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L’influenza dei cambiamenti climatici sulle strategie riproduttive delle piante: uno studio dell’Università di Pisa traccia l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni

La ricerca pubblicata sulla rivista New Phytologist

Uno studio dell’Università di Pisa ha tracciato l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni evidenziando una relazione diretta tra evoluzione, cambiamento del clima terrestre e comparsa di innovazioni riproduttive nelle angiosperme, le piante a fiore maggiormente diffuse sul nostro pianeta. La ricerca condotta dal professore Angelino Carta dell’Ateneo pisano e da Filip Vandelook del Giardino botanico Meise in Belgio è stata pubblicata sulla rivista New Phytologist.

L’analisi ha riguardato i semi di 900 specie rappresentative di tutte le famiglie di angiosperme di cui è stato valutato il rapporto fra dimensioni dell’embrione e riserve nutritive. Dai risultati è emerso che i cambiamenti del clima della Terra hanno portato a un’ampia diversificazione, permettendo alle angiosperme di esplorare nuove strategie riproduttive e di adattarsi a habitat sempre più vari.

“Non sappiamo se i nuovi tipi di semi hanno favorito tale diversificazione oppure se i nuovi tipi di semi son comparsi in conseguenza di essa. Certamente però, ed è la cosa più affascinante – spiega Carta – l’innovazione evolutiva dei semi, coincide con la comparsa dei principali modelli strutturali dei fiori contribuendo a spingere la biodiversità moderna verso cambiamenti epocali denominati Rivoluzione Terrestre delle Angiosperme”.

La condizione ancestrale delle piante era quella di avere semi con embrioni relativamente piccoli, tendenza che ha avuto poche variazioni sino a quando le temperature medie globali sono state alte, sopra i 25 °C. Quando le temperature globali sono diminuite, con temperature intorno ai 15 °C, l’evoluzione ha favorito semi con embrioni più grandi che tendono infatti a germinare più rapidamente, un vantaggio in ambienti secchi o soggetti a condizioni imprevedibili. E tuttavia, come è emerso dallo studio, questo sviluppo non esaurisce la storia evolutiva dei semi che piuttosto ha avuto un andamento “a salti”. Semi con maggiori riserve nutritive e minori dimensioni dell’embrione mantengono infatti il vantaggio di ritardare la germinazione e aumentare le possibilità di sopravvivenza, soprattutto in ambienti come le foreste e gli habitat umidi.

“Questa ricerca è stata una sfida materiale e virtuale che non solo aiuta a comprendere il passato evolutivo delle piante a fiore, ma potrebbero anche fornire informazioni importanti su come risponderanno ai cambiamenti climatici futuri – conclude Angelino Carta, del Dipartimento di Biologia – la sfida materiale è iniziata diversi anni fa quando abbiamo iniziato, guidati da Filip Vandelook ad assemblare il più grande dataset relativo alle caratteristiche dimensionali e strutturali dei semi, utilizzando sia a materiale vivo ma anche valorizzando materiale conservato in erbari e banche semi; la sfida virtuale è stata gestire e analizzare questa mole di informazioni per ricostruire gli ultimi 150 milioni di anni di storia evolutiva dei semi attraverso sofisticati approcci analitici e le risorse del centro di calcolo dell’Ateneo pisano”.

Link articolo scientifico: https://doi.org/10.1111/nph.20445

Immagine di mxwegele

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

CAMBIAMENTO CLIMATICO: QUALI I RISCHI PER LA SALUTE INFANTILE

 Pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Environment International una nuova ricerca che evidenzia i possibili effetti cronici dell’esposizione a eventi estremi legati al cambiamento climatico sulla salute respiratoria nella prima infanzia.

I cambiamenti climatici causati dalle attività antropiche influenzano la frequenza e l’intensità di eventi estremi. Fenomeni come ondate di calore, siccità, inondazioni e incendi hanno potenziali conseguenze sulla salute delle persone e sono collegati a un rischio più elevato di mortalità, lesioni acute e ricoveri ospedalieri nei giorni e anche nelle settimane successive al loro verificarsi.

I risultati dello studio “Exposure to climate change-related extreme events in the first year of life and occurrence of infant wheezing”, pubblicato sulla rivista Enviroment International e condotto da un team di ricerca dell’Università di Torino e dell’Unità di Epidemiologia AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, suggeriscono che il cambiamento climatico abbia un impatto sulla salute sin dalle primissime fasi della crescita, mettendo in evidenza la necessità di misure di mitigazione e adattamento al clima per proteggere non solo le future generazioni, ma anche per tutelare la salute delle attuali fasce di popolazione più fragili, come i bambini e le bambine nei primi anni di vita.

Condotta nell’ambito del progetto NINFEA, la più grande coorte italiana arruolata tramite Internet  che raccoglie dal 2005 dati su più di 7000 coppie di mamme e bambini sull’intero territorio italiano, la ricerca ha riscontrato un aumento del rischio di fischi e sibili al torace associato all’esposizione a siccità estrema e ondate di calore durante il primo anno di vita. A differenza di studi precedenti, focalizzati sugli effetti acuti degli eventi estremi, questo lavoro mette in rilievo gli effetti cronici che si manifestano già nelle prime fasi dello sviluppo e sono associati all’esposizione ripetuta durante il primo anno di vita.

Il campione della ricerca è composto da circa 6000 bambini per i quali si dispone di informazioni sull’insorgenza di fischi e sibili al torace tra 6 e 18 mesi. La comparsa di questi episodi durante l’infanzia è considerata un indicatore di alterata salute respiratoria in età successive. Combinando gli indirizzi di residenza geocodificati dei partecipanti allo studio con i dati climatici, sono state ricavate informazioni sulla loro esposizione, durante il primo anno di vita, a diversi tipi di eventi estremi. L’esposizione agli eventi estremi è stata messa in relazione alla salute respiratoria tenendo conto di multipli fattori (socioeconomici, ambientali, ecc.).

“I risultati di questo studio – spiega Silvia Maritano, prima autrice dell’articolo e ricercatrice del dell’Università di Torino presso l’Unità di Epidemiologia AOU Città della Salute e della Scienza di Torino – sottolineano l’importanza di considerare le conseguenze del cambiamento climatico come potenziali determinanti di patologie croniche in ottica longitudinale. Questo lavoro apre la strada a nuove ricerche sui rischi a lungo termine del cambiamento climatico, mettendo in luce l’urgente necessità di politiche congiunte di mitigazione e prevenzione volte a ridurre l’esposizione ai fenomeni meteorologici estremi fin dalle prime fasi di vita delle persone”.

grammatica linguaggio nove mesi bambino
Su Environment International una nuova ricerca sui possibili effetti cronici dell’esposizione a eventi estremi legati al cambiamento climatico sulla salute respiratoria infantile. Foto di Lisa Runnels

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Cambiamento climatico: se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche

La ricerca dell’Università di Pisa sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry.

Le alte temperature aumentano l’assorbimento delle nanoplastiche da parte delle piante. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry che per la prima volta ha analizzato l’effetto amplificatore dei cambiamenti climatici sull’inquinamento da nanoplastiche. La ricerca è stata condotta dal gruppo di Botanica della professoressa Monica Ruffini Castiglione, e da quello di Fisiologia Vegetale della dottoressa Carmelina Spanò, in collaborazione con le colleghe Stefania Bottega e Debora Fontanini. La sperimentazione nei laboratori dell’Università di Pisa ha impiegato come pianta modello Azolla filiculoides Lam, una piccola felce acquatica galleggiante con radici fluttuanti e sottili che assorbono le sostanze disciolte nell’acqua. Come inquinante sono state utilizzate nanoplastiche di polistirene, una delle materie plastiche più comuni e diffuse con cui si realizzano ad esempio posate e piatti usa e getta, imballaggi, contenitori da asporto e seminiere per l’ortoflorovivaismo.

Cambiamento climatico piante nanoplastiche
il laboratorio

Dai dati è emerso che a 35° la presenza di nanoplastiche aumenta apprezzabilmente all’interno della pianta rispetto alla situazione ottimale a 25°. Questo provoca il deterioramento dei parametri fotosintetici e l’aumento dello stress ossidativo e della tossicità nelle piante. L’impiego di nanoplastiche fluorescenti ha inoltre permesso alle ricercatrici di tracciarne con precisione l’assorbimento e la distribuzione nei tessuti e negli organi vegetali.

“Il maggior assorbimento di nanoplastiche in condizioni di alte temperature da parte delle piante solleva preoccupazioni riguardo al possibile impatto sulle colture di interesse agronomico, con implicazioni potenzialmente rilevanti per l’ingresso di queste sostanze nella catena alimentare”, dicono Monica Ruffini Castiglione e Carmelina Spanò.

“Il nostro studio – continua Ruffini Castiglione – sottolinea come i cambiamenti climatici non solo sono in grado di amplificare gli effetti negativi dei rifiuti plastici, ma possano anche creare nuove sinergie pericolose tra fattori ambientali e inquinanti, aggravando ulteriormente le sfide ecologiche già esistenti. Questo deve aumentare la nostra consapevolezza e portare a un maggiore impegno verso comportamenti più sostenibili, come ridurre il consumo di plastica monouso”.

Cambiamento climatico: se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche; lo studio su Plant Physiology and Biochemistry. In foto, il gruppo di ricerca

Le ricercatrici dei gruppi di Botanica e di Fisiologia vegetale impegnate in questo studio si occupano da anni delle risposte di piante modello e di interesse agronomico a metalli, anche in forma nanometrica e a contaminanti emergenti, quali micro e nanoplastiche. L’interesse nasce dalla consapevolezza che le piante sono organismi estremamente sensibili e al contempo resilienti agli stress ambientali. Questa duplice natura le rende modelli ideali per studiare l’impatto dei contaminanti sugli organismi viventi, soprattutto nel contesto dei cambiamenti climatici. Le ricerche del gruppo, svolte anche in collaborazione con l’IBBA CNR e l’Università di Siena, sono state pionieristiche nello studio delle interazioni tra piante e nanomateriali dimostrando per la prima volta, a livello ultrastrutturale, l’assorbimento e la traslocazione di nanomateriali plastici nelle cellule vegetale.

Link all’articolo scientifico:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0981942824006144

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Scoperti i più antichi antenati del bue domestico: i resti di uro nella valle dell’Indo e in Mesopotamia risalgono a 10mila anni fa

La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, ha coinvolto il paleontologo dell’Università di Pisa, Luca Pandolfi

I più antichi antenati del bue domestico sono stati scoperti nella valle dell’Indo e nella mezzaluna fertile in Mesopotamia: si tratta di resti di uro (Bos primigenius) risalenti a circa 10mila anni fa. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature e condotta dal Trinity College di Dublino e dall’Università di Copenaghen, ha coinvolto Luca Pandolfi, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che da tempo si occupa dell’evoluzione e dell’estinzione dei grandi mammiferi continentali anche in relazione ai cambiamenti climatici.

Cranio di uro conservato al Museo di Storia Naturale dell'Università di Breslavia, Polonia (foto Luca Pandolfi)
Cranio di uro conservato al Museo di Storia Naturale dell’Università di Breslavia, Polonia (foto Luca Pandolfi)

Gli uri addomesticati erano animali abbastanza simili a quelli selvatici, ma un po’ più piccoli, soprattutto con corna meno sviluppate ad indicare una maggiore mansuetudine. Giulio Cesare nel De Bello Gallico (De Bello Gallico, 6-28) descrive infatti l’uro selvatico come un animale di dimensioni di poco inferiori all’elefante, veloce e di natura particolarmente aggressiva. Dai resti fossili emerge che gli uri selvatici potevano raggiungere un’altezza di poco meno di due metri, i 1000 kg di peso ed avere corna lunghe più di un metro. La loro presenza ha dominato le faune dell’Eurasia e del Nord Africa a partire da circa 650 mila anni fa, per poi subire un forte declino dalla fine del Pleistocene, circa 11mila anni fa, fino alla sua estinzione in età moderna. L’ultimo esemplare di cui si ha notizia fu abbattuto il Polonia nel 1627.

“Lo studio su Nature ha analizzato per la prima volta questa specie per comprenderne la storia evolutiva e genetica attraverso resti fossili rinvenuti in diversi di siti in Eurasia, Italia inclusa, e Nord Africa”, dice Luca Pandolfi.

Dai reperti, che includono scheletri completi e crani ben conservati, sono stati estratti campioni di DNA antico. La loro analisi ha quindi permesso di individuare quattro popolazioni ancestrali distinte che hanno risposto in modo diverso ai cambiamenti climatici e all’interazione con l’uomo. Gli uri europei, in particolare, subirono una diminuzione drastica sia in termini di popolazione che di diversità genetica durante l’ultima era glaciale, circa 20 mila anni fa. La diminuzione delle temperature ridusse infatti il loro habitat spingendoli verso la Penisola Italiana e quella Iberica da cui successivamente ricolonizzarono l’intera Europa.

“Nel corso del Quaternario, epoca che va da 2 milioni e mezzo di anni fa sino ad oggi, l’uro è stato protagonista degli ecosistemi del passato, contraendo ed espandendo il proprio habitat in relazione alle vicissitudine climatiche che hanno caratterizzato questo periodo di tempo – conclude Pandolfi – le ossa di questi maestosi animali raccontano ai paleontologi la storia del successo, adattamento e declino, di una specie di cui noi stessi abbiamo concorso all’estinzione e rivelano la complessità e fragilità delle relazioni che legano gli organismi viventi al clima del nostro Pianeta”.

Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Crediti per l'immagine: Prof. Saxx, CC BY-SA 3.0
Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Crediti per l’immagine: Prof. Saxx, CC BY-SA 3.0

Journal reference: The genomic natural history of the aurochs, Nature, 2024; DOI: 10.1038/s41586-024-08112-6

 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

Osservazioni umane e strumentali per comprendere i cambiamenti nei regimi delle precipitazioni

Le comunità di sussistenza stanno già vivendo le conseguenze di diversi cambiamenti nelle precipitazioni. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, condotto da un team internazionale di ricercatori, guidato dall’Università Roma Tre.

 

Roma, 13 novembre 2024 – I cambiamenti climatici ormai sono un fenomeno noto e molto discusso. Quello che invece è meno noto sono i suoi effetti sulle vite di migliaia di comunità indigene e di sussistenza e come queste comunità percepiscono questi cambiamenti. In particolare, i cambiamenti nei regimi pluviometrici sono meno facili da studiare in quanto influenzati da molte più variabili ad andamento incerto rispetto ai cambiamenti nelle temperature e quindi risulta particolarmente utile trovare nuovi modi per meglio delinearne i comportamenti. Nei modelli climatici relativi alle precipitazioni, l’incertezza è infatti un fattore molto rilevante. Gli impatti di questi cambiamenti sono però molto chiari ed evidenti per tante comunità di sussistenza; tuttavia le loro osservazioni sono ancora in gran parte trascurate malgrado il fatto che queste comunità abbiano una comprensione profonda dei complessi equilibri degli ecosistemi da cui dipendono.

In questo lavoro, dal titolo “Using human observations with instrument-based metrics to understand changing rainfall patterns”, pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto da un team internazionale di ricercatori (Università degli Studi Roma Tre, Università Simon Fraser, Center for International Climate Research, Università dell’East Anglia), sono state comparate le osservazioni di 1827 comunità di sussistenza sui regimi pluviometrici con diversi indici climatici relativi a precipitazioni. Lo scopo di questo studio non è stato tanto quello di validare queste osservazioni, quanto piuttosto quello di vedere in che modo questi due diversi tipi di osservazioni, quelle umane e quelle strumentali, potessero complementarsi. Per esempio, è stato possibile individuare diverse aree “calde” dove i cambiamenti nel comportamento delle piogge sono multipli. Inoltre, le comunità di sussistenza spesso associano i cambiamenti ad altri indicatori ambientali (ad esempio, la direzione prevalente del vento): le loro conoscenze ecologiche potrebbero ad esempio aiutarci a progettare indici multifattoriali del comportamento delle precipitazioni. Inoltre, è stato possibile evidenziare delle aree dove le comunità locali stanno osservando trend diversi rispetto a quelli indicati dai modelli globali e che quindi richiedono maggiore studio. Le loro osservazioni ci danno anche informazioni utili in aree dove ci sono pochi dati stazionali disponibili.

Un altro problema emergente evidenziato dalle comunità locali, come anche citato nell’ultimo rapporto dell’IPCC, è che le piogge non sono più prevedibili.  In passato, era possibile prevedere se la stagione sarebbe stata piovosa o siccitosa oppure se avrebbe piovuto nell’arco di pochi giorni, invece ora questo non è più possibile. Direzionalità dei venti e formazioni nuvolose all’orizzonte potevano essere interpretate per capire l’eventualità di piogge o tempeste, consentendo ad agricoltori di prevedere un giorno di semina oppure ad un cacciatore dell’Artico di potersi avventurare o meno lontano dal villaggio.

“La ricerca, fortemente interdisciplinare, ha coinvolto molteplici competenze da diverse parti del mondo. È stato difficile trovare modi per combinare dati così diversi, la collaborazione con tanti ricercatori, ma soprattutto ricercatrici di spicco nei loro rispettivi ambiti di ricerca lo ha reso possibile”, ha spiegato Valentina Savo, Ricercatrice dell’Università Roma Tre e leading author dello studio.

Il team di Ricercatori

Valentina Savo, Ricercatrice dell’Università Roma Tre, è la leading author dello studio, si occupa di interazioni uomo ambiente, soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici.

Karen Kohfeld è la Direttrice della School of Environmental Science all’Università Simon Fraser (Canada). La sua ricerca riguarda soprattutto il clima e il ciclo del carbonio e ha ricevuto importanti finanziamenti e riconoscimenti.

Jana Sillmann è Professore di Climate extremes all’Università di Amburgo (Germany) e Direttore di Ricerca del Center for International Climate Research (Norway). Il suo lavoro sui cambiamenti climatici è stato incluso in diversi Report dell’IPCC.

Cedar Morton è un System Ecologist presso ESSA, Environmental Consulting (Canada).

Joseph Bailey è Head Data Manager presso BBC Studios (Regno Unito).

Amund Haslerud è Advisor alla Norconsult (Norvegia).

Corinne Le Quéré è una Professoressa Royal Society Research di Scienza del Cambiamento Climatico all’Università dell’East Anglia (Regno Unito). È autrice di diversi Report dell’IPCC, incluso quello che ha ricevuto il Nobel per la pace.

Dana Lepofsky è una Distinguished Professor di Archeologia all’Università Simon Fraser (Canada). La sua ricerca sulle interazioni uomo-ambiente, soprattutto in comunità indigene, le è valsa diversi riconoscimenti.

Il lavoro evidenzia che le comunità di sussistenza stanno già vivendo le conseguenze di diversi cambiamenti nelle precipitazioni e sottolinea la necessità di sviluppare indici climatici che descrivano meglio la stagionalità e l’imprevedibilità delle precipitazioni, fattori che sono di vitale importanza per migliaia di comunità in tutto il mondo. 

Savo, V., Kohfeld, K.E., Sillmann, J., Morton C., Bailey J., Haslerud A.S., Le Quéré C., Lepofsky D. Using human observations with instrument-based metrics to understand changing rainfall patterns. Nat Commun 15, 9563 (2024). https://doi.org/10.1038/s41467-024-53861-7

precipitazioni
Osservazioni umane e strumentali per comprendere i cambiamenti nei regimi delle precipitazioni; lo studio è stato pubblicato su Nature Communications. Foto di  Hello, Its Me…..

Testo dall’Ufficio Comunicazione dell’Università Roma Tre

Cambiamento climatico: il ritiro dei ghiacciai indebolisce le interazioni tra piante e impollinatori, la biodiversità, l’ecosistema

Con il ritiro dei ghiacciai le interazioni tra piante e impollinatori diventano più fragili, rischiando di rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ai cambiamenti ambientali in atto e meno resiliente.
È il risultato della ricerca di un’equipe internazionale di scienziati coordinato dall’Università Statale di Milano, effettuata nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere e pubblicata su
Ecography.

Milano, 12 novembre 2024 – I ghiacciai si stanno ritirando, questo ormai è noto. Ma che cosa succede alla terra una volta libera dal ghiaccio? Che tipo di nuovo ecosistema si viene a formare?

Per capire l’impatto del ritiro dei ghiacciai su biodiversità e funzionamento dei sistemi ecologici, un’équipe internazionale di scienziati dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Università di Losanna, con l’Università Sapienza di Roma e con l’Università di Modena e Reggio Emilia, ha preso in esame le interazioni tra piante e impollinatori e ha scoperto che il ritiro dei ghiacciai mette a rischio la stabilità delle relazioni tra piante e impollinatori, fondamentali per la biodiversità.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Ecography è stato effettuato nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere, un luogo in cui i ghiacciai si sono costantemente ritirati a causa dell’aumento delle temperature globali.

Utilizzando una modellazione ecologica avanzata basata sulla teoria delle reti che analizza l’ecosistema sulla base delle interazioni tra molte specie diverse, i ricercatori hanno identificato i meccanismi chiave nell’evoluzione di queste interazioni su un arco temporale di 140 anni. È così emerso che le specie di piante in una prima fase formano connessioni altamente specializzate con i loro impollinatori, creano relazioni di mutua dipendenza e “mutua assistenza”. Ad esempio, piante pioniere come l’epilobio (Epilobium fleischeri) sono risultate avere relazioni forti e uniche con impollinatori specifici, assicurando il successo riproduttivo alla pianta e risorse alimentari agli impollinatori.

Tuttavia, con l’arretramento dei ghiacciai e l’aumento della colonizzazione da parte della foresta, hanno iniziato a dominare piante come il rododendro (Rhododendron ferrugineum), una pianta “super-generalista” che interagisce con una più ampia varietà di impollinatori, indebolendo la solidità della rete complessiva.

Nelle prime fasi del ritiro del ghiacciaio, abbiamo riscontrato che molte specie vegetali formavano interazioni specializzate con gli impollinatori, creando una rete molto fitta e robusta. Ma con l’avanzare del ritiro e la maturazione dell’ecosistema, in particolare con l’arrivo della foresta e la scomparsa delle praterie, abbiamo assistito a uno spostamento verso specie più generaliste. Se da un lato queste specie generaliste possono adattarsi a una gamma più ampia di partner, dall’altro formano con loro connessioni più deboli, che potrebbero rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ad ulteriori cambiamenti ambientali” spiega Gianalberto Losapio, ricercatore del Dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale di Milano e coordinatore della ricerca.

Il team ha utilizzato un approccio interdisciplinare unico, concentrandosi sui “motivi di rete”, piccoli schemi di interazione all’interno di una rete più ampia. Si è visto così che con l’arretramento dei ghiacciai e il cambiamento degli ecosistemi, questi piccoli motivi passano dall’essere altamente connessi a diventare più frammentati, il che è un indicatore critico di ridotta resilienza.

Questo studio è stato condotto sulla fronte di un ghiacciaio subalpino, ma il ritiro dei ghiacciai avviene in tutto il mondo. Per comprendere appieno gli impatti globali, abbiamo bisogno di studi simili in altre regioni” conclude Losapio.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine

L’Università di Pisa partner dello studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, secondo il team di ricerca le regioni polari potrebbero essere l’ultimo rifugio per queste specie

Se non ci saranno interventi per mitigare subito le emissioni di gas serra, le foreste macroalgali e le fanerogame (fra cui Posidonia oceanica, una pianta superiore endemica del Mediterraneo) sono a rischio estinzione entro il 2100. Il riscaldamento globale rischia di provocare a livello mondiale una riduzione fra l’80 e il 90% degli ambienti adatti alla sopravvivenza di queste specie che potranno trovare rifugio solo nelle regioni polari. Lo scenario emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto dalle Università di Helsinki e di Pisa, dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e dal Centro di eccellenza australiano per la Biodiversità e il patrimonio naturale (CABAH).

Attraverso modelli statistici, la ricerca ha mappato la distribuzione di 207 specie, 185 macroalghe brune e 22 fanerogame, a partire dal 2015 con proiezioni annuali sino alla fine del secolo. Questi organismi, presenti attualmente in grande quantità sulle coste (le macroalghe occupano 2,63 milioni di km2 e le fanerogame 1,65), sono essenziali per la vita marina in quanto producono ossigeno attraverso la fotosintesi, immagazzinano anidride carbonica, contribuiscono a mantenere una elevata biodiversità, fanno da ‘nursery’ a numerose specie di pesci e crostacei di interesse commerciale e proteggono dall’erosione costiera.

“La questione è globale, le foreste macroalgali popolano le coste rocciose di tutto il mondo, dalla battigia ad alcune decine di metri di profondità – spiega il professore Lisandro Benedetti-Cecchi del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa – Nel Mediterraneo queste sono costituite prevalentemente da alghe brune arborescenti del genere Cystoseira, piante le cui “chiome” si innalzano dal fondo per alcune decine di centimetri formando delle vere e proprie foreste in miniatura. Insieme a Posidonia oceanicale alghe arborescenti sono una riserva di energia che alimenta il funzionamento dell’intero sistema marino costiero e in ultima analisi la nostra vita sulla terraferma”.

L’impatto del cambiamento climatico non sarà comunque uniforme a livello globale, con zone che potranno perdere o guadagnare in termini di biodiversità, in un bilancio complessivo comunque negativo. Secondo la stime, le foreste di macroalghe e le fanerogame diminuiranno soprattutto in Europa, nel Mar Baltico, nel Mar Nero, nella costa pacifica del Sud America, nella penisola coreana e nelle coste nord-occidentali e sud-orientali dell’Australia.

Gli studi sul cambiamento climatico di solito riguardano l’ambiente terrestre, mentre il mare resta di solito relativamente inesplorato – conclude il professore Lisandro Benedetti-Cecchi – questo lavoro vuole ribaltare la prospettiva, e quantificare i cambiamenti globali che riguardano l’ecosistema marino”.

Riferimenti bibliografici:

Manca, F., Benedetti-Cecchi, L., Bradshaw, C.J.A. et al. Projected loss of brown macroalgae and seagrasses with global environmental change, Nat Commun 15, 5344 (2024), DOI: https://www.nature.com/articles/s41467-024-48273-6

Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine; lo studio è pubblicato sulla rivista Nature Communications. Nell’immagine, Posidonia oceanica. Foto di Frédéric Ducarme, CC BY-SA 4.0

Testo e foto (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI, un film documentario di Riccardo Cremona e Matteo Keffer

Scritto con la consulenza di Paolo Giordano

una produzione Motorino Amaranto e GreenBoo Production

con Maestro Distribution

DAL 6 MARZO 2025 AL CINEMA

Al link le sale in aggiornamento: https://mescalitofilm.com/distribuzione/come-se-non-ci-fosse-un-domani/

Come se non ci fosse un domani, documentario di Riccardo Cremona e Matteo Keffer poster
il poster

A pochi giorni dal proscioglimento degli attivisti del movimento ambientalista Ultima Generazione che nel gennaio del 2023 lanciarono della vernice lavabile contro l’opera ‘Love’ di Maurizio Cattelan, conosciuta anche come ‘il Dito’ di piazza Affari a Milano – azione per la quale tre ragazzi del movimento erano finiti a processo con l’accusa di imbrattamento di beni culturali – arriva nelle sale italiane da oggi giovedì 6 marzo 2025, il documentario COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI.

Arriverà nelle sale italiane dal 6 marzo 2025 COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI, il documentario sul movimento Ultima Generazione che è stato presentato in anteprima mondiale nella sezione Special Screenings della 19° edizione della Festa del Cinema di Roma e che parteciperà al Concorso DOC del Sudestival di Monopoli il prossimo 20 febbraio. La casa di produzione e distribuzione Mescalito Film, dopo aver portato in sala Food For Profit di Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi, considerato un caso al box office perché tra i maggiori incassi nel sistema distributivo cinematografico italiano nel primo semestre 2024, sale a bordo di questo nuovo progetto e distribuirà in sala il film in collaborazione con Maestro Distribution e per l’occasione svela il trailer ufficiale.

COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI è diretto da Riccardo Cremona e Matteo Keffer, due registi con all’attivo numerosi lavori su temi sociali e ambientali che per la prima volta si cimentano in un lungometraggio per il grande schermo, ed è stato scritto con la consulenza di Paolo Giordano.

È una produzione Motorino Amaranto e GreenBoo Production con Maestro Distribution e prodotto da Ottavia Virzì.

COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI racconta le azioni, le discussioni, i dubbi, le speranze del gruppo di attivisti climatici impegnati da anni in una campagna di disobbedienza civile non violenta, che ha attirato l’attenzione dei media e della politica tramite iniziative controverse come blocchi stradali e imbrattamenti di palazzi istituzionali e opere d’arte. Una narrazione onesta ed equilibrata ci racconta quello che succede dietro le quinte delle loro proteste attraverso il punto di vista e le storie personali di cinque protagonisti del movimento che si intrecciano con gli eventi della cronaca.

Il movimento si definisce l’ultima generazione in grado di fermare la curva di una emergenza climatica che ha ormai superato la soglia critica e COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI prova a dipingere il ritratto corale di questo gruppo e la loro battaglia indomabile affinché invece ci possa essere un domani.

Affermano i due registi Riccardo Cremona e Matteo Keffer: “Raccontare questa storia non è stato semplice. La crisi climatica non è un singolo evento o problema: è il contesto in cui ormai viviamo. Ma soprattutto non è stato facile – e non lo è tutt’ora – confrontarsi con l’istinto del tutto umano di sopprimere il pensiero doloroso dell’enormità delle sue conseguenze e della nostra responsabilità individuale e collettiva nel lasciare che accada. Allo stesso tempo, raccontare le storie di queste persone che hanno deciso di rischiare gravi conseguenze personali pur di lottare per il bene comune, ci ha regalato la possibilità di esplorare i pensieri e le emozioni di una generazione inascoltata che per la prima volta nella Storia non vede un letteralmente un futuro e che, nonostante questo, trova la forza di reagire giocandosi tutto su una piccola possibilità di cambiare il corso delle cose. Queste persone appartengono a una generazione che, per la prima volta nella storia, non vede un futuro. Eppure trovano la forza di agire, scommettendo tutto su una possibilità di cambiamento. Per noi parlare con loro e raccontare la loro visione del mondo è stato anche confrontarci con le nostre contraddizioni e mettere in discussione i nostri pregiudizi e la nostra indifferenza. In fondo, ci pongono una domanda tanto semplice quanto profonda: cosa conta davvero per me? La risposta a questa domanda è il cuore di questa storia.”

Come se non ci fosse un domani

27 febbraio 2025 – La casa di produzione e distribuzione Mescalito Film in collaborazione con Maestro Distribution è orgogliosa di annunciare che il documentario COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI sul movimento Ultima Generazione, in arrivo nelle sale italiane dal 6 marzo, ha ottenuto il patrocinio di Amnesty International Italia.

 

COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI sarà nei cinema italiani dal 6 marzo 2025 distribuito da Maestro Distribution.

sito:  www.comesenoncifosseundomani.com

ig: comese_noncifosseundomani

Testi, video e immagini dall’Ufficio Stampa Echo Group. Aggiornato il 29 gennaio, il 17, il 27 febbraio e il 6 marzo 2025.

Un futuro incerto per la biodiversità del bacino del Congo

La prima review dedicata agli impatti dei cambiamenti climatici in una delle foreste pluviali più grandi al mondo ha evidenziato le possibili conseguenze negative sulla biodiversità: dall’estinzione delle specie alla diminuzione delle dimensioni degli organismi. I risultati del lavoro, coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza, sono pubblicati sulla rivista Biological Conservation.

Il bacino del Congo, la seconda foresta pluviale continua più grande al mondo, è un centro chiave della biodiversità del pianeta e svolge un ruolo significativo nella mitigazione dei cambiamenti climatici.

Quest’area si trova ad affrontare minacce multiformi, tra cui il cambiamento di destinazione d’uso del territorio, lo sfruttamento delle risorse naturali e i mutamenti climatici.

Un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha indagato e valutato criticamente lo stato attuale delle conoscenze relative agli impatti dei cambiamenti climatici sulla biodiversità del bacino del Congo, a tutti i suoi livelli organizzativi, utilizzando una metodologia di revisione sistematica della letteratura.

I risultati del lavoro, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, hanno evidenziato una traiettoria futura incerta per la biodiversità dell’area, considerando il suo stato poco studiato, l’entità delle incognite e le risposte negative trovate in letteratura.

I ricercatori si sono concentrati principalmente sul cambiamento climatico in quanto minaccia emergente ma poco studiata, potenzialmente in grado di assumere un ruolo primario nel determinare la perdita di biodiversità nella regione: dall’aumento della vulnerabilità delle specie all’estinzione, allo spostamento dell’areale delle specie, fino alla diminuzione delle dimensioni degli organismi.

“Questa sintesi  ci ha permesso di identificare i cluster di conoscenza più importanti nella letteratura scientifica esistente e di delineare un’agenda di ricerca futura– spiega Milena Beekmann della Sapienza, primo nome del lavoro che costituisce una parte della sua tesi di dottorato – A nostra conoscenza, questa è la prima review che si concentra sugli impatti dei cambiamenti climatici nel bacino del Congo”.

“Tuttavia – commenta Carlo Rondinini, tra gli autori dello studio e docente della Sapienza – permangono alti livelli di incertezza, legati ad allarmanti lacune nelle conoscenze, a processi ecologici non documentati e a una mancanza di informazioni”.

il fiume Epulu nella Riserva Faunistica Okapi, Repubblica Democratica del Congo
il fiume Epulu nella Riserva Faunistica Okapi, Repubblica Democratica del Congo. Foto di J. Doremus, United States Agency for International Development – USAID [1], in pubblico dominio

Riferimenti bibliografici: 

Uncertain future for Congo Basin biodiversity: A systematic review of climate change impacts – Milena Beekmann, Sandrine Gallois, Carlo Rondinini – Biological Conservation 2024, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2024.110730

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

ALBARELLA, PARCO DEL DELTA DEL PO: ENERGIA SOLARE, DIETA VEGETARIANA E MOLTI ALBERI SONO LA RICETTA PILOTA DEL PROGETTO ALBA, PER IL PIANETA

Pubblicata su «PLOS Climate» ricerca dell’Università di Padova che simula l’impatto delle emissioni sull’isola di Albarella nel Parco del Delta del Po

Non è un segreto che il clima del pianeta stia cambiando anche per il fatto che in atmosfera la concentrazione dei gas a effetto serra è aumentata: in particolare, l’anidride carbonica è passata da 330 ppm (parti per milione) negli anni ‘70 a 420 ppm nel 2024, con conseguenze disastrose sul clima – riscaldamento della temperatura media dell’aria di 1,5-2 °C, ancora in crescita, fusione delle calotte polari, deregolamento del clima in generale –. Un’allerta internazionale è stata lanciata dal gruppo di scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change attraverso i loro periodici Reports e, parallelamente, la politica e l’industria mondiali stanno promuovendo il passaggio da energie derivate da risorse fossili a energie rinnovabili a bassa emissione di CO2 e meno impattanti sull’ambiente.

Lo studio dal titolo “Tackling climate change: the Albarella island example” pubblicato sulla rivista «PLOS Climate» che vede come primo autore Augusto Zanella, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova, si focalizza sul bilancio di COequivalente dell’isola di Albarella, nel Parco del Delta del Po (Rovigo), in modo da programmare un cambiamento sostenibile in 10 anni delle fonti energetiche, dello stoccaggio naturale del carbonio e dei consumi sull’isola.

«Con l’aiuto di studenti, gestori e abitanti dell’isola abbiamo raccolto i dati necessari per stilare un bilancio annuale delle emissioni di COequivalente, cioè tutto ciò che serve a fare funzionare un’isola da più di 110 mila turisti all’anno in termini di energia e risorse» commenta Augusto Zanella, primo autore della ricerca.

Tutte le entrate e uscite di beni ed energia legati al funzionamento economico dell’isola sono state convertite in emissioni di COvirtuale in modo da programmare un cambiamento sostenibile in 10 anni delle fonti energetiche, dello stoccaggio naturale del carbonio e dei consumi sull’isola di Albarella.

Le variabili investigate sono:

1) stoccaggio netto di carbonio degli ecosistemi semi-naturali;

2) dieta degli esseri umani presenti sull’isola;

3) energia fossile attualmente utilizzata;

4) domanda di energia elettrica;

5) rifiuti prodotti;

6) trasporti.

«Invece di tentare di risolvere il problema su scala mondiale, abbiamo deciso di provare su una superficie confinata come quella di un’isola per vedere se su piccola scala e con le tecnologie disponibili oggi il problema sia concretamente risolvibile in un tempo sufficientemente breve» aggiunge Zanella.

I ricercatori hanno ipotizzato due scenari “estremi”: da un lato l’economia dell’isola rimane invariata, quindi nessuna differenza rispetto al passato, dall’altro uno scenario molto più ottimistico che prevede il miglioramento tecnologico ai fini di ridurre le emissioni: per esempio l’utilizzo esclusivo di energia prodotta da pannelli solari, l’impianto di alberi su metà dei prati dell’isola, una dieta vegetariana per abitanti e turisti, il riciclo sull’isola di tutti i rifiuti.

Se si avverasse lo scenario più ottimistico, in 10 anni le emissioni nell’isola si ridurrebbero dei ¾, tornando ai livelli degli anni ’60. Queste ridotte emissioni sarebbero causate da tre variabili principali: costruzione, funzionamento e riciclo dei pannelli solari (25% delle emissioni); i consumi alimentari di abitanti e turisti, (60,5%); gli impianti di alberi ancora in crescita che stoccherebbero il 14,5% delle emissioni prima di raggiungere la maturità.

«La nostra ricerca è un esempio pratico diretto, una simulazione basata su dati reali e oggettivi. Siamo consapevoli che la nostra esperienza non può rappresentare la complessa realtà del nostro pianeta: essa rivela che in un’area turistica geograficamente limitata, una popolazione preparata al cambiamento che impieghi nuove tecnologie potrebbe sperare di ridurre fino al 25% le emissioni di COequivalente. Le perdite energetiche irrimediabili e la necessità di nutrire una densa popolazione umana impedirebbero quindi oggi di scendere sotto questa soglia minima. Per raggiungere questo obiettivo – non completamente risolutivo –, bisogna avere volontà di cambiare e disponibilità economica», conclude Zanella.

Augusto Zanella
Augusto Zanella

Il progetto “ALBA – Albarella Laboratorio Diversità Ambiente” è un progetto Uni-Impresa del 2019 in cui l’Università di Padova collabora con l’Associazione Comunione dell’Isola di Albarella per un progetto di gestione sostenibile delle risorse dell’isola. L’obiettivo è di creare e mantenere nel tempo un ambiente antropizzato che si discosti il meno possibile dal suo corrispondente naturale tramite una forte riduzione delle emissioni di gas serra, come previsto dalle direttive UE. Il responsabile scientifico del progetto è il prof. Augusto Zanella, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova.

Link alla ricerca: https://journals.plos.org/climate/article?id=10.1371/journal.pclm.0000418

Titolo: Tackling climate change: the Albarella island example – «PLOS Climate» – 2024

Autori: Augusto Zanella, Cristian Bolzonella, Mauro Rosatti, Enrico Longo, Damien Banas, Ines Fritz, Giuseppe Concheri, Andrea Squartini, Guo-Liang Xu, Lingzi Mo, Daniele Mozzato, Claudio Porrini, Lucia Lenzi, Cristina Menta, Francesca Visentin, Marco Bellonzi, Giulia Ranzani, Debora Bruni, Matteo Buson, Daniele Casarotto, Michele Longo, Rebecca Bianchi, Tommaso Bernardon, Elisa Borella, Marco Ballarin, Vitaliy Linnyk, Patrizia Pengo, Marco Campagnolo, Karine Bonneval, Nils Udo, Vera Bonaventura, Roberto Mainardi, Lucas Ihlein, Allan Yeomans, Herbert Hager.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova