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Graziano Gigante

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Solitudine: “l’esperienza spiacevole che si verifica quando la rete delle relazioni sociali di un individuo è insufficiente sotto alcuni aspetti importanti, siano essi quantitativi o qualitativi” (Perlman & Peplau, 1984). Tutti quanti abbiamo vissuto all’interno della nostra vita dei momenti di solitudine, ma ciò che non ci aspettiamo è quanto questa possa variare per qualità, quantità e multidimensionalità. 

L’esperienza di solitudine sembra presentarsi occasionalmente nella vita dell’80% dei ragazzi sotto i 18 anni (Galanaki & Vassilopoulou, 2007). Questa percentuale varia seguendo una curva a U nell’arco di vita (Pinquart & Sorensen, 2001), ma il 15-30% degli individui sperimenta invece una esperienza di solitudine cronica (Heinrich & Gullone, 2006). A cosa è dovuta tale variabilità? È possibile che sia dovuta unicamente all’estensione della rete sociale? 

“Solitudine è sinonimo di isolamento sociale percepito, non isolamento sociale oggettivo” affermano Hawkley & Cacioppo (2010) nella loro review, “Le persone possono vivere una vita relativamente solitaria e non sentirsi sole, o, al contrario, possono vivere una vita sociale apparentemente ricca e sentirsi ugualmente sole”. Quando si entra nel campo della percezione i fattori chiamati in gioco diventano numerosi, individuali e soggettivi: personalità, etnia, età, stato di salute, sono solo alcuni esempi di ciò che può realmente influenzare l’esperienza di solitudine. 

Solitudine e salute

Dottoressa - Solitudine
Foto di Francisco Venâncio

Tale multidimensionalità diventa ancora più importante quando si considerano gli enormi rischi connessi all’esperienza cronica e intensa di solitudine. È sufficiente pensare che di per sé il rischio di morte prematura incrementi del 29% se vi è isolamento sociale e del 26% per la solitudine percepita. Tale incremento di rischio appare ancora più sorprendente in quanto molto simile a quello sperimentato da soggetti con condizioni patologiche conclamate, quali l’obesità di grado 2 o 3 (Holt-Lunstad, Smith, Baker, Harris & Stephenson, 2015).

Questo avviene in quanto a fronte di una esperienza di solitudine, reale o soggettiva, numerosi fattori, diretti e indiretti, possono compromettere aspetti relativi, ad esempio, a salute fisica, sonno, funzionamento fisiologico, espressione genica e sistema immunitario (per una review: Hawkley & Cacioppo, 2010). Alle condizioni attuali, il problema della solitudine potrebbe raggiungere dimensioni epidemiche entro il 2030 (Linehan et al., 2014), sebbene già ora la sua influenza diventi sempre più grave in concomitanza con l’emergenza COVID-19

Sulla base di ciò, diventa sempre più importante ed impellente identificare gli specifici fattori che giocano un ruolo individualizzato nel determinare quando e perché si sperimenta l’esperienza di solitudine. Una migliore comprensione del fenomeno è ciò che può favorire un approccio preventivo o terapeutico specializzato ed individualizzato nel “trattamento” della solitudine. 

È questa la direzione presa dallo studio di Franssen, Stijnen, Hamers & Schneider, (2020): le analisi condotte sulla popolazione olandese hanno messo in evidenza come tre diverse fasce d’età (giovani adulti, adulti di prima e di tarda mezza età) presentassero una diversa correlazione fra la percezione della solitudine e la presenza di fattori di vario genere. Ad esempio: i giovani sono particolarmente sensibili alla frequenza dei contatti con i loro amici; gli adulti nella prima mezza età percepiscono di più la solitudine se disoccupati; gli adulti nella tarda mezza età hanno una percezione della solitudine connessa al loro stato di salute fisica. 

Le implicazioni cliniche derivate da questo studio sono determinanti e concordi a quanto illustrato: “I fattori associati con la solitudine nella vita adulta possono essere compresi da una prospettiva basata su stadi di vita età-normati. Di conseguenza, non esiste un singolo approccio uguale per tutti per ridurre la solitudine fra gli adulti, il che suggerisce la potenziale necessità di una varietà di interventi e approcci indiretti” (Franssen, Stijnen, Hamers & Schneider, 2020). I risultati dello studio di Franssen, Stijnen, Hamers & Schneider, oltre ad arricchire il quadro teorico generale, forniscono una cornice contestuale per la determinazione di interventi personalizzati sia clinici che di prevenzione per la gestione del fenomeno della solitudine.

Abbiamo intervistato gli autori dello studio sopracitato, che hanno risposto alle domande di ScientifiCult.

L’intervista

Intervenire sulla solitudine

Uomo solo in un parcheggio - Solitudine
Foto di Harut Movsisyan

In base alla definizione di solitudine di Perlman and Peplau che fornite nell’introduzione della vostra ricerca, la solitudine non è relativa unicamente ai fattori quantitativi delle relazioni, ma anche a quelli qualitativi. Il che si riflette anche in alcuni degli indicatori che avete rilevato all’interno dello studio, quali l’appartenenza etnica, la situazione economica, l’educazione o lo stress psicologico. In riferimento ai fattori qualitativi che rendono una rete sociale efficace contro la solitudine (es: forza, costanza, positività, ecc) quali sarebbero i potenziali fattori candidati nel contrastare la solitudine? E, secondo le vostre ipotesi, in quale maniera si relazionerebbero con l’età?

Non riteniamo vi sia un unico fattore qualitativo che riduca o prevenga la solitudine. Al contrario, tutti i fattori qualitativi legati alla rete sociale andrebbero tenuti in considerazione. Nel nostro studio abbiamo mostrato come un ampio numero di fattori sia associato alla solitudine. Tuttavia, l’importanza di tali fattori può variare in base, ad esempio, all’età. Questo può riflettersi nelle differenze relative alle relazioni importanti per l’individuo nelle varie fasi della vita. Per esempio, una rete sociale ampia può essere importante per un giovane adulto, mentre una rete sociale più piccola ma con legami più stretti può essere importante per un anziano.

Considerata la natura correlazionale del vostro studio, non risulta possibile determinare una direzionalità tra la solitudine percepita e i fattori da voi esplorati. Di conseguenza, pensate che interventi volti alla riduzione della solitudine percepita potrebbero – allo stesso tempo – incrementare la qualità della vita percepita e migliorare lo stato dei fattori da voi investigati? Se sì, quali fattori pensate ne gioverebbero di più?

Gli individui che si sentono soli possono percepire una peggiore qualità della vita. Di conseguenza gli interventi mirati alla riduzione della solitudine possono essere efficaci nell’incrementare anche la qualità di vita. Inoltre, gli interventi mirati ai fattori associati con la solitudine possono avere lo stesso effetto: influenzare positivamente i fattori associati con la solitudine e nel mentre ridurre la solitudine. Per esempio, gli interventi basati sull’attività fisica di gruppo non solo possono migliorare la salute, ma anche ridurre la solitudine. E soprattutto, se la sensazione di solitudine viene ridotta e la salute viene migliorata, ciò può contribuire ad incrementare la qualità di vita.

All’interno del vostro studio riportate un’influenza dell’appartenenza etnica sulla percezione della solitudine. Quale genere di approccio pensate sia più efficiente nel contrastare la solitudine in base a questo fattore? Suggerireste un approccio basato su interventi di integrazione culturale o sulla formazione di aggregati etnici che funzionino da rete di sostegno?

Nel nostro lavoro suggeriamo che gli interventi debbano essere specifici per gruppo d’età. Sulla base di ciò, gli interventi basati sull’integrazione culturale possono essere efficaci sui giovani adulti, mentre la formazione di gruppi etnici può essere efficace nel prevenire/ridurre la solitudine negli adulti più anziani.
Come già accennato, la frequenza dei contatti con gli amici è un fattore importante in relazione alla solitudine. Di conseguenza, gli interventi che si basano sull’integrazione culturale potrebbero aiutare ad allargare e diversificare la rete sociale dei giovani adulti.
Al contrario, i migranti più anziani sentono la mancanza del loro paese di origine, in particolare della loro famiglia, ancor più dei migranti più giovani (Ciabuna, Fokkema & Nedelcu, 2016). Nel nostro studio abbiamo anche mostrato come l’associazione fra la frequenza di contatto con membri della famiglia e la solitudine fosse più forte negli adulti più anziani rispetto ai giovani adulti. Di conseguenza, la formazione di gruppi etnici potrebbe essere efficace per gli adulti più anziani in quanto fornirebbe occasioni per condividere memorie del paese di origine.

Sulla base dei risultati dei vostri studi, quali ritenete possano essere le potenziali implicazioni clinico-terapeutiche pratiche per la gestione specifica della solitudine nei vari gruppi di età? E quali eventuali interventi a livello di politiche sociali potrebbero invece derivarne?

Suggeriamo, sulla base dei risultati del nostro studio, che gli interventi per contrastare la solitudine vadano adattati sulla base dei fattori rilevanti per lo specifico gruppo d’età. Non c’è un singolo approccio valido per tutti.
La consapevolezza in merito a questi fattori specifici per età è un primo punto di partenza nella scelta di un approccio per contrastare la solitudine.
Ciò andrebbe poi seguito da un assessment dei fattori a livello individuale o dello specifico gruppo d’età, preferibilmente attraverso una conversazione individuale, per comprendere quali fattori siano più rilevanti.
Queste informazioni possono poi essere usate per generare interventi in merito a tali fattori e/o scegliere delle strategie di implementazione appropriate.

Ricerca e metodologia

Foto di Steve Buissinne

Un problema comune relativo agli studi cross-sectional riguarda la differenza nelle esperienze di vita dei diversi gruppi d’età. Ad esempio, l’ambiente educativo nel quale i giovani adulti ricevono la loro educazione oggi è piuttosto differente da quello frequentato dagli anziani ai loro tempi. Quanto pensiate siano determinanti tali differenze fra i tre gruppi di età nell’influenzare i risultati della ricerca? E in quali maniere si è manifestata tale influenza?

Nel nostro studio non abbiamo indagato gli effetti periodo o coorte sulla solitudine. Di conseguenza è difficile affermare se le differenze nelle esperienze di vita abbiano influenzato i nostri risultati. In ogni caso, i cambi nella società possono influenzare la sensazione di solitudine, ma ogni coorte di età presenta delle proprie specifiche difficoltà. Per esempio, i giovani adulti oggi sperimentano stress e pressione sociale (es: dai social media) nel perseguire obiettivi personali (es: avere molti amici), educativi o lavorativi. I giovani adulti del 20esimo secolo, invece, dovevano confrontarsi con la pressione relativa al trovare un partner e formare una famiglia. Tali differenze nelle esperienze di vita possono mediare i fattori associati con la solitudine nei diversi gruppi d’età.

Nel vostro lavoro è presente un trend che correla negativamente età e distress psicologico (e.g. rischio depressivo) alla solitudine percepita. Più le persone invecchiano, meno lo stress psicologico le espone alla percezione della solitudine. Come spieghereste questi risultati?

Menzioniamo come lo stress psicologico sia un fattore associato con la solitudine in tutti e tre i gruppi, perché la magnitudine dell’associazione risulta essere abbastanza simile in tutti e tre i gruppi.

COVID-19 e solitudine

Tablet lockdown - Solitudine
Foto di Elena Mozhvilo

Avete in progetto di proseguire questa linea di studio sfruttando analisi longitudinali? Se sì, quali variabili e interrogativi ritenete potrebbero essere di particolare interesse per questo ulteriore sviluppo di ricerca?

Al momento non abbiamo in programma di continuare questo studio con analisi longitudinali. Tuttavia, stiamo valutando se vi sia la possibilità di condurre uno studio che vada ad investigare l’impatto dell’attuale pandemia COVID-19 sulla sensazione di solitudine.

Alla luce dei recenti sviluppi connessi al lockdown per il COVID-19, quanto pensate sia stato importante il fattore “nuove tecnologie e abilità nell’usarle” nel determinare la percezione di solitudine dei diversi gruppi d’età? In quali maniere? Pensate che tale fattore avesse un’influenza anche prima del lockdown? Potrebbe averla anche in futuro?

Quello che abbiamo appreso come comunità dal lockdown relativo al COVID-19 è quanto importanti siano le nuove tecnologie, e le abilità necessarie per farne uso, per rimanere in contatto con amici, famiglia, colleghi, ecc. laddove non sia possibile avere un contatto “faccia a faccia”. Riteniamo che i giovani adulti già prima del lockdown fossero più familiari con queste nuove tecnologie rispetto agli adulti più anziani, e che di conseguenza fossero più inclini ad usarle. Da un altro punto di vista, non poter socializzare con gli amici potrebbe aver colpito maggiormente i giovani adulti rispetto agli adulti più anziani, nonostante l’uso delle tecnologie. Quindi, le nuove tecnologie e la capacità di usarle possono certamente influenzare la percezione di solitudine, benchè siano necessarie ulteriori ricerche al fine di studiarne l’esatta influenza.

Bibliografia

  • Franssen, T., Stijnen, M., Hamers, F., & Schneider, F. (2020). Age differences in demographic, social and health-related factors associated with loneliness across the adult life span (19–65 years): a cross-sectional study in the Netherlands. BMC Public Health, 20(1). doi: 10.1186/s12889-020-09208-0
  • Galanaki, E., & Vassilopoulou, H. (2007). Teachers and children’s loneliness: A review of the literature and educational implications. European Journal of Psychology of Education, 22(4), 455-475. Retrieved November 3, 2020, from http://www.jstor.org/stable/23421518
  • Hawkley, L., & Cacioppo, J. (2010). Loneliness Matters: A Theoretical and Empirical Review of Consequences and Mechanisms. Annals Of Behavioral Medicine, 40(2), 218-227. doi: 10.1007/s12160-010-9210-8
  • Heinrich, L., & Gullone, E. (2006). The clinical significance of loneliness: A literature review. Clinical Psychology Review, 26(6), 695-718. doi: 10.1016/j.cpr.2006.04.002
  • Holt-Lunstad, J., Smith, T., Baker, M., Harris, T., & Stephenson, D. (2015). Loneliness and Social Isolation as Risk Factors for Mortality. Perspectives On Psychological Science, 10(2), 227-237. doi: 10.1177/1745691614568352
  • Linehan, T., Bottery, S., Kaye, A., Millar, L., Sinclair, D., & Watson, J. (2014). 2030 vision: The best and worst futures for older people in the UK. London, England: Independent Age and International Longevity Centre-UK.
  • Pinquart, M., & Sorensen, S. (2001). Influences on Loneliness in Older Adults: A Meta-Analysis. Basic And Applied Social Psychology, 23(4), 245-266. doi: 10.1207/s15324834basp2304_2

“Ingrandisci. Ancora. Adesso metti a fuoco”. Si tratta della tipica frase che potevamo registrare alla fine degli anni ’90 in tutti i film e le serie crime, quando un piccolo dettaglio sfocato, rilevato in una registrazione delle telecamere di sorveglianza veniva (poco credibilmente) ingrandito, messo a fuoco, per poi rivelarsi una traccia portante nella risoluzione del mistero.

E se questo stesso piccolo dettaglio esistesse, ma all’interno del nostro cervello? Il paragone, molto alla lontana, è calzante se parliamo di neuroscienze forensi.

Le neuroscienze forensi sono un campo dagli sviluppi relativamente recenti ed innovativi, che si propone di “ingrandire e mettere a fuoco” correlati neurali di alcuni concetti giuridici, per portare a galla la “verità”.

Quando si parla di neuroscienze forensi?

Statua della giustizia - Neuroscienze forensi
Foto di jessica45

Quando è necessario fare ricorso a questa disciplina? Laddove diventa difficile estrarre alcune classi di informazioni, le neuroscienze forensi presentano strumenti innovativi per dare risposte a quesiti impegnativi. Ecco riportati alcuni esempi.

Lo studio del vizio di mente (parziale o totale) e come questo ha influito sulla capacità di intendere e di volere

Il nostro sistema giuridico esercita una “tutela retroattiva” nei confronti dei cittadini. Questo vuol dire che commettere un reato per colpa di una condizione mentale che interferisce con la capacità di intendere e di volere avrà delle conseguenze differenti per la persona. La regolamentazione relativa ad imputabilità e vizio di mente totale o parziale è meglio chiarita negli articoli del codice penale 88, 89 e 90. Particolare attenzione va posta su quest’ultimo articolo che afferma che gli stati emotivi o passionali “non escludono né diminuiscono l’imputabilità”. Qui in particolare spicca il ruolo del perito: cosa è vizio di mente e cosa è semplice stato emotivo o passionale? Quando il vizio di mente è tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere? Quando invece il vizio di mente non giustifica comunque l’atto commesso (come nei casi della pedofilia o nei disturbi di personalità)? Se fino ad oggi si è preferito un approccio convenzionalista, dove vi erano delle regole imposte per “convenzione”, le neuroscienze forensi aprono uno spiraglio sul creare delle basi interpretative più solide ai fini della perizia, non sostituendo ma integrando quella psichiatrica.

L’analisi dell’idoneità

Ma idoneità a fare cosa? Alla guida, al porto d’armi, a testimoniare, a fare testamento. Un cliente che appare sveglio e collaborativo può mettere in atto importanti strategie dette “di compenso” per nascondere in realtà una serie di deficit cognitivi. I referti di neuroimmagine, in combinazione con esami neurologici e test neuropsicologici, possono mettere in evidenza disturbi che a livello ecologico (nella vita di tutti i giorni) potrebbero passare facilmente inosservati.

Scoprire le simulazioni

Probabilmente sembrerà sorprendente, ma per i traumi cranici lievi i soggetti che simulano un danno nella richiesta di risarcimento sono fra un terzo e la metà di tutti i casi (Stracciari, Sartori, & Bianchi, 2010).  Non solo, ancora più sorprendente: la prognosi e la gravità del colpo di frusta a seguito di incidente stradale sembrano essere dipendenti dai sistemi assicurativi e di risarcimento connessi a quel genere di danno (Cassidy et al., 2000). A questo punto, o i soldi hanno un magico potere curativo, o la simulazione è in qualche maniera coinvolta. C’è di più che non si tratta di malfattori convinti e senza rimorso: molto spesso la simulazione è messa in atto a livello inconsapevole. Le neuroscienze forensi hanno diversi modi per scoprire la simulazione. I correlati neurali rilevati con le neuroimmagini spesso possono documentare la reale esistenza di una patologia o meno.  E quando i correlati neurali sono assenti (tipico nei traumi cranici, nelle intossicazioni o nei danni da folgorazione ad esempio) molti test, neuropsicologici e non, presentano delle metodologie o delle sottoscale che permettono di rilevare con un certo livello di accuratezza il danno presente e se la persona sta mentendo o se lo sta esagerando.

Tecniche innovative per un’investigazione innovativa

Detective - Neuroscienze forensi
Foto di SamWilliamsPhoto

Appurati i numerosi usi delle neuroscienze forensi, quali sono alcuni esempi di queste tecniche di cui parlo da inizio articolo? Alcuni li ho già citati nel paragrafo precedente, ma andiamo a vederli insieme più nel dettaglio.

Test neuropsicologici nelle neuroscienze forensi

Test - Neuroscienze forensi
Foto di Tumisu

Elemento portante delle neuroscienze forensi, i test neuropsicologici associano un’affidabilità e un’oggettività moderatamente elevata (grazie alle loro caratteristiche “performance based” ossia di valutazione quantitativa della performance) alla valutazione di caratteristiche funzionali che non è possibile dedurre in altre maniere. Alcuni esempi?

  • Un tumore in una determinata sede non presenta gli stessi effetti in tutte le persone;
  • Essere anziani, avere una demenza in primissima fase o aver subito un trauma cranico non sono di per sé condizioni sufficienti a togliere la patente ad una persona (Dobbs, Carr, & Morris, 2002);
  • Lesioni derivate ad esempio da traumi cranici lievi, colpo di frusta, intossicazione da sostanze, ecc. spesso non presentano alcun correlato neuroradiologico (Stracciari et al., 2010).

Somministrare i test neuropsicologici permette comunemente di valutare lo stato mentale generale oltre che di funzioni specifiche per l’esercizio di determinate abilità. Ad esempio:

  • Verificare lo stato delle funzioni esecutive (pianificazione, inibizione degli impulsi, ecc) si rivelerà ad esempio fondamentale per determinare se la persona è in grado di guidare;
  • Descrivere lo stato delle funzioni di memoria e linguaggio potrebbe essere fondamentale per determinare se un testimone è idoneo a prestare testimonianza;
  • Alcuni importanti indici clinico-anamnestici permettono di valutare quale potesse essere lo stato mentale di una persona prima di un incidente, così da confrontarlo con lo stato post-traumatico e determinare l’entità del danno. Un indice particolarmente usato a questo scopo in Europa è la “formula di Pichot”;
  • Scoprire se una persona sta facendo finta di avere un disturbo o meno:
    • Alcune scale di valutazione psicopatologica ad esempio presentano degli indici che determinano “Quanto si sta fingendo di avere o non avere un disturbo”. Ne è un esempio il Millon Clinical Multiaxial Inventory III (MCMI-III) (che però è un test psicodiagnostico);
    • Dal punto di vista neuropsicologico un esempio è il Test of Memory Malingering (TOMM) che analizza attraverso criteri probabilistici se si sta fingendo di avere un disturbo amnesico o meno.
Aspetti critici dei test neuropsicologici

Sicuramente splendido ma permangono rischi e perplessità. Il rischio che i test diventino strumenti utilizzabili da chiunque e fuori contesto. Molti dei miei professori di neuropsicologia mettevano in evidenza la differenza fondamentale fra un bravo neuropsicologo, in grado di integrare tutta una serie di elementi clinici, e un testista, che semplicemente si limita a somministrare il test.

Due mie esperienze personali sono esemplificative di questa differenza:

  • Recentemente mi è stato somministrato l’MCMI per questioni di indagine clinica. Secondo il test l’unico disturbo che mi caratterizza è un disturbo di personalità schizoide (robetta da poco). La realtà, che viene messa in evidenza solo al colloquio con il clinico, è che in passato ho avuto diverse difficoltà a relazionarmi con le persone: benché le abbia superate, questa situazione ha portato degli strascichi sintomatici che si identificano in parte con il disturbo di personalità schizoide. Ma non ho assolutamente niente e fare una diagnosi di questo tipo sulla base di un singolo test sarebbe davvero improponibile.
  • Mentre assistevo alla mia prima valutazione neuropsicologica dal vivo, il neuropsicologo con cui collaboravo chiese al paziente di ricopiare un disegno di una casa. Si tratta di un test che serve a valutare la presenza di aprassia costruttiva. Il paziente, benché manifestasse segni clinici particolarmente interessanti (altro elemento importante che può essere notato solo dal clinico e non dai risultati del test), eseguì un disegno pressoché accettabile della casetta. Ciononostante, il mio tutor indicò ugualmente una probabile aprassia costruttiva sulla scheda del paziente. Alla mia domanda di ulteriori spiegazioni (ovviamente dopo che il paziente era andato via), il mio tutor mi fece notare come gli errori commessi dal paziente nel disegno fossero accettabili, ma non da un paziente che in passato aveva lavorato in un ambito che richiedeva di eseguire disegni e rappresentazioni con una certa precisione. Tale competenza pregressa indicava che dovesse esserci in corso una reale compromissione perché questa abilità si degradasse.

Alla luce di queste osservazioni diventa evidente come non solo i test non siano di per sé completamente oggettivi, ma che un’interpretazione complessiva e contestualizzata sia fondamentale per comprenderne il significato. La necessità di un’interpretazione può talvolta rappresentare un punto critico sul quale la parte opposta può far leva per far crollare un’ipotesi.

Tecniche di neuroimmagine

DTI - Neuroscienze forensi
Nell’immagine GR_Image: Rappresentazione ottenuta tramite DTI (Diffusion Tensor Imaging), una tecnica di neuroimaging basata sulla risonanza magnetica. Il suo scopo principale è determinare le principali connessioni strutturali fra le aree cerebrali, in particolare per permettere lo studio della sostanza bianca e di alcune sue caratteristiche specifiche.

Avere referti di neuroimmagine rappresenta un’evidenza difficile da mettere in discussione in ambito forense. Una lesione in area prefrontale dorsolaterale, documentata ad esempio con una PET che rileva un calo metabolico focale, associata ad un basso punteggio in batterie che valutano funzioni esecutive e memoria di lavoro, sarà molto difficile da mettere in discussione in diversi contesti forensi.

La scelta dello strumento adeguato necessario a dimostrare la propria ipotesi è fondamentale in ambito forense, dove l’obiettivo non è la “diagnosi clinica”. Se si lavora come perito diventa essenziale trovare l’evidenza che risponda alla domanda posta dal giudice. Se si lavora come consulente tecnico di parte diventa essenziale trovare gli elementi che supportino le tesi dell’avvocato. Fortunatamente, le neuroscienze mettono a disposizione numerosi strumenti tecnici per raggiungere entrambi gli obiettivi:

  • Neuroimmagini strutturali, permettono di rilevare la struttura cerebrale in vivo (ossia nel soggetto ancora in vita, laddove fino a poco tempo fa l’analisi strutturale poteva essere eseguita solo post-mortem). Include esami quali la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) o la MRI (Risonanza Magnetica). Un derivato molto interessante della MRI è la VBM (Voxel Based Morphometry) che permette di eseguire controlli sulla microstruttura cerebrale al fine di determinare la densità della materia grigia (principalmente quella corticale) e della materia bianca (le strutture connettive del cervello) così da rilevare anche microlesioni e piccole differenze rispetto ai soggetti sani. Un’altra tecnica particolarmente utile a valutare la struttura connettiva del cervello è la DTI (Diffusion Tensor Imaging), che permette di rilevare le connessioni presenti fra aree cerebrali (un esempio di DTI è riportato nella figura all’inizio del paragrafo).
  • Neuroimmagini funzionali, complesse tecniche che permettono di rilevare il funzionamento cerebrale in base ad esempio al metabolismo del glucosio o alle variazioni del flusso sanguigno. Ne sono esempi tipici PET  e fMRI. Si basano sull’assunto che una maggior attività cerebrale in un’area si connetta ad una maggiore richiesta di sangue e di glucosio nella relativa area. Sono particolarmente utili quando si vuole verificare il grado di attivazione di un’area a fronte di un compito che si ritiene la coinvolga, per determinare la presenza di correlati neurali al deficit funzionale.
Aspetti critici delle tecniche di neuroimmagine

Purtroppo (o per fortuna) le tecniche di neuroimmagine non necessariamente parlano da sole. Benchè in molti casi una neuroimmagine possa essere autoesplicativa (una lobectomia sinistra associata alla compromissione del linguaggio è più un fatto che un’opinione) in molti altri trarre delle conclusioni è un aspetto tutt’altro che automatico. Un importante caso di studio nell’ambito delle neuroscienze forensi riporta un contrasto non indifferente sopra il danno derivato da un Clivus Chordoma, una forma di neoplasia delle ossa del cranio. L’interpretazione delle alterazioni funzionali derivate è stata forte oggetto di dibattito nel determinare se i comportamenti pedofiliaci del soggetto colpito fossero congeniti o derivati dal danno acquisito. Per approfondimento si rimanda a Farisco & Petrini, 2014; Sartori, Scarpazza, Codognotto, & Pietrini, 2016; Scarpazza, Pellegrini, Pietrini, & Sartori, 2018.

Tecniche psicofisiologiche

Elettrocardiogramma
Foto di PublicDomainPictures

Le tecniche psicofisiologiche studiano la relazione sussistente fra alcuni parametri fisici e il funzionamento cerebrale. Partono dall’assunto che questi parametri fisici rispondano di alcune funzioni cerebrali attraverso l’azione del Sistema Nervoso Autonomo. Alcuni esempi rilevanti per l’ambito delle neuroscienze forensi:

  • La risposta di startle è un riflesso automatico che si verifica in seguito a stimoli intensi e improvvisi volto a proteggere le parti del corpo fragili (in parole povere, il sobbalzo che abbiamo quando sentiamo rumori forti). Essendo mediato dall’amigdala, lo startle è maggiore quando si è in presenza di stimoli negativi (ad esempio di armi) ed è minore quando si è in presenza di stimoli positivi (ad esempio del cibo). In individui psicopatici, la presenza di stimoli negativi non aumenta lo startle, anzi. La vista di immagini connesse a vittime di aggressione sembra ridurre lo startle  (Levenston, Patrick, Bradley, & Lang, 2000). La misurazione dello startle può quindi essere utile nell’identificazione di predisposizioni congenite o acquisite alla psicopatia.
  • La risposta di conduttanza cutanea è una variazione della resistenza elettrica della cute dovuta ad una variazione delle condizioni dei dotti sudoripari. Questa variazione è legata all’azione del sistema simpatico, la branca del Sistema Nervoso Autonomo che si occupa di “proteggerci” con la risposta attacco o fuga. Nel corso di un test chiamato Iowa Gambling Task le nostre emozioni sono in grado di guidare inconsapevolmente le nostre scelte per permetterci di ottenere la prestazione migliore. L’ipotesi dei marcatori somatici di Damasio evidenzia come in presenza di scelte complesse si attivi un complesso sistema di simulazione fisico e mentale che identifica le scelte sbagliate rispetto a quelle giuste. Questo sistema è mediato da un complesso circuito cerebrale che trova la sua principale espressione nella corteccia prefrontale ventromediale. L’attivazione dei marcatori somatici nello Iowa Gambling Task si riflette nella presenza di una risposta di conduttanza cutanea maggiore prima che venga eseguita una scelta scorretta (Damasio, 1996).  È stato evidenziato come invece in pazienti con danno frontale questo stesso meccanismo non si ripresenti. Lo Iowa Gambling Task presenta infatti risultati decisamente peggiori in questi soggetti (Bechara, Damasio, Tranel, & Damasio, 1997). Valutare la risposta di conduttanza cutanea allo Iowa Gambling Test in soggetti con danno frontale può aiutare a determinare la loro capacità di prendere scelte giuste nel corso della loro vita; un’alterazione del sistema dei marcatori somatici può mettere in dubbio la capacità di scelta del soggetto, e quindi quella più generale di intendere e di volere.
  • I potenziali evento relati sono degli elementi che si presentano nel tracciato elettroencefalografico a fronte di determinati stimoli. La loro interpretazione permette di identificare i processi cognitivi in azione nel cervello della persona. Un esempio d’uso dei potenziali evento relati consiste nel valutare i correlati neurali della capacità di inibire le risposte impulsive della persona e quindi la neurobiologia del reato d’impeto.
  • Evidenze psicofisiologiche cliniche, ossia tutti gli elementi psicofisiologici che possono fornire ulteriore evidenza in relazione ad una presupposta condizione psicopatologica. Ad esempio, soggetti con disturbo da stress post-traumatico (PTSD) presentano frequenza cardiaca, conduttanza cutanea e risposta di startle più elevati sia a riposo che in reazione a stimoli negativi (Orr & Roth, 2000).
Aspetti critici delle tecniche psicofisiologiche

Problema principale delle tecniche psicofisiologiche è lo stesso che caratterizza la famosa macchina della verità: gli indicatori psicofisiologici non sono specifici.

L’incremento della frequenza cardiaca, ad esempio, non solo non è univocamente interpretabile in relazione all’azione del Sistema Nervoso Autonomo (ossia, può dipendere sia dal sistema parasimpatico che simpatico, quindi è di difficile interpretazione), ma è presente in numerosissime condizioni psicopatologiche. Non solo: a volte è semplicemente dovuto a condizioni non patologiche, oppure ad alterazioni di tipo fisico che hanno ben poco a che fare con lo stato mentale. La conduttanza cutanea è un indice particolarmente instabile sia nella misurazione che nella sua connessione ad eventi reali. E la rilevazione dei potenziali evento relati, oltre ad essere lunga e faticosa, si confronta con un certo grado di “rumore statistico” dipendente soprattutto dalla qualità della registrazione.
Se si vuole far ricorso a tecniche psicofisiologiche nell’ambito delle neuroscienze forensi bisogna partire dal presupposto che possano solo supportare l’ipotesi e molto difficilmente possano essere la base di partenza.

Genetica comportamentale

DNA
Foto di Darwin Laganzon

La genetica comportamentale è quel campo che si occupa di studiare la maniera in cui determinate strutture genetiche possono influire sullo sviluppo di comportamenti e attitudini. Elemento determinante della genetica comportamentale è il concetto di polimorfismo genetico. In breve, un polimorfismo genetico consiste in una mutazione genetica presente con una frequenza superiore all’1% nella popolazione. Alcuni esempi di polimorfismi e della loro azione sul comportamento sono:

  • Polimorfismi del gene 5-HT sembrano essere coinvolti in diversi disturbi quali “Disturbi dell’umore, PTSD, tendenze suicide, OCD, autismo, ecc” (Margoob & Mushtaq, 2011);
  • Il polimorfismo funzionale (Val/Met) del gene COMT sembra alterare la funzionalità delle funzioni esecutive e la fisiologia della corteccia prefrontale ed è stato identificato come fattore di rischio per la schizofrenia (J. B. Fan et al., 2005);
  • Le monoammino ossidasi (MAO) sono enzimi il cui ruolo è metabolizzare i neurotrasmettitori monoamminergici (come ad esempio serotonina, dopamina, ecc). Di conseguenza un’azione eccessiva  della MAO può portare ad una riduzione eccessiva della serotonina, meccanismo potenzialmente connesso alla depressione. Al contrario, un’insufficiente azione della MAO può essere connessa ad una presenza eccessiva di neurotrasmettitori come la dopamina, potenzialmente connesso a comportamenti aggressivi e impulsivi. Diversi studi supportano il ruolo dei polimorfismi del gene MAOA nella predisposizione a depressione, disturbo bipolare (M. Fan et al., 2010) e impulsività (Huang et al., 2004).
Aspetti critici della genetica comportamentale

Benché le evidenze siano diffuse, è difficile trovare un’opinione univoca e il grado di interferenza reale delle componenti genetiche in un sistema così complesso come il cervello. Come esempio, la precision medicine, una branca della medicina che si propone di generare terapie fatte apposta per il singolo paziente, si ripropone fra le altre cose di recuperare informazioni di ordine genetico per massimizzare l’efficacia terapeutica, ma nel piano pratico diversi studi sull’influenza genetica sono ancora insufficienti per dare un reale contributo su questo piano.

Come se non bastasse, l’azione dei geni è estremamente dipendente dall’ambiente in cui l’individuo è immerso, secondo i moderni principi di epigenetica. Secondo il modello diatesi-stress, una predisposizione genetica a sviluppare una condizione psichiatrica (ad esempio la schizofrenia) può rimanere solo una predisposizione se non si verificano delle condizioni sufficientemente stressanti che causino il manifestarsi della problematica.

Un esempio affascinante e decisamente portante dell’influenza epigenetica riguarda propriamente l’azione dei geni MAOA  e 5-HT. Infatti, benché il polimorfismo esponga i bambini a sviluppare i disturbi sopra discussi nel corso della crescita, questo si verifica solo se tali bambini sono esposti ad un ambiente abusivo. Bambini che presentano tali polimorfismi cresciuti correttamente in un ambiente stimolante diventano, al contrario, più resistenti allo sviluppo di patologie comportamentali e psichiatriche (Belsky & Pluess, 2009; Taylor et al., 2006).

Conclusioni

Detective
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In questo articolo abbiamo osservato i potenziali sviluppi giuridici apportati dalle neuroscienze forensi e come questi strumenti, come tutti gli strumenti, vadano utilizzati con cautela e con cognizione di causa. Le neuroscienze forensi non hanno la pretesa di sostituire le classiche perizie psichiatriche o di rigenerare il campo giuridico, quanto piuttosto di fornire un’integrazione volta ad una ricerca di una verità che sia supportabile scientificamente.

Quali prospettive per il futuro? Ancora non possiamo prevedere l’estensione di tecnologie quali il mind reading, che analizza l’attivazione cerebrale associata al pensiero, o l’uso dell’intelligenza artificiale per diversi scopi, quali la detezione delle menzogne o l’avanzamento degli studi sulla memoria e sul riconoscimento dei volti. Ma con lo sviluppo di queste nuove tecnologie non va dimenticato l’importante ruolo dell’etica nell’ambito neuroscientifico, oltre che il fondamentale e insostituibile ruolo dei giudizi di valore, competenza unica ed esclusiva del giudice.

Bibliografia sulle neuroscienze forensi:

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  •  Belsky, J., & Pluess, M. (2009). Beyond Diathesis Stress: Differential Susceptibility to Environmental Influences. https://doi.org/10.1037/a0017376
  •  Cassidy, J. D., Carroll, L. J., Côté, P., Lemstra, M., Berglund, A., & Nygren, Å. (2000). Effect of Eliminating Compensation for Pain and Suffering on the Outcome of Insurance Claims for Whiplash Injury. New England Journal of Medicine, 342(16), 1179–1186. https://doi.org/10.1056/NEJM200004203421606
  •  Damasio, A. R. (1996). The somatic marker hypothesis and the possible functions of the prefrontal cortex. Philosophical Transactions of the Royal Society of London. Series B: Biological Sciences, 351(1346), 1413–1420. https://doi.org/10.1098/rstb.1996.0125
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