Covid-19: Come cambiano i comportamenti dei vaccinati?
Un’indagine congiunta Sapienza e dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I rileva come la maggioranza dei soggetti continua a rispettare le misure di protezione anche dopo il vaccino
Un’indagine rileva come la maggioranza dei soggetti vaccinati COVID-19 continua a mantenere gli stessi comportamenti, a rispettare le misure di protezione anche dopo il vaccino. Foto di Наркологическая Клиника
L’indagine pianificata dalla Sapienza Università di Roma e dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I ha coinvolto gli operatori delle strutture sanitarie dell’Azienda, sottoposti alla seconda dose di vaccino COVID Pfizer-BioNTech fino al 30 marzo 2021. Al personale è stato somministrato un questionario sulle misure di protezione contro SARS-CoV-2 e i soggetti che hanno volontariamente risposto, tra il 2 ed il 17 aprile 2021, sono stati 731, di età compresa tra i 24 ed i 69 anni.
“Il messaggio principale che deriva dall’indagine è che la maggioranza degli intervistati non ha cambiato le proprie abitudini dopo la vaccinazione.
In particolare, ben il 94% dei soggetti ha dichiarato che dopo la seconda vaccinazione contro Covid-19 non è cambiata la frequenza con la quale indossa la mascherina chirurgica o di comunità, in ambienti chiusi e con persone diverse dai familiari e conviventi. Solo il 4% ha ammesso di aver ridotto leggermente tale abitudine. Circa l’89% ha dichiarato che, dopo la seconda vaccinazione contro SARS-CoV-2, non ha cambiato la frequenza con la quale indossa la mascherina FFP2 o la doppia mascherina in ambienti chiusi e con persone diverse dai familiari e conviventi e la frequenza con la quale indossa la mascherina (chirurgica, di comunità o FFP2) all’aperto.
Dopo la seconda vaccinazione contro il Covid-19, la frequenza con la quale il soggetto si lava le mani con acqua e sapone o le disinfetta con soluzione idroalcolica per almeno 20 secondi non è cambiata nel 94% degli intervistati, così come il rispetto del numero massimo di 6 persone all’interno della sua abitazione, escludendo familiari e conviventi.
Infine, la frequenza con la quale il soggetto ha dichiarato di rispettare il distanziamento fisico di almeno 2 metri all’aperto non si è modificata nell’86% dei soggetti, mentre è diminuita leggermente nel 13% dei soggetti intervistati.
Sono risultati importanti che dimostrano come la consapevolezza di non abbassare la guardia neanche anche dopo la vaccinazione sia ampiamente diffusa”.
Questo hanno dichiarato i Coordinatori della ricerca, il professor Domenico Alvaro, Direttore del DAI di Medicina Interna e Specialità Mediche e Preside della Facoltà di Medicina e Odontoiatria e la Professoressa Stefania Basili, Direttrice della unità operativa complessa di Medicina Interna dell’Umberto I.
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Effettuato presso Sapienza-Sant’Andrea il primo trapianto di trachea in Italia, primo al mondo su un paziente post Covid-19
L’intervento, reso necessario a causa delle lesioni provocate dalle complicanze della malattia, rappresenta un modello clinico a livello internazionale
È stato portato a termine con successo il primo trapianto di trachea in Italia, il primo al mondo che viene effettuato su un paziente post Covid-19. I danni conseguenti all’infezione SARS-Cov2 e alle tecniche di ventilazione invasiva che si sono rese necessarie durante la malattia, hanno provocato l’assottigliamento della trachea che impediva quasi completamente la respirazione, rendendo necessario effettuare l’intervento.
Cecilia Menna in sala operatoria
Il trapianto è stato eseguito lo scorso 2 marzo presso la Chirurgia Toracica dell’Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea, policlinico universitario della rete Sapienza e azienda di alta specializzazione della Regione Lazio. Il paziente, un uomo di 50 anni originario della Sicilia, immediatamente risvegliato è stato da subito in grado di respirare e parlare autonomamente; dopo un ricovero di tre settimane e un decorso post-operatorio regolare, ha ripreso la sua vita normale, tornando al suo lavoro e alla sua città.
Effettuato presso Sapienza-Sant’Andrea il primo trapianto di trachea in Italia, primo al mondo su un paziente post Covid-19. La conferenza stampa
L’importante traguardo è stato presentato il 15 aprile nell’aula magna della Sapienza da parte dello staff medico della Chirurgia toracica diretta da Erino Rendina e in particolare dalla giovane chirurga Cecilia Menna, la trentacinquenne responsabile del Programma “Tracheal Replacement” del Sant’Andrea che ha condotto con il professor Rendina l’intervento in prima persona. A prender parte, la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, l’Assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato, il direttore sanitario dell’Azienda Ospedaliera-universitaria Sant’Andrea Paolo Annibaldi, il preside della Facoltà di Medicina e psicologia Fabio Lucidi, che hanno condiviso il brillante risultato, spiegando la complessità della macchina organizzativa messa in moto per portare a compimento il trapianto.
Erino Rendina, Antonella Polimeni, Cecilia Menna
“Questo successo è motivo di soddisfazione per tutta la nostra comunità e rappresenta un’ulteriore conferma degli eccellenti risultati clinici della ricerca medica e scientifica prodotta dall’Ateneo, al servizio della salute della collettività” – afferma la rettrice Antonella Polimeni – Il fatto poi che questo intervento veda in prima linea una giovane chirurga è un segnale forte di come le competenze femminili si possano affermare in ambiti professionali come quello chirurgico, tradizionalmente a quasi esclusivo appannaggio degli uomini.”
“Un grande risultato a testimonianza dell’eccellenza clinica raggiunta dal sistema sanitario regionale” sottolinea l’Assessore Alessio D’Amato “Voglio ringraziare la Sapienza e i professionisti dell’équipe chirurgica del Sant’Andrea per l’innovativo intervento portato a termine.”
“Un risultato di elevata complessità organizzativa e clinico-assistenziale, frutto dell’esperienza e dello spirito di innovazione dei nostri chirurghi – commenta il direttore generale del Sant’Andrea Adriano Marcolongo – e della capacità di fare rete con altri centri italiani di eccellenza.”
Effettuato presso Sapienza-Sant’Andrea il primo trapianto di trachea in Italia, primo al mondo su un paziente post Covid-19. Foto di gruppo con gli specializzandi
L’intervento chirurgico, che ha coinvolto 5 operatori ed è durato circa 4 ore e mezza, è stato condotto con sofisticate tecniche di anestesia, che hanno permesso di non instituire la circolazione extracorporea. La trachea malata è stata rimossa nella sua totalità e successivamente è iniziata la delicata fase di ricostruzione che ha previsto la sua sostituzione con un segmento di aorta toracica criopreservata presso la Fondazione Banca dei Tessuti di Treviso, diretta da Diletta Trojan e perfettamente adattabile alle dimensioni della via aerea del paziente.
“La patologia tracheale era estesa e severa e non poteva essere affrontata con le tecniche di ricostruzione, su cui pure abbiamo maturato una esperienza ventennale – spiega Erino Rendina – e l’unica opzione plausibile era la sostituzione dell’intera trachea con biomateriale”.
Cecilia Menna in sala operatoria
“Una delle criticità maggiori nella sostituzione della trachea, tubo rigido e pervio” spiega Cecilia Menna – “è il ripristino della sua rigidità: per questo abbiamo provveduto a inserire all’interno dell’aorta impiantata un cilindro di silicone, la cosiddetta protesi di Dumon, della lunghezza di 10 cm e ripristinato completamente la pervietà aerea, la respirazione, la fonazione e la deglutizione”.
Il paziente, Giuseppe Scalisi
Il paziente, immediatamente risvegliato e da subito in grado di respirare e parlare autonomamente, non ha necessitato di ricovero in terapia intensiva né di tracheostomia ed è stato trasferito direttamente nel reparto di Chirurgia Toracica. Sono state effettuate broncoscopie quotidiane per controllare il corretto posizionamento del cilindro di silicone e il buono stato di conservazione del graft aortico. Il suo decorso post-operatorio è stato regolare e dopo tre settimane dall’intervento, il paziente è stato dimesso, senza la necessità di terapia immunosoppressiva, come avviene invece per gli altri trapianti d’organo, grazie alla scarsissima immunogenicità del graft aortico.
Erino Rendina e Cecilia Menna in studio
Chirurgia Toracica di Sapienza-Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea – è il maggior centro di riferimento italiano per la chirurgia della trachea ed uno dei maggiori centri europei, un’eccellenza italiana fortemente voluta dai vertici della Sapienza e dell’Ospedale Sant’Andrea. Conosce una costante crescita in termini di volume e qualità assistenziale con particolare riferimento ad interventi di ricostruzione vascolare e delle vie aeree finalizzate al risparmio delle parti di organo sane. Nel 2020 sono stati effettuati sotto la direzione del professor Rendina 1323 interventi, nonostante la maggiore complessità organizzativa dovuta all’emergenza COVID.
Cecilia Menna
Cecilia Menna – Responsabile del progetto “Tracheal Replacement”, è una giovane chirurga di 35 anni. Dopo essersi laureata e specializzata con il professor Rendina, è attualmente dirigente medico presso l’Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea. Esegue quotidianamente, in prima persona, tutti gli interventi più complessi di Chirurgia Toracica e rappresenta, con il suo successo professionale, l’abbattimento di un altro cliché duro a scomparire: che la chirurgia sia preclusa alle donne.
Cecilia Menna
Erino Angelo Rendina – Direttore della Chirurgia Toracica, è stato il primo, trent’anni fa esatti, ad eseguire un trapianto polmonare in Italia, nella notte tra l’11 e il 12 gennaio 1991. Attualmente, dirige un gruppo di 9 chirurghi, tra cui 4 donne. La sua lunga esperienza è stata messa a disposizione del paziente per raggiungere in modo assolutamente innovativo quella che sembra una stabile guarigione; ciò dimostra come la ricerca di base e lo studio, uniti alla tenacia nell’applicazione pratica della ricerca scientifica, possano anche in Italia dare risultati di valore assoluto.
Erino Angelo Rendina
Testo, foto e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
SCOPERTA UNA POSSIBILE RELAZIONE TRA LE ATTIVITÀ ENZIMATICHE DELLA MOLECOLA CD38 E L’INFEZIONE DA COVID-19
In uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Physiological Reviews, ricercatori e studiosi del Dipartimento Scienze Mediche dell’Università di Torino e Fondazione Ricerca Molinette presentano una nuova prospettiva medica che parte dall’ipotesi che la molecola CD38 e le sue attività enzimatiche esercitino un ruolo nella infezione da Covid-19.
CD38 è una molecola la cui origine risale a circa 950 milioni di anni fa nella storia della vita. Nell’uomo è stata identificata nel contesto degli sforzi del Workshop sugli Antigeni di Differenziamento, alla fine degli anni ’70. Il Laboratorio di Immunogenetica dell’Università di Torino ha caratterizzato gene e struttura di CD38 e soprattutto ne ha anticipato le applicazioni in clinica (1). Inizialmente la molecola CD38 è stata considerata come un marcatore di popolazioni cellulari circolanti nel sangue e particolare attenzione è stata dedicata alla leucemia linfatica cronica, di cui è diventata un indicatore di stadiazione (2). Oggi la molecola è ampiamente impiegata in clinica come target di anticorpi monoclonali nella terapia del mieloma multiplo (3).
È stata proprio l’esperienza acquisita in vivo che ha permesso di incrementare le conoscenze sul ruolo che CD38 riveste in fisiologia e in malattia. CD38 è un ectoenzima che regola il metabolismo extracellulare di NAD+ (Nicotinammide adenina dinucleotide), una delle più importanti sorgenti di energia e di segnali biologici in natura, prendendo parte a un circuito che coinvolge molecole quali PARP (proteine coinvolte nella riparazione del DNA) e Sirtuine (proteine ad attività enzimatica che regolano importanti vie metaboliche negli esseri viventi) all’interno della cellula.
La ricerca appena pubblicata suPhysiological Reviews (con un Impact Factor: 25.588) svolta in collaborazione con la Fondazione Ricerca Molinette dai ricercatori del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Torino Alberto Horenstein e Angelo Corso Faini coordinati dal Prof. Fabio Malavasi, presenta una prospettiva medica che parte dalla ipotesi che la molecola CD38 e le sue attività enzimatiche esercitino un ruolo nella infezione da Covid-19 (4).
Secondo i ricercatori, i substrati di CD38 (NAD+ e NADP+) sono sottratti dalle modifiche metaboliche indotte da coronavirus SARS-CoV-2, e i prodotti della sua attività enzimatica (cADPR/ADPR/NAADP) e degli enzimi correlati (tra cui PARP e Sirtuine) sono coinvolti nella risposta anti-virale e pro-infiammatoria, quest’ultima responsabile di parte del coinvolgimento polmonare osservato e caratterizzato da tempeste citochiniche e successiva fibrosi estesa.
La ricerca suggerisce l’ipotesi che l’ectoenzima CD38 e i prodotti controllati dall’asse CD38/NAD+ abbiano un ruolo significativo nello sviluppo della malattia e quindi una ricaduta di impatto clinico potrebbe essere l’impiego di terapie basate sul blocco di CD38 come bersaglio, una ulteriore nuova possibilità di trattamento per i pazienti critici affetti da Covid-19.
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino
NUOVO STUDIO RIVELA GLI EFFETTI DEL TRACCIAMENTO DIGITALE IN COMBINAZIONE CON ALTRI INTERVENTI NON-FARMACEUTICI SUL CONTROLLO DELLA PANDEMIA DI COVID-19
Il lavoro, frutto di una collaborazione tra Fondazione Bruno Kessler, Fondazione Isi – Torino, Università di Torino e di altri istituti di ricerca stranieri, è stato pubblicato sull’autorevole rivista Nature Communications. I risultati analizzano in quali casi le strategie di isolamento e il digital contact tracing via app possono aiutare il contenimento di focolai riemergenti
Un nuovo studio rivela gli effetti del tracciamento digitale in combinazione con altri interventi non-farmaceutici sul controllo della pandemia di COVID-19. Foto di Markus Winkler
Uno studio innovativo sull’effetto e sul ruolo del tracciamento digitale dei contatti durante la pandemia di COVID-19 e di diverse politiche di adozione e integrazione del sistema con altri interventinon-farmaceutici è stato recentemente pubblicato sull’autorevole rivista Nature Communications. Il lavoro è frutto di una collaborazione guidata dalla Fondazione Bruno Kessler (FBK) di Trento, insieme al Politecnico di Losanna (EPFL), la Technical University di Copenaghen (DTU), l’Università di Aix-Marsiglia, la Fondazione ISI – Torino e l’Università degli Studi di Torino. Fra gli autori figurano diversi ricercatori che hanno contribuito al protocollo DP-3T per il tracciamento privacy-preserving dei contatti, a cui è ispirato il sistema di exposure notification di Apple e Google usato da molte delle app nazionali di tracciamento, inclusa quella italiana.
Il tracciamento digitale dei contatti per mezzo di un’app per smartphone, come l’italiana Immuni, è stato al centro di molte discussioni durante l’anno passato, sia per gli aspetti prettamente tecnologici che per le sfide legate alla partecipazione dei cittadini, alla protezione dei dati personali, e all’integrazione nei servizi di tutela della salute pubblica.
L’idea di tracciamento dei contatti non è nuova, ed è noto che il tracciamento dei contatti, tradizionalmente inteso, gioca un ruolo cruciale nella risposta all’epidemia. All’inizio della crisi COVID-19, uno studio pionieristico del Dr. Luca Ferretti, del Prof. Christophe Fraser e di altri ricercatori dell’Università di Oxford, pubblicato sulla rivista Science, ha indicato che il contenimento di focolai epidemici potrebbe beneficiare da un’app per smartphone che avvisi in modo tempestivo gli utenti che si sono trovati in prossimità ravvicinata di un individuo poi rivelatosi positivo. A un anno di distanza, nei paesi che hanno integrato efficientemente il tracciamento digitale dei contatti nella propria risposta sanitaria (come ad esempio Svizzera e Regno Unito) inizia ad accumularsi evidenza che queste app possono contribuire a mitigare l’impatto dell’epidemia. È perciò importante studiare in modo dettagliato il ruolo che il tracciamento digitale può giocare in combinazione con gli altri interventi non-farmaceutici per il contenimento di focolai ri-emergenti dell’epidemia.
Lo studio pubblicato su Nature Communications – i cui primi autori sono i ricercatori della Fondazione Bruno Kessler,Giulia Cencetti e Gabriele Santin dell’Unità di ricerca Mobile and Social Computing Lab (MobS Lab) guidata da Bruno Lepri – ha rilevato con una serie di simulazioni l’effetto del tracciamento digitale dei contatti e di diverse politiche di adozione ed integrazione del sistema con altri interventi. Piuttosto che fare assunzioni sulla struttura delle reti di contatto, lo studio ha usato dati reali di prossimità degli individui, raccolti da due progetti di scienza delle reti sociali: il primo progetto è il Copenaghen Network Study, guidato dal Prof. Sune Lehmann (DTU), che ha tracciato un grande gruppo di studenti volontari utilizzando smartphone; il secondo progetto si chiama SocioPatterns ed è guidato dal Prof. Ciro Cattuto della Fondazione ISI– Torino e dell’Università di Torino, e dal Prof. Alain Barrat del CNRS francese e dell’Università Aix-Marseille: in questo caso i contatti sono stati misurati usando sensori di prossimità indossati da volontari in diversi ambienti rilevanti per la trasmissione di malattie infettive, come ad esempio scuole, uffici, etc. L’uso di dati reali di contatto è uno degli aspetti innovativi dello studio, che fornisce dei criteri quantitativi per valutare l’efficacia del contact tracing digitale in funzione di alcuni parametri critici, come il ritardo nell’isolamento degli individui allertati ed il livello di adozione dell’app nella popolazione. I risultati dello studio mostrano chele strategie di isolamento e il digital contact tracing via app possono aiutare il contenimento di focolai riemergenti se alcune condizioni sono soddisfatte, in particolare se la propagazione è complementata da altri interventi come l’uso di mascherine e il distanziamento fisico, se l’adozione dell’app è alta, e se il ritardo nell’isolamento dei contatti è minimo. Lo studio mostra inoltre che il tracciamento dei contatti di secondo ordine (i contatti dei contatti, più intrusivo in termini di privacy) non è efficace, e conferma che il meccanismo di exposure notification in uso nella maggior parte delle app nazionali, che si limita ai contatti del primo ordine e minimizza i dati raccolti, è adeguato per conseguire i benefici del contact tracing digitale.
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino sugli effetti del tracciamento digitale in combinazione con altri interventi non-farmaceutici sul controllo della pandemia di COVID-19.
COME LA PANDEMIA COVID-19 CAMBIA LA CAPACITÀ DI LEGGERE IL VOLTO UMANO
Studio promosso da UniTo ha coinvolto 122 soggetti con il compito di giudicare lo stato emotivo e il grado di affidabilità espresso da alcune fotografie di volti. Il lavoro, che riflette sull’opportunità di un impiego più diffuso delle mascherine trasparenti, è stato pubblicato sulla rivista Scientific Reports
Uno studio, nato in seno al progetto europeo FACETS dell’Università di Torino, ha analizzato in che modo la pandemia di Covid-19 ha cambiato la capacità di leggere il volto ed è stato appena pubblicato sull’autorevole rivista Scientific Reports(del gruppo Nature). La ricerca si basa su un esperimento di psicologia sociale, svolto online durante la primavera 2020, che ha coinvolto 122 soggetti, che avevano il compito di giudicare lo stato emotivo e il grado di affidabilità espresso da alcune fotografie di volti.
Nell’ultimo anno le mascherine sanitarie di ogni foggia e fattezza sono diventate arredo comune del nostro quotidiano, tanto da comportare alcuni effetti collaterali nella comunicazione non verbale. Il lavoro è stato condotto da Marco Viola (Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, Università di Torino), in collaborazione con Marco Marini, dottorando di psicologia all’Università La Sapienza di Roma, Alessandro Ansani (Università di Roma Tre), Fabio Paglieri (ISTC-CNR) e Fausto Caruana (IN-CNR).
“Di norma, siamo piuttosto bravi ad associare un’emozione a una determinata espressione del volto. Ma quando questo è mascherato, facciamo molta più fatica”, sottolinea Marco Marini. Durante l’esperimento, mentre 41 soggetti hanno visto dei volti scoperti, ad altri 40 venivano presentati dei volti mascherati. “Come prevedibile, i soggetti che vedono volti mascherati compiono molti più errori nel riconoscere le emozioni che questi esprimono”, spiega Alessandro Ansani, “confermando l’importanza della regione orofacciale nella decodifica delle emozioni”. Inoltre, aggiunge Fabio Paglieri, “quelle stesse facce che senza maschera sono reputate inaffidabili ci incutono, quando mascherate, molta meno diffidenza”.
Ma il risultato più originale dello studio riguarda un terzo gruppo di 41 soggetti, che ha dovuto giudicare emozioni ed affidabilità in volti coperti da una mascherina con una finestra di plastica trasparente che lascia intravedere la bocca. In quest’ultimo gruppo, infatti, la percezione delle emozioni è inalterata, mentre l’impressione di inaffidabilità è solo parzialmente attutita. In una seconda fase dell’esperimento, ai soggetti sono state mostrate diverse facce prive di maschera chiedendo loro di indicare se le avessero già incontrate durante il compito precedente. In questo caso, le maschere trasparenti non hanno mostrato alcun vantaggio rispetto a quelle tradizionali.
“Questo risultato ci invita a riflettere sull’opportunità di un impiego più diffuso delle mascherine trasparenti, per lo meno in certi contesti dove la comunicazione non verbale gioca un ruolo importante”, commenta Fausto Caruana, “anche perché vedere un sorriso non è solo un atto di percezione fredda, dall’esterno, ma può dare adito anche a fenomeni di contagio emotivo, che promuove affiliazione”.
“L’idea dello studio, oltre che alla nostra quotidianità, è stata ispirata anche da alcune discussioni con i colleghi del progetto europeo FACETS (Estetiche del volto nelle società telematiche contemporanee), qui all’Università di Torino, che ha sponsorizzato lo studio”, precisa Marco Viola.
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino sullo studio pubblicato su Scientific Reports che ha analizzato in che modo la pandemia di COVID-19 ha cambiato la capacità di leggere il volto.
Uno studio internazionale coordinato dall’Università di Siena e che ha coinvolto, in Italia, tra gli altri centri, anche la Sapienza Università di Roma, dimostra che alcune varianti genetiche rendono il recettore del testosterone meno funzionante, predisponendo gli individui di sesso maschile a sviluppare una malattia da COVID-19 molto più grave.
Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista EBiomedicine, del gruppo Lancet, e condotto in una casistica di più di 600 maschi infetti dal virus SARS-CoV-2, pone le basi per futuri trials clinici sull’uso del testosterone in pazienti portatori di queste varianti.
“Che il testosterone fosse un importante modulatore del sistema immunitario e potenzialmente implicato nell’associazione tra COVID-19 e diabete, era noto – spiega Andrea Isidori, professore ordinario di Endocrinologia dell’Università Sapienza Roma – ma gli studi precedenti mostravano dati contrastanti”.
Il lavoro multicentrico, coordinato dalla professoressa Francesca Mari dell’Università di Siena, spiega che è la funzionalità del recettore androgenico, legata alle sue varianti genetiche, la nuova chiave di lettura per comprendere queste discrepanze e l’evoluzione clinica dell’infezione nel maschio.
“Questi risultati sono stati possibili – spiega la professoressa Alessandra Renieri, docente del dipartimento di Biotecnologie mediche dell’Ateneo senese, responsabile della U.O.C. Genetica Medica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese e coordinatrice del consorzio nazionale GEN-COVID – grazie alla partecipazione di numerosi centri clinici oltre all’AOUS, che hanno reclutato pazienti in tutta Italia, e alla collaborazione interdisciplinare del gruppo di Bioingegneria dell’Università di Siena e di esperti di intelligenza artificiale del dipartimento di Ingegneria dell’informazione e Scienze matematiche dell’Ateneo, insieme ai gruppi di Endocrinologia di Siena e della Sapienza, utilizzando la piattaforma di sequenziamento recentemente implementata dal nostro Ateneo”.
Sapienza: al via lo studio sulla vaccinazione anti COVID-19. Che succede dopo il vaccino?
La Sapienza Università di Roma e l’Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico Umberto I da oggi sono impegnati insieme nel monitoraggio clinico e immunologico di tutti i soggetti sottoposti a vaccinazione anti-Sars-CoV-2
Lo studio, promosso e incentivato direttamente dalla Magnifica Rettrice della Sapienza Università di Roma, Antonella Polimeni, e dal Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Umberto I, Fabrizio d’Alba, comprenderà circa 10.000 soggetti e avrà lo scopo di valutare la risposta anticorpale nei soggetti vaccinati e di analizzare le associazioni del tipo di riposta con variabili importanti come l’età, il sesso, la presenza di comorbidità e le condizioni socioeconomiche.
Tutte le unità assistenziali e i docenti universitari verranno coinvolti con lo scopo di sviluppare una rete di ricerca che includa tutte le strutture del più grande Policlinico d’Europa.
In tutti i soggetti verranno anche registrati gli eventi avversi dopo la vaccinazione. Ci si propone di valutare in tutti i soggetti la quantità e qualità della risposta immunitaria anti-Spike indotta dalla vaccinazione e di seguire contemporaneamente la dinamica dell’eventuale infezione e l’efficacia protettiva del vaccino, tramite la misurazione del titolo di anticorpi contro la nucleoproteina (N), specifici dell’infezione naturale.
Tutti i 10.000 soggetti verranno valutati anche a distanza di 6 e 12 mesi dall’inizio della vaccinazione. L’Istituto Superiore di Sanità, che collaborerà allo studio, si occuperà, nel caso di infezione dopo vaccinazione, della ricerca delle possibili varianti virali.
Attualmente, sono stati vaccinati 5.000 operatori, da ausiliari a specializzandi, che rappresenteranno la popolazione immediatamente oggetto dello studio. A breve inizierà il secondo ciclo di vaccinazioni che prevedrà anche una analisi pre vaccinazione.
Per la Sapienza e per il Policlinico Umberto I questo studio rappresenta un modello virtuoso di come le eccellenze della sanità e della ricerca si possano fondere in un progetto comune che ha come scopo quello di essere garante di una azione volta non solo a contrastare la pandemia, come dimostrato in questo lungo periodo, ma anche a sviluppare strategie comuni di ricerca.
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sul monitoraggio clinico e immunologico di soggetti sottoposti a vaccinazione anti COVID-19.
Albumina contro Covid-19: avviata con successo la sperimentazione clinica
Il gruppo di ricerca coordinato da Francesco Violi della Sapienza ha iniziato la sperimentazione dell’uso di albumina come supporto alla tradizionale terapia anticoagulante nel trattamento delle complicanze trombotiche. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Thrombosis and Haemostasis
Nei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 è ormai accertato l’elevato rischio legato alla formazione di trombi che possono determinare conseguenze devastanti come ostruzioni polmonari (embolie), infarto cardiaco e ictus con una frequenza più elevata di quella riscontrata nella polmonite comunitaria. Per tale ragione la comunità scientifica ha cercato di identificare una terapia mirata, a supporto di quelle tradizionali, per far fronte alle complicanze dovute alla formazione di trombi riducendo il ricorso alla terapia intensiva.
Un nuovo studio coordinato da Francesco Violi del Dipartimento di Scienze cliniche internistiche, anestesiologiche e cardiovascolari, ha indagato se l’impiego di albumina in pazienti Covid-19 con concomitante ipoalbuminemia, inibisse la coagulazione del sangue. Per una settimana, a 10 pazienti Covid-19, già in trattamento con anticoagulanti, è stata somministrata albumina endovena e si è osservata una ridotta coagulazione rispetto a quella di 20 pazienti in terapia con il solo anticoagulante. Allo studio, pubblicato sulla rivista Thrombosis and Haemostasis, hanno collaborato anche Francesco Pugliese del Reparto di Terapia intensiva, Claudio Maria Mastroianni e Mario Venditti del Reparto di Malattie Infettive del Policlinico Umberto I e Francesco Cipollone dell’Università degli studi “Gabriele Annunzio” di Chieti.
In un precedente lavoro il gruppo di Violi, aveva osservato che i pazienti Covid-19 presentano livelli ridotti di albumina, proteina che viene prodotta dal nostro organismo e che è tra i più potenti antinfiammatori oltre a svolgere anche un’azione anticoagulante. “Questa osservazione − dichiara Violi− ha fatto supporre che i bassi livelli di albumina potessero facilitare la coagulazione e dunque contrastare anche l’efficacia della terapia anticoagulante”.
Partendo da queste basi, il team di ricerca è passato alla osservazione clinica degli effetti dell’infusione di albumina, ottenendo risultati incoraggianti.
“Oggi, dai primi dati preliminari, sembrerebbe che il trattamento determina una minor comparsa di eventi vascolari – conclude Violi – Seppure sia necessario un numero maggiore di pazienti per confermare questo dato preliminare, lo studio apre la strada all’uso dell’albumina in pazienti Covid-19 per valutare se la sua infusione, associata alla terapia anticoagulante classica, riduca il rischio trombotico e quindi la mortalità”.
Riferimenti:
Albumin Supplementation Dampens Hypercoagulability in COVID-19: A Preliminary Report – Francesco Violi, Giancarlo Ceccarelli, Lorenzo Loffredo, Francesco Alessandri, Francesco Cipollone, Damiano D’ardes, Gabriella D’Ettorre, Pasquale Pignatelli, Mario Venditti, Claudio Maria Mastroianni, Francesco Pugliese –Thromb Haemost 2020. DOI: 10.1055/s-0040-1721486
Testo dall’Ufficio Stampa Sapienza Università di Roma.
Solitudine: “l’esperienza spiacevole che si verifica quando la rete delle relazioni sociali di un individuo è insufficiente sotto alcuni aspetti importanti, siano essi quantitativi o qualitativi” (Perlman & Peplau, 1984). Tutti quanti abbiamo vissuto all’interno della nostra vita dei momenti di solitudine, ma ciò che non ci aspettiamo è quanto questa possa variare per qualità, quantità e multidimensionalità.
L’esperienza di solitudine sembra presentarsi occasionalmente nella vita dell’80% dei ragazzi sotto i 18 anni (Galanaki & Vassilopoulou, 2007). Questa percentuale varia seguendo una curva a U nell’arco di vita (Pinquart & Sorensen, 2001), ma il 15-30% degli individui sperimenta invece una esperienza di solitudine cronica (Heinrich & Gullone, 2006). A cosa è dovuta tale variabilità? È possibile che sia dovuta unicamente all’estensione della rete sociale?
“Solitudine è sinonimo di isolamento sociale percepito, non isolamento sociale oggettivo” affermano Hawkley & Cacioppo (2010) nella loro review, “Le persone possono vivere una vita relativamente solitaria e non sentirsi sole, o, al contrario, possono vivere una vita sociale apparentemente ricca e sentirsi ugualmente sole”. Quando si entra nel campo della percezione i fattori chiamati in gioco diventano numerosi, individuali e soggettivi: personalità, etnia, età, stato di salute, sono solo alcuni esempi di ciò che può realmente influenzare l’esperienza di solitudine.
Tale multidimensionalità diventa ancora più importante quando si considerano gli enormi rischi connessi all’esperienza cronica e intensa di solitudine. È sufficiente pensare che di per sé il rischio di morte prematura incrementi del 29% se vi è isolamento sociale e del 26% per la solitudine percepita. Tale incremento di rischio appare ancora più sorprendente in quanto molto simile a quello sperimentato da soggetti con condizioni patologiche conclamate, quali l’obesità di grado 2 o 3 (Holt-Lunstad, Smith, Baker, Harris & Stephenson, 2015).
Questo avviene in quanto a fronte di una esperienza di solitudine, reale o soggettiva, numerosi fattori, diretti e indiretti, possono compromettere aspetti relativi, ad esempio, a salute fisica, sonno, funzionamento fisiologico, espressione genica e sistema immunitario (per una review: Hawkley & Cacioppo, 2010). Alle condizioni attuali, il problema della solitudine potrebbe raggiungere dimensioni epidemiche entro il 2030 (Linehan et al., 2014), sebbene già ora la sua influenza diventi sempre più grave in concomitanza con l’emergenza COVID-19.
Sulla base di ciò, diventa sempre più importante ed impellente identificare gli specifici fattori che giocano un ruolo individualizzato nel determinare quando e perché si sperimenta l’esperienza di solitudine. Una migliore comprensione del fenomeno è ciò che può favorire un approccio preventivo o terapeutico specializzato ed individualizzato nel “trattamento” della solitudine.
È questa la direzione presa dallo studio di Franssen, Stijnen, Hamers & Schneider, (2020): le analisi condotte sulla popolazione olandese hanno messo in evidenza come tre diverse fasce d’età (giovani adulti, adulti di prima e di tarda mezza età) presentassero una diversa correlazione fra la percezione della solitudine e la presenza di fattori di vario genere. Ad esempio: i giovani sono particolarmente sensibili alla frequenza dei contatti con i loro amici; gli adulti nella prima mezza età percepiscono di più la solitudine se disoccupati; gli adulti nella tarda mezza età hanno una percezione della solitudine connessa al loro stato di salute fisica.
Le implicazioni cliniche derivate da questo studio sono determinanti e concordi a quanto illustrato: “I fattori associati con la solitudine nella vita adulta possono essere compresi da una prospettiva basata su stadi di vita età-normati. Di conseguenza, non esiste un singolo approccio uguale per tutti per ridurre la solitudine fra gli adulti, il che suggerisce la potenziale necessità di una varietà di interventi e approcci indiretti” (Franssen, Stijnen, Hamers & Schneider, 2020). I risultati dello studio di Franssen, Stijnen, Hamers & Schneider, oltre ad arricchire il quadro teorico generale, forniscono una cornice contestuale per la determinazione di interventi personalizzati sia clinici che di prevenzione per la gestione del fenomeno della solitudine.
Abbiamo intervistato gli autori dello studio sopracitato, che hanno risposto alle domande di ScientifiCult.
In base alla definizione di solitudine di Perlman and Peplau che fornite nell’introduzione della vostra ricerca, la solitudine non è relativa unicamente ai fattori quantitativi delle relazioni, ma anche a quelli qualitativi. Il che si riflette anche in alcuni degli indicatori che avete rilevato all’interno dello studio, quali l’appartenenza etnica, la situazione economica, l’educazione o lo stress psicologico. In riferimento ai fattori qualitativi che rendono una rete sociale efficace contro la solitudine (es: forza, costanza, positività, ecc) quali sarebbero i potenziali fattori candidati nel contrastare la solitudine? E, secondo le vostre ipotesi, in quale maniera si relazionerebbero con l’età?
Non riteniamo vi sia un unico fattore qualitativo che riduca o prevenga la solitudine. Al contrario, tutti i fattori qualitativi legati alla rete sociale andrebbero tenuti in considerazione. Nel nostro studio abbiamo mostrato come un ampio numero di fattori sia associato alla solitudine. Tuttavia, l’importanza di tali fattori può variare in base, ad esempio, all’età. Questo può riflettersi nelle differenze relative alle relazioni importanti per l’individuo nelle varie fasi della vita. Per esempio, una rete sociale ampia può essere importante per un giovane adulto, mentre una rete sociale più piccola ma con legami più stretti può essere importante per un anziano.
Considerata la natura correlazionale del vostro studio, non risulta possibile determinare una direzionalità tra la solitudine percepita e i fattori da voi esplorati. Di conseguenza, pensate che interventi volti alla riduzione della solitudine percepita potrebbero – allo stesso tempo – incrementare la qualità della vita percepita e migliorare lo stato dei fattori da voi investigati? Se sì, quali fattori pensate ne gioverebbero di più?
Gli individui che si sentono soli possono percepire una peggiore qualità della vita. Di conseguenza gli interventi mirati alla riduzione della solitudine possono essere efficaci nell’incrementare anche la qualità di vita. Inoltre, gli interventi mirati ai fattori associati con la solitudine possono avere lo stesso effetto: influenzare positivamente i fattori associati con la solitudine e nel mentre ridurre la solitudine. Per esempio, gli interventi basati sull’attività fisica di gruppo non solo possono migliorare la salute, ma anche ridurre la solitudine. E soprattutto, se la sensazione di solitudine viene ridotta e la salute viene migliorata, ciò può contribuire ad incrementare la qualità di vita.
All’interno del vostro studio riportate un’influenza dell’appartenenza etnica sulla percezione della solitudine. Quale genere di approccio pensate sia più efficiente nel contrastare la solitudine in base a questo fattore? Suggerireste un approccio basato su interventi di integrazione culturale o sulla formazione di aggregati etnici che funzionino da rete di sostegno?
Nel nostro lavoro suggeriamo che gli interventi debbano essere specifici per gruppo d’età. Sulla base di ciò, gli interventi basati sull’integrazione culturale possono essere efficaci sui giovani adulti, mentre la formazione di gruppi etnici può essere efficace nel prevenire/ridurre la solitudine negli adulti più anziani.
Come già accennato, la frequenza dei contatti con gli amici è un fattore importante in relazione alla solitudine. Di conseguenza, gli interventi che si basano sull’integrazione culturale potrebbero aiutare ad allargare e diversificare la rete sociale dei giovani adulti.
Al contrario, i migranti più anziani sentono la mancanza del loro paese di origine, in particolare della loro famiglia, ancor più dei migranti più giovani (Ciabuna, Fokkema & Nedelcu, 2016). Nel nostro studio abbiamo anche mostrato come l’associazione fra la frequenza di contatto con membri della famiglia e la solitudine fosse più forte negli adulti più anziani rispetto ai giovani adulti. Di conseguenza, la formazione di gruppi etnici potrebbe essere efficace per gli adulti più anziani in quanto fornirebbe occasioni per condividere memorie del paese di origine.
Sulla base dei risultati dei vostri studi, quali ritenete possano essere le potenziali implicazioni clinico-terapeutiche pratiche per la gestione specifica della solitudine nei vari gruppi di età? E quali eventuali interventi a livello di politiche sociali potrebbero invece derivarne?
Suggeriamo, sulla base dei risultati del nostro studio, che gli interventi per contrastare la solitudine vadano adattati sulla base dei fattori rilevanti per lo specifico gruppo d’età. Non c’è un singolo approccio valido per tutti.
La consapevolezza in merito a questi fattori specifici per età è un primo punto di partenza nella scelta di un approccio per contrastare la solitudine.
Ciò andrebbe poi seguito da un assessment dei fattori a livello individuale o dello specifico gruppo d’età, preferibilmente attraverso una conversazione individuale, per comprendere quali fattori siano più rilevanti.
Queste informazioni possono poi essere usate per generare interventi in merito a tali fattori e/o scegliere delle strategie di implementazione appropriate.
Un problema comune relativo agli studi cross-sectional riguarda la differenza nelle esperienze di vita dei diversi gruppi d’età. Ad esempio, l’ambiente educativo nel quale i giovani adulti ricevono la loro educazione oggi è piuttosto differente da quello frequentato dagli anziani ai loro tempi. Quanto pensiate siano determinanti tali differenze fra i tre gruppi di età nell’influenzare i risultati della ricerca? E in quali maniere si è manifestata tale influenza?
Nel nostro studio non abbiamo indagato gli effetti periodo o coorte sulla solitudine. Di conseguenza è difficile affermare se le differenze nelle esperienze di vita abbiano influenzato i nostri risultati. In ogni caso, i cambi nella società possono influenzare la sensazione di solitudine, ma ogni coorte di età presenta delle proprie specifiche difficoltà. Per esempio, i giovani adulti oggi sperimentano stress e pressione sociale (es: dai social media) nel perseguire obiettivi personali (es: avere molti amici), educativi o lavorativi. I giovani adulti del 20esimo secolo, invece, dovevano confrontarsi con la pressione relativa al trovare un partner e formare una famiglia. Tali differenze nelle esperienze di vita possono mediare i fattori associati con la solitudine nei diversi gruppi d’età.
Nel vostro lavoro è presente un trend che correla negativamente età e distress psicologico (e.g. rischio depressivo) alla solitudine percepita. Più le persone invecchiano, meno lo stress psicologico le espone alla percezione della solitudine. Come spieghereste questi risultati?
Menzioniamo come lo stress psicologico sia un fattore associato con la solitudine in tutti e tre i gruppi, perché la magnitudine dell’associazione risulta essere abbastanza simile in tutti e tre i gruppi.
Avete in progetto di proseguire questa linea di studio sfruttando analisi longitudinali? Se sì, quali variabili e interrogativi ritenete potrebbero essere di particolare interesse per questo ulteriore sviluppo di ricerca?
Al momento non abbiamo in programma di continuare questo studio con analisi longitudinali. Tuttavia, stiamo valutando se vi sia la possibilità di condurre uno studio che vada ad investigare l’impatto dell’attuale pandemia COVID-19 sulla sensazione di solitudine.
Alla luce dei recenti sviluppi connessi al lockdown per il COVID-19, quanto pensate sia stato importante il fattore “nuove tecnologie e abilità nell’usarle” nel determinare la percezione di solitudine dei diversi gruppi d’età? In quali maniere? Pensate che tale fattore avesse un’influenza anche prima del lockdown? Potrebbe averla anche in futuro?
Quello che abbiamo appreso come comunità dal lockdown relativo al COVID-19 è quanto importanti siano le nuove tecnologie, e le abilità necessarie per farne uso, per rimanere in contatto con amici, famiglia, colleghi, ecc. laddove non sia possibile avere un contatto “faccia a faccia”. Riteniamo che i giovani adulti già prima del lockdown fossero più familiari con queste nuove tecnologie rispetto agli adulti più anziani, e che di conseguenza fossero più inclini ad usarle. Da un altro punto di vista, non poter socializzare con gli amici potrebbe aver colpito maggiormente i giovani adulti rispetto agli adulti più anziani, nonostante l’uso delle tecnologie. Quindi, le nuove tecnologie e la capacità di usarle possono certamente influenzare la percezione di solitudine, benchè siano necessarie ulteriori ricerche al fine di studiarne l’esatta influenza.
Bibliografia
Franssen, T., Stijnen, M., Hamers, F., & Schneider, F. (2020). Age differences in demographic, social and health-related factors associated with loneliness across the adult life span (19–65 years): a cross-sectional study in the Netherlands. BMC Public Health, 20(1). doi: 10.1186/s12889-020-09208-0
Galanaki, E., & Vassilopoulou, H. (2007). Teachers and children’s loneliness: A review of the literature and educational implications. European Journal of Psychology of Education,22(4), 455-475. Retrieved November 3, 2020, from http://www.jstor.org/stable/23421518
Hawkley, L., & Cacioppo, J. (2010). Loneliness Matters: A Theoretical and Empirical Review of Consequences and Mechanisms. Annals Of Behavioral Medicine, 40(2), 218-227. doi: 10.1007/s12160-010-9210-8
Heinrich, L., & Gullone, E. (2006). The clinical significance of loneliness: A literature review. Clinical Psychology Review, 26(6), 695-718. doi: 10.1016/j.cpr.2006.04.002
Holt-Lunstad, J., Smith, T., Baker, M., Harris, T., & Stephenson, D. (2015). Loneliness and Social Isolation as Risk Factors for Mortality. Perspectives On Psychological Science, 10(2), 227-237. doi: 10.1177/1745691614568352
Linehan, T., Bottery, S., Kaye, A., Millar, L., Sinclair, D., & Watson, J. (2014). 2030 vision: The best and worst futures for older people in the UK. London, England: Independent Age and International Longevity Centre-UK.
Pinquart, M., & Sorensen, S. (2001). Influences on Loneliness in Older Adults: A Meta-Analysis. Basic And Applied Social Psychology, 23(4), 245-266. doi: 10.1207/s15324834basp2304_2
Posticipare l’ingresso a scuola migliora il rendimento scolastico
Intervista al professor Luigi De Gennaro
Articolo a cura di Valentina Mastrorilli e Giulia Nania
I vincoli sociali spesso ci impongono di seguire delle regole che non vanno di pari passo con il nostro ritmo biologico. Fare tardi la sera e far suonare la sveglia molto presto la mattina può avere conseguenze negative non solo sulla salute fisica e mentale, ma anche sulla sonnolenza diurna e sui processi attentivi. Negli ultimi anni si è posta molta attenzione sulle abitudini di vita degli adolescenti e sulla loro tendenza a rimanere attivi fino a tarda notte, nonostante il giorno dopo debbano entrare a scuola al suono della campanella (Louzada, 2019).
Non si tratta solo di un cambio di abitudini comportamentali, ma piuttosto di un vero e proprio cambiamento fisiologico di alcuni dei meccanismi che regolano il sonno. Nei ragazzi in età adolescenziale, infatti, è stato osservata una variazione di due di questi meccanismi: la regolazione omeostatica del sonno (Jenni et al., 2005) e l’orologio circadiano (Wright et al., 2005). Mentre il primo fa riferimento alla stretta dipendenza tra il bisogno di sonno e il numero di ore trascorse da svegli, il secondo si riferisce al nostro comportamento in risposta all’alternanza delle ore di luce e di buio.
Nel complesso, fattori biologici e sociali spingono i ragazzi a rimanere sempre più spesso svegli fino a tardi. Eppure, la campanella suona sempre alle 8:00. La conseguenza è che molto spesso i ragazzi dormono meno delle 8 ore consigliate dall’American Academy of Sleep Medicine, spesso saltano la scuola e si distraggono durante le lezioni. Quali sarebbero le conseguenze sul rendimento scolastico se si provassero ad adattare gli obblighi scolastici alle esigenze fisiologiche degli adolescenti, facendo suonare la campanella un’ora dopo?
Questo è ciò che si è domandato il gruppo di ricerca del Professor De Gennaro della Sapienza Università di Roma in uno studio della durata di un intero anno scolastico. Il loro lavoro è volto a documentare se, il posticipare quotidianamente l’orario delle lezioni, potesse avere dei benefici sul funzionamento cognitivo degli studenti. Alla ricerca hanno partecipato alcuni ragazzi e ragazze dell’istituto secondario “Ettore Majorana” di Brindisi, suddivisi in due gruppi sperimentali: per uno la campanella suonava alle 8.00, mentre per il secondo gruppo le lezioni iniziavano alle 9.00.
Dai risultati di questa ricerca recentemente pubblicata sulla rivista Nature and Science of Sleep è emerso che, al termine dell’anno scolastico, gli studenti che avevano scelto di inserirsi nel gruppo che iniziava le lezioni alle 9:00 mostravano un notevole miglioramento nel rendimento, una migliore attenzione sostenuta, un minor assenteismo e un minor numero di ritardi. Quindi, è stato dimostrato che il posticipo di un’ora dell’orario delle lezioni può portare ad effetti benefici sulla prestazione accademica.
Abbiamo intervistato il professor Luigi De Gennaro, ordinario di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica della Sapienza Università di Roma, che ha risposto alle domande di ScientifiCult.
Dal vostro lavoro è emerso che gli studenti che hanno posticipato l’orario dell’inizio delle lezioni hanno beneficiato di questo ritardo. Questo è stato osservato non solo attraverso il miglioramento del rendimento scolastico e una migliore attenzione sostenuta, ma anche in termini di minor assenteismo e ritardi. Quali sono i meccanismi alla base del sonno che potrebbero aver generato questo miglioramento?
La storia inizia negli anni ’20 con lo studio dei due psicologi Jenkins e Dallenbach. Il loro studio, con soltanto due soggetti partecipanti, prevedeva un compito di memorizzazione di composizioni di tre lettere. Le composizioni dovevano essere memorizzate durante la sera per poi essere recuperate la mattina successiva in due diverse condizioni: dopo una normale notte di sonno e dopo una deprivazione di sonno. Venne osservato che, il mattino successivo alla notte di deprivazione, la prestazione dei due soggetti era enormemente più bassa.
Nacque così il cosiddetto “sleep effect”. L’aspetto più recente, invece, nasce negli anni ’80. In particolare, venne dimostrato come alterazioni del sonno, causate da vari disturbi del sonno oppure da decurtazioni del sonno, andassero a impattare negativamente sul rendimento scolastico. Inoltre, a partire dagli anni ’90 un movimento internazionale ha visto partire degli esperimenti pilota paragonabili al nostro. In conclusione, si può affermare che il posticipo dell’orario scolastico dovrebbe portare a un aumento della durata del sonno e questo dovrebbe impattare su tutte le misure che poi sono oggetto di valutazione.
Figura 1: il sonno dei partecipanti con relativi orari medi di addormentamento e risveglio per tutto l’anno
In questo periodo storico, molti studenti stanno vivendo l’esperienza della didattica a distanza, durante la quale i ragazzi e le ragazze possono seguire le lezioni da casa. Questo implica, dunque, che molti studenti riescono a dormire un po’ di più. Nonostante i limiti e le difficoltà di questo tipo di insegnamento, lei ritiene che questo cambio di abitudini possa influire positivamente sulla rendita scolastica e l’attenzione degli studenti?
A questa domanda non c’è purtroppo una risposta univoca. Diversi team di ricerca nazionali e internazionali hanno condotto e stanno ancora conducendo diverse indagini volte a monitorare le eventuali alterazioni del sonno durante il periodo del confinamento (che ha riguardato l’Italia nei periodi di Marzo-Maggio 2020).
Sintetizzando, potremmo dire che ne è emerso un fenomeno bimodale: una parte della popolazione oggetto degli studi ha mostrato un consistente aumento dei disturbi del sonno e variazioni di fattori associati alla depressione o allo stress; un’altra parte, invece, ne ha per così dire “beneficiato”, ovvero ha dormito di più e ha mostrato meno sonnolenza diurna rispetto ai periodi precedenti. Tra queste persone vi sono sicuramente gli studenti e le studentesse, che hanno beneficiato della generale ristrutturazione dei ritmi sonno-veglia. Non mi riferisco quindi specificatamente agli effetti della didattica a distanza, ma piuttosto alla diversa gestione del ritmo sonno-veglia che è diventato più coerente con i bisogni biologici.
Ricordiamoci che la specie umana, a seguito della rivoluzione industriale e dell’introduzione dell’illuminazione artificiale, ha collettivamente perso all’incirca due ore di sonno, tanto da delineare negli ultimi 150 anni una forma di insoddisfazione cronica del bisogno di sonno. Di conseguenza è evidente che una gestione diversa della giornata, più svincolata dai classici limitatori sociali (quali ad esempio esigenze scolastiche o lavorative) possa portare benefici almeno alla seconda categoria di persone cui prima facevo riferimento. In conclusione, indipendentemente dal fatto che quello della didattica a distanza sia un fenomeno molto complesso, per quanto riguarda l’aspetto del sonno e del ritmo sonno-veglia, in linea generale possiamo dire che molti studenti hanno beneficiato di questo riassetto dei ritmi giornalieri.
Figura 2: la più elevata performance degli studenti del programma sperimentale in tutto l’anno
Ipotizzando di poter seguire le performance degli studenti nel corso dei vari anni scolastici, lei pensa che questi benefici che voi avete osservato al termine di un anno scolastico possano essere riscontrati anche dopo vari anni? Oppure l’organismo si abitua a questi cambi di ritmi e nel corso del tempo verrebbero persi gli effetti benefici dell’ora di sonno in più?
Non saprei darle una risposta precisa. L’anno successivo a quello della sperimentazione che è stata pubblicata mi sarebbe piaciuto condurre uno studio longitudinale, quindi documentare come il rendimento che noi fotografiamo alla fine di un anno scolastico fosse capitalizzato alla fine di un intero ciclo di studi.
Avrei voluto seguire gli studenti dal primo al quinto anno di scuola e magari seguirli fino all’Università per vedere se in qualche modo la coorte di studenti che iniziava le lezioni alle 9 avrebbe poi avuto in futuro una carriera più brillante. Tuttavia, stiamo parlando di aspettative che non siamo riusciti ad implementare per diverse ragioni. La prima è che l’allora dirigente scolastico dell’Istituto Majorana Salvatore Giuliano, innovatore e rivoluzionario, è stato catapultato nell’empireo del governo italiano diventando sottosegretario di Stato al Ministero dell’Istruzione. L’Istituto Majorana continua ad avere nuove classi sperimentali dove, su base volontaria, gli studenti iniziano le lezioni alle 9 piuttosto che alle 8 ma non c’è più la complessa macchina organizzativa della valutazione. Probabilmente, con la presenza di Salvatore Giuliano a Brindisi le cose sarebbero potute andare diversamente.
Bisogna però tener conto di altri due aspetti. Il primo, è che stiamo parlando di uno studio geograficamente anomalo in quanto chi programmava lo studio e analizzava i dati si trovava all’Università La Sapienza di Roma, mentre l’acquisizione dei dati, l’organizzazione dei diari settimanali e lo svolgimento dei compiti al computer era a carico degli insegnanti dell’Istituto Majorana. Gli insegnanti, quindi, si sono trovati nei panni di sperimentatori succedanei che, in maniera volontaria, hanno dovuto fare un grande lavoro spesso al di là delle loro competenze. Il secondo aspetto è che questa ricerca non è stata supportata da alcuna risorsa economica. Tutta questa macchina ha avuto un costo che probabilmente l’organizzazione locale non poteva più tollerare.
Figura 3: gli effetti descritti limitati ai soli giorni scolastici
Nel vostro studio sono state utilizzate misure soggettive, ovvero domande a cui erano i soggetti stessi a rispondere, per analizzare alcuni aspetti come la latenza del sonno, il numero dei risvegli e la durata dei risvegli. Come pensa che sarebbero stati i risultati, se fossero state utilizzate misure oggettive e dunque strumenti che indagano questi stessi aspetti attraverso indici psicofisiologici?
La misura oggettiva più ovvia da utilizzare sarebbe la polisonnografia, ma essa risultava inattuabile in termini di costi e di fattibilità. Inizialmente erano state considerate due possibilità di compromesso tra misure oggettive e soggettive. La prima era far diventare gli studenti ricercatori di loro stessi, affidandogli il carico gestionale e organizzativo. Poteva rappresentare una modalità peculiare di fare scuola-lavoro, ma non è stato possibile realizzarlo.
La seconda opzione sarebbe stata quella di utilizzare l’actigrafia, ovvero uno strumento non invasivo che, indossato al polso come un orologio, va a registrare l’attività motoria del polso stesso. Quest’ultima risulta essere rappresentativa dell’attività motoria dell’individuo. Considerando che movimento presente corrisponde alla veglia e che la quiescenza motoria corrisponde ad uno stato di sonno, l’actigrafia riesce a stimare in maniera consolidata alcune caratteristiche del sonno come la durata e la sua eventuale frammentazione. Essa ha, inoltre, il pregio di avere un’ottima risoluzione temporale e una memoria di uno o due mesi. Anche in questo caso non è stato possibile utilizzare questo strumento.
Ad ogni modo, la misura oggettiva non necessariamente avrebbe aggiunto qualcosa in più. In tanti contesti diagnostici dei disturbi del sonno la misura di eccellenza è il diario e, dunque, è il soggetto stesso che risponde a una specifica griglia di domande nei successivi minuti al risveglio. Il vantaggio di uno strumento così è l’assenza di costo e di essere anche facilmente attuabile. Anche se avessimo utilizzato misure oggettive, i risultati non sarebbero stati verosimilmente molto diversi. Infatti, tra misure self report e l’actigrafia vi è un accordo molto elevato.
Come spiegherebbe l’assenza di significatività dei risultati nel Pittsburgh Sleep Quality Index?
Il Pittsburgh Sleep Quality Index è una misura retrospettiva in cui viene chiesto ai soggetti di stimare alcune caratteristiche del sonno nel mese che precede la valutazione. È una misura che quantifica l’alterazione della qualità del sonno. Non ci aspettavamo un dato molto particolare, poiché non abbiamo inciso sui disturbi del sonno. Quello che abbiamo fatto è stato incidere sulla durata del sonno. Anche se i risultati non si sono mostrati significativi da un punto di vista statistico, questi sono comunque andati nella direzione attesa di un relativo miglioramento anche nella qualità del sonno.
Per eventuali ricerche future, ritiene sia utile poter differenziare gli studenti che riposano il pomeriggio da coloro che non lo fanno?
In questo studio la presenza di sonnellini diurni è stata valutata, ma non in maniera longitudinale, ovvero non per tutto il corso dello studio. Ogni studio futuro dovrebbe, ad ogni modo, meglio monitorare eventuali recuperi pomeridiani di sonno. Riguardo al come farlo, un fattore da tenere in considerazione sarebbe il cronotipo. Per quanto riguarda l’adesione dei nostri ritmi biologici e psicologici al modello circadiano la maggior parte di noi è sincronizzata su una tipologia intermedia in cui abbiamo adattato i nostri picchi di attività certi momenti del giorno.
Ma esistono due code della distribuzione: i mattutini e i serotini. Questi individui hanno una serie di variabili fisiologiche, ormonali e prestazionali spostate in maniera coerente alla loro tipologia. Nello specifico, il mattutino ha dei picchi legati alle prime ore del mattino e il serotino nella parte serale. Questo è un aspetto può essere manipolato. Un progetto quando viene costruito potrebbe prendere in considerazione non solo le singole classi, ma anche i cronotipi estremi e indagare su come rispondono al posticipo dell’orario.
Naturalmente ci si aspetta che siano i serotini a beneficiarne di più e i mattutini o ne beneficiano meno o non ne beneficiano affatto. Questo sarebbe da un punto di vista di pianificazione un aspetto molto facile da valutare e considerare. Infatti, nell’idea di un futuro in cui ipoteticamente l’organizzazione scolastica comincia a tener conto di queste conoscenze, è quella che è più facile da realizzare. Si potrebbero, in questo modo, comporre le classi in maniera oculata così da rispettare il cronotipo preferenziale dei singoli studenti. I mattutini verranno messi in classi tradizionali e i serotini in classi che posticipano l’orario di inizio delle lezioni.
Lei pensa che i risultati ottenuti dal vostro lavoro possano essere estesi anche a contesti non scolastici?
Assolutamente si. Prima però di muoverci ad altri contesti lavorativi rimaniamo ancora in quello scolastico. Nella scuola non ci sono solo gli studenti, ma anche gli insegnanti. Spesso noi insegnanti universitari ci troviamo a dover alternare anni accademici in cui si insegna la mattina ed anni in cui si insegna il pomeriggio. Parlando a titolo personale, essendo io un serotino, l’anno accademico in cui devo insegnare la mattina non mi rende particolarmente felice e se possibile cerco di farmi sempre posticipare un po’ la lezione nella composizione dei calendari delle lezioni.
Questo per dire che tutto ciò di cui abbiamo parlato nella prima parte, vale tanto per gli studenti quanto per gli insegnanti. Tuttavia, per quanto strano, mi sembra di ricordare che in tutti gli studi pubblicati finora hanno sempre guardato gli studenti e mai gli insegnanti, che avrebbero meritato anche loro di essere oggetto di studio. Per rispondere più specificatamente alla sua domanda, negli ultimi anni si è osservato un aumento di diverse organizzazioni professionali che rimangono attive 24h su 24: mentre fino a qualche decennio fa il turnismo era limitato al pronto soccorso ed ai mestieri di emergenza, ora sempre più categorie professionali ne sono interessate. Dunque, una parte sempre più cospicua della popolazione lavora in momenti cronobiologicamente non adatti. Non a caso, si parla proprio di “sindrome dei turnisti” riferendosi ad una costellazione di disturbi che sono conseguenze di questo drammatico sfasamento tra le attività lavorative e il proprio ritmo biologico.
Di conseguenza, la politica e le organizzazioni lavorative dovrebbero iniziare a considerare seriamente tutti quei fattori che minimizzano le conseguenze delle “sindromi dei turnisti”. Io stesso ho aperto un filone di ricerca sui turnisti in ambito infermieristico per documentare quanto l’errore in medicina del personale medico e paramedico (soprattutto durante i turni notturni) sia conseguente a questa desincronizzazione circadiana (Di Muzio et al., 2020; Di Muzio et al., 2019). Si tenga conto, per esempio, che qualche anno fa il British Medical Journal (Macary & Daniel, 2016), un autorevole giornale scientifico, ha pubblicato una drammatica statistica epidemiologica sulle cause di morte nel mondo: dopo i disturbi cardiocircolatori e le malattie oncologiche, la terza causa di morte nel mondo è la morte in contesti ospedalieri.
Non si può banalizzare questa osservazione perché si tratta di un fenomeno complesso ma una larga parte dei decessi dovuta agli errori in medicina è legato alle conseguenze del lavoro a turni. Quindi certamente queste osservazioni valgono anche per tutti gli altri contesti lavorativi, soprattutto quelli in cui le attività si svolgono in momenti cronobiologicamente non adatti. C’è da tener conto che la branca della cronobiologia ha numerose declinazioni, tra cui quella della cronofarmacologia, in cui si studiano quali sono i momenti dell’intero ciclo giornaliero in cui l’efficacia di certi principi attivi viene minimizzata o massimizzata. In definitiva, il ritmo cronobiologico è qualcosa che in futuro dovrebbe sempre più orientare certe scelte di carattere non solo farmacologico ma anche lavorativo e sociale.
Bibliografia
Alfonsi, V., Palmizio, R., Rubino, A., Scarpelli, S., Gorgoni, M., D’Atri, A., Pazzaglia, M., Ferrara, M., Giuliano, S., & De Gennaro, L. (2020). The association between school start time and sleep duration, sustained attention, and academic performance. Nature and Science of Sleep, 12, 1161–1172.
Di Muzio, M., Diella, G., Di Simone, E., Novelli, L., Alfonsi, V., Scarpelli, S., Annarumma, L., Salfi, F., Pazzaglia, M., Giannini, A. M., & De Gennaro, L. (2020). Nurses and Night Shifts: Poor Sleep Quality Exacerbates Psychomotor Performance. Frontiers in neuroscience, 14, 579938.
Di Muzio, M., Reda, F., Diella, G., Di Simone, E., Novelli, L., D’Atri, A., Giannini, A., & De Gennaro, L. (2019). Not only a Problem of Fatigue and Sleepiness: Changes in Psychomotor Performance in Italian Nurses across 8-h Rapidly Rotating Shifts. Journal of clinical medicine, 8(1), 47.
Jenni, O. G., Achermann, P., & Carskadon, M. A. (2005). Homeostatic sleep regulation in adolescents. Sleep, 28(11), 1446–1454.
Louzada, F. (2019). Adolescent sleep: a major public health issue. Sleep science, 12(1), 1.
Makary, M. A., & Daniel, M. (2016). Medical error-the third leading cause of death in the US. British Medical Journal,353, i2139.
Wright, K. P., Jr, Gronfier, C., Duffy, J. F., & Czeisler, C. A. (2005). Intrinsic period and light intensity determine the phase relationship between melatonin and sleep in humans. Journal of biological rhythms, 20(2), 168–177.