News
Ad
Ad
Ad
Tag

cambiamento climatico

Browsing

Esiste una relazione tra fiducia nella scienza e nelle università e opinioni circa il cambiamento climatico?

A cercare di rispondere a questa e ad altre domande, uno studio di grande attualità, appena pubblicato su PLoS Climate.

Nonostante il forte consenso della più gran parte degli studiosi sul fatto che il clima della terra stia cambiando e che le attività umane giochino un ruolo importante in questo, è pur vero che il tema scatena una partigianeria fortemente polarizzata negli Stati Uniti, che porta al negazionismo (dall’abstract dello studio su PLoS Climate).
Il risultato potrebbe essere dovuto all’azione della retorica aziendale e di alcune organizzazioni non profit, e risulta associato alle élite del Partito Repubblicano.
Tutto questo ha creato notevole frustrazione nella comunità scientifica (p. 2), al punto che già due anni fa si è addirittura affermato che il contratto tra scienza e società si è ormai rotto, invocando una moratoria sul tema (dall’abstract del secondo studio qui in bibliografia, quello su Climate and Development).

Tornando alla ricerca in questione, la stessa vuole quindi gettare luce sulle determinanti politiche e sociali dell’azione climatica (p. 2 del nuovo studio).

 

cambiamento climatico fiducia scienza
Foto di Katie Rodriguez

Parafrasando Claude Lévi-Strauss (Il crudo e il cotto, 1964), importante è porsi le giuste domande, ancor più che dare le giuste risposte. A p. 3 gli autori si interrogano:

  • Come la fiducia nella scienza si associa al considerare il cambiamento climatico un problema?
  • Come la fiducia nella scienza si associa a punti di vista sul fatto che il cambiamento climatico sia causato dalla natura o dall’uomo?
  • Chi ha fiducia nei centri di ricerca universitari?

Il contesto: Ricerche precedenti hanno individuato due diversi processi comportamentali: un rifiuto psicologico della scienza (Psychological Science Rejection – PSR) e un rifiuto ideologico della scienza (Ideological Science Rejection – ISR).
Mentre la prima potrebbe essere aumentata nel tempo, la seconda prospettiva sottolinea la crescita del populismo e la diminuita fiducia nella politica, l’effetto polarizzante dei media, che va quindi ad influire sulla fiducia nella scienza. Alcuni media trattano la scienza in maniera “relativistica”, considerandola semplicemente come un’opinione tra tante, oppure mostrando un “falso equilibrio” tra scienziati e scettici (p. 2).
Storicamente, la fiducia nella scienza negli Stati Uniti è sempre stata alta, pur dovendo considerare differenze regionali, religiose, o legate ad altre forme di partigianeria (p. 3).

Il sondaggio: La ricerca su PLoS Climate espone i risultati di un sondaggio su un campione rappresentativo di statunitensi (p. 3), ponderato sulla base di elementi che attengono alla persona, oltre che educazione, regione geografica, voto alle elezioni presidenziali del 2020 (p. 5).

Per gli autori, il cambiamento climatico è una sfida globale che necessita un approccio collaborativo e interdisciplinare, tanto per comprendere come per affrontare il problema. Considerando questo, e rispondendo quindi alla prima domanda, si tratta perciò di un tema cruciale che permette di misurare la fiducia pubblica nella scienza (p. 4).
Per quanto non ci sia accordo interdisciplinare su come concettualizzare fiducia e sfiducia, gli autori considerano un tipo di fiducia verso le istituzioni, che si relaziona alle performance delle istituzioni, perché ovviamente è la nostra esperienza delle stesse (che può essere anche indiretta, per il tramite di altri) a condizionare il nostro giudizio. Più nel dettaglio, non si tratta di istituzioni governative o di media in questo caso: le istituzioni prese in considerazione sono scienziati, centri di ricerca, università, per i quali gli statunitensi possono non avere esperienza diretta e quindi basare la loro fiducia su altri elementi, ad esempio di carattere legati all’ideologia, alla religione o forme di partigianeria (pp. 4-5).

Un sondaggio del 2020 rivelava una forte divisione: quasi il 50% degli statunitensi crede che il cambiamento climatico abbia cause antropiche, mentre una percentuale simile è divisa tra coloro che ritengono che le cause siano di origine naturale e coloro che ritengono non ci siano prove di un riscaldamento globale (p. 4).
Ad alcuni anni di distanza dal precedente, il nuovo sondaggio rivela dati un po’ diversi, per cui il 45% degli statunitensi pensano che il cambiamento climatico sia un problema molto importante, il 23% pensa che in qualche modo sia un problema importante, il 18% pensa che sia un problema poco importante e il 14% pensa che non sia un problema.
Il nuovo sondaggio ha semplificato il discorso della cause, per cui il 59% degli statunitensi pensa che il cambiamento climatico sia dovuto alle attività umane e il 41% a fenomeni naturali (Fig. 1 a p. 8).

Secondo l’età, chi ha tra i 45 e i 64 anni, o 64 e più anni è meno incline a pensare che il cambiamento climatico sia un problema importante. Le donne sono più inclini degli uomini. Sulla stessa domanda, non vi sono state informazioni significative relativamente alla fonte delle informazioni, ad esempio, se gli intervistati si informassero alla radio o con fonti online.

Per rispondere alla seconda e alla terza domanda, le ipotesi verificate statisticamente sono che gli schieramenti sul cambiamento climatico siano determinati dall’ideologia e dalle visioni dei due partiti (Democratici e Repubblicani), per cui ad es. un democratico più probabilmente crederà che il cambiamento climatico è un problema; tra i conservatori, coloro che si identificano come moderati o liberal più probabilmente degli altri risponderanno che è un problema importante. Oltre a questo, coloro che hanno una bassa fiducia nella scienza risponderanno con minore probabilità che il cambiamento climatico è causato dalle attività umane (p. 10).
Gli autori sottolineano che si tratti di dati significativi e di magnitudine considerevole.

Mentre coloro che si definiscono Ebrei e Cattolici sono più inclini a ritenere che il cambiamento climatico sia causato dalle attività umane, coloro che non professano alcuna fede registrano valori ancora più alti. Coloro che partecipano più spesso alle funzioni religiose sono più inclini a credere che il cambiamento climatico sia dovuto a cause naturali.
Per quanto riguarda la fiducia verso i centri di ricerca universitari, democratici e moderati si sono rivelati più inclini ad averla rispetto agli indipendenti.

In conclusione, gli autori constatano pure che studi empirici come questo siano pochi in letteratura, auspicando ulteriori ricerche sul tema, per diversi aspetti. Auspicano però soprattutto una cultura dove la ricerca e la comunicazione scientifica ricevano fiducia, costruendola già nell’educazione primaria e secondaria.

 

Con la premessa importante che quello su PLoS Climate è uno studio basato sul pubblico degli Stati Uniti, vi è una quarta domanda che ovviamente non è nella ricerca ma che viene naturale porsi: quanto queste considerazioni potrebbero essere valide anche per l’Italia?

Pure nel nostro Paese registriamo una fortissima polarizzazione su questi temi e il presentarsi delle medesime condizioni: il populismo in ascesa, la visione “relativistica” come i dibattiti “falsamente equilibrati” sui media, ecc.
Non sarebbe certo corretto rispondere senza dati a sostegno, ma – visto quanto sopra – il sospetto che si possano conseguire risultati non dissimili potrebbe forse accompagnarci e spingere qualcuno a ripetere l’esperimento anche nel nostro Paese.

 

 

Riferimenti bibliografici:

R. Michael Alvarez, Ramit Debnath, Daniel Ebanks, Why don’t Americans trust university researchers and why it matters for climate change, PLoS Climate (2023) 2(9): e0000147, DOI: 10.1371/journal.pclm.0000147

Bruce C. Glavovic, Timothy F. Smith & Iain White (2021) The tragedy of climate change science, Climate and Development, 14:9, 829-833, DOI: 10.1080/17565529.2021.2008855
PEW, The politics of climate; 2020. Link: https://www.pewresearch.org/science/2016/10/04/the-politics-of-climate/

Dalla curcuma una soluzione per salvare i coralli dai cambiamenti climatici

L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università di Milano-Bicocca hanno dimostrato l’efficacia di una sostanza estratta dalla curcuma nella protezione dei coralli dai danni dei cambiamenti climatici. La molecola viene somministrata attraverso un biomateriale biodegradabile, sviluppato dagli stessi partner, e nei test svolti all’Acquario di Genova si è dimostrata efficace nel proteggere i coralli dallo sbiancamento.

Milano, 19 luglio 2023 – L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno recentemente pubblicato su ACS Applied Materials and Interfaces, uno studio (“Biodegradable Zein-Based Biocomposite Films for Underwater Delivery of Curcumin Reduce Thermal Stress Effects in Corals”, DOI: 10.1021/acsami.3c01166) dove è stata dimostrata l’efficacia della curcumina, una sostanza antiossidante estratta dalla curcuma, nel ridurre lo sbiancamento dei coralli, fenomeno causato principalmente dai cambiamenti climatici. I due partner coinvolti hanno sviluppato un biomateriale biodegradabile per somministrare la molecola senza provocare danni all’ambiente marino circostante. I test eseguiti all’Acquario di Genova hanno dimostrato un’efficacia significativa nel prevenire lo sbiancamento dei coralli.

Scogliera corallina in fase di recupero nei pressi del MaRHE center, isola di Magoodhoo, Atollo di Faafu, Maldive. Crediti: Università Milano-Bicocca

Lo sbiancamento dei coralli è un fenomeno che, negli eventi estremi, determina la morte di questi organismi con conseguenze devastanti per le barriere coralline, queste ultime fondamentali per l’economia globale, la protezione delle coste dai disastri naturali e la biodiversità marina. La maggior parte dei coralli vive in simbiosi con alghe microscopiche, indispensabili per la loro sopravvivenza e responsabili dei loro colori brillanti. A causa dei cambiamenti climatici le temperature di mari e oceani sono in aumento, condizione che interrompe il rapporto tra questi due organismi. Quando ciò accade, il corallo, ormai bianco per la perdita delle alghe, rischia letteralmente di morire di fame.

Negli ultimi anni, a seguito dei cambiamenti climatici, questa condizione ha colpito la maggior parte delle barriere scogliere coralline più importanti del mondo, inclusa la Grande Barriera Corallina australiana. Tuttavia, a oggi non esistono interventi di mitigazione efficaci per prevenire lo sbiancamento dei coralli senza mettere in serio pericolo l’integrità di questi habitat e l’eccezionale biodiversità associata.

curcuma coralli
Corallo Stylophora pistillata ricoperto del biomateriale durante le prove di stress termico.
Crediti: Acquario di Genova

I ricercatori e le ricercatrici dell’Istituto Italiano di Tecnologia e dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno dimostrato l’efficacia di una molecola, la curcumina, nel bloccare lo sbiancamento dei coralli provocato dai cambiamenti climatici. La curcumina viene somministrata in maniera controllata sul corallo applicando un biomateriale a base di zeina, una proteina derivata dal mais, che è stato sviluppato dagli stessi partner per essere sicuro per l’ambiente.

Durante i test, svolti nell’Acquario di Genova, si sono simulate le condizioni di surriscaldamento dei mari tropicali alzando la temperatura dell’acqua fino a 33°C. In questa condizione tutti i coralli non trattati sono risultati colpiti dal fenomeno dello sbiancamento come succederebbe in natura mentre, al contrario, tutti gli esemplari trattati con la curcumina non hanno mostrato segni di tale fenomeno, risultati che rendono questo metodo efficace nel ridurre la suscettibilità dei coralli allo stress termico. Per questo studio è stata utilizzata una specie di corallo (Stylophora pistillata) tipica dell’oceano Indiano tropicale e inserita nella Lista rossa IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) tra le specie minacciate dal rischio di estinzione.

Simone Montano
Simone Montano. Crediti: Università Milano-Bicocca

«Questa tecnologia è oggetto di una domanda di brevetto depositata, infatti i prossimi passi di questa ricerca si focalizzeranno sull’applicazione in natura e su larga scala – afferma il primo autore dello studio Marco Contardi, ricercatore affiliato del gruppo Smart Materials dell’Istituto Italiano di Tecnologia e ricercatore del DISAT (Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – allo stesso tempo, esamineremo l’utilizzo di altre sostanze antiossidanti di origine naturale per bloccare il processo di sbiancamento e prevenire così la distruzione delle barriere coralline».

Marco Contardi, Foto di D. Farina.Crediti: Istituto Italiano di Tecnologia - © IIT, all rights reserved
Marco Contardi. Foto di D. Farina. Crediti: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

«L’utilizzo di nuovi materiali biodegradabili e biocompatibili capaci di rilasciare sostanze naturali in grado di ridurre lo sbiancamento dei coralli rappresenta una novità assoluta – dichiara Simone Montano ricercatore del DISAT e vice direttore del MaRHE Center (Marine Research and High Education Center) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – credo fortemente che questo approccio innovativo rappresenterà una trasformazione significativa nello sviluppo di strategie per il recupero degli ecosistemi marini».

Testo e foto dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

STUDIO INTERNAZIONALE GUIDATO DA UNITO: PERCHÉ L’ITALIA È UNA “PENISOLA FELICE” PER RANE E SALAMANDRE

Il lavoro dei paleontologi mette in relazione i cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi milioni di anni con la distribuzione di rettili e anfibi nell’Europa meridionale. È necessario monitorare con attenzione la salute degli anfibi italiani e concentrare gli sforzi di conservazione sulla nostra penisola, anche considerata l’elevatissima sensibilità di questi animali al cambiamento climatico in atto.

 

Un lavoro frutto di una collaborazione internazionale che vede coinvolti esperti paleontologi delle Università di Torino e di Firenze, ma anche dell’Università di Helsinki e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, ha messo in luce le correlazioni tra gli eventi climatici degli ultimi 3-4 milioni di anni e la distribuzione odierna di rettili e anfibi nell’Europa mediterranea. Secondo il recente studio, pubblicato su Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, la maggiore umidità relativa avrebbe permesso ad anfibi come le salamandre di trovare nella Penisola Italiana un rifugio accogliente in cui poter sopravvivere. Al contrario, eventi di freddo estremo non hanno permesso la sopravvivenza di alcuni rettili che oggi troviamo ancora nella Penisola Iberica e nei Balcani, ma non più in Italia.

Il gruppo di paleoerpetologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, guidato dal Prof. Massimo Delfino, si occupa da anni di ricostruire la biogeografia del passato delle diverse specie di anfibi e rettili che vivono nel nostro territorio (e non solo).

Una solida conoscenza del record fossile è l’unica base possibile per avere accesso diretto alla storia passata degli organismi che ci circondano – spiega il Prof. Delfino – e di conseguenza indagare le loro reazioni ai cambiamenti climatici già avvenuti sulla Terra”.

Lo studio ha evidenziato come la Penisola Italiana abbia perso nel periodo di tempo considerato numerose specie di rettili che in passato la abitavano e che oggi si ritrovano ancora nelle penisole Balcanica e Iberica. Tra questi, lo pseudopo (Pseudopus apodus) e lo stellione (Stellagama stellio) o un loro parente stretto. Questo è dovuto ad alcuni intervalli di poche decine di migliaia di anni caratterizzati da un clima particolarmente inadatto a questi rettili nella nostra penisola, laddove invece le aree più meridionali di Balcani e Iberia hanno mantenuto condizioni meno avverse.

Diversamente dai rettili, la distribuzione degli anfibi, e in particolare delle salamandre, è maggiormente controllata dai livelli di precipitazioni e quindi di umidità. Il maggior grado di umidità ricostruito dagli autori per il territorio italiano ha, pertanto, determinato la presenza di un rifugio particolarmente ospitale per gli anfibi durante i periodi “difficili” degli ultimi 3 milioni di anni.

Queste condizioni più umide sono testimoniate sia da analisi di modellizzazione della nicchia climatica sia da indagini parallele fondate sull’utilizzo del record fossile di altri gruppi (come i mammiferi e le piante) per ricostruire i livelli di precipitazione del passato.

Quanto si osserva per la distribuzione degli anfibi è valido anche per alcune specifiche piante del passato, che richiedevano la presenza di estati umide”, osservano i paleobotanici Prof. Edoardo Martinetto (Università di Torino) e Prof.ssa Adele Bertini (Università di Firenze). “E non è escluso che pattern simili si possano osservare anche in gruppi diversi, soprattutto di organismi legati ad ambienti di acqua dolce”, aggiunge il Prof. Giorgio Carnevale (Università di Torino).

Ho creduto molto in questo lavoro, perché penso che il record fossile abbia molto da dirci e che guardando al passato possiamo mettere in prospettiva gli eventi che accadono sotto i nostri occhi”, sottolinea la Dott.ssa Loredana Macaluso, prima autrice dell’articolo e attualmente ricercatrice alla Università Martin Luther University Halle-Wittenberg in Germania, che ha svolto il suo dottorato su questo tema presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino. “Il contributo di diverse branche della paleontologia e la collaborazione tra diversi esperti sono stati fondamentali per avere il quadro completo, consentendo l’unione di tutti i pezzi del puzzle. Proprio in considerazione della loro particolare storia evolutiva e biogeografica, le salamandre dovrebbero essere fra i nostri simboli e orgogli naturalistici, visto che la loro biodiversità nel nostro paese rappresenta un unicum a livello europeo e mondiale, con molte specie endemiche (e dunque esclusive del nostro territorio). Dovremmo capire che abbiamo una responsabilità molto alta riguardo la loro conservazione e che dovremmo iniziare a preoccuparcene seriamente”.

Italia, “penisola felice” per rane e salamandre. Gallery

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Progetto Cli-DaRe@School: grazie al lavoro di 350 studenti recuperate oltre 4.000 pagine di antichi dati meteorologici italiani

Nell’ambito dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, 350 studenti e studentesse delle scuole superiori hanno partecipato al progetto Cli-DaRe@School di AISAM, coordinato da un team interdisciplinare di scienziati, volto a recuperare tramite digitalizzazione l’immenso patrimonio storico italiano di dati pluviometrici e termometrici. Oltre 4.000 le pagine recuperate durante il primo anno.

 Milano, 13 luglio 2023 – Coinvolgere gli studenti per recuperare, analizzare e digitalizzare antichi dati metereologici che altrimenti potrebbero andare perduti: ecco l’obiettivo Cli-DaRe@School, un progetto formativo promosso dall’Associazione Italiana di Scienze dell’Atmosfera e Meteorologia (www.aisam.eu) all’interno di Cli-DaReattività di Citizen Science.

Cli-DaRe@School è stato sviluppato da un team di ricercatori e ricercatrici dell’Università Statale di Milano, dell’Università di Trento, del Politecnico di Milano, dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima ISAC/CNR, di Eurac Research e della Società Meteorologica ItalianaHa coinvolto 350 studenti e studentesse di 10 scuole superiori italiane, nell’ambito delle ore di PCTO (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento– ex alternanza scuola-lavoro), volta alla digitalizzazione dei dati delle pubblicazioni sui dati mensili di precipitazione e di temperatura: sono stati coinvolti 350 studenti di 10 scuole superiori italiane.

L’Italia dispone infatti di un patrimonio di antichi dati meteorologici di eccezionale valore. Il recupero di questo enorme patrimonio di dati osservativi è in corso da lungo tempo, ma, ancora oggi, una parte consistenze è disponibile solamente su supporto cartaceo: registri osservativi di singoli osservatori, raccolte di dati pubblicate su annali o antichi lavori monografici che avevano l’obiettivo di censire e raccogliere i dati esistenti al momento della loro pubblicazione. Queste ultime fonti, in particolare, sono ricche e importanti per i dati di precipitazione (pioggia, neve, grandine, …). Per questa variabile esistono pubblicazioni che presentano i dati mensili di migliaia di stazioni, raccolti in Italia al 1915; dal 1916 al 1920 e dal 1921 al 1950. Per i dati mensili della temperatura dell’aria invece è disponibile una pubblicazione con i dati del periodo 1926-1955.

I ricercatori e le ricercatrici si sono occupati innanzitutto di individuare, regione per regione, quali fossero i dati da digitalizzare, assegnando poi alle singole classi un set di pagine da digitalizzare (mediamente una dozzina per studente), sotto monitoraggio dei docenti. I dati digitalizzati restituiti sono infine stati sottoposti a minuziosi controlli di qualità, anche grazie al lavoro di tesi di diversi laureandi e laureande dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università di Milano-Bicocca. Ogni scuola è stata seguita da un membro del gruppo di lavoro che ha supportato il lavoro dei ragazzi durante l’intera durata del progetto.

Inoltre, per sensibilizzare gli studenti e le studentesse al problema del cambiamento climatico e per avvicinarli alle discipline della scienza dell’atmosfera sono stati organizzati dei seminari a tema. Infine, una volta ultimata l’attività di digitalizzazione, per alcuni studenti che volevano proseguire l’attività formativa sui dati digitalizzati sono stati preparati dei pacchetti di attività, come un tool per il controllo della correttezza delle coordinate di ogni stazione digitalizzata e uno per la verifica della qualità dei dati recuperati.

Il progetto si è chiuso con un evento conclusivo aperto con i saluti del presidente AISAM, Dino Zardi, e del Direttore dell’Agenzia Nazionale per la Meteorologia e la Climatologia Italia Meteo, Carlo Cacciamani. Durante l’evento, alcuni ragazzi e ragazze hanno presentato i loro risultati e mostrato brevi video di loro realizzazione. Nella stessa occasione il gruppo di lavoro ha presentato alcuni risultati del progetto e gli esiti dei questionari di gradimento, rivolti sia ai docenti sia ai ragazzi.

Durante l’evento si sono anche discussi gli aspetti positivi e le potenziali criticità di questo primo anno di progetto, cercando di capire come migliorare per i prossimi anni, perché Cli-DaRe@School verrà riproposto anche nel prossimo anno scolastico con nuove proposte” conclude Maurizio Maugeri, climatologo e referente dell’Università Statale di Milano per il progetto.

Dolomiti Sud Tirolo recuperati antichi dati meteorologici italiani
Progetto Cli-DaRe@School: recuperati antichi dati meteorologici italiani. Dolomiti, Sud Tirolo, nella foto di 🌼Christel🌼(ChiemSeherin)

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università Statale di Milano sul Progetto Cli-DaRe@School di recupero di antichi dati meteorologici italiani

The Cooling Solution

la mostra fotografica
dal 19 maggio al 31 luglio 2023

presso l’Università Ca’ Foscari Venezia

The Cooling Solution

The Cooling Solution è un progetto fotografico e scientifico che mostra come persone con diversi background culturali e socioeconomici si adattino a condizioni di alta temperatura e umidità, in paesi temperati e tropicali. La mostra fotografica è esposta a Venezia in due sedi dell’Università Ca’ Foscari Venezia (Ca’ Foscari Zattere – Cultural Flow Zone e il Cortile Grande dell’ateneo) dal 19 maggio al 31 luglio 2023.

The Cooling Solution è un progetto di arte e scienza che ha scelto la fotografia d’autore di Gaia Squarci per raccontare come persone provenienti da diversi contesti socioculturali, in varie parti del mondo, si adattino a temperature crescenti ed alti tassi di umidità. A partire dal titolo, il termine “soluzione” vuole mettere in discussione il paradigma dell’adattamento al cambiamento climatico incentrato sull’uso indiscriminato dei condizionatori. Il progetto esamina come l’uso dell’aria condizionata si sia affermato come l’unica strategia onnipresente e intensamente pubblicizzata per far fronte al caldo estremo in diverse parti del mondo, non importa quanto caldo o umido ci sia.  Secondo il rapporto “The Future of Cooling” pubblicato nel 2018 dall’Agenzia Internazionale per l’Energia, nei prossimi 30 anni  verranno venduti 10 impianti di aria condizionata al secondo, raggiungendo così nel 2050 il numero strabiliante di 5,6 miliardi di impianti installati a livello mondiale.

L’intento di The Cooling Solution è quello di rendere accessibili all’ampio pubblico, attraverso il potere comunicativo della fotografia, una serie di risultati scientifici che sono stati prodotti in 5 anni dal progetto di ricerca ENERGYA. Il progetto, finanziato dal Consiglio Europeo per la Ricerca (ERC) è stato coordinato da Enrica De Cian, professoressa di Economia ambientale a Ca’ Foscari e ricercatrice presso la Fondazione CMCC. La mostra integra i risultati del progetto scientifico con un reportage fotogiornalistico tra Brasile, India, Indonesia e Italia, offrendo così un percorso visivo attraverso esperienze quotidiane di persone alle prese con il disagio termico, esempi di raffreddamento inefficiente e inefficace, iper-raffreddamento, architettura vernacolare e tecnologie all’avanguardia.

Gallery. Fotografie di Gaia Squarci

“The Cooling Solution vuole far riflettere i visitatori sul concetto di comfort termico, mostrando come questo dipenda non solo dalla temperatura, ma anche dal modo in cui persone in diversi regioni e società si siano storicamente adattate a condizioni di caldo ed umidità estremi. Quello che stiamo osservando oggi è un uso eccessivo o non adeguato di metodi energivori per mantenere le condizioni di comfort termico, anche laddove esistono alternative che potrebbero dare un risultato altrettanto soddisfacente. La mostra mette in luce le contraddizioni ambientali e sociali legate all’uso eccessivo dell’aria condizionata, nonché la tensione con gli obiettivi che spesso ne motivano l’utilizzo, come la necessità di proteggere le persone più fragili della società, dai bambini agli anziani, alle persone con disabilità” – spiega Enrica De Cian, professoressa del Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari Venezia e ricercatrice della Fondazione CMCC.

 

Gaia Squarci, autrice delle fotografie esposte a Ca’ Foscari, aggiunge: “Senza dubbio ci troveremo a vivere in un pianeta più caldo, e senza dubbio, in alcuni contesti, l’aria condizionata può e potrà salvare vite. Ma esistono tantissimi altri modi di raffrescarsi, soprattutto quando le condizioni di temperatura e umidità non sono estreme. La mostra intende anche dare visibilità ad architetture, tecnologie, e comportamenti che ci potranno aiutare ad adattarci senza surriscaldare il pianeta”.

SCHEDA INFORMATIVA

The Cooling Solution

Mostra fotografica 19 maggio – 31 luglio 2023

Fotografia di Gaia Squarci, ricerca di ENERGYA, coordinata dalla prof.ssa Enrica De Cian, Università Ca’ Foscari Venezia e Fondazione CMCC, curatela di Kublaiklan e coordinamento arte-scienza di Elementsix.

  • Interni: Ca’ Foscari Zattere – Cultural Flow Zone, Dorsoduro 1392, Venezia

  • Esterni: Cortile Grande dell’Università Ca’ Foscari Venezia, Dorsoduro 3246, Venezia

 

ORARI

Cortile Grande

Dal lunedì al venerdì 8.00 – 18.00

Sabato 8.00 – 13.00

Entrata libera, 2 e 3 giugno chiuso per festività nazionale

Tesa 1, Ca’ Foscari Zattere

Dal lunedì al venerdì 10.00 -18.00

sabato 10.00 – 18.00
Domenica 15.00 -18.00

Entrata libera, 2 e 3  giugno chiuso per festività nazionale

 

INAUGURAZIONE

Venerdì 19 maggio 2023, ore 17.00, Cortile Grande Università Ca’ Foscari, Ca’ Foscari Venezia, Dorsoduro 3246, Venezia

Introduzione di Cristina Baldacci di THE NEW INSTITUTE Centre for Environmental Humanities, seguita da un tour guidato alle Zattere Cultural Flow Zone con la fotografa Gaia Squarci, la coordinatrice scientifica Enrica De Cian, il collettivo curatoriale Kublaiklan, e il coordinatore del progetto di arte-scienza Elementsix.

Per registrarsi all’inaugurazione, compilare il form

 

WORKSHOP SCIENTIFICO

Venerdì 19 maggio 2023, ore 09.00, Aula Baratto, Università Ca’ Foscari Venezia, Dorsoduro 3246, Venezia

La mattina del 19 maggio si svolgerà nella storica Aula Baratto dell’Università Ca’ Foscari, un workshop scientifico con rinomati esperti internazionali, dove verrà discusso il previsto boom dell’aria condizionata nei prossimi 20 anni, insieme ad alcune delle possibili alternative.

L’agenda del workshop si trova in cartella stampa, per registrarsi al workshop, compilare il form

 

SITO WEB E CATALOGO

Il progetto sarà consultabile online dal 19 maggio 2023 su un sito web dedicato dal quale sarà anche possibile acquistare una copia cartacea del catalogo thecoolingsolution.com

 

A CURA DI

La mostra fotografica, curata da Kublaiklan, non sarebbe stata possibile senza la ricerca economica di Enrica De Cian ed il suo team, la ricerca etnografica di Antonella Mazzone, la ricerca politica di Marinella Davide, e la fotografia di Gaia Squarci, il tutto coordinato da Elementsix.

 

Questa mostra è supportata dal progetto di ricerca ENERGYA guidato da Enrica De Cian e finanziato dal Consiglio europeo della ricerca (ERC) nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea (n. 756194), dalla Fondazione CMCC e dal progetto Marie Curie ACTION (No 841291) guidato da Marinella Davide. È stata organizzata congiuntamente dal Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari Venezia, dal centro THE NEW INSTITUTE Centre for Environmental Humanities, e dalla Oxford Martin School dell’Università di Oxford. “The Cooling Solution” rientra nell’ambito della programmazione delle iniziative di Public Engagement 2023 dell’Università Ca’ Foscari Venezia.

Testo e immagini dall’Ufficio Comunicazione e Promozione di Ateneo Area Comunicazione e Promozione Istituzionale e Culturale Università Ca’ Foscari Venezia

Le piante delle Alpi in fuga dal caldo

Pubblicato su «PNAS» lo studio dell’Università di Padova e della Fondazione Museo Civico di Rovereto in cui si dimostra come la maggioranza delle piante delle Alpi nord orientali italiane si sposta verso quote più alte come risposta ai cambiamenti climatici. Il Bromus erectus, ad esempio, negli ultimi trent’anni si è spostato con una velocità di circa 3 metri l’anno. Il Sorghum halepense, una specie aliena, si è spostato con una velocità di 4 metri l’anno. Diverso è il caso della Pulsatilla montana, specie rara, che ha retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri nei trent’anni. Le piante aliene, soprattutto negli ambienti antropizzati, sono molto veloci a crescere e sottraggono le risorse alle altre specie autoctone.

È stata pubblicata sulla rivista internazionale «Proceedings of the National Academy of Sciences» (PNAS) la ricerca dal titolo “Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps” firmato dal professor Lorenzo Marini e dalla dottoressa Costanza Geppert del Dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali e Ambiente dell’Università di Padova insieme ad Alessio Bertolli e Filippo Prosser, botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, sulle variazioni della distribuzione geografica delle piante alpine in base ai cambiamenti a lungo termine delle temperature.

Lo studio ha monitorato non solo la presenza, ma anche la tipologia (autoctona comune, autoctona rara e aliena) della flora situata sulle Alpi Nord-orientali italiane: in questi tre decenni vi è stato uno spostamento verso quote più alte delle popolazioni di piante. Eppure la distribuzione delle specie autoctone rare non si è espansa verso l’alto in concomitanza con i cambiamenti climatici, ma si è, anzi, contratta. Infine le piante aliene, invece, si sono diffuse rapidamente a quote più alte spostandosi con la stessa velocità del riscaldamento climatico pur mantenendo la loro presenza anche a valle.

ALPI LE PIANTE IN FUGA DAL CALDO
Papaveri. Credits: Paolo Paolucci

La pubblicazione, frutto della collaborazione di Lorenzo Marini e Costanza Geppert dell’Università di Padova con Filippo Prosser e Alessio Bertolli, esperti botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, dimostra che la flora alpina vive un profondo mutamento. Alcune popolazioni di piante, per effetto del cambiamento climatico, sono sottoposte a temperature troppo alte per la loro sopravvivenza. Per questa ragione alcune specie “migrano” a quote più alte, dove si trovano condizioni termiche più fredde.

Tuttavia non è solo l’innalzamento della temperatura a sconvolgere la flora alpina, anche l’attività dell’uomo ha un importante impatto poiché a valle si concentrano le attività antropiche e vi è maggiore è una pressione sull’ambiente.

Il paesaggio alpino ha subito importanti trasformazioni negli ultimi anni: sono aumentate a valle le aree urbane o agricole e, parallelamente, sono stati abbandonati i prati semi-naturali – non sfruttabili da un’agricoltura sempre più intensiva – a quote intermedie.

Le piante delle Alpi in fuga dal caldo: Pulsatilla montana. Credits: Paolo Paolucci

Come è stata calcolata la velocità di risalita? Per prima cosa si è stimata, per ogni specie, la distribuzione di densità (probabilità) in cui si verificava il fenomeno. Il margine caldo è stato collocato nel 10% (quantile) della distribuzione, quello freddo nel restante 90%. Lo spostamento è stato misurato raffrontando (in sottrazione) i quantili storici del periodo 1990-2004 da quelli attuali 2005-2019.

Per specie aliena si intende una qualsiasi specie vivente (nel nostro caso vegetale) che, a causa dell’azione dell’uomo (accidentale o deliberata), si trova ad abitare e colonizzare un territorio diverso dal suo areale di origine, autosostenendosi riproduttivamente nel nuovo sito. In particolare, nel studio, sono state considerate aliene le specie consolidate introdotte dall’uomo in Europa da un altro continente dopo il XVI secolo. Come specie aliena, il Sorghum halepense, negli ultimi trent’anni, ha spostato il margine freddo della sua distribuzione verso quote più elevate con una velocità di circa 4 metri l’anno.

Le specie comuni, quelle autoctone non inserite nella lista rossa IUCN (organismo mondiale che monitora lo stato del mondo naturale e propone misure necessarie per la sua salvaguardia), si sono spostate verso quote più elevate. Questo movimento, però, non è stato omogeneo. Un esempio può essere il Bromus erectus che si è spostato di circa 3 metri l’anno al margine freddo e 5 metri l’anno al margine caldo, restringendo, quindi, la sua distribuzione totale. La Pulsatilla montanaspecie rara, non ha conquistato quote più elevate ma ha, anzi, retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri.

Costanza Geppert
Costanza Geppert

«In ecologia è raro poter esaminare dati con una buona risoluzione spaziale e temporale. In questo studio abbiamo potuto analizzare i cambiamenti di distribuzione di più di un milione di record di 1.479 specie alpine in un periodo di trent’anni – spiega Costanza Geppert, prima autrice dello studio –. I valori sono stati registrati con dei rilievi floristici in campo dal team di botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto che ha mappato per più di trent’anni le specie presenti nella provincia di Trento.Dalla nostra analisi sono emersi risultati allarmanti: le piante rare sono in diminuzione».

Lorenzo Marini
Lorenzo Marini

«La rapida perdita delle aree di distribuzione specifica delle piante rare si è verificata in zone in cui le attività umane e le pressioni ambientali sono elevate. Questo ci suggerisce che bisognerebbe proteggere anche alcune aree a valle e non solo le zone d’alta quota più remote – afferma Lorenzo Marini, coordinatore dello studio –. Quello che abbiamo fatto è stato misurare l’abilità a competere, anche con l’uomo, delle specie vegetali. Le piante aliene in condizioni di disturbo – per fertilizzazione, rimozione della vegetazione residente per la costruzione di una casa, una strada o un parcheggio – sono molto veloci a crescere e sfruttare le risorse presenti, sottraendole alle altre specie autoctone. Dal nostro studio è emerso che proprio nelle aree più antropizzate e disturbate le piante aliene sono particolarmente abili a competere con le altre specie».

«Sono numerose le specie floristiche minacciate legate agli ambienti agricoli tradizionali e a prati e pascoli – osservano Filippo Prosser e Alessio Bertolli, botanici esperti della Fondazione Museo civico di Rovereto che hanno coordinato i rilievi di campo in Trentino –. Le zone aperte rischiano di scomparire poiché nelle aree più acclivi e scomode sono in fase di abbandono, mentre in quelle pianeggianti vicino alle strade sono soggette a sempre più eccessive concimazioni e pascolamenti, che determinano una banalizzazione della componente floristica. Il pericolo è perdere specie davvero uniche e preziose per la biodiversità delle nostre Alpi».

Link alla ricerca: https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2211531120

Titolo: “Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps” – «PNAS» 2023

Autori: Costanza Geppert, Alessio Bertolli, Filippo Prosser, Lorenzo Marini.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

BIOSUVEG, COME COLTIVARE FRUTTA E VERDURA CON MENO ACQUA E FERTILIZZANTI

BIOSUVEG, progetto di ricerca europeo finanziato da EIT Food e coordinato dal Prof. Andrea Schubert, docente del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, ha messo a punto un biostimolante innovativo che aiuta la crescita e la produzione delle piante in ambienti aridi.

peperoni BIOSUVEG
Foto di Nicole Köhler 

La sostenibilità in agricoltura è un valore sempre più citato e ricercato, ma non sempre è facile identificare soluzioni che vadano in questa direzione mantenendo la soddisfazione dei consumatori. La riduzione dell’apporto di acqua e fertilizzanti è una componente essenziale della sostenibilità. Il cambiamento climatico ci pone di fronte a lunghi periodi di siccità in cui l’acqua diventa risorsa rara e costosa, mentre i fertilizzanti sono sempre meno disponibili per cause naturali e geopolitiche, come la guerra in Ucraina.

Il progetto di ricerca europeo BIOSUVEG, finanziato da EIT Food e coordinato dal Prof. Andrea Schubert, docente del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari, e che vede la collaborazione del PlantStressLab dell’Università di Torino e della start-up StrigoLab, ha messo a punto un biostimolante innovativo che aiuta la crescita e la produzione delle piante, in particolare quella del pomodoro, in ambienti meno ricchi di acqua e sostanze fertilizzanti.

biostimolanti sono prodotti di origine naturale, somministrati a basse concentrazioni, che favoriscono specifici processi biologici e aiutano la crescita delle piante. Il principio attivo del biostimolante sviluppato nel progetto BIOSUVEG viene ottenuto attraverso un procedimento innovativo, brevettato da StrigoLab, e contiene strigolattoni, ormoni di recente scoperta, con i quali è possibile controllare la crescita e la resistenza allo stress combinato da siccità e carenza di elementi nutritivi nelle piante.

I ricercatori dell’Università di Torino e di StrigoLab stanno svolgendo le prove sperimentali necessarie a ottimizzarne la formulazione e le modalità d’uso, con la prospettiva di inserire sul mercato un prodotto innovativo ed efficace per l’agricoltura. L’obiettivo è di ottenere un incremento della produzione superiore al 10% in pomodoro e peperone in condizioni di ridotta disponibilità di acqua e di fosfato.

“La disponibilità di acqua – dichiara Andrea Schubert – sta diventando poco affidabile anche in zone temperate umide come la Pianura Padana, e i fertilizzanti fosfatici sono in via di esaurimento a livello mondiale. Sviluppare delle tecniche che mantengano la produzione anche quando queste risorse sono meno disponibili è una chiave della sicurezza alimentare per il futuro”.

 

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

PESCATO DELL’ALTO ADRIATICO: STESSA QUANTITÀ, DIVERSA QUALITÀ

La “mutazione invisibile” dell’ecosistema marino scoperta dall’Università di Padova

 Negli ultimi decenni la ricerca ha chiarito come i sistemi naturali, anche quelli grandi e complessi come gli ecosistemi marini, subiscono dei “cambiamenti di regime” cioè variazioni nette e totalmente inaspettate. Possono essere determinati dalle attività umane, come la pesca o il cambiamento climatico globale di origine antropica, trasformando radicalmente gli ecosistemi in termini di abbondanza di organismi e di processi ecologici, con potenziali ricadute per la biodiversità e la produttività delle risorse ittiche.

Lo studio dal titolo “Stable landings mask irreversible community reorganizations in an overexploited Mediterranean ecosystem” pubblicato sul «Journal of Animal Ecology» da parte di ricercatori del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova in collaborazione con l’Università di Amburgo e CNR-ISMAR dimostra che, negli ultimi 40 anni, si sono succeduti intensi cambiamenti di regime nell’ecosistema dell’Alto Adriatico, uno dei mari più pescosi e sfruttati del pianeta, nella totale inconsapevolezza di tutti.

Camilla Sguotti Pescato dell'Alto Adriatico: stessa quantità, diversa qualità
Camilla Sguotti

«Questa scoperta è stata possibile analizzando con metodi matematici avanzati, basati sulla teoria delle catastrofi di Thom, le serie temporali delle catture di organismi, quali pesci e invertebrati, da parte della flotta peschereccia di Chioggia, la maggiore d’Italia – dice Camilla Sguotti, ricercatrice post-dottorato nel programma europeo ‘Marie Skłodowska-Curie Actions’ al Dipartimento di Biologia dell’Ateneo di Padova e prima autrice dello studio –. La composizione di quello che si pesca riflette la comunità di organismi che abitano il mare: a partire dagli anni Ottanta si è avuto un andamento caratterizzato da lunghi periodi di stabilità nella varietà e qualità del pescato intervallati da improvvisi cambiamenti discontinui a causa dell’effetto sinergico di pressione da pesca e riscaldamento dei mari dovuto ai cambiamenti climatici. La cosa interessante è “scoprire” solo ora questi cambiamenti, cioè dopo decenni, in quanto le catture totali della flotta sono rimaste approssimativamente costanti nel tempo, distogliendo quindi l’attenzione dall’avvicendarsi delle diverse specie nei decenni».

Alberto Barausse
Alberto Barausse

«Sembra che l’ecosistema del mare Alto Adriatico – conclude Alberto Barausse del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova coordinatore dello studio pubblicato – sia cambiato in modo irreversibile: anche se diminuissimo la pressione di pesca, le temperature non si riabbasseranno a breve a causa dell’inerzia del cambiamento climatico. Capire i fattori che portano a questi cambiamenti di regime negli ecosistemi marini è quindi fondamentale per saper gestire le nostre attività, come la pesca, senza erodere la resilienza degli ecosistemi: una volta che un cambiamento di regime è avvenuto nell’ecosistema, potenzialmente con conseguenze negative non solo per la biodiversità ma spesso anche per le attività economiche, purtroppo non sempre è possibile tornare indietro facilmente».

Link all’articolo: https://doi.org/10.1111/1365-2656.13831

Titolo: “Stable landings mask irreversible community reorganizations in an overexploited Mediterranean ecosystem” – «Journal of Animal Ecology» – 2022.

Autori: Camilla Sguotti, Aurelia Bischoff, Alessandra Conversi, Carlotta Mazzoldi, Christian Möllmann, Alberto Barausse

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova sulla ricerca sul pescato nell’Alto Adriatico.

Cambiamenti climatici e deforestazione instradano i primati verso un nuovo stile di vita
Uno studio internazionale a cui ha preso parte la Sapienza ha analizzato i fattori ecologici ed evolutivi che spingono scimmie e lemuri che vivono sugli alberi a terra. La ricerca condotta su larga scala nei primati di 3 continenti, è stata pubblicata sulla rivista PNAS.

Uno studio internazionale su 47 specie di scimmie e lemuri ha evidenziato come i cambiamenti climatici e le deforestazioni interferiscano sullo stile di vita dei primati. L’influenza dei cambiamenti ambientali porta molti di questi animali, che vivono normalmente sugli alberi, a cambiare le proprie abitudini, spingendoli a scendere a terra, dove sono più esposti a fattori di rischio come la mancanza di cibo, i predatori, la presenza dell’uomo e degli animali domestici.

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS (The Proceedings of the National Academy of Sciences) è stato coordinato da Timothy Eppley, ricercatore presso il San Diego Zoo Wildlife Alliance (SDZWA), e vede la straordinaria collaborazione a livello mondiale di 118 co-autori provenienti da 124 istituti diversi, tra cui Luca Santini della Sapienza di Roma che ha co-ideato e supervisionato il lavoro. I risultati si basano su circa 150.000 ore di dati di osservazione riguardanti 15 specie di lemuri e 32 specie di scimmie in 68 siti nelle Americhe e in Madagascar.

La ricerca consiste in una valutazione dell’influenza delle caratteristiche biologiche, del contesto ambientale e delle azioni umane sul periodo trascorso a terra dai primati arboricoli. Lo studio ha rilevato come le specie che consumano meno frutta e vivono in grandi gruppi sociali siano più predisposte a scendere a terra e abbandonare lo stile di vita arboricolo. Si possono, quindi, definire queste condizioni come una sorta di “pre-adattamento” a quello che potrà essere la vita futura di questi animali. Lo studio ha inoltre mostrato come la temperatura, e la degradazione delle foreste, spingano i primati ad un uso maggiore dello strato terrestre. Di conseguenza, un habitat frammentato, disturbato dall’uomo che offre scarse risorse alimentari, solo popolazioni di primati che hanno una dieta più diversificata e vivono in gruppi numerosi possono adattarsi più facilmente a uno stile di vita terrestre.

Lo studio ha anche rilevato che le popolazioni di primati più vicine alle infrastrutture umane hanno meno probabilità di scendere a terra:

“I nostri risultati – dichiara Luca Santini della Sapienza – suggeriscono che la presenza umana, spesso una minaccia alla conservazione dei primati, possa interferire con la loro naturale adattabilità al cambiamento globale”.

In passato situazioni di transizione da uno stile di vita arboricolo a quello di vita terreste si sono già presentate, non è una novità.

Le preoccupazioni che hanno portato gli studiosi ad avviare uno studio di questa portata nascono nella rapidità con cui avvengono cambiamenti climatici e interventi dell’uomo. Questo richiederebbe per le specie meno adattabili, strategie di conservazione rapide ed efficaci per garantire la loro sopravvivenza.

lemure Eulemur mongoz Cambiamenti climatici e deforestazione cambiano le abitudini dei primati
Cambiamenti climatici e deforestazione instradano i primati verso un nuovo stile di vita. Un lemure mangusta (Eulemur mongoz) nella foto di IParjan, in pubblico dominio

Riferimenti:
Factors influencing terrestriality in primates of the Americas and Madagascar – Eppley T.M., Hoeks S., Chapman C.A., Ganzhorn J.U., Hall K., Owen M.A., Adams D.B., Allgas N., Amato K.R., Andriamahaihavana M., Aristizabal J.F., Baden A.L., Balestri M., Barnett A.A., Bicca-Marques J.C., Bowler M., Boyle A.S., Brown M., Caillaud D., Calegaro-Marques C., Campbell C.J., Campera M., Campos F.A., Cardoso T.S., Carretero-Pinzón X., Champion J., Chaves O.M., Chen-Kraus C., Colquhoun I.C., Dean B., Dubrueil C., Ellis K.M., Erhart E.M., Evans K.J.E., Fedigan L.M., Felton A.M., Ferreira R.G., Fichtel C., Fonseca M.L., Fontes I.P., Fortes V.B., Fumian I., Gibson D., Guzzo G.B., Hartwell K.S., Heymann E.W., Hilário R.R., Holmes S.M., Irwin M.T., Johnson S.E., Kappeler P.M., Kelley E.A., King T., Knogge C., Koch F., Kowalewski M.M., Lange L.R., Lauterbur M.E., Louis Jr. E.E., Lutz M.C., Martínez J., Melin A.D., de Melo F.R., Mihaminekena T.H., Mogilewsky M.S., Moreira L.S., Moura L.A., Muhle C.B., Nagy-Reis M.B., Norconk M.A., Notman H., O’Mara M.T., Ostner J., Patel E.R., Pavelka M.S.M., Pinacho-Guendulain B., Porter L.M., Pozo-Montuy G., Raboy B.E., Rahalinarivo V., Raharinoro N.A., Rakotomalala Z., Ramos-Fernández G., Rasamisoa D.C., Ratsimbazafy J., Ravaloharimanitra M., Razafindramanana J., Razanaparany T.P., Righini N., Robson N.M., da Rosa Gonçalves J., Sanamo J., Santacruz N., Sato H., Sauther M.L., Scarry C.J., Serio-Silva J.C., Shanee S., de Souza Lins P.G.A., Smith A.C., Smith Aguilar S.E., Souza-Alves J.P., Stavis V.K., Steffens K.J.E., Stone A.I., Strier K.B., Suarez S.A., Talebi M., Tecot S.R., Tujague M.P., Valenta K., Van Belle S., Vasey N., Wallace R.B., Welch G., Wright P.C., Donati G., Santini L. – PNAS (2022) https://doi.org/10.1073/pnas.2121105119

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

OLTRE IL 2% DELLE EMISSIONI GLOBALI DI GAS SERRA SONO CAUSATE DAI FERTILIZZANTI SINTETICI

Lo studio internazionale condotto dal team di ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace

fertilizzanti azotati sintetici gas serra

I fertilizzanti azotati sintetici sono responsabili del 2,1% delle emissioni globali di gas serra, secondo una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports e intitolata “Greenhouse gas emissions from global production and use of nitrogen synthetic fertilisers in agriculture”. A differenza dei fertilizzanti organici, che provengono da materiale vegetale o animale, i fertilizzanti sintetici sono prodotti dall’uomo con processi chimici. La produzione e il trasporto causano emissioni di carbonio, mentre l’uso agricolo di questi fertilizzanti porta al rilascio di protossido di azoto (N₂O), un gas serra 265 volte più potente dell’anidride carbonica (CO₂) nell’arco di un secolo.

Il team di ricerca – dei Laboratori di Ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace – ha scoperto che la filiera dei fertilizzanti azotati sintetici è stata responsabile dell’emissione dell’equivalente di 1,13 gigatonnellate di CO₂ nel 2018. Si tratta di oltre il 10% delle emissioni globali prodotte dall’agricoltura e di una quantità superiore alle emissioni dell’aviazione commerciale nello stesso anno. I primi quattro emettitori – Cina, India, Stati Uniti e UE28 (Paesi dell’Unione Europea più il Regno Unito) – hanno rappresentato il 62% del totale.

“Non c’è dubbio che le emissioni di fertilizzanti azotati sintetici debbano essere ridotte, invece di aumentare, come attualmente previsto”, ha dichiarato la Dott.ssa Reyes Tirado, dei Laboratori di ricerca di Greenpeace. “Il sistema agroalimentare globale si affida all’azoto sintetico per aumentare la resa dei raccolti, ma l’uso di questi fertilizzanti è insostenibileLe emissioni potrebbero essere ridotte senza compromettere la sicurezza alimentare. In un momento in cui i prezzi dei fertilizzanti sintetici stanno salendo alle stelle, riflettendo la crisi energetica, ridurne l’uso potrebbe giovare agli agricoltori e aiutarci ad affrontare la crisi climatica”.

Quando i fertilizzanti azotati vengono applicati al suolo, una parte viene assorbita dalle piante e una parte viene utilizzata dai microrganismi del suolo, che producono N₂O come sottoprodotto del loro metabolismo. L’azoto può anche finire per lisciviare dal sito. Secondo i ricercatori, la strategia più efficace per ridurre le emissioni è quella di ridurre l’eccesso di fertilizzazione, che attualmente si verifica nella maggior parte dei casi.  

“Abbiamo bisogno di un programma globale per ridurre l’uso complessivo dei fertilizzanti e aumentare l’efficienza del riciclo dell’azoto nei sistemi agricoli e alimentari”, ha dichiarato il Dott. Stefano Menegat, dell’Università di Torino. “Possiamo produrre cibo a sufficienza per una popolazione in crescita con un contributo molto minore alle emissioni globali di gas serra, senza compromettere le rese”.

Il cambiamento dei modelli alimentari verso una riduzione della carne e dei prodotti lattiero-caseari potrebbe svolgere un ruolo centrale. Tre quarti dell’azoto della produzione vegetale (espresso in termini di proteine e compresi i sottoprodotti della bioenergia) sono attualmente destinati alla produzione di mangimi per il bestiame a livello globale.

I dati dello studio, relativi al 2018, mostrano che il Nord America ha il più alto utilizzo annuale di fertilizzanti azotati per persona (40 kg), seguito dall’Europa (25-30 kg). L’Africa ha registrato il consumo più basso (2-3 kg). Il team di ricerca ha sviluppato il più grande set di dati disponibili a livello di campo sulle emissioni di N₂O nel suolo. Sulla base di questi dati, ha stimato i fattori di emissione diretta di N₂O a livello nazionale, regionale e globale, mentre ha utilizzato la letteratura esistente per trovare i fattori di emissione per le emissioni indirette di N₂O nel suolo e per la produzione e il trasporto di fertilizzanti azotati.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino