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Scoperti i più antichi antenati del bue domestico: i resti di uro nella valle dell’Indo e in Mesopotamia risalgono a 10mila anni fa

La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, ha coinvolto il paleontologo dell’Università di Pisa, Luca Pandolfi

I più antichi antenati del bue domestico sono stati scoperti nella valle dell’Indo e nella mezzaluna fertile in Mesopotamia: si tratta di resti di uro (Bos primigenius) risalenti a circa 10mila anni fa. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature e condotta dal Trinity College di Dublino e dall’Università di Copenaghen, ha coinvolto Luca Pandolfi, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che da tempo si occupa dell’evoluzione e dell’estinzione dei grandi mammiferi continentali anche in relazione ai cambiamenti climatici.

Cranio di uro conservato al Museo di Storia Naturale dell'Università di Breslavia, Polonia (foto Luca Pandolfi)
Cranio di uro conservato al Museo di Storia Naturale dell’Università di Breslavia, Polonia (foto Luca Pandolfi)

Gli uri addomesticati erano animali abbastanza simili a quelli selvatici, ma un po’ più piccoli, soprattutto con corna meno sviluppate ad indicare una maggiore mansuetudine. Giulio Cesare nel De Bello Gallico (De Bello Gallico, 6-28) descrive infatti l’uro selvatico come un animale di dimensioni di poco inferiori all’elefante, veloce e di natura particolarmente aggressiva. Dai resti fossili emerge che gli uri selvatici potevano raggiungere un’altezza di poco meno di due metri, i 1000 kg di peso ed avere corna lunghe più di un metro. La loro presenza ha dominato le faune dell’Eurasia e del Nord Africa a partire da circa 650 mila anni fa, per poi subire un forte declino dalla fine del Pleistocene, circa 11mila anni fa, fino alla sua estinzione in età moderna. L’ultimo esemplare di cui si ha notizia fu abbattuto il Polonia nel 1627.

“Lo studio su Nature ha analizzato per la prima volta questa specie per comprenderne la storia evolutiva e genetica attraverso resti fossili rinvenuti in diversi di siti in Eurasia, Italia inclusa, e Nord Africa”, dice Luca Pandolfi.

Dai reperti, che includono scheletri completi e crani ben conservati, sono stati estratti campioni di DNA antico. La loro analisi ha quindi permesso di individuare quattro popolazioni ancestrali distinte che hanno risposto in modo diverso ai cambiamenti climatici e all’interazione con l’uomo. Gli uri europei, in particolare, subirono una diminuzione drastica sia in termini di popolazione che di diversità genetica durante l’ultima era glaciale, circa 20 mila anni fa. La diminuzione delle temperature ridusse infatti il loro habitat spingendoli verso la Penisola Italiana e quella Iberica da cui successivamente ricolonizzarono l’intera Europa.

“Nel corso del Quaternario, epoca che va da 2 milioni e mezzo di anni fa sino ad oggi, l’uro è stato protagonista degli ecosistemi del passato, contraendo ed espandendo il proprio habitat in relazione alle vicissitudine climatiche che hanno caratterizzato questo periodo di tempo – conclude Pandolfi – le ossa di questi maestosi animali raccontano ai paleontologi la storia del successo, adattamento e declino, di una specie di cui noi stessi abbiamo concorso all’estinzione e rivelano la complessità e fragilità delle relazioni che legano gli organismi viventi al clima del nostro Pianeta”.

Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Crediti per l'immagine: Prof. Saxx, CC BY-SA 3.0
Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Crediti per l’immagine: Prof. Saxx, CC BY-SA 3.0

Journal reference: The genomic natural history of the aurochs, Nature, 2024; DOI: 10.1038/s41586-024-08112-6

 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

Osservazioni umane e strumentali per comprendere i cambiamenti nei regimi delle precipitazioni

Le comunità di sussistenza stanno già vivendo le conseguenze di diversi cambiamenti nelle precipitazioni. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, condotto da un team internazionale di ricercatori, guidato dall’Università Roma Tre.

 

Roma, 13 novembre 2024 – I cambiamenti climatici ormai sono un fenomeno noto e molto discusso. Quello che invece è meno noto sono i suoi effetti sulle vite di migliaia di comunità indigene e di sussistenza e come queste comunità percepiscono questi cambiamenti. In particolare, i cambiamenti nei regimi pluviometrici sono meno facili da studiare in quanto influenzati da molte più variabili ad andamento incerto rispetto ai cambiamenti nelle temperature e quindi risulta particolarmente utile trovare nuovi modi per meglio delinearne i comportamenti. Nei modelli climatici relativi alle precipitazioni, l’incertezza è infatti un fattore molto rilevante. Gli impatti di questi cambiamenti sono però molto chiari ed evidenti per tante comunità di sussistenza; tuttavia le loro osservazioni sono ancora in gran parte trascurate malgrado il fatto che queste comunità abbiano una comprensione profonda dei complessi equilibri degli ecosistemi da cui dipendono.

In questo lavoro, dal titolo “Using human observations with instrument-based metrics to understand changing rainfall patterns”, pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto da un team internazionale di ricercatori (Università degli Studi Roma Tre, Università Simon Fraser, Center for International Climate Research, Università dell’East Anglia), sono state comparate le osservazioni di 1827 comunità di sussistenza sui regimi pluviometrici con diversi indici climatici relativi a precipitazioni. Lo scopo di questo studio non è stato tanto quello di validare queste osservazioni, quanto piuttosto quello di vedere in che modo questi due diversi tipi di osservazioni, quelle umane e quelle strumentali, potessero complementarsi. Per esempio, è stato possibile individuare diverse aree “calde” dove i cambiamenti nel comportamento delle piogge sono multipli. Inoltre, le comunità di sussistenza spesso associano i cambiamenti ad altri indicatori ambientali (ad esempio, la direzione prevalente del vento): le loro conoscenze ecologiche potrebbero ad esempio aiutarci a progettare indici multifattoriali del comportamento delle precipitazioni. Inoltre, è stato possibile evidenziare delle aree dove le comunità locali stanno osservando trend diversi rispetto a quelli indicati dai modelli globali e che quindi richiedono maggiore studio. Le loro osservazioni ci danno anche informazioni utili in aree dove ci sono pochi dati stazionali disponibili.

Un altro problema emergente evidenziato dalle comunità locali, come anche citato nell’ultimo rapporto dell’IPCC, è che le piogge non sono più prevedibili.  In passato, era possibile prevedere se la stagione sarebbe stata piovosa o siccitosa oppure se avrebbe piovuto nell’arco di pochi giorni, invece ora questo non è più possibile. Direzionalità dei venti e formazioni nuvolose all’orizzonte potevano essere interpretate per capire l’eventualità di piogge o tempeste, consentendo ad agricoltori di prevedere un giorno di semina oppure ad un cacciatore dell’Artico di potersi avventurare o meno lontano dal villaggio.

“La ricerca, fortemente interdisciplinare, ha coinvolto molteplici competenze da diverse parti del mondo. È stato difficile trovare modi per combinare dati così diversi, la collaborazione con tanti ricercatori, ma soprattutto ricercatrici di spicco nei loro rispettivi ambiti di ricerca lo ha reso possibile”, ha spiegato Valentina Savo, Ricercatrice dell’Università Roma Tre e leading author dello studio.

Il team di Ricercatori

Valentina Savo, Ricercatrice dell’Università Roma Tre, è la leading author dello studio, si occupa di interazioni uomo ambiente, soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici.

Karen Kohfeld è la Direttrice della School of Environmental Science all’Università Simon Fraser (Canada). La sua ricerca riguarda soprattutto il clima e il ciclo del carbonio e ha ricevuto importanti finanziamenti e riconoscimenti.

Jana Sillmann è Professore di Climate extremes all’Università di Amburgo (Germany) e Direttore di Ricerca del Center for International Climate Research (Norway). Il suo lavoro sui cambiamenti climatici è stato incluso in diversi Report dell’IPCC.

Cedar Morton è un System Ecologist presso ESSA, Environmental Consulting (Canada).

Joseph Bailey è Head Data Manager presso BBC Studios (Regno Unito).

Amund Haslerud è Advisor alla Norconsult (Norvegia).

Corinne Le Quéré è una Professoressa Royal Society Research di Scienza del Cambiamento Climatico all’Università dell’East Anglia (Regno Unito). È autrice di diversi Report dell’IPCC, incluso quello che ha ricevuto il Nobel per la pace.

Dana Lepofsky è una Distinguished Professor di Archeologia all’Università Simon Fraser (Canada). La sua ricerca sulle interazioni uomo-ambiente, soprattutto in comunità indigene, le è valsa diversi riconoscimenti.

Il lavoro evidenzia che le comunità di sussistenza stanno già vivendo le conseguenze di diversi cambiamenti nelle precipitazioni e sottolinea la necessità di sviluppare indici climatici che descrivano meglio la stagionalità e l’imprevedibilità delle precipitazioni, fattori che sono di vitale importanza per migliaia di comunità in tutto il mondo. 

Savo, V., Kohfeld, K.E., Sillmann, J., Morton C., Bailey J., Haslerud A.S., Le Quéré C., Lepofsky D. Using human observations with instrument-based metrics to understand changing rainfall patterns. Nat Commun 15, 9563 (2024). https://doi.org/10.1038/s41467-024-53861-7

precipitazioni
Osservazioni umane e strumentali per comprendere i cambiamenti nei regimi delle precipitazioni; lo studio è stato pubblicato su Nature Communications. Foto di  Hello, Its Me…..

Testo dall’Ufficio Comunicazione dell’Università Roma Tre

Cambiamento climatico: il ritiro dei ghiacciai indebolisce le interazioni tra piante e impollinatori, la biodiversità, l’ecosistema

Con il ritiro dei ghiacciai le interazioni tra piante e impollinatori diventano più fragili, rischiando di rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ai cambiamenti ambientali in atto e meno resiliente.
È il risultato della ricerca di un’equipe internazionale di scienziati coordinato dall’Università Statale di Milano, effettuata nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere e pubblicata su
Ecography.

Milano, 12 novembre 2024 – I ghiacciai si stanno ritirando, questo ormai è noto. Ma che cosa succede alla terra una volta libera dal ghiaccio? Che tipo di nuovo ecosistema si viene a formare?

Per capire l’impatto del ritiro dei ghiacciai su biodiversità e funzionamento dei sistemi ecologici, un’équipe internazionale di scienziati dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Università di Losanna, con l’Università Sapienza di Roma e con l’Università di Modena e Reggio Emilia, ha preso in esame le interazioni tra piante e impollinatori e ha scoperto che il ritiro dei ghiacciai mette a rischio la stabilità delle relazioni tra piante e impollinatori, fondamentali per la biodiversità.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Ecography è stato effettuato nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere, un luogo in cui i ghiacciai si sono costantemente ritirati a causa dell’aumento delle temperature globali.

Utilizzando una modellazione ecologica avanzata basata sulla teoria delle reti che analizza l’ecosistema sulla base delle interazioni tra molte specie diverse, i ricercatori hanno identificato i meccanismi chiave nell’evoluzione di queste interazioni su un arco temporale di 140 anni. È così emerso che le specie di piante in una prima fase formano connessioni altamente specializzate con i loro impollinatori, creano relazioni di mutua dipendenza e “mutua assistenza”. Ad esempio, piante pioniere come l’epilobio (Epilobium fleischeri) sono risultate avere relazioni forti e uniche con impollinatori specifici, assicurando il successo riproduttivo alla pianta e risorse alimentari agli impollinatori.

Tuttavia, con l’arretramento dei ghiacciai e l’aumento della colonizzazione da parte della foresta, hanno iniziato a dominare piante come il rododendro (Rhododendron ferrugineum), una pianta “super-generalista” che interagisce con una più ampia varietà di impollinatori, indebolendo la solidità della rete complessiva.

Nelle prime fasi del ritiro del ghiacciaio, abbiamo riscontrato che molte specie vegetali formavano interazioni specializzate con gli impollinatori, creando una rete molto fitta e robusta. Ma con l’avanzare del ritiro e la maturazione dell’ecosistema, in particolare con l’arrivo della foresta e la scomparsa delle praterie, abbiamo assistito a uno spostamento verso specie più generaliste. Se da un lato queste specie generaliste possono adattarsi a una gamma più ampia di partner, dall’altro formano con loro connessioni più deboli, che potrebbero rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ad ulteriori cambiamenti ambientali” spiega Gianalberto Losapio, ricercatore del Dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale di Milano e coordinatore della ricerca.

Il team ha utilizzato un approccio interdisciplinare unico, concentrandosi sui “motivi di rete”, piccoli schemi di interazione all’interno di una rete più ampia. Si è visto così che con l’arretramento dei ghiacciai e il cambiamento degli ecosistemi, questi piccoli motivi passano dall’essere altamente connessi a diventare più frammentati, il che è un indicatore critico di ridotta resilienza.

Questo studio è stato condotto sulla fronte di un ghiacciaio subalpino, ma il ritiro dei ghiacciai avviene in tutto il mondo. Per comprendere appieno gli impatti globali, abbiamo bisogno di studi simili in altre regioni” conclude Losapio.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine

L’Università di Pisa partner dello studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, secondo il team di ricerca le regioni polari potrebbero essere l’ultimo rifugio per queste specie

Se non ci saranno interventi per mitigare subito le emissioni di gas serra, le foreste macroalgali e le fanerogame (fra cui Posidonia oceanica, una pianta superiore endemica del Mediterraneo) sono a rischio estinzione entro il 2100. Il riscaldamento globale rischia di provocare a livello mondiale una riduzione fra l’80 e il 90% degli ambienti adatti alla sopravvivenza di queste specie che potranno trovare rifugio solo nelle regioni polari. Lo scenario emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto dalle Università di Helsinki e di Pisa, dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e dal Centro di eccellenza australiano per la Biodiversità e il patrimonio naturale (CABAH).

Attraverso modelli statistici, la ricerca ha mappato la distribuzione di 207 specie, 185 macroalghe brune e 22 fanerogame, a partire dal 2015 con proiezioni annuali sino alla fine del secolo. Questi organismi, presenti attualmente in grande quantità sulle coste (le macroalghe occupano 2,63 milioni di km2 e le fanerogame 1,65), sono essenziali per la vita marina in quanto producono ossigeno attraverso la fotosintesi, immagazzinano anidride carbonica, contribuiscono a mantenere una elevata biodiversità, fanno da ‘nursery’ a numerose specie di pesci e crostacei di interesse commerciale e proteggono dall’erosione costiera.

“La questione è globale, le foreste macroalgali popolano le coste rocciose di tutto il mondo, dalla battigia ad alcune decine di metri di profondità – spiega il professore Lisandro Benedetti-Cecchi del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa – Nel Mediterraneo queste sono costituite prevalentemente da alghe brune arborescenti del genere Cystoseira, piante le cui “chiome” si innalzano dal fondo per alcune decine di centimetri formando delle vere e proprie foreste in miniatura. Insieme a Posidonia oceanicale alghe arborescenti sono una riserva di energia che alimenta il funzionamento dell’intero sistema marino costiero e in ultima analisi la nostra vita sulla terraferma”.

L’impatto del cambiamento climatico non sarà comunque uniforme a livello globale, con zone che potranno perdere o guadagnare in termini di biodiversità, in un bilancio complessivo comunque negativo. Secondo la stime, le foreste di macroalghe e le fanerogame diminuiranno soprattutto in Europa, nel Mar Baltico, nel Mar Nero, nella costa pacifica del Sud America, nella penisola coreana e nelle coste nord-occidentali e sud-orientali dell’Australia.

Gli studi sul cambiamento climatico di solito riguardano l’ambiente terrestre, mentre il mare resta di solito relativamente inesplorato – conclude il professore Lisandro Benedetti-Cecchi – questo lavoro vuole ribaltare la prospettiva, e quantificare i cambiamenti globali che riguardano l’ecosistema marino”.

Riferimenti bibliografici:

Manca, F., Benedetti-Cecchi, L., Bradshaw, C.J.A. et al. Projected loss of brown macroalgae and seagrasses with global environmental change, Nat Commun 15, 5344 (2024), DOI: https://www.nature.com/articles/s41467-024-48273-6

Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine; lo studio è pubblicato sulla rivista Nature Communications. Nell’immagine, Posidonia oceanica. Foto di Frédéric Ducarme, CC BY-SA 4.0

Testo e foto (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI, un film documentario di Riccardo Cremona e Matteo Keffer

Scritto con la consulenza di Paolo Giordano

una produzione Motorino Amaranto e GreenBoo Production

con Maestro Distribution

Come se non ci fosse un domani

COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI è il documentario sul movimento Ultima Generazione che sarà presentato in anteprima mondiale nella sezione Special Screenings della 19° edizione della Festa del Cinema di Roma il prossimo 25 ottobre 2024 e sarà prossimamente nelle sale italiane distribuito da Maestro Distribution.

COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI è diretto da Riccardo Cremona e Matteo Keffer, due registi con all’attivo numerosi lavori su temi sociali e ambientali che per la prima volta si cimentano in un lungometraggio per il grande schermo, ed è stato scritto con la consulenza di Paolo Giordano.

È una produzione Motorino Amaranto e GreenBoo Production con Maestro Distribution e prodotto da Ottavia Virzì.

COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI racconta le azioni, le discussioni, i dubbi, le speranze del gruppo di attivisti climatici impegnati da anni in una campagna di disobbedienza civile non violenta, che ha attirato l’attenzione dei media e della politica tramite iniziative controverse come blocchi stradali e imbrattamenti di palazzi istituzionali e opere d’arte. Una narrazione onesta ed equilibrata ci racconta quello che succede dietro le quinte delle loro proteste attraverso il punto di vista e le storie personali di cinque protagonisti del movimento che si intrecciano con gli eventi della cronaca.

Il movimento si definisce l’ultima generazione in grado di fermare la curva di una emergenza climatica che ha ormai superato la soglia critica e COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI prova a dipingere il ritratto corale di questo gruppo e la loro battaglia indomabile affinché invece ci possa essere un domani.

Affermano i due registi Riccardo Cremona e Matteo Keffer: “Raccontare questa storia non è stato semplice. La crisi climatica non è un singolo evento o problema: è il contesto in cui ormai viviamo. Ma soprattutto non è stato facile – e non lo è tutt’ora – confrontarsi con l’istinto del tutto umano di sopprimere il pensiero doloroso dell’enormità delle sue conseguenze e della nostra responsabilità individuale e collettiva nel lasciare che accada. Allo stesso tempo, raccontare le storie di queste persone che hanno deciso di rischiare gravi conseguenze personali pur di lottare per il bene comune, ci ha regalato la possibilità di esplorare i pensieri e le emozioni di una generazione inascoltata che per la prima volta nella Storia non vede un letteralmente un futuro e che, nonostante questo, trova la forza di reagire giocandosi tutto su una piccola possibilità di cambiare il corso delle cose. Queste persone appartengono a una generazione che, per la prima volta nella storia, non vede un futuro. Eppure trovano la forza di agire, scommettendo tutto su una possibilità di cambiamento. Per noi parlare con loro e raccontare la loro visione del mondo è stato anche confrontarci con le nostre contraddizioni e mettere in discussione i nostri pregiudizi e la nostra indifferenza. In fondo, ci pongono una domanda tanto semplice quanto profonda: cosa conta davvero per me? La risposta a questa domanda è il cuore di questa storia.”

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Echo Group.

Un futuro incerto per la biodiversità del bacino del Congo

La prima review dedicata agli impatti dei cambiamenti climatici in una delle foreste pluviali più grandi al mondo ha evidenziato le possibili conseguenze negative sulla biodiversità: dall’estinzione delle specie alla diminuzione delle dimensioni degli organismi. I risultati del lavoro, coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza, sono pubblicati sulla rivista Biological Conservation.

Il bacino del Congo, la seconda foresta pluviale continua più grande al mondo, è un centro chiave della biodiversità del pianeta e svolge un ruolo significativo nella mitigazione dei cambiamenti climatici.

Quest’area si trova ad affrontare minacce multiformi, tra cui il cambiamento di destinazione d’uso del territorio, lo sfruttamento delle risorse naturali e i mutamenti climatici.

Un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha indagato e valutato criticamente lo stato attuale delle conoscenze relative agli impatti dei cambiamenti climatici sulla biodiversità del bacino del Congo, a tutti i suoi livelli organizzativi, utilizzando una metodologia di revisione sistematica della letteratura.

I risultati del lavoro, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, hanno evidenziato una traiettoria futura incerta per la biodiversità dell’area, considerando il suo stato poco studiato, l’entità delle incognite e le risposte negative trovate in letteratura.

I ricercatori si sono concentrati principalmente sul cambiamento climatico in quanto minaccia emergente ma poco studiata, potenzialmente in grado di assumere un ruolo primario nel determinare la perdita di biodiversità nella regione: dall’aumento della vulnerabilità delle specie all’estinzione, allo spostamento dell’areale delle specie, fino alla diminuzione delle dimensioni degli organismi.

“Questa sintesi  ci ha permesso di identificare i cluster di conoscenza più importanti nella letteratura scientifica esistente e di delineare un’agenda di ricerca futura– spiega Milena Beekmann della Sapienza, primo nome del lavoro che costituisce una parte della sua tesi di dottorato – A nostra conoscenza, questa è la prima review che si concentra sugli impatti dei cambiamenti climatici nel bacino del Congo”.

“Tuttavia – commenta Carlo Rondinini, tra gli autori dello studio e docente della Sapienza – permangono alti livelli di incertezza, legati ad allarmanti lacune nelle conoscenze, a processi ecologici non documentati e a una mancanza di informazioni”.

il fiume Epulu nella Riserva Faunistica Okapi, Repubblica Democratica del Congo
il fiume Epulu nella Riserva Faunistica Okapi, Repubblica Democratica del Congo. Foto di J. Doremus, United States Agency for International Development – USAID [1], in pubblico dominio

Riferimenti bibliografici: 

Uncertain future for Congo Basin biodiversity: A systematic review of climate change impacts – Milena Beekmann, Sandrine Gallois, Carlo Rondinini – Biological Conservation 2024, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2024.110730

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

ALBARELLA, PARCO DEL DELTA DEL PO: ENERGIA SOLARE, DIETA VEGETARIANA E MOLTI ALBERI SONO LA RICETTA PILOTA DEL PROGETTO ALBA, PER IL PIANETA

Pubblicata su «PLOS Climate» ricerca dell’Università di Padova che simula l’impatto delle emissioni sull’isola di Albarella nel Parco del Delta del Po

Non è un segreto che il clima del pianeta stia cambiando anche per il fatto che in atmosfera la concentrazione dei gas a effetto serra è aumentata: in particolare, l’anidride carbonica è passata da 330 ppm (parti per milione) negli anni ‘70 a 420 ppm nel 2024, con conseguenze disastrose sul clima – riscaldamento della temperatura media dell’aria di 1,5-2 °C, ancora in crescita, fusione delle calotte polari, deregolamento del clima in generale –. Un’allerta internazionale è stata lanciata dal gruppo di scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change attraverso i loro periodici Reports e, parallelamente, la politica e l’industria mondiali stanno promuovendo il passaggio da energie derivate da risorse fossili a energie rinnovabili a bassa emissione di CO2 e meno impattanti sull’ambiente.

Lo studio dal titolo “Tackling climate change: the Albarella island example” pubblicato sulla rivista «PLOS Climate» che vede come primo autore Augusto Zanella, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova, si focalizza sul bilancio di COequivalente dell’isola di Albarella, nel Parco del Delta del Po (Rovigo), in modo da programmare un cambiamento sostenibile in 10 anni delle fonti energetiche, dello stoccaggio naturale del carbonio e dei consumi sull’isola.

«Con l’aiuto di studenti, gestori e abitanti dell’isola abbiamo raccolto i dati necessari per stilare un bilancio annuale delle emissioni di COequivalente, cioè tutto ciò che serve a fare funzionare un’isola da più di 110 mila turisti all’anno in termini di energia e risorse» commenta Augusto Zanella, primo autore della ricerca.

Tutte le entrate e uscite di beni ed energia legati al funzionamento economico dell’isola sono state convertite in emissioni di COvirtuale in modo da programmare un cambiamento sostenibile in 10 anni delle fonti energetiche, dello stoccaggio naturale del carbonio e dei consumi sull’isola di Albarella.

Le variabili investigate sono:

1) stoccaggio netto di carbonio degli ecosistemi semi-naturali;

2) dieta degli esseri umani presenti sull’isola;

3) energia fossile attualmente utilizzata;

4) domanda di energia elettrica;

5) rifiuti prodotti;

6) trasporti.

«Invece di tentare di risolvere il problema su scala mondiale, abbiamo deciso di provare su una superficie confinata come quella di un’isola per vedere se su piccola scala e con le tecnologie disponibili oggi il problema sia concretamente risolvibile in un tempo sufficientemente breve» aggiunge Zanella.

I ricercatori hanno ipotizzato due scenari “estremi”: da un lato l’economia dell’isola rimane invariata, quindi nessuna differenza rispetto al passato, dall’altro uno scenario molto più ottimistico che prevede il miglioramento tecnologico ai fini di ridurre le emissioni: per esempio l’utilizzo esclusivo di energia prodotta da pannelli solari, l’impianto di alberi su metà dei prati dell’isola, una dieta vegetariana per abitanti e turisti, il riciclo sull’isola di tutti i rifiuti.

Se si avverasse lo scenario più ottimistico, in 10 anni le emissioni nell’isola si ridurrebbero dei ¾, tornando ai livelli degli anni ’60. Queste ridotte emissioni sarebbero causate da tre variabili principali: costruzione, funzionamento e riciclo dei pannelli solari (25% delle emissioni); i consumi alimentari di abitanti e turisti, (60,5%); gli impianti di alberi ancora in crescita che stoccherebbero il 14,5% delle emissioni prima di raggiungere la maturità.

«La nostra ricerca è un esempio pratico diretto, una simulazione basata su dati reali e oggettivi. Siamo consapevoli che la nostra esperienza non può rappresentare la complessa realtà del nostro pianeta: essa rivela che in un’area turistica geograficamente limitata, una popolazione preparata al cambiamento che impieghi nuove tecnologie potrebbe sperare di ridurre fino al 25% le emissioni di COequivalente. Le perdite energetiche irrimediabili e la necessità di nutrire una densa popolazione umana impedirebbero quindi oggi di scendere sotto questa soglia minima. Per raggiungere questo obiettivo – non completamente risolutivo –, bisogna avere volontà di cambiare e disponibilità economica», conclude Zanella.

Augusto Zanella
Augusto Zanella

Il progetto “ALBA – Albarella Laboratorio Diversità Ambiente” è un progetto Uni-Impresa del 2019 in cui l’Università di Padova collabora con l’Associazione Comunione dell’Isola di Albarella per un progetto di gestione sostenibile delle risorse dell’isola. L’obiettivo è di creare e mantenere nel tempo un ambiente antropizzato che si discosti il meno possibile dal suo corrispondente naturale tramite una forte riduzione delle emissioni di gas serra, come previsto dalle direttive UE. Il responsabile scientifico del progetto è il prof. Augusto Zanella, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova.

Link alla ricerca: https://journals.plos.org/climate/article?id=10.1371/journal.pclm.0000418

Titolo: Tackling climate change: the Albarella island example – «PLOS Climate» – 2024

Autori: Augusto Zanella, Cristian Bolzonella, Mauro Rosatti, Enrico Longo, Damien Banas, Ines Fritz, Giuseppe Concheri, Andrea Squartini, Guo-Liang Xu, Lingzi Mo, Daniele Mozzato, Claudio Porrini, Lucia Lenzi, Cristina Menta, Francesca Visentin, Marco Bellonzi, Giulia Ranzani, Debora Bruni, Matteo Buson, Daniele Casarotto, Michele Longo, Rebecca Bianchi, Tommaso Bernardon, Elisa Borella, Marco Ballarin, Vitaliy Linnyk, Patrizia Pengo, Marco Campagnolo, Karine Bonneval, Nils Udo, Vera Bonaventura, Roberto Mainardi, Lucas Ihlein, Allan Yeomans, Herbert Hager.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE PUÒ ACCELERARE LA PRODUZIONE DI COMBUSTIBILI SOLARI: LO DIMOSTRA UNO STUDIO DEL POLITECNICO DI TORINO

Torino, 13 giugno 2024

La ricerca, pubblicata sulla rivista Journal of the American Chemical Society, potrebbe aprire le porte ad un nuovo modo di produrre combustibili solari per fronteggiare la crisi climatica

 

Un team di ricercatori del Politecnico di Torino, coordinato dal professor Eliodoro Chiavazzo – Ordinario di Fisica Tecnica Industriale e direttore dello SMaLL lab al Dipartimento Energia-DENERG – e composto da Luca Bergamasco e Giovanni Trezza – rispettivamente Ricercatore e Dottorando presso il Dipartimento Energia – con la collaborazione dei gruppi di ricerca del professor Erwin Reisner dell’Università di Cambridge (Gran Bretagna) e del professor Leif Hammarström dell’Università di Uppsala (Svezia), ha dimostrato come alcune tecniche di Intelligenza Artificiale possono essere utilizzate per accelerare i tempi di sviluppo dei sistemi di produzione dei combustibili solari.

Il procedimento studiato rappresenta un significativo passo in avanti nella produzione di combustibili solari – fonti energetiche rinnovabili ottenute a partire dalla CO2 sfruttando l’energia solare – fondamentali per ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera e contribuire così alla lotta al cambiamento climatico.

Il nuovo studio, appena pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of American Chemical Society, dimostra come sia possibile migliorare l’attuale produzione di combustibili solari avvalendosi dell’Intelligenza Artificiale, e in particolare della tecnica denominata Apprendimento Sequenziale.

A suscitare l’interesse dei ricercatori sono infatti le potenzialità dei combustibili solari, capaci di ridurre l’anidride carbonica in atmosfera e allo stesso tempo di riutilizzarla per produrre risorse utili. Una fonte rinnovabile particolarmente promettente, la cui valorizzazione potrebbe contribuire a fronteggiare l’attuale crisi climatica e costruire un futuro più sostenibile.

Concentrandosi in particolare sulla produzione di monossido di carbonio (CO) – un combustibile utile anche come precursore per la produzione di altri combustibili più comuni, a partire dalla CO2 – il team di ricercatori ha dimostrato come alcune tecniche di Intelligenza Artificiale possono essere utilizzate per “guidare” gli esperimenti, accelerando quindi i tempi di sviluppo e migliorando notevolmente i procedimenti di produzione dei combustibili solari.

Il sistema oggetto dello studio si basa su un processo foto-chimico, nel quale una preparazione costituita da acqua, tensioattivi e opportune molecole funzionalizzanti in contatto con la CO2 viene esposta alla luce solare, attivando la conversione delle molecole di anidride carbonica in combustibile. Data la complessità del sistema, la sua ottimizzazione richiede un elevato numero di esperimenti e analisi in condizioni diverse – per esempio, diverse composizioni e diverse concentrazioni dei costituenti chimici.

“L’apprendimento sequenziale è un approccio in cui un modello apprende continuamente da nuovi dati che gli vengono forniti, e risulta particolarmente utile in contesti in cui i dati non sono disponibili tutti in una volta ma vengono raccolti progressivamente – spiega il professor Eliodoro Chiavazzo – I modelli quindi “imparano” da un primo set di pochi esperimenti, e sono in grado di fornire indicazioni su quali esperimenti conviene svolgere successivamente. Per il sistema in oggetto, i modelli proposti hanno consentito di ottimizzare la produzione di combustibile solare in soli 100 esperimenti rispetto ai 100,000 teoricamente necessari”.

“Per questo lavoro abbiamo usato due dei più recenti modelli di apprendimento sequenziale oggi a disposizione, coordinandoci con i ricercatori dell’università di Cambridge per lo svolgimento degli esperimenti e l’analisi dei risultati – commenta Giovanni Trezza – Lo studio ha permesso di identificare uno dei parametri chiave che regola il sistema foto-chimico considerato, altrimenti molto difficile da individuare”.

“Il sistema considerato per la riduzione della CO2 è di per sé molto innovativo, perché sfrutta l’auto-assemblamento dei tensioattivi e delle molecole funzionalizzanti in aggregati molecolari chiamati “micelle foto-catalitiche” – aggiunge Luca Bergamasco – che possono migliorare di molto la conversione della CO2 in combustibile. Il fatto di aver applicato l’intelligenza artificiale ad un sistema così complesso, ha quindi aggiunto un ulteriore elemento di valore all’approccio, consentendo di dimostrarne a pieno le enormi potenzialità”.

“Ad oggi, le tecniche di apprendimento sequenziale sono ancora relativamente poco sfruttate, soprattutto in ambito chimico; questo lavoro, in particolare, rappresenta il primo tentativo di applicarle ad un sistema foto-catalitico così complesso come quello considerato – concludono gli autori dello studio – La ricerca sull’applicazione di queste tecniche prosegue nell’ambito dei combustibili solari ma non solo, anche per altre applicazioni nel campo della conversione e dell’accumulo di energia”.

L’articolo è disponibile in modalità open access al seguente link: https://pubs.acs.org/doi/10.1021/jacs.4c01305

anidride carbonica
Foto di Gerd Altmann

Testo dall’Ufficio Web e Stampa del Politecnico di Torino.

Un nuovo materiale sostenibile per il restauro delle barriere coralline

L’Università degli Studi di Milano-Bicocca e l’Istituto Italiano di Tecnologia, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno sviluppato un nuovo materiale per restaurare le barriere coralline danneggiate dai cambiamenti climatici.

7 giugno 2024, Milano – I cambiamenti climatici stanno danneggiando le barriere coralline. In un video realizzato alle Maldive nell’aprile 2023, un gruppo di ricerca italiano mostra le proprietà di un nuovo materiale biodegradabile e indurente ideato per le operazioni sottomarine di recupero delle barriere.

Questo nuovo materiale è stato realizzato dall’Istituto Italiano di Tecnologia e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, ed è stato descritto sulla rivista Advanced Sustainable Systems nel giugno 2024.

Il recupero attivo delle barriere coralline è un’operazione che consiste nel far crescere nuove colonie di corallo in ambienti protetti, di solito vivai sommersi chiamati “nurseries”, per poi trasferirli nuovamente nelle porzioni di barriera danneggiate. Per eseguire questo trapianto, vengono di norma utilizzati dei materiali che permettano l’adesione del corallo alle superfici sottomarine e, nello stesso tempo, garantiscano tempi di esecuzione ottimale. I prodotti attualmente in commercio derivano spesso dall’industria del petrolio e possono perciò risultare tossici per l’ambiente. Inoltre, il loro indurimento può richiedere tempi lunghi, da un’ora a un giorno intero, periodo nel quale il corallo deve mantenersi in posizione contro le correnti marine che potrebbero spostarlo e ridurre il successo del trapianto.

Il nuovo materiale è biodegradabile e non inquina perché composto da due componenti di origine vegetale. Una volta unite le due parti, il tempo di indurimento è di soli 20-25 minuti, caratteristica che permette di aumentare il successo del trapianto e accelerare il restauro delle barriere coralline.

Le capacità del materiale sono state verificate in esperimenti condotti all’Acquario di Genova e alle Maldive presso il MaRHE Center (Marine Research and Higher Education Center) – diretto dal prof. Paolo Galli –  dove, durante il periodo di osservazione, i coralli sono cresciuti senza che fosse rilevato alcun segnale di stress.

La ricerca del nuovo materiale, oltre che nell’importantissimo lavoro di coral restoration in natura, nasce anche dalla volontà delle strutture come l’Acquario di Genova di introdurre tecniche e procedure di mantenimento delle specie in ambiente controllato e utilizzate nei progetti di ricerca e conservazione che siano sempre più sostenibili e rispettose dell’ambiente.

Il materiale è oggetto di una domanda di brevetto depositata ed è stato sviluppato anche grazie a finanziamenti del progetto “Futuro Centro Nazionale per la Biodiversità” del PNRR.

Per approfondimenti, l’articolo online su Advanced Sustainable Systems.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

EarthCARE: una nuova missione satellitare per capire l’impatto delle nuvole sul cambiamento climatico

Il Politecnico di Torino è tra i protagonisti degli studi scientifici che hanno permesso la realizzazione della missione. Le missioni di ricerca Earth Explorer, realizzate nell’ambito del programma dell’ESA FutureEO, mirano a comprendere la complessità del funzionamento della Terra e l’influenza delle attività umane sui processi naturali.

Torino, 6 giugno 2024

ESA missione EarthCARE

Nella giornata di martedì 28 maggio, nel contesto del prestigioso programma di osservazione della Terra “Earth Explorer” dell’ESA, è stato lanciato dalla base di Vandenberg, in California, il satellite EarthCARE-Earth Cloud Aerosol Radiation Explorer, frutto della collaborazione tra l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e quella Giapponese (JAXA). La missione, rivoluzionaria nel suo genere, si prefigge di migliorare la comprensione dell’interazione tra nuvole e aerosol nel modificare i bilanci energetici associati al trasporto di onde elettromagnetiche e il ciclo dell’acqua, così da contribuire in modo significativo ad una migliore previsione dell’entità dei cambiamenti climatici e quindi ad ottimizzare le strategie di adattamento e mitigazione del clima.

Tra gli attori coinvolti nella progettazione della missione il Politecnico di Torino, con il gruppo di ricerca del Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture-DIATI che ha partecipato, sotto la guida del professor Alessandro Battaglia, agli studi scientifici per la realizzazione del lancio e che contribuirà alle prossime fasi del progetto. Il professor Battaglia è da anni coinvolto nell’ideazione della missione: dal 2008 si registrano i suoi primi interventi negli studi preliminari di settore e nel 2015 viene ufficializzata la sua nomina a membro dell’ESA Mission Advisory Board per lo sviluppo della missione.

Il satellite EarthCARE, una volta lanciato, ha raggiunto in pochi minuti la sua orbita eliosincrona polare, intorno ai 400 km di altezza. Nel corso dei prossimi gironi cominceranno  i primi test dei 4 strumenti all’avanguardia inseriti al suo interno: un radar atmosferico a 94 GHz con capacità Doppler che permette di profilare nuvole  e precipitazioni e di mappare per la prima volta le velocità verticali delle idrometeore; un lidar che, grazie alla sua risoluzione spettrale, consente di ottenere profili verticali micro e macrofisici di nubi e aerosol riuscendo anche a distinguere i diversi tipi di aerosol; un imager multispettrale (MSI) capace di offrire una mappatura bidimensionale della scena sotto osservazione; e infine un radiometro a banda larga che misura la radiazione solare riflessa e la radiazione infrarossa proveniente dalla Terra.

“La missione EarthCARE è uno dei progetti più ambiziosi mai affrontati dall’Agenzia spaziale europea in collaborazione con quella giapponese – ha commentato il professor Alessandro Battaglia – Nonostante le innumerevoli sfide tecnologiche e logistiche, la missione è diventata finalmente operativa. Insieme a colleghi dell’Università di Leicester, UK e McGill in Canada abbiamo lavorato in particolare allo sviluppo del simulatore e agli algoritmi di inversione del radar Doppler a lunghezza d’onda millimetrica. È quindi con trepidazione che aspettiamo i primi dati dopo tanti anni passati a simulare numericamente la risposta degli strumenti sui nostri computer. La tecnologia innovativa del radar che è stato sviluppato dai colleghi giapponesi ci consentirà di misurare per la prima volta il movimento verticale dell’aria in nuvole (e.g. all’interno di celle convettive) e la dimensione di particelle come gocce di pioggia e fiocchi di neve”“Questa missione terrestre – ha concluso Battaglia – è cruciale per meglio caratterizzare le nuvole e i sistemi precipitanti che svolgono un ruolo vitale nel sistema climatico. I risultati della missione potranno inoltre fungere da apripista ad altre missioni spaziali che impiegano radar Doppler millimetrici quali la missione WIVERN, al momento in fase A nello stesso programma Earth Explorer dell’ESA, e nella quale il Politecnico svolge un ruolo di punta”.

 

Testo e immagine dall’Ufficio Web e Stampa del Politecnico di Torino.