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Giuseppe Fraccalvieri

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Esiste una relazione tra fiducia nella scienza e nelle università e opinioni circa il cambiamento climatico?

A cercare di rispondere a questa e ad altre domande, uno studio di grande attualità, appena pubblicato su PLoS Climate.

Nonostante il forte consenso della più gran parte degli studiosi sul fatto che il clima della terra stia cambiando e che le attività umane giochino un ruolo importante in questo, è pur vero che il tema scatena una partigianeria fortemente polarizzata negli Stati Uniti, che porta al negazionismo (dall’abstract dello studio su PLoS Climate).
Il risultato potrebbe essere dovuto all’azione della retorica aziendale e di alcune organizzazioni non profit, e risulta associato alle élite del Partito Repubblicano.
Tutto questo ha creato notevole frustrazione nella comunità scientifica (p. 2), al punto che già due anni fa si è addirittura affermato che il contratto tra scienza e società si è ormai rotto, invocando una moratoria sul tema (dall’abstract del secondo studio qui in bibliografia, quello su Climate and Development).

Tornando alla ricerca in questione, la stessa vuole quindi gettare luce sulle determinanti politiche e sociali dell’azione climatica (p. 2 del nuovo studio).

 

cambiamento climatico fiducia scienza
Foto di Katie Rodriguez

Parafrasando Claude Lévi-Strauss (Il crudo e il cotto, 1964), importante è porsi le giuste domande, ancor più che dare le giuste risposte. A p. 3 gli autori si interrogano:

  • Come la fiducia nella scienza si associa al considerare il cambiamento climatico un problema?
  • Come la fiducia nella scienza si associa a punti di vista sul fatto che il cambiamento climatico sia causato dalla natura o dall’uomo?
  • Chi ha fiducia nei centri di ricerca universitari?

Il contesto: Ricerche precedenti hanno individuato due diversi processi comportamentali: un rifiuto psicologico della scienza (Psychological Science Rejection – PSR) e un rifiuto ideologico della scienza (Ideological Science Rejection – ISR).
Mentre la prima potrebbe essere aumentata nel tempo, la seconda prospettiva sottolinea la crescita del populismo e la diminuita fiducia nella politica, l’effetto polarizzante dei media, che va quindi ad influire sulla fiducia nella scienza. Alcuni media trattano la scienza in maniera “relativistica”, considerandola semplicemente come un’opinione tra tante, oppure mostrando un “falso equilibrio” tra scienziati e scettici (p. 2).
Storicamente, la fiducia nella scienza negli Stati Uniti è sempre stata alta, pur dovendo considerare differenze regionali, religiose, o legate ad altre forme di partigianeria (p. 3).

Il sondaggio: La ricerca su PLoS Climate espone i risultati di un sondaggio su un campione rappresentativo di statunitensi (p. 3), ponderato sulla base di elementi che attengono alla persona, oltre che educazione, regione geografica, voto alle elezioni presidenziali del 2020 (p. 5).

Per gli autori, il cambiamento climatico è una sfida globale che necessita un approccio collaborativo e interdisciplinare, tanto per comprendere come per affrontare il problema. Considerando questo, e rispondendo quindi alla prima domanda, si tratta perciò di un tema cruciale che permette di misurare la fiducia pubblica nella scienza (p. 4).
Per quanto non ci sia accordo interdisciplinare su come concettualizzare fiducia e sfiducia, gli autori considerano un tipo di fiducia verso le istituzioni, che si relaziona alle performance delle istituzioni, perché ovviamente è la nostra esperienza delle stesse (che può essere anche indiretta, per il tramite di altri) a condizionare il nostro giudizio. Più nel dettaglio, non si tratta di istituzioni governative o di media in questo caso: le istituzioni prese in considerazione sono scienziati, centri di ricerca, università, per i quali gli statunitensi possono non avere esperienza diretta e quindi basare la loro fiducia su altri elementi, ad esempio di carattere legati all’ideologia, alla religione o forme di partigianeria (pp. 4-5).

Un sondaggio del 2020 rivelava una forte divisione: quasi il 50% degli statunitensi crede che il cambiamento climatico abbia cause antropiche, mentre una percentuale simile è divisa tra coloro che ritengono che le cause siano di origine naturale e coloro che ritengono non ci siano prove di un riscaldamento globale (p. 4).
Ad alcuni anni di distanza dal precedente, il nuovo sondaggio rivela dati un po’ diversi, per cui il 45% degli statunitensi pensano che il cambiamento climatico sia un problema molto importante, il 23% pensa che in qualche modo sia un problema importante, il 18% pensa che sia un problema poco importante e il 14% pensa che non sia un problema.
Il nuovo sondaggio ha semplificato il discorso della cause, per cui il 59% degli statunitensi pensa che il cambiamento climatico sia dovuto alle attività umane e il 41% (Fig. 1 a p. 8).

Secondo l’età, chi ha tra i 45 e i 64 anni, o 64 e più anni è meno incline a pensare che il cambiamento climatico sia un problema importante. Le donne sono più inclini degli uomini. Sulla stessa domanda, non vi sono state informazioni significative relativamente alla fonte delle informazioni, ad esempio, se gli intervistati si informassero alla radio o con fonti online.

Per rispondere alla seconda e alla terza domanda, le ipotesi verificate statisticamente sono che gli schieramenti sul cambiamento climatico siano determinati dall’ideologia e dalle visioni dei due partiti (Democratici e Repubblicani), per cui ad es. un democratico più probabilmente crederà che il cambiamento climatico è un problema; tra i conservatori, coloro che si identificano come moderati o liberal più probabilmente degli altri risponderanno che è un problema importante. Oltre a questo, coloro che hanno una bassa fiducia nella scienza risponderanno con minore probabilità che il cambiamento climatico è causato dalle attività umane (p. 10).
Gli autori sottolineano che si tratti di dati significativi e di magnitudine considerevole.

Mentre coloro che Ebrei e Cattolici sono più inclini a ritenere che il cambiamento climatico sia causato dalle attività umane, coloro che non professano alcuna fede registrano valori ancora più alti. Coloro che partecipano più spesso alle funzioni religiose sono più inclini a credere che il cambiamento climatico sia dovuto a cause naturali.
Per quanto riguarda la fiducia verso i centri di ricerca universitari, democratici e moderati si sono rivelati più inclini ad averla rispetto agli indipendenti.

In conclusione, gli autori constatano pure che studi empirici come questo siano pochi in letteratura, auspicando ulteriori ricerche sul tema, per diversi aspetti. Auspicano però soprattutto una cultura dove la ricerca e la comunicazione scientifica ricevano fiducia, costruendola già nell’educazione primaria e secondaria.

 

Con la premessa importante che quello su PLoS Climate è uno studio basato sul pubblico degli Stati Uniti, vi è una quarta domanda che ovviamente non è nella ricerca ma che viene naturale porsi: quanto queste considerazioni potrebbero essere valide anche per l’Italia?

Pure nel nostro Paese registriamo una fortissima polarizzazione su questi temi e il presentarsi delle medesime condizioni: il populismo in ascesa, la visione “relativistica” come i dibattiti “falsamente equilibrati” sui media, ecc.
Non sarebbe certo corretto rispondere senza dati a sostegno, ma – visto quanto sopra – il sospetto che si possano conseguire risultati non dissimili potrebbe forse accompagnarci e spingere qualcuno a ripetere l’esperimento anche nel nostro Paese.

 

 

Riferimenti bibliografici:

R. Michael Alvarez, Ramit Debnath, Daniel Ebanks, Why don’t Americans trust university researchers and why it matters for climate change, PLoS Climate (2023) 2(9): e0000147. DOI: 10.1371/journal.pclm.0000147

Bruce C. Glavovic, Timothy F. Smith & Iain White (2021) The tragedy of climate change science, Climate and Development, 14:9, 829-833, DOI: 10.1080/17565529.2021.2008855
PEW, The politics of climate; 2020. Link: https://www.pewresearch.org/science/2016/10/04/the-politics-of-climate/

Materiali per la vita di Devis Bellucci, edito da Bollati Boringhieri, è un libro che ci parla di biomateriali, da un lato raccontandone la storia, dall’altra facendo un po’ il punto della situazione [Vai all’antefatto].

Non sono storie lontane anni luce da noi, ma ci raccontano scoperte di biomateriali che sono ormai parte della vita quotidiana. Ci raccontano di come siamo arrivati ad avere le lenti a contatto, i cristallini artificiali, le protesi dell’anca, l’amalgama dei denti, a usare acido ialuronico e collagene, ecc. Insomma, invenzioni delle quali ci auguriamo di non aver mai bisogno, ma che per molti di noi sono invece realtà (e per fortuna, perché l’alternativa sarebbe sicuramente peggiore).

È un libro che – plausibilmente – pare destinato a invecchiare bene, perché le storie raccontate non sono focalizzate tanto sulle ultimissime scoperte, quanto sul percorso che da decenni, quando non secoli, stiamo percorrendo. Certo, non c’è tantissimo spazio per l’archeologia, ma l’autore fa ben intendere che da sempre siamo sul cammino dell’invenzione dei biomateriali.

È un libro che parla di una scienza fatta di persone, di tanto studio e fatica, di abnegazione, di meccanismi economici non sempre facili, di errori e direzioni che si rivelano sbagliate, di colpi di fortuna, di finali tragici come di riconoscimenti meritati.

Materiali per la vita Foto Giuseppe Fraccalvieri
Il saggio di Devis Bellucci, Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo, pubblicato da Bollati Boringhieri (2022) nella collana Saggi Scienze. Foto di Giuseppe Fraccalvieri

Le storie dei biomateriali sono spesso storie di gente dotata di una “buona dose di saggia irragionevolezza” (p. 69), grazie alla quale riescono a portare avanti dei principî nuovi, rivoluzionando il loro campo, nonostante la diffidenza circostante.

Questa diffidenza non appare però mai del tutto immotivata, e proprio nelle ultime pagine del libro, Devis Bellucci ci lascia con un finale tragico, quello dello scandalo STAP, che fa intendere come per cambiare una concezione sia sempre necessario portare solide prove a sostegno delle proprie tesi. Anche al di là di questo, come si diceva, la storia dei biomateriali non è sempre una storia di successi, ma appare costellata di fallimenti, di ciarlatani, di pratiche esecrabili.

Scopriremo anche le storie di alcuni italiani, nessuno dei quali otterrà i riconoscimenti che avrebbe meritato. Viste le premesse, non mi sono sorpreso.

 

Dall’altra parte, anche se finora abbiamo parlato soprattutto di storie, nel saggio di Devis Bellucci troviamo anche i principî, che permettono al lettore di avvicinarsi in maniera non del tutto passiva alla materia, ma lasciando la piacevole sensazione di iniziare a capire.

Scopriremo così come la chimica del carbonio dialoga chimicamente con la materia inorganica, scopriremo principî come quelli di biocompatibilità, di bioattività, di osteointegrazione, oltre che la differenza tra biomateriali di prima, seconda e terza generazione.

Come spiega Devis Bellucci (pp. 9-16), il rapporto tra biomateriali e cellule del nostro corpo non è poi troppo diverso da quello di Gulliver legato dai lillipuziani. Illustrazione da p. 121 del libro Boys’ and Girls’ Bookshelf, volume nono, Children’s Book of Fact and Fancy, The University Society, New York (1912). Immagine Internet Archive Book Images da Flickr, in pubblico dominio

 

Tornando a quanto in antefatto, quello di Devis Bellucci è anche un libro che sostiene un rapporto sano con la scienza, piacevolmente equidistante dagli estremi, da eccessi che spesso avvelenano la discussione pubblica. Non troveremo quindi il “non ce lo dicono”, né “gli oscuri moventi di Big Pharma”, e neppure “la Scienza con la S maiuscola, che non sbaglia mai”.

Polietilene
Polietilene espanso. Foto di Tasuavicu, CC BY-SA 4.0

 

Ringraziamo Devis Bellucci per aver risposto alle domande di ScientifiCult:

Episodi come quello dello scandalo STAP sarebbero ancora possibili oggi? E in Italia?

Certo che possono succedere, in Italia e ovunque. Come racconto più volte nel libro, la scienza è fatta, prima di tutto, di persone. Col loro vissuto e le loro aspirazioni. Il rischio di una frode, o comunque di comportamenti eticamente discutibili, va messo in conto.

In altri casi, invece, il ricercatore di turno sbaglia in buona fede, arrivando perfino a interpretare inconsciamente i risultati in funzione delle proprie aspettative, scartando quel che non gli torna ed esaltando i dati che confermano le sue idee.

Ma per fortuna, non si fa scienza da soli. C’è un’intera comunità di addetti ai lavori che vaglia le novità, cerca di riprodurre i risultati, discute, critica e corregge. Nel caso delle STAP, furono proprio gli esperti in materia a sollevare dubbi sulla solidità della scoperta, visto che quei risultati non erano riproducibili in altri laboratori. La magagna è venuta presto a galla e gli articoli sono stati ritirati.

Gli errori – frodi incluse – possono sfuggire sul momento, ma di solito non hanno vita lunga. E tanto più la scoperta è eclatante, quanto più la comunità scientifica si attiva per “fare le pulci” ai risultati pubblicati.

Polietilene. Foto di Lluís de Tarragona, CC BY-SA 3.0

In queste settimane si parla sempre più insistentemente di interfacce che possano ampliare le possibilità umane. Pensa accetteremo mai una simile prospettiva, da un punto di vista culturale? I rischi e i vantaggi ai quali andremmo incontro sarebbero diversi da quelli che vediamo nei futuri distopici della fantascienza?

Penso che, come in ogni avventura dell’umanità, ci sarà spazio per tutto: qualcuno ambirà ad avere un corpo performante, in grado di correre veloce come il vento o, che so io, di vedere nell’infrarosso, e qualcuno si accontenterà di quel che madre natura ci ha donato, puntando sostanzialmente ad avere un corpo in buona salute e che mantenga le proprie funzionalità, nonostante l’invecchiamento, le malattie o eventuali incidenti di percorso che possono capitare.

Nel libro racconto il caso emblematico di Neil Harbisson, il primo ragazzo cyborg, in grado di percepire i colori in forma di suoni, anche quelli al di là delle possibilità della visione umana. Ha fatto bene a farsi impiantare in testa un’antenna per trasformare il mondo che ci circonda in una sinfonia? Non saprei. Mi auguro solo che possa spegnere l’impianto quando desidera il buio, cioè un po’ di silenzio.

Materiali per la vita Foto Giuseppe Fraccalvieri
Il saggio di Devis Bellucci, Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo, pubblicato da Bollati Boringhieri (2022) nella collana Saggi Scienze. Foto di Giuseppe Fraccalvieri

Quali potrebbero essere le grandi scoperte in ambito biomateriali che ci aspettano nei prossimi decenni? Saranno inaspettate?

Riguardo all’inaspettato, quando fai ricerca è sempre lì che ti aspetta! A parte gli scherzi, sono tanti i campi di indagine da cui avremo – credo – delle belle sorprese. Impareremo sempre meglio a sfruttare i biomateriali per coadiuvare i processi autoriparativi dei nostri tessuti. Proprio al Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Modena e Reggio Emilia stiamo cercando di sviluppare degli speciali biovetri in polvere, con effetto antibatterico e cicatrizzante, per metterli su cerotti e garze da impiegare laddove una ferita fatichi a guarire.

Penso, ad esempio, alle piaghe da decubito o a quelle che affliggono i pazienti diabetici. Ancora, impareremo a sfruttare sempre meglio la stampa e la biostampa 3D, così da realizzare in laboratorio parti di ricambio per i nostri corpi, fatte su misura per ognuno di noi. Infatti, il punto di partenza sono le cellule del corpo del paziente, prelevate tramite biopsia. In questo modo, il tessuto e chissà, in futuro l’organo che andiamo a impiantare non verrà rigettato dall’organismo: spariranno quindi le lunghe lista di attesa per i trapianti e anche i farmaci anti-rigetto diventeranno solo un brutto ricordo.

Un altro ambito interessante è quello dei biomateriali per drug-delivery, ossia il rilascio controllato di farmaci. In questo caso, il biomateriale, ad esempio sottoforma di nanoparticelle, viene caricato con un farmaco, e funge da vettore per condurre la molecola direttamente al bersaglio, ad esempio una massa tumorale. In ultimo, c’è tutto quello che arriverà grazie all’impiego dell’elettronica. Personalmente, sono molto curioso e fiducioso.

 

Le ultime parole del libro mi hanno incuriosito. Riusciremo superare il limite di Hayflick, a raggiungere l’immortalità? Sarebbe poi auspicabile o no?

Il limite di Hayflick ci racconta che, in un certo senso, è scritto nella trama stessa della vita che essa debba esaurirsi e spegnersi. Non so se riusciremo a modificare questo straordinario racconto, di cui facciamo parte e che si svolge ogni giorno attorno a noi. A livello di impressione, mi sembra più probabile che impareremo a riparare sempre meglio i nostri corpi, fino a rigenerarne alcune parti, più che a renderli immortali.

Materiali per la vita Foto Giuseppe Fraccalvieri
Il saggio di Devis Bellucci, Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo, pubblicato da Bollati Boringhieri (2022) nella collana Saggi Scienze. Foto di Giuseppe Fraccalvieri

Riprendendo una suggestione del libro, nella scienza oggi servirebbe più gente ragionevole o irragionevole?

Serve gente innamorata di quello che fa: stare continuamente in bilico ai confini, seminare con fiducia senza veder crescere nulla per molto tempo, sentire di far parte di un grande gioco di squadra di cui non conosci appieno né le regole, né gli avversari. E non nascondiamolo: sono necessari grandi sacrifici. Spesso non hai orari, la precarietà è all’ordine del giorno e la tua mente è sempre un pochino da un’altra parte. Ci vogliono quindi passione e amore. L’amore deve essere ragionevole o irragionevole per continuare ad ardere e rinnovarsi, nonostante tutto? Me lo dica lei…

 

La copertina del saggio di Devis Bellucci, Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo
La copertina del saggio di Devis Bellucci, Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo, pubblicato da Bollati Boringhieri (2022) nella collana Saggi Scienze

Devis Bellucci

Devis Bellucci (Vignola, 1977) ha conseguito una laurea e un dottorato di ricerca in fisica all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, dove oggi è ricercatore in Scienza e Tecnologia dei Materiali presso il Dipartimento di Ingegneria “Enzo Ferrari”. Si occupa di materiali compositi per il settore automotive e di biomateriali per ortopedia, odontoiatria e ingegneria dei tessuti. Scrittore, giornalista e divulgatore scientifico, ha pubblicato: “Perché la forchetta non sa di niente? E altre domande curiose per capire la scienza senza uscire di casa” (Rizzoli); “Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo” (Bollati Boringhieri) e “Guida ai luoghi geniali. Le mete più curiose in Italia tra scienza, tecnologia e natura per piccoli e grandi esploratori” (Ediciclo).

Antefatto 

Prima di incontrare l’autore del saggio Materiali per la vita, Devis Bellucci, mi stavo arrovellando su una questione. Nel tentativo di questa testata di comunicare gli avanzamenti scientifici (quindi, un fatto intrinsecamente positivo), notavo una risposta assai negativa dal pubblico.
Se si scopriva qualcosa a livello di astronomia, era uno spreco perché quei soldi era meglio spenderli per curare i tumori.
Se si raccontava un’iniziativa in ambito medico, si ipotizzavano chissà quali oscuri moventi.
Se si spiegavano gli avanzamenti nell’intelligenza artificiale, il pubblico si ribellava, ritenendola inutile e ipotizzando futuri distopici nei quali le macchine superano l’uomo, dimenticando completamente le attuali, ubique applicazioni dell’IA.
Non oso neppure accennare alle reazioni sul COVID-19.

La risposta mi era chiara, che non si può pretendere di avere una scienza “on demand”, ma che per raggiungere un obiettivo tanti piccoli passi intermedi sono necessari, che gli studi legati alle missioni spaziali hanno contributo alle nostre conoscenze in tante direzioni, ecc.
Sentivo però che non era una risposta di quelle che lasciano sazio l’interlocutore.

Devis Bellucci Beatrice Mautino Food & Science 2022 Foto Giuseppe Fraccalvieri
Devis Bellucci e Beatrice Mautino al Food&Science 2022 di Mantova. Foto di Giuseppe Fraccalvieri

Arrivarono così i giorni del Food&Science Festival di Mantova e dell’intervento di Devis Bellucci, ricercatore in Scienza e Tecnologia dei Materiali, Università di Modena e Reggio Emilia. Il tema era quello dei materiali che incontrano il cibo, e rimasi piacevolmente colpito tanto dall’eloquio spigliato e acuto, come dalle storie raccontate.
Storie di scienza che spiegavano il mondo attorno, ma davano anche una risposta alle mie domande. Dai materiali utilizzati nello spazio che trovano applicazione sulla terra, a quelli scoperti decenni prima e ritenuti inutili, che diventano d’un tratto utilissimi nel contesto giusto.
È il concetto di serendipità (p. 88), che spesso trova applicazione in campo scientifico, e che in questo libro, oltre a mostrarsi con alcuni splendidi esempi, diventa anche un invito a non essere superficiali e a osservare con grande attenzione (p. 117).

Le storie raccontate in Materiali per la vita non mi sono parse troppo diverse da quelle dell’intervento, e pur nella forma scritta, conservano lo stesso spirito del racconto dal vivo, e così le pagine scorrono veloci [Torna all’inizio].