuovo modello di rischio, che associa, per la prima volta, dati clinici e dati genomici. Il risultato è stato eccellente: abbiamo testato il modello su oltre 1800 pazienti arruolate allo IEO e abbiamo dimostrato che la sua capacità di stimare il reale rischio di sviluppo di recidiva fino a 10 anni è superiore rispetto ai parametri clinico-patologici comunemente utilizzati nella pratica clinica”.

Il biomarcatore StemPrinter, individuato da IEO, è il primo e tuttora l’unico strumento capace di indicare il grado di “staminalità” presente nel tumore mammario primario, vale a dire il numero e l’aggressività delle cellule staminali del cancro. Queste cellule hanno un ruolo cruciale sia nell’avvio del processo di tumorigenesi che della diffusione metastatica nell’organismo, e sono anche alla base della resistenza alla chemioterapia di ogni tumore del seno. Studi recenti del team dell’IEO hanno inoltre confermato che il grado di staminalità delle cellule determina quell’eterogeneità biologica, clinica, e molecolare del tumore del seno, che ha fino ad ora reso molto difficile prevedere la prognosi e la risposta alla terapia.

“In uno studio condotto in collaborazione con Royal Marsden Hospital e Queen Mary University di Londra e anch’ esso presentato all’ASCO di quest’anno – continua Pece – abbiamo dimostrato che la predizione della prognosi e la conseguente scelta delle terapie per il tumore del seno è più efficace se si basa sulla conoscenza della staminalità delle cellule tumorali . Il nostro modello che integra dati di staminalità e dati clinici si candida quindi a diventare il golden standard per la prognosi del tumore del seno. È un modello duttile, oltreché affidabile: si applica sia alle pazienti con linfonodi negativi, che a quelle con pochi (da uno a 3) linfonodi positivi, che rappresentano il gruppo con il maggior bisogno di una predizione accurata del rischio di recidiva per evitare il sovratrattamento con chemioterapie aggressive non indispensabili, senza per questo trascurare il rischio di sviluppare una recidiva a distanza di anni”. 

“Il nuovo modello può rappresentare uno strumento importante per orientare noi oncologi nella scelta del trattamento adiuvante, che deve tenere in considerazione sia il rischio di recidiva della malattia che i vantaggi e gli svantaggi delle terapie mediche precauzionali”, commenta Marco Colleoni, direttore della Divisione di Senologia Medica e Co-chair dell’International Breast Cancer Study Group.

“I risultati del nostro studio rappresentano un ulteriore passo verso l’obiettivo che perseguiamo da anni: dare a ciascuna paziente la terapia migliore per lei e per la sua malattia – conclude Paolo Veronesi, direttore del Programma di Senologia IEO e professore associato all’Università degli Studi di Milano –. Grazie all’approccio multidisciplinare ed alla stretta interazione tra ricerca e clinica, la medicina personalizzata sta finalmente diventando una realtà anche per il tumore della mammella”.

Testo sull’algoritmo per le cure ai tumori del seno dall’Università Statale di Milano

Progeria: le alterazioni nucleari sono dovute a effetti meccanici

La scoperta nello studio del Centro per la Complessità e i Biosistemi della Statale pubblicato su “Biophysical Journal”.

 

In un articolo appena pubblicato su Biophysical Journal, i ricercatori del Centro per la Complessità e i Biosistemi dell’Università Statale di Milano hanno chiarito perché la morfologia del nucleo cellulare è alterata nei pazienti affetti da Progeria, combinando biologia cellulare quantitativa e simulazioni di modelli computazionali e aprendo, inoltre, nuovi scenari anche per lo studio delle cellule tumorali.

La Progeria, conosciuta anche come sindrome di Hutchinson–Gilford, è una patologia rara per cui al momento non ci sono cure. I pazienti soffrono di invecchiamento accelerato a causa di una mutazione del gene A della lamina, che produce una forma alterata della proteina, chiamata progerina.

Il nostro studio, che combina biologia cellulare quantitativa e simulazioni di modelli computazionali, fornisce una chiara comprensione dei meccanismi alla base dell’alterazione nucleare morfologica della progeria. In particolare, abbiamo dimostrato che la presenza di una piccola quantità di progerina è in grado di modificare le interazioni meccaniche tra il guscio nucleare e i legami con il citoscheletro e la cromatina, influenzando le proprietà meccaniche del nucleo e l’organizzazione della cromatina” – afferma Stefano Zapperi, professore di Fisica teorica della materia presso il dipartimento di Fisica “Aldo Pontremoli” dell’Università Statale di Milano.

“Abbiamo deciso di studiare questa patologia – spiega Caterina La Porta, docente di Patologia generale, a capo del gruppo Oncolab presso il dipartimento di Scienze e Politiche ambientali dello stesso Ateneo – perché ci ha incuriosito il fatto che la progerina si esprima anche nel cancro, il campo di ricerca principale del mio gruppo. Abbiamo capito che per chiarire il ruolo della progerina nei tumori, avremmo dovuto prima capire il suo comportamento nella progeria. C’e un importante paradosso visto che la progeria è associata all’invecchiamento accelerato, mentre le cellule tumorali in linea di principio non invecchiano mai“. Le prime autrici della ricerca sono Maria Chiara Lionetti, che ha svolto questo studio durante la sua tesi di dottorato, eseguendo tutti gli esperimenti su un modello cellulare di progeria di nuova concezione, e Silvia Bonfanti, assegnista di ricerca che ha effettuato simulazioni numeriche di meccanica nucleare.

Ora che abbiamo un quadro più chiaro della progeria, cominciamo a capire il ruolo della progerina nelle cellule tumoraliQuesti risultati saranno descritti in un prossimo articolo” – conclude Caterina La Porta, coordinatore dello studio insieme a Stefano Zapperi.

Testo dall’Università Statale di Milano