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Lo smartphone precoce riduce l’apprendimento degli studenti di età 10-14 anni più esposti agli schermi da bambini

Un gruppo di ricercatori di Milano-Bicocca e SUPSI, grazie allo studio dei dati longitudinali offerti dagli INVALSI, ha confermato che l’uso precoce degli smartphone prima dei 12 anni, non apporta benefici, anzi può ridurre le performance scolastiche degli studenti.

smartphone apprendimento studenti
Lo smartphone precoce riduce l’apprendimento degli studenti di età 10-14 anni più esposti agli schermi da bambini. Foto di natureaddict

Milano, 11 settembre 2023 – L’uso intensivo e precoce degli smartphone nei ragazzini non favorisce l’apprendimento, anzi, riduce le performance scolastiche di una parte consistente della popolazione studentesca. E ora, una ricerca di Milano-Bicocca e SUPSI sui dati INVALSI lo conferma, andando oltre le semplici correlazioni.

La ricerca dal titolo “Earlier smartphone acquisition negatively impacts language proficiency, but only for heavy media users. Results from a longitudinal quasi-experimental study”, condotta da Tiziano Gerosa, ricercatore della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) e Marco Gui, direttore del Centro Benessere Digitale di Milano-Bicocca (dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale) ha testato le principali ipotesi teoriche sul ruolo dello smartphone nei processi di apprendimento, sia quelle che ipotizzano benefici sia quelle che si attendono impatti negativi.

La ricerca ha riguardato il range di età 10-14 anni, confrontando chi riceve il dispositivo prima dei 12  anni – a 10 e 11 anni –  quindi nel passaggio tra primaria e secondaria di I grado, e chi lo riceve negli anni successivi, cioè 12, 13 e 14 anni. Il campione totale era composto da 1672 studenti delle scuole secondarie di primo grado e le informazioni amministrative recuperate sugli stessi studenti nel tempo dall’Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema Istruzione (INVALSI).

I risultati non mostrano benefici al termine della secondaria di primo grado, per coloro che sono entrati in possesso precocemente dello smartphone, neppure per gli studenti più motivati allo studio. Tuttavia, i partecipanti che avevano abitudini intense di utilizzo dei media prima di possedere uno smartphone (più di due ore al giorno tra Tv e videogiochi) sperimentano un impatto negativo e significativo sull’apprendimento in italiano. Al momento della rilevazione dei dati, gli studenti con uso intensivo degli schermi – e quindi soggetti al possibile effetto negativo dello smartphone – erano il 23,5 per cento della popolazione studentesca italiana.

«Questo risultato conferma un’ipotesi che sta emergendo nella letteratura internazionale – dice Marco Gui -: l’uso autonomo dei “media mobili” durante l’infanzia può nuocere in particolare a coloro che presentano fragilità preesistenti, in questo caso una ridotta capacità di limitare l’uso degli schermi legata al contesto familiare o a specifiche caratteristiche psicologiche».

Da tempo è in corso un grande dibattito sull’impatto dell’uso dei media digitali sulla crescita dei minori. La letteratura già ha individuato una relazione negativa tra precocità d’uso – e quantità d’uso – dello smartphone e risultati scolastici, ma spesso si lamenta l’assenza di evidenze scientifiche più solide delle semplici correlazioni.

«Questo studio è il primo in Italia che va alla ricerca dell’impatto dello smartphone sui livelli di apprendimento con metodologie più sofisticate – dice Tiziano Gerosa – Si tratta infatti di uno studio quasi-sperimentale che utilizza dati longitudinali INVALSI su bambini e preadolescenti nel passaggio dalla primaria alla secondaria di I grado. Questa metodologia permette di avvicinarsi – pur con alcuni assunti – ad una interpretazione causale dei risultati.»

Altre ricerche sono in corso da parte del Centro “Benessere Digitale” di Milano-Bicocca su questo tema. In particolare, il progetto EYES UP, finanziato da Fondazione Cariplo, analizzerà l’impatto di un insieme di dispositivi ed esperienze online precoci sui livelli di apprendimento nel corso della carriera scolastica degli studenti dalla primaria alla secondaria di II grado.

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

Un recente studio pubblicato su The Lancet analizza gli effetti del binge drinking (dall’inglese, “abbuffata di alcolici”) sul microbioma intestinale durante l’adolescenza. Infatti, emerge una stretta relazione tra la composizione del microbiota e la sfera socio-emozionale in diversi disturbi alcol-correlati.

La ricerca dimostra alterazioni del microbioma intestinale in adolescenti dediti al binge drinking e va ad aggiungersi alla crescente letteratura scientifica che riconosce nel microbiota intestinale un importante regolatore dello sviluppo socio-cognitivo. Ma facciamo un passo indietro: cos’è il microbiota?

 

Microbioma o microbiota?

Fino a non molto tempo fa si parlava impropriamente di “flora intestinale” per indicare l’insieme dei batteri presenti nell’intestino umano. Non si trattava di un vero e proprio errore perché la precedente classificazione degli esseri viventi faceva rientrare i batteri tra i vegetali. Oggi, il termine scientifico corretto per descrivere l’insieme di batteri, virus, funghi e protozoi, che popola alcune parti del canale alimentare, la pelle e il tratto uro-genitale, è microbiota. La confusione non finisce qui: microbiota o microbioma?

Il microbioma indica il patrimonio genetico, ossia l’insieme dei geni, del microbiota. Sebbene il microbiota comprenda batteri, virus, funghi e protozoi, generalmente ci si sofferma sulla parte batterica per la capacità di questi ultimi di elaborare i prodotti della digestione.

Microbioma è un termine relativamente nuovo nel vocabolario scientifico, ma i concetti fondamentali e l’importanza del ruolo svolto da quest’ultimo si devono ricercare già nei pionieristici studi dell’800 sull’ecologia microbica di Sergei Winogradsky.

Le funzioni del microbiota non si limitano al metabolismo, ma ricoprono un ruolo importante anche nello sviluppo dei villi intestinali e nella costituzione della barriera che impedisce a microbi e agenti patogeni di infettare l’organismo. Inoltre, favorisce la maturazione  e lo sviluppo del sistema immunitario a livello della mucosa intestinale.

Immagine di Elias

Eubiosi e disbiosi

Il microbiota può essere sano e in equilibrio (e si parla di eubiosi), mentre con  il termine disbiosi si fa riferimento a una situazione generica di alterazione della ‘flora batterica’ fisiologica umana. Ma cosa significa davvero microbiota sano? Ci si riferisce alla variabilità batterica che si possiede o alla capacità di fermentare le fibre?

Un sano stile di vita (seguire una dieta varia ed equilibrata, svolgere attività fisica, evitare il fumo e l’alcol) influisce positivamente sullo stato di salute del microbiota. Una disbiosi può verificarsi in distretti corporei diversi, per cui è necessario far seguire il termine da un aggettivo che specifichi la regione interessata dall’alterazione (disbiosi cutanea, disbiosi orale, disbiosi vaginale, disbiosi intestinale).

Le disbiosi si verificano a causa della perdita di microrganismi benefici, della riduzione della diversità delle specie batteriche, e dell’aumento di patogeni opportunisti e/o nell’alterazione dell’ecosistema microbico. In più, l’uso improprio di antibiotici favorisce sia l’instaurarsi di disbiosi sia lo sviluppo di antibiotico-resistenza.

Le infezioni gastrointestinali alterano solo momentaneamente lo stato di eubiosi che, generalmente, si risolve spontaneamente con la guarigione dall’infezione. Tuttavia, spesso non è chiaro se sia la malattia a causare disbiosi o viceversa, o se gli effetti del microbiota e la patologia siano determinati da un ulteriore fattore ignoto.

Immagine di Arek Socha

Assi microbiota-organi

Per comprendere meglio la complessità del microbiota intestinale, si tenga presente che questo e l’essere umano sono co-evoluti insieme per milioni di anni, sviluppando un intricato sistema di relazioni. Crescenti evidenze scientifiche mostrano come la composizione del microbiota abbia effetti su altri organi.

Infatti, oltre all’intestino, altri organi al di fuori del tratto gastrointestinale sono influenzati dalle sostanze da esso prodotte (metaboliti), assorbite e distribuite attraverso il sangue. I ricercatori hanno coniato il termine “asse” per descrivere vie di segnalazione multidirezionali che, partendo da un organo, comunicano mediante segnali biochimici con altre regioni del corpo [1].

Immagine di Gerd Altmann

Asse microbiota-cervello

In particolare, la comunicazione tra il cervello e l’intestino ha luogo mediante il sistema nervoso periferico e il nervo vago, attraverso il sistema immunitario ed endocrino. Il microbiota agisce sull’attività cerebrale regolando la produzione, il metabolismo e la trasmissione dei neurotrasmettitori, ossia le molecole di segnalazione nervosa. Tutto ciò potrebbe andare a modulare la comunicazione tra le cellule del cervello (trasmissione sinaptica) e influenzare il comportamento.

In altre parole, l’asse microbiota-cervello collega le funzioni cognitive e i centri deputati alle emozioni alla regione periferica intestinale. Infine, potrebbe contribuire alla patogenesi e alla progressione di condizioni patologiche di natura psichiatrica, neurologica o del neurosviluppo.

Le disfunzioni dell’asse intestino-cervello alterano le funzioni enteriche, come, per esempio, la secrezione (di acidi, bicarbonati e muco), la motilità e la sensibilità viscerale. Di conseguenza, si verificano cambiamenti cellulari a carico dei sistemi immunitario ed entero-endocrino. La presenza di un asse intestino-cervello è reso evidente anche dal fatto che alcune specie batteriche intestinali presentino proteine di superficie capaci di legare i neurotrasmettitori. Nella pratica clinica, l’interazione tra il microbiota intestinale e l’asse intestino-cervello trova conferma nell’associazione tra disbiosi e, per esempio, disturbi di ansia o depressione con patologie gastrointestinali.

Immagine di Colleen

Asse microbiota-cervello e binge drinking 

La comprensione dell’asse intestino-cervello costituisce premessa importante prima di affrontare il tema principale di questo articolo. Il binge drinking è il fenomeno mediante il quale una persona assume numerose unità alcoliche al di fuori dei pasti e in un breve arco di tempo. In Italia si intende il consumo, in un’unica occasione, di oltre 6 bicchieri di bevande alcoliche (un bicchiere, una Unità Alcolica di 12 grammi di alcol puro).

Il binge drinking può danneggiare seriamente il cervello e incrementare il rischio di sviluppare dipendenze patologiche e disturbi psichici in età adulta. Il rischio è maggiore se il binge drinking è anticipato da una restrizione alimentare, che mira a ridurre l’apporto calorico e a potenziare gli effetti euforizzanti e disinibenti dell’alcol. Il divieto fino ai 18 anni è raccomandato perché solo a partire da questa età l’organismo è in grado di metabolizzare correttamente l’alcol.

Nel 2021 i binge drinker, in Italia, sono stati circa 3 milioni e mezzo di età compresa tra gli 11 e i 25 anni. La frequenza cambia a seconda del genere e della classe di età, ma prevalgono i binge drinker di genere maschile in quasi tutte le fasce d’età (11-85+). L’eccezione riguarda i minorenni (fascia di popolazione per la quale la percentuale dovrebbe essere zero a causa del divieto di vendita e somministrazione di bevande alcoliche): la prevalenza di ragazze che consumano con modalità binge drinking è soltanto lievemente inferiore a quella dei coetanei maschi.

Immagine di Gerd Altmann

Binge drinking, adolescenza e cognizione socio-emozionale

Evidenze scientifiche precedenti al lavoro pubblicato su The Lancet e citato in apertura mostrarono che le modificazioni del microbioma intestinale associati all’alcol inducono disturbi cerebrali e comportamentali nei topi.

Focalizzando l’attenzione sull’adolescenza, un periodo cruciale per la crescita cerebrale e del sistema entero-immunitario, i ricercatori hanno identificato alterazioni del miocrobioma associate al fenomeno del binge drinking in adolescenti. Tali alterazioni persisterebbero anche in età adulta.

Lo studio dimostra che l’abuso di alcol durante l’adolescenza è legato ad alterazioni del microbioma, prima ancora che si sviluppi una dipendenza: ci sarebbe, infatti, una ‘firma’ all’interno del microbioma dei giovani binge drinker.

Inoltre, la ricerca evidenzia il ruolo fondamentale del microbioma intestinale nella regolazione delle pulsioni e della cognizione sociale. I ricercatori concludono il lavoro sottolineando come le alterazioni dell’asse microbiota-cervello possano alimentare ulteriori disregolazioni e aumentare il rischio di sviluppare psicopatologie, soprattutto nella fase adolescenziale.

Immagine di Mohamed Hassan

Conclusioni e spunti di riflessione

Il tema dell’abuso di alcol, in tutte le fasce d’età, è urgente e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 20 gennaio 2023 ha concluso la consultazione con le associazioni professionali e il mondo accademico per implementare il piano d’azione globale sull’alcol 2022-2030.

Il Piano rientra nella più ampia strategia mondiale di contrasto alle malattie cronico-degenerative, azione centrale dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile che mirano a ridurre del 10% il consumo rischioso e dannoso di alcol entro il 2025. La comunità scientifica e accademica globale, e i professionisti della salute puntano su una prevenzione basata sulle evidenze scientifiche.

Note:

[1] Gli assi tra intestino e organi possono verificarsi attraverso la via di segnalazione nervosa, mediante il sistema della vena porta epatica o direttamente attraverso il passaggio di segnali biochimici tra la barriera epiteliale intestinale e la circolazione sanguigna.

Fonti:

Microbiota intestinale, facoltà socio-cognitive e binge drinking in adolescenza. Foto di Elevate

DISEGUAGLIANZE SOCIO-ECONOMICHE E USO PROBLEMATICO DEI SOCIAL MEDIA NEGLI ADOLESCENTI

Per la prima volta si è analizzata questa relazione in un campione cross-nazionale di 180.000 soggetti appartenenti a oltre 6.200 scuole di 43 paesi o regioni territoriali

C’è una correlazione tra diseguaglianze socio-economiche e uso problematico dei social media (siti di social network e di messaggi istantanei) comunemente usati dagli adolescenti?

Lo studio pubblicato su «Information, Communication & Society» dal titolo “Can an equal world reduce problematic social media use? Evidence from the Health Behaviour in School-aged Children study in 43 countries” – frutto di una collaborazione internazionale e che ha come prima firma la professoressa Michela Lenzi del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova – ha preso in esame un campione di circa 180.000  adolescenti dell’età di 11, 13 e 15 anni iscritti a oltre 6.200 scuole di 43 paesi o regioni territoriali e appartenenti al network Health Behaviours in School-aged Children, uno studio cross-nazionale promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che viene svolto ogni quattro anni.

Michela Lenzi DISEGUAGLIANZE SOCIO-ECONOMICHE E USO PROBLEMATICO DEI SOCIAL MEDIA NEGLI ADOLESCENTI
Michela Lenzi

Per la prima volta si è analizzata la relazione tra le diseguaglianze socio-economiche (misurata a vari livelli come la scuola e le nazioni) e l’uso problematico dei social media in un campione cross-nazionale. I risultati dell’indagine indicano che la correlazione esiste e che il luogo ideale per prevenire tali effetti sia la scuola perché è in questo contesto che le conseguenze delle diseguaglianze si fanno maggiormente sentire in adolescenza.

La ricerca

Circa 180.00 adolescenti – rispettivamente di 11, 13 e 15 anni, di differenti nazioni, campionati per tipologia di scuola e classe frequentata – hanno compilato un questionario contenente domande sul loro benessere, sui comportamenti legati alla salute e sulle caratteristiche dei contesti di vita.

I ricercatori hanno ipotizzato che il confronto sociale potesse rappresentare il processo che accomuna e collega due fenomeni: l’uso dei social media e le diseguaglianze socio-economiche. La letteratura scientifica aveva già validato, in altre pubblicazioni, le conseguenze negative delle diseguaglianze socio-economiche – riscontrate ad esempio per nazione, regione o quartiere – sul benessere psicologico e fisico degli adolescenti. Esiste un solido consenso tra i ricercatori sulla circostanza che in una società con molti “gradini” lo status diventa più saliente, difficile da ignorare e lo rende, anche nei soggetti appartenenti alle classi abbienti, più percepibile come svantaggioso della situazione vissuta dai singoli. Queste circostanze generano lo sviluppo di una “forte preoccupazione” per il proprio status le cui conseguenze si possono polarizzare in “sentimenti di inferiorità e vergogna” o, alternativamente, in una “tendenza ad amplificare artificialmente il proprio ego”.

Quale modo migliore allora per analizzare i processi di confronto sociale se non i social media, luoghi in cui, soprattutto in adolescenza, questo paragone è molto comune?

I ricercatori si sono chiesti se vivere in contesti molto diseguali, a scuola o in nazioni diverse, aumenti il rischio di uso problematico dei social media, con conseguenze negative sulla vita quotidiana come ad esempio una mancanza di controllo o effetti dannosi sulle relazioni sociali.

 I risultati

Gli esiti della ricerca mostrano che le diseguaglianze socio-economiche, misurate a vari livelli, hanno una relazione diretta con l’uso problematico dei social media.

In particolare, a scuola più lo status socio-economico degli adolescenti si allontana, in media, da quello degli studenti più ricchi dell’istituto, maggiore è il rischio di fare un uso problematico dei social media, a prescindere dalla ricchezza assoluta.

Nel contesto scolastico, il livello medio nel divario di ricchezza tra gli studenti di una scuola (che è un indice riassuntivo della scuola, non la posizione relativa dello studente o della studentessa), si associa ad un maggiore uso problematico dei social media, soprattutto tra le ragazze e i ragazzi che hanno minor sostegno da parte degli amici.

A livello nazionale esiste una relazione tra diseguaglianze e uso problematico dei social media solo per gli adolescenti con basso livello di sostegno familiare. Le spiegazioni di questi risultati devono essere indagate in maniera più approfondita. Infatti da un lato la preoccupazione per il proprio status, favorito dal vivere in contesti diseguali, può portare l’adolescente a cercare sui social una distrazione o uno sfogo di sentimenti negativi. Dall’altro i social media offrono la possibilità di cercare modelli alternativi con cui confrontarsi e di plasmare la propria immagine amplificandone gli aspetti positivi, tutti processi che potenzialmente portano ad un uso problematico.

«Lo studio va ad ampliare la nostra conoscenza sugli effetti negativi che elevati livelli di diseguaglianza possono avere sul benessere. Interventi mirati a ridurre le diseguaglianze socio-economiche potrebbero quindi avere ripercussioni positive anche nella prevenzione dell’uso problematico dei social media, oltre che su una grande varietà di conseguenze sanitarie e sociali come l’uso di sostanze, le gravidanze adolescenziali e l’obesità – dice la professoressa Michela Lenzi, prima autrice della ricerca pubblicata –. Secondo i nostri risultati possiamo affermare che proprio nel contesto scolastico le conseguenze delle diseguaglianze si fanno sentire in adolescenza. Inoltre è la scuola il luogo ideale per prevenire tali effetti. Come? Lavorando sulla percezione dello status socio-economico e sul valore ad esso attribuito nella nostra società, riducendo la tendenza a considerarlo una misura del valore personale, ma anche promuovendo la coesione e il sostegno tra studenti e l’insegnamento di competenze emotive, sociali e digitali. Affinché questi interventi possano essere efficaci è importante che siano associati a politiche che promuovano maggiori livelli di uguaglianza a livello nazionale».

Link alla ricerca: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/1369118X.2022.2109981

Titolo: “Can an equal world reduce problematic social media use? Evidence from the Health Behavior in School-aged Children study in 43 countries” – «Information, Communication & Society» – 2022

Autori: Michela Lenzi, Frank J. Elgar,Claudia Marino, Natale Canale, Alessio Vieno, Paola Berchialla, Gonneke W. J. M. Steven, Meyran Boniel-Nissim, Regina J. J. M. van den Eijnden & Nelli Lyyra

 

Testo e foto dall’Università degli Studi di Padova

Adolescenti sempre connessi: ai ragazzi i consigli dei loro coetanei per il benessere digitale
Dalle esperienze sul campo e da un confronto tra studenti e ricercatori, all’Università di Milano-Bicocca nasce un decalogo per genitori e figli

Milano, 6 maggio 2022 – Gestire il tempo trascorso sui social, disconnettersi per riconnettersi con la realtà, non usare lo smartphone prima di andare a letto, fare attenzione alle regole della privacy delle App: sono i ragazzi ad indicare poche e semplici regole ai loro coetanei per evitare di essere travolti dalle insidie reali che si nascondono nella connessione continua con il mondo virtuale. Il decalogo è stato messo a punto al termine della tavola rotonda cui hanno preso parte studenti delle scuole superiori e universitari, esperti, docenti e ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca e rappresentanti delle istituzioni locali. Il momento di confronto ha chiuso il convegno “Il benessere digitale tra gli adolescenti: dalla teoria alle buone pratiche“, organizzato dall’Università in collaborazione con l’Associazione Psyché Onlus, in vista della Giornata internazionale del digital wellness che ricorre oggi.
Nel corso dei lavori sono stati presentati i risultati di progetti di ricerca, attività di laboratorio ed esperienze pratiche sul tema del benessere digitale. Fondamentale il contributo degli stessi ragazzi: gli studenti dell’Istituto professionale di Stato “Cavalieri” di Milano hanno preso parte ad esperienze di disconnessione, quelli dell’Istituto Europeo di Design hanno realizzato spot sul corretto uso della rete, dando sfogo ad ironia e creatività per catturare l’attenzione dei loro coetanei.
Tutto ha contribuito a far emergere aspetti problematici come la gestione del tempo e dell’attenzione, l’alterazione del ciclo sonno-veglia e la limitazione dei contenuti tra cui scegliere dovuta all’invadenza degli algoritmi. E, partendo da questo, è stato possibile definire le indicazioni pratiche per i ragazzi. Si parte con l’avvertenza di usare motori di ricerca che non registrano i dati di navigazione per evitare che gli algoritmi offrano suggerimenti uniformati sulla base dei gusti dell’utente. Si consiglia, poi, di essere se stessi, senza inseguire quanto proposto da profili irrealistici e di dare priorità all’osservazione del mondo che si ha intorno per fare nuove esperienze e socializzare con più facilità.
Il testo non contiene divieti, ma un “no” deciso viene detto al multitasking che abitua a passare rapidamente da un’attività all’altra, facendo assumere un comportamento che diviene un’abitudine anche nella vita quotidiana
L’ultimo punto del decalogo è riservato ai genitori, invitati ad avere un atteggiamento dialogante con i figli per scoprire con loro le potenzialità della Rete e, nel contempo, guidarli ad un uso prudente delle sue risorse.

 

«Il nostro convegno credo sia stato un bell’esempio di come sia possibile creare un confronto proficuo tra realtà apparentemente distanti come quelle dell’Università, del mondo no profit e della scuola. Abbiamo ascoltato la voce di psicologi, psicoterapeuti, sociologi, ingegneri, insegnanti, ma il contributo più efficace – rimarca Chiara Ripamonti, ricercatrice di Psicologia clinica dell’Università di Milano-Bicocca – è stato, a mio parere, quello degli studenti di scuola superiore che hanno raccontato le loro esperienze di disconnessione. A Milano hanno dovuto orientarsi nello spazio senza l’uso di Google map e raccogliere informazioni su un quartiere intervistando le persone per strada. Inoltre, si sono disconnessi per 20 ore consecutive in un rifugio montano. Al convegno ci hanno trasmesso il loro entusiasmo e la loro sorpresa nell’avere scoperto che senza il telefonino ci si può ugualmente divertire, si possono fare nuove conoscenze e, soprattutto, si può stare bene insieme».
Adolescenti sempre connessi
Adolescenti sempre connessi. Foto StartupStockPhotos
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca sugli adolescenti sempre connessi.

L’USO PROBLEMATICO DEI VIDEOGIOCHI IN ADOLESCENZA 

Una ricerca dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, dell’Università di Padova e della Flinders University ha rivelato come fattori socioeconomici possano influenzare il rischio di gaming problematico negli adolescenti europei. Lo studio riporta che il 20% dei giovani è ad alto rischio e che i ragazzi sono tre volte più esposti rispetto alle coetanee. Danimarca e Romania presentano rispettivamente la percentuale più bassa (12%) e più alta (30%) del fenomeno. L’Italia è al di sopra della media europea con circa il 24%. Positivo il ruolo della famiglia e delle politiche sociali. La ricerca è stata pubblicata su Addiction.

Una ricerca ­– condotta dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifc), dal Dipartimento di psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’Università di Padova (Unipd) e dall’australiana Flinders University – ha indagato in quale modo fattori individuali, sociali e contestuali siano associati a un maggiore rischio per gli adolescenti europei di gaming (uso dei videogiochi) problematico, cioè un utilizzo eccessivo dei videogame che possa mettere a repentaglio la salute e favorire l’allontanamento dalla scuola e dagli affetti. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Addiction. La ricerca ha analizzato i dati dello studio European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs (ESPAD) del 2019, relativi ai comportamenti di gaming di 89000 adolescenti tra i 15 e i 16 anni residenti in 30 Paesi europei.

“Abbiamo rilevato che in Europa un ragazzo su cinque è ad alto rischio di gaming problematico (circa il 20%). L’esposizione al fenomeno dei ragazzi (30.8%) risulta tre volte più alto di quello delle ragazze (9.4%). È emerso anche che gli adolescenti residenti in Danimarca riportano i livelli più bassi di gaming problematico (12%), mentre quelli in Romania riferiscono una maggiore percezione di problemi associati all’uso di videogiochi (30.2%)”, spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice del Cnr-Ifc e coordinatrice dello studio. “La percentuale di studenti italiani con un alto rischio di gaming problematico (23.9%) è superiore alla media europea, con un numero maggiore di ragazzi (34%) che percepisce conseguenze negative legate al gaming rispetto alle ragazze (12.8%)”.

Il contesto familiare e le politiche nazionali possono diminuire la probabilità che gli adolescenti sperimentino un uso problematico dei videogiochi.

“La ricerca indica come la presenza di regole genitoriali e di supporto emotivo familiare proteggano in adolescenza da un utilizzo eccessivo e distorto dei videogiochi”, conclude Alessio Vieno, professore Unipd. “Il rischio di gaming problematico è infine maggiore negli Stati dove sono più marcate le disuguaglianze economiche, mentre risulta minore nei Paesi dove vengono effettuati investimenti nelle politiche di salute pubblica, come i benefici fiscali per le famiglie”.

Alessio Vieno gaming problematico videogiochi adolescenza
Alessio Vieno

La ricerca sembra confermare la centralità del supporto emotivo della famiglia nel prevenire il fenomeno e l’importanza delle politiche di protezione sociale, grazie alle quali un maggiore sostegno economico può migliorare la qualità della relazione genitori-figli e fornire risorse per attività ricreative alternative per un sano sviluppo degli adolescenti.

Roma, 24 marzo 2022

 

La scheda

Chi: Cnr-Ifc, Unipd, Flinders University

Che cosaProblematic gaming risk among European adolescents: A cross-national evaluation of individual and socio-economic factorshttps://doi.org/10.1111/add.15843. Laboratorio di epidemiologia e ricerca sui servizi Sanitari (Sabrina Molinaro, Emanuela Colasante ed Elisa Benedetti), dal Laboratorio internet e dipendenza della scuola di psicologia dell’Università degli Studi di Padova (Alessio Vieno, Natale Canale, Erika Pivetta, Claudia Marino e Michela Lenzi) ed il professore australiano Daniel King.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova sull’uso problematico di videogiochi in adolescenza.

Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare: tra credenze e evidenze

Anche io, almeno fino a qualche tempo fa, cadevo nella facile conclusione che ci fosse una connessione tra Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e Vegetarianismo. D’altronde, entrambe condividono una tendenza a orientare le proprie scelte alimentari a favore di vegetali e frutta, cibi tendenzialmente ipocalorici. Poi a un certo punto, come mi accade per molte credenze, mi è venuta voglia di sbirciarci dentro e ho deciso di approfondire il tema, un po’ per curiosità personale, un po’ per “dovere” professionale. 

Spoiler per chi non vuole leggere fino in fondo: la letteratura scientifica esistente su questo argomento è molto intricata, un po’ per le diverse metodiche utilizzate, un po’ a causa della complessità nel definire il “vegetarianismo” in modo chiaro e ineluttabile. Insomma, trarre una conclusione univoca è difficile. Per chi invece si è incuriosito e vorrebbe saperne di più, andate avanti e godetevi la lettura, la ricompensa sarà l’averci capito qualcosa in più rispetto a chi si ferma qui!

vegetarianismo disturbi del comportamento alimentare DCA
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto PublicDomainPictures

Intanto, cosa sono i Disturbi del Comportamento Alimentare?

I DCA sono una serie di disturbi psichiatrici accomunati da due sintomi principali: l’alterazione delle abitudini alimentari e l’eccessiva preoccupazione per il peso e per la forma del corpo. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e ne soffrono soprattutto le donne. Sebbene ognuno di noi possa utilizzare strategie comportamentali o cognitive per cercare di limitare l’ingestione di cibo o controllare il proprio peso corporeo, non tutti soffrono di un DCA: ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa è patologico e cosa no, e sono ben descritti nel DSM-5 [1] e nell’ICD-11 [2].

 

Anoressia nervosa: fattori di rischio genetici e ambientali

I 3 principali DCA sono i) l’anoressia nervosa, caratterizzata da una costante ricerca della magrezza, da una paura patologica di prendere peso e da una distorta immagine corporea, le quali determinano un’assunzione di calorie insufficiente rispetto alle richieste fisiologiche, con conseguente perdita di peso che si attesta sotto la norma; ii) la bulimia nervosa, caratterizzata da abbuffate a cui seguono sensi di colpa legati alle preoccupazione per il peso e quindi condotte di eliminazione/compensatorie (vomito autoindotto, uso di lassativi, diuretici, pratica sportiva eccessiva ecc.) che dovrebbero placare l’ansia di prendere peso e iii) il disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder) in cui sono presenti abbuffate e sensi di colpa, ma mancano le condotte eliminatorie che caratterizzano la bulimia nervosa; spesso si associa a un peso sopra la norma.

anoressia nervosa fattori di rischio
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di StockSnap

 

E invece il vegetarianismo cos’è?

Qui iniziano i problemi, perché la prima vera difficoltà con cui si scontra la letteratura che indaga il rapporto tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare è la definizione stessa di vegetarianismo e il modo in cui questa variabile viene declinata nei diversi studi.
Partiamo col dire che il
vegetarianismo (o vegetarianesimo o vegetarismo) è un insieme di pratiche alimentari accomunate dal prevalente consumo di alimenti vegetali. Il fatto è che è possibile distinguere molti sottogruppi di vegetariani: i latto-ovo-vegetariani sono le persone che non assumono carne animale e prodotti della pesca, ma che assumono altri derivati animali come latticini e uova (esistono però anche i latto-vegetariani e gli ovo-vegetariani); i vegani, evitano anche tutti gli altri derivati animali come appunto latte e uova; i semi-vegetariani invece evitano solo alcune tipologie di carne oppure mangiano pesce ma non carne (pescetariani) oppure possono consumare carne, ma in modo saltuario (flexitariani).

Molti studi, per semplicità, raggruppano i “vegetariani” in un unico gruppo, confrontandoli con i non vegetariani; altri studi si sono sforzati di suddividerli nei vari sottogruppi, in modo da confrontarli tra di loro, oltre che con gli onnivori. Quest’ultimo approccio, probabilmente il migliore, è stato usato di rado, a causa della difficoltà a reclutare un numero sufficientemente grande di individui con i vari tipi di vegetarianismo, ma la comprensione della relazione tra alimentazione a base vegetale e DCA sembra passare di qui.

 

Un thali vegetariano dal Rajasthan. Foto di Simranjeet Sidhu, CC BY-SA 4.0

Come se non bastasse, la decisione di diventare vegetariani può originare da una infinità di motivi: ci sono persone che sono vegetariane perché richiesto dalla loro religione (in India, ad esempio, il vegetarianismo è una questione storicamente religiosa), vegetariani che semplicemente non possono permettersi la carne o vegetariani che rifiutano di consumare carne solo per le proprietà gustative.

Ciononostante, nelle società industrializzate e secolarizzate occidentali possiamo distinguere fondamentalmente tre motivazioni che spingono una persona a diventare vegetariana. La prima motivazione è quella di stampo etico-animalista, cioè i vegetariani che affermano di seguire una dieta a base vegetale allo scopo di ridurre lo sfruttamento e le pratiche crudeli che subiscono gli animali d’allevamento. Un’altra parte di vegetariani riferisce di evitare carne e derivati animali per ragioni salutistiche e nutrizionali, ed in effetti una dieta a base vegetale – se ben bilanciata – sembra ridurre l’incidenza di disturbi cardiovascolari e cancro (Campbell, 1998; Hart, 2009). Infine, una terza motivazione è quella etico-ecologista, legata alla problematiche che gli allevamenti determinano a livello ambientale, causate dal sovraconsumo di acqua o dall’eccessiva emissione di gas inquinanti.

Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Daniel Reche

Ora, quali sono le motivazioni più spesso addotte da chi ha deciso di seguire una dieta a base vegetale? Klopp e colleghi (2003) suggeriscono che la ragione più di frequente riportata da chi intraprende una dieta vegetariana è quella relativa alla maggior salubrità rispetto alla dieta onnivora (37,5%), Timko e collaboratori (2012) invece hanno trovato che le motivazioni più spesso richiamate dai vegetariani sono quelle di natura etico-animalista (50% del campione). A complicare il panorama ci pensa la ricerca di Baş e collaboratori (2005) che riportava come ragione più comune semplicemente le preferenze gustative (cioè il 58,1% del campione ha dichiarato di essere vegetariano semplicemente perché non apprezza a livello gustativo carne e/o derivati animali).

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di S. Hermann & F. Richter


Queste differenze sono in parte spiegate dalle caratteristiche sociodemografiche dei partecipanti, in prevalenza statunitensi sia nello studio di Klopp che in quello di Timko, ma in quest’ultimo caso più adulti (età media 26 contro i 19 del campione di Klopp). Nello studio di Baş invece i partecipanti erano turchi con un’età media di 21 anni. Queste differenze ci indicano che è fondamentale considerare gli aspetti sociodemografici, ma è invece trasversale la constatazione che molti dei vegetariani che parlano di motivazioni salutistiche/nutrizionali dietro alle loro scelte alimentari, fanno riferimento più o meno esplicito anche alla possibilità di poter controllare più facilmente il proprio peso e la forma del proprio corpo, escludendo i grassi animali dalla propria dieta (Bardone-Cone et al., 2012). Ed in effetti i vegetariani presentano un più accentuato tratto di ortoressia (fissazione sull’alimentazione salutare) rispetto agli onnivori (Barthels et al., 2018). È qui che nasce un primo collegamento con i DCA. 

 

Partiamo dagli stili alimentari…

Come abbiamo detto sopra, per fare diagnosi di DCA si deve soddisfare una serie di criteri. Questo non vuol dire che però ognuno di noi non possa presentare stili alimentari più o meno disfunzionali, senza per forza sfociare nella patologia. Uno di questi stili è il Restrained Eating, che potremmo tradurre come restrizione alimentare o dietetica. Per restrizione dietetica si intende il ricorso sistematico a diete o il tentativo di limitare il consumo di cibo in generale, al fine di controllare il proprio peso corporeo. Nella realtà dei fatti, le restrizioni dietetiche si manifestano come il ricorso a digiuni o, più frequentemente, come una riduzione nel consumo di specifici prodotti o macronutrienti, senza un reale riscontro sul peso, che è esattamente ciò che accade nel vegetarianismo. Inoltre, poiché a restrizioni croniche conseguono spesso abbuffate, elevati tratti di “restrained eating” sembrano predire la manifestazione di diversi DCA (Stiche, 2002; Polivy & Herman, 2002).

Dato che è possibile misurare le restrizioni dietetiche come fossero un tratto di personalità utilizzando specifici questionari, molti studi si sono concentrati su questo stile, per vedere se è più accentuato nei vegetariani che negli onnivori. I dati ci dicono che vegani e latto-ovo-vegetariani non si differenziano per questo tratto rispetto agli onnivori, ed anzi qualcuno suggerisce che una dieta vegana sia collegata a minori livelli di restrizioni alimentari (Janelle & Bar, 1995; Kahleova et al., 2013). Al contrario flexitariani e semi-vegetariani, che evitano quindi specifici tipi di carne o che cercano di limitare il consumo, mostrano un restrained eating più pronunciato rispetto agli onnivori (Forrestell et al., 2013; Timko et al., 2012). Questo lascerebbe ipotizzare che il vegetarianismo abbracciato da latto-ovo-vegetariani e vegani sia di fatto più di tipo morale ed etico, rispetto a quello dei flexitariani e semi-vegetariani, probabilmente più legato ad aspetti salutistici e di peso. Di conseguenza, questi ultimi sarebbero più a rischio di sviluppare un DCA o comunque comportamenti alimentari disfunzionali. 

Altri stili alimentari misurabili sono l’Emotional Eating (o alimentazione emotiva) ovvero la tendenza più o meno pronunciata a sovralimentarsi, in risposta ad emozioni stressanti e l’External Eating (o alimentazione disinibita), cioè la tendenza a cedere o meno a delle tentazioni alimentari che provengono dall’ambiente, indipendentemente dal nostro appetito fisiologico. Ad oggi non ci sono confronti tra vegetariani e onnivori in questi specifici tratti. D’altra parte alcuni studi hanno riportato una maggiore tendenza ad abbuffarsi da parte dei vegetariani rispetto agli onnivori (Robinson-O’Brien et al., 2009; MacLean et al., 2021). Questo risultato potrebbe avere tre cause: i) i vegetariani potrebbe essere più indulgenti con loro stessi in relazione alla quantità di cibo da consumare, essendo verdura e frutta prodotti sani; ii) una dieta a base vegetale non sempre potrebbe fornire un senso di pienezza o un apporto equilibrato di macronutrienti e questo potrebbe innescare episodi di abbuffate; iii) i vegetariani potrebbero anche avere una soglia più bassa relativa al concetto di “abbuffata” rispetto agli onnivori, a causa delle loro abitudini alimentari più ponderate. 

Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE

 

Ma i vegetariani presentano più spesso un DCA rispetto agli onnivori?

Gli studi che hanno utilizzato domande dicotomiche non standardizzate, per rilevare la presenza di DCA tra i vegetariani, non sono arrivati a conclusioni definitive. Tre revisioni retrospettive (Hadigan et al., 2000; O’Connor et al., 1987; Kadambari et al., 1986), hanno rilevato che circa la metà delle persone con diagnosi di anoressia nervosa riferiva di aver aderito a una dieta vegetariana. Purtroppo, in nessuno di questi studi era specificato il sottotipo di vegetarianismo. Al contrario, un altro studio non ha trovato differenze nella distribuzione di vegetariani e onnivori in partecipanti con diagnosi di DCA e partecipanti sani (Estima et al., 2012). Infine, una ricerca, ha rilevato la maggiore propensione da parte dei vegetariani ad abbuffarsi ed utilizzare misure di controllo del peso non salutari, come il vomito autoindotto o l’uso di lassativi (Robinson-O’Brien et al., 2009).

 

Atteggiamenti alimentari disfunzionali nei vegetariani: i campanelli d’allarme

Un altro metodo per capire se il vegetarianismo è più o meno correlato ai Disturbi del Comportamento Alimentare è quello di valutare i punteggi ottenuti ai questionari self-report che indagano aspetti comportamentali o cognitivi che caratterizzano i DCA. Se è vero che il vegetarianismo è collegato ai Disturbi del Comportamento Alimentare, allora i vegetariani dovrebbero ottenere punteggi maggiori (che corrispondono a tratti più pronunciati) nelle varie scale e sottoscale che valutano la sintomatologia DCA rispetto agli onnivori. Gli studi che hanno utilizzato questo metodo d’indagine sono stati condotti prevalentemente su studenti universitari, ed hanno mostrato che i vegetariani avevano punteggi più alti (rispetto agli onnivori) nelle sottoscale che valutano le preoccupazioni relative all’alimentazione, alla forma e al peso corporeo, ma non in quelle che valutano le restrizioni caloriche (Sieke et al., 2013). Inoltre quelli che riferivano di essere vegetariani per motivi di salute o di forma/peso mostravano in media punteggi più alti rispetto a quelli che dichiaravano di seguire questa dieta per motivi etico-morali. E mentre Zuromsky e collaboratori (2015) hanno osservato punteggi maggiori in tutte le sottoscale in chi riferiva una qualsiasi forma di vegetarianismo, Timko e collaboratori (2012) hanno evidenziato che i punteggi critici nella sottoscala “preoccupazioni per l’alimentazione” caratterizzava solo il sottogruppo dei semi-vegetariani. 

In definitiva anche in questo caso i vari studi mostrano risultati contrastanti: alcuni hanno trovato punteggi più alti (e quindi atteggiamenti alimentari più disfunzionali) nei vegetariani rispetto agli onnivori, altri studi non hanno trovato differenze se non nei semi-vegetariani, che sembrano essere anche in questo caso quelli con più problematiche alimentari (Timko et al., 2012; Forestell et al., 2012). Infine, ad oggi un solo studio ha indagato gli atteggiamenti riguardanti la propria immagine corporea, meno negativi nelle ragazze vegetariane rispetto a quelle onnivore. Questa minore preoccupazione per la propria immagine corporea potrebbe dipendere dal BMI generalmente inferiore dei vegetariani (Dorard & Mathiue, 2021). 

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Immagine di Oberholster Venita

Conclusioni

In linea generale, dunque, sembrerebbe che chi ha una diagnosi di DCA riferisca di essere vegetariano più spesso rispetto a chi non ha una diagnosi di DCA. Inoltre, i gruppi subclinici quindi con punteggi alti nelle scale che misurano la sintomatologia DCA ma senza diagnosi, riferiscono storie di vegetarianismo più di frequente rispetto a chi non presenta alcun sintomo. Questi dati forniscono un supporto almeno preliminare all’idea che ci sia una relazione tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Gli studi che hanno confrontato sottogruppi di vegetariani, però, hanno sottolineato la necessità di distinguere tra i diversi sottotipi, i quali mostrano punteggi molto diversi nelle scale che misurano i comportamenti alimentari patologici. 

In particolare, rispetto a ovo-latto-vegetariani, vegani e onnivori, sembra che i semi-vegetariani siano quelli che riportano un comportamento alimentare più disfunzionale (sono i “più patologici” secondo Heiss et al., 2017). I semi-vegetariani hanno maggiori probabilità di limitare l’assunzione di cibo a causa di preoccupazioni riguardo l’alimentazione (Timko et al., 2012), mentre gli ovo-latto-vegetariani e i vegani aderiscono a una dieta vegetariana principalmente per motivi etici (Forestell et al., 2012; Curtis e Comer , 2006). Non solo, i semi-vegetariani sono anche più suscettibili alle abbuffate rispetto agli altri vegetariani e agli onnivori. Queste conclusioni suggeriscono che i semi-vegetariani sono categoricamente diversi dagli altri vegetariani e questa distinzione dovrebbe essere considerata quando si valuta il comportamento alimentare (Robinson-O’Brien et al., 2009).

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Дарья Яковлева

Da questo punto di vista, sarebbe interessante se ci fossero più studi provenienti dai paesi mediterranei (come l’Italia), dove, se da una parte il vegetarianismo è abbastanza diffuso, dall’altra la dieta mediterranea prevede già di per sé un consumo di carne e di derivati animali moderato, a favore del consumo di vegetali (Willett et al., 1995). In un campione con tali abitudini alimentari, il sottogruppo semi-vegetariano potrebbe essere molto meno numeroso rispetto ad altri paesi occidentali, dove il consumo di carne e grassi animali è maggiore. In generale, la tipologia di vegetarianismo e i motivi che ne sono alla base non possono non prescindere dal campione di riferimento, ma ad oggi la maggior parte dei dati sul tema derivano dagli Stati Uniti e dai Paesi del Nord Europa.

Infine dobbiamo considerare che non solo il tipo di vegetarianismo, ma anche le tempistiche in cui vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare si sono avvicendati dovrebbero essere maggiormente approfonditi. Al momento non ci sono dati che indicano inequivocabilmente che il vegetarianismo sia di per sé un fattore di rischio dei DCA e che, quindi, potrebbe contribuire all’esordio di un DCA. Piuttosto, il vegetarianismo potrebbe essere un modo per limitare l’introito calorico e/o per “camuffare”, con un metodo socialmente accettabile, un DCA o comunque una sintomatologia alimentare tendente al patologico (Baş et al., 2005). È anche probabile che il vegetarianismo possa contribuire ad un prolungamento della patologia alimentare, rendendo più difficoltosa la guarigione e dunque configurarsi come un fattore di mantenimento più che come un fattore di rischio. 

Sono dunque necessarie ricerche ben progettate, con campioni variegati e attente alle numerose variabili relative alle due condizioni, per trarre conclusioni definitive. Ad oggi possiamo dire che sì, ci sono delle relazioni tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare, ma quale siano queste relazioni, è ancora tutt’altro che chiaro.

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE

 

[1] Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), edizione 5: sistema nosografico per i disturbi mentali o psicopatologici redatto dall’American Psychiatric Association

[2] Classificazione Internazionale delle Malattie (International Classification of Disease), edizione 11: sistema di classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità

Bibliografia:

Bardone-Cone, A. M., Fitzsimmons-Craft, E. E., Harney, M. B., Maldonado, C. R., Lawson, M. A., Smith, R., & Robinson, D. P. (2012). The inter-relationships between vegetarianism and eating disorders among females. Journal of the Academy of Nutrition and Dietetics, 112(8), 1247-1252.

Barthels, F., Meyer, F., & Pietrowsky, R. (2018). Orthorexic and restrained eating behaviour in vegans, vegetarians, and individuals on a diet. Eating and Weight Disorders-Studies on Anorexia, Bulimia and Obesity, 23(2), 159-166.

Baş, M., Karabudak, E., & Kiziltan, G. (2005). Vegetarianism and eating disorders: association between eating attitudes and other psychological factors among Turkish adolescents. Appetite, 44(3), 309-315.

Campbell, T. C., Parpia, B., & Chen, J. (1998). Diet, lifestyle, and the etiology of coronary artery disease: the Cornell China study. The American journal of cardiology, 82(10), 18-21.

Curtis, M. J., & Comer, L. K. (2006). Vegetarianism, dietary restraint and feminist identity. Eating behaviors, 7(2), 91-104.

Dorard, G., & Mathieu, S. (2021). Vegetarian and omnivorous diets: A cross-sectional study of motivation, eating disorders, and body shape perception. Appetite, 156, 104972.

Estima, C. C., Philippi, S. T., Leal, G. V., Pimentel, C. V., & Alvarenga, M. S. (2012). Vegetarianism and eating disorder risk behavior in adolescents from São Paulo, Brazil. Revista Española de Nutrición Humana y Dietética, 16(3), 94-99.

Forestell, C. A., Spaeth, A. M., & Kane, S. A. (2012). To eat or not to eat red meat. A closer look at the relationship between restrained eating and vegetarianism in college females. Appetite, 58(1), 319-325.

Hadigan, C. M., Anderson, E. J., Miller, K. K., Hubbard, J. L., Herzog, D. B., Klibanski, A., & Grinspoon, S. K. (2000). Assessment of macronutrient and micronutrient intake in women with anorexia nervosa. International Journal of Eating Disorders, 28(3), 284-292.

Hart, J. (2009). The health benefits of a vegetarian diet. Alternative and Complementary Therapies, 15(2), 64-68.

Heiss, S., Hormes, J. M., & Timko, C. A. (2017). Vegetarianism and eating disorders. In Vegetarian and plant-based diets in health and disease prevention (pp. 51-69). Academic Press.

Janelle, K. C., & Barr, S. I. (1995). Nutrient intakes and eating behavior see of vegetarian and nonvegetarian women. Journal of the American Dietetic Association, 95(2), 180-189.

Kadambari, R., Cowers, S., & Crisp, A. (1986). Some correlates of vegetarianism in anorexia nervosa. International Journal of Eating Disorders, 5(3), 539-544.

Kahleova, H., Hrachovinova, T., Hill, M., & Pelikanova, T. (2013). Vegetarian diet in type 2 diabetes–improvement in quality of life, mood and eating behaviour. Diabetic Medicine, 30(1), 127-129.

Klopp, S. A., Heiss, C. J., & Smith, H. S. (2003). Self-reported vegetarianism may be a marker for college women at risk for disordered eating. Journal of the American Dietetic Association, 103(6), 745-747.

McLean, C. P., Moeck, E. K., Sharp, G., & Thomas, N. A. (2021). Characteristics and clinical implications of the relationship between veganism and pathological eating behaviours. Eating and Weight Disorders-Studies on Anorexia, Bulimia and Obesity, 1-6.

O’Connor, M. A., Touyz, S. W., Dunn, S. M., & Beumont, P. J. (1987). Vegetarianism in anorexia nervosa? A review of 116 consecutive cases. Medical Journal of Australia, 147(11-12), 540-542.

Polivy, J., & Herman, C. P. (2002). Causes of eating disorders. Annual review of psychology, 53(1), 187-213.

Robinson-O’Brien, R., Perry, C. L., Wall, M. M., Story, M., & Neumark-Sztainer, D. (2009). Adolescent and young adult vegetarianism: better dietary intake and weight outcomes but increased risk of disordered eating behaviors. Journal of the American Dietetic Association, 109(4), 648-655.

Sieke, E., Carlson, J., Lock, J., Timko, C. A., & Peebles, R. (2013). 37. Drivers of Disordered Eating in University Students Reporting Vegetarian Diets. Journal of Adolescent Health, 52(2), S38-S39.

Stice, E. (2002). Risk and maintenance factors for eating pathology: a meta-analytic review. Psychological bulletin, 128(5), 825.

Timko, C. A., Hormes, J. M., & Chubski, J. (2012). Will the real vegetarian please stand up? An investigation of dietary restraint and eating disorder symptoms in vegetarians versus non-vegetarians. Appetite, 58(3), 982-990.

Zuromski, K. L., Witte, T. K., Smith, A. R., Goodwin, N., Bodell, L. P., Bartlett, M., & Siegfried, N. (2015). Increased prevalence of vegetarianism among women with eating pathology. Eating behaviors, 19, 24-27.

Posticipare l’ingresso a scuola migliora il rendimento scolastico

Intervista al professor Luigi De Gennaro

Articolo a cura di Valentina Mastrorilli e Giulia Nania 

I vincoli sociali spesso ci impongono di seguire delle regole che non vanno di pari passo con il nostro ritmo biologico. Fare tardi la sera e far suonare la sveglia molto presto la mattina può avere conseguenze negative non solo sulla salute fisica e mentale, ma anche sulla sonnolenza diurna e sui processi attentivi. Negli ultimi anni si è posta molta attenzione sulle abitudini di vita degli adolescenti e sulla loro tendenza a rimanere attivi fino a tarda notte, nonostante il giorno dopo debbano entrare a scuola al suono della campanella (Louzada, 2019).

Non si tratta solo di un cambio di abitudini comportamentali, ma piuttosto di un vero e proprio cambiamento fisiologico di alcuni dei meccanismi che regolano il sonno. Nei ragazzi in età adolescenziale, infatti, è stato osservata una variazione di due di questi meccanismi: la regolazione omeostatica del sonno (Jenni et al., 2005) e l’orologio circadiano (Wright et al., 2005). Mentre il primo fa riferimento alla stretta dipendenza tra il bisogno di sonno e il numero di ore trascorse da svegli, il secondo si riferisce al nostro comportamento in risposta all’alternanza delle ore di luce e di buio.

Nel complesso, fattori biologici e sociali spingono i ragazzi a rimanere sempre più spesso svegli fino a tardi. Eppure, la campanella suona sempre alle 8:00. La conseguenza è che molto spesso i ragazzi dormono meno delle 8 ore consigliate dall’American Academy of Sleep Medicine, spesso saltano la scuola e si distraggono durante le lezioni. Quali sarebbero le conseguenze sul rendimento scolastico se si provassero ad adattare gli obblighi scolastici alle esigenze fisiologiche degli adolescenti, facendo suonare la campanella un’ora dopo?

Questo è ciò che si è domandato il gruppo di ricerca del Professor De Gennaro della Sapienza Università di Roma in uno studio della durata di un intero anno scolastico. Il loro lavoro è volto a documentare se, il posticipare quotidianamente l’orario delle lezioni, potesse avere dei benefici sul funzionamento cognitivo degli studenti. Alla ricerca hanno partecipato alcuni ragazzi e ragazze dell’istituto secondario “Ettore Majorana” di Brindisi, suddivisi in due gruppi sperimentali: per uno la campanella suonava alle 8.00, mentre per il secondo gruppo le lezioni iniziavano alle 9.00.

Dai risultati di questa ricerca recentemente pubblicata sulla rivista Nature and Science of Sleep è emerso che, al termine dell’anno scolastico, gli studenti che avevano scelto di inserirsi nel gruppo che iniziava le lezioni alle 9:00 mostravano un notevole miglioramento nel rendimento, una migliore attenzione sostenuta, un minor assenteismo e un minor numero di ritardi. Quindi, è stato dimostrato  che il posticipo di un’ora dell’orario delle lezioni può portare ad effetti benefici sulla prestazione accademica.

Abbiamo intervistato il professor Luigi De Gennaro, ordinario di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica della Sapienza Università di Roma, che ha risposto alle domande di ScientifiCult.

Dal vostro lavoro è emerso che gli studenti che hanno posticipato l’orario dell’inizio delle lezioni hanno beneficiato di questo ritardo. Questo è stato osservato non solo attraverso il miglioramento del rendimento scolastico e una migliore attenzione sostenuta, ma anche in termini di minor assenteismo e ritardi. Quali sono i meccanismi alla base del sonno che potrebbero aver generato questo miglioramento?

La storia inizia negli anni ’20 con lo studio dei due psicologi Jenkins e Dallenbach. Il loro studio, con soltanto due soggetti partecipanti, prevedeva un compito di memorizzazione di composizioni di tre lettere. Le composizioni dovevano essere memorizzate durante la sera per poi essere recuperate la mattina successiva in due diverse condizioni: dopo una normale notte di sonno e dopo una deprivazione di sonno. Venne osservato che, il mattino successivo alla notte di deprivazione, la prestazione dei due soggetti era enormemente più bassa.

Nacque così il cosiddetto “sleep effect”. L’aspetto più recente, invece, nasce negli anni ’80. In particolare, venne dimostrato come alterazioni del sonno, causate da vari disturbi del sonno oppure da decurtazioni del sonno, andassero a impattare negativamente sul rendimento scolastico. Inoltre, a partire dagli anni ’90 un movimento internazionale ha visto partire degli esperimenti pilota paragonabili al nostro. In conclusione, si può affermare che il posticipo dell’orario scolastico dovrebbe portare a un aumento della durata del sonno e questo dovrebbe impattare su tutte le misure che poi sono oggetto di valutazione.

orario scuola rendimento sonno
Figura 1: il sonno dei partecipanti con relativi orari medi di addormentamento e risveglio per tutto l’anno

 

In questo periodo storico, molti studenti stanno vivendo l’esperienza della didattica a distanza, durante la quale i ragazzi e le ragazze possono seguire le lezioni da casa. Questo implica, dunque, che molti studenti riescono a dormire un po’ di più. Nonostante i limiti e le difficoltà di questo tipo di insegnamento, lei ritiene che questo cambio di abitudini possa influire positivamente sulla rendita scolastica e l’attenzione degli studenti?

A questa domanda non c’è purtroppo una risposta univoca. Diversi team di ricerca nazionali e internazionali hanno condotto e stanno ancora conducendo diverse indagini volte a monitorare le eventuali alterazioni del sonno durante il periodo del confinamento (che ha riguardato l’Italia nei periodi di Marzo-Maggio 2020).

Sintetizzando, potremmo dire che ne è emerso un fenomeno bimodale: una parte della popolazione oggetto degli studi ha mostrato un consistente aumento dei disturbi del sonno e variazioni di fattori associati alla depressione o allo stress; un’altra parte, invece, ne ha per così dire “beneficiato”, ovvero ha dormito di più e ha mostrato meno sonnolenza diurna rispetto ai periodi precedenti. Tra queste persone vi sono sicuramente gli studenti e le studentesse, che hanno beneficiato della generale ristrutturazione dei ritmi sonno-veglia. Non mi riferisco quindi specificatamente agli effetti della didattica a distanza, ma piuttosto alla diversa gestione del ritmo sonno-veglia che è diventato più coerente con i bisogni biologici.

Ricordiamoci che la specie umana, a seguito della rivoluzione industriale e dell’introduzione dell’illuminazione artificiale, ha collettivamente perso all’incirca due ore di sonno, tanto da delineare negli ultimi 150 anni una forma di insoddisfazione cronica del bisogno di sonno. Di conseguenza è evidente che una gestione diversa della giornata, più svincolata dai classici limitatori sociali (quali ad esempio esigenze scolastiche o lavorative) possa portare benefici almeno alla seconda categoria di persone cui prima facevo riferimento. In conclusione, indipendentemente dal fatto che quello della didattica a distanza sia un fenomeno molto complesso, per quanto riguarda l’aspetto del sonno e del ritmo sonno-veglia, in linea generale possiamo dire che molti studenti hanno beneficiato di questo riassetto dei ritmi giornalieri.

Figura 2: la più elevata performance degli studenti del programma sperimentale in tutto l’anno

 

Ipotizzando di poter seguire le performance degli studenti nel corso dei vari anni scolastici, lei pensa che questi benefici che voi avete osservato al termine di un anno scolastico possano essere riscontrati anche dopo vari anni? Oppure l’organismo si abitua a questi cambi di ritmi e nel corso del tempo verrebbero persi gli effetti benefici dell’ora di sonno in più?

Non saprei darle una risposta precisa. L’anno successivo a quello della sperimentazione che è stata pubblicata mi sarebbe piaciuto condurre uno studio longitudinale, quindi documentare come il rendimento che noi fotografiamo alla fine di un anno scolastico fosse capitalizzato alla fine di un intero ciclo di studi.

Avrei voluto seguire gli studenti dal primo al quinto anno di scuola e magari seguirli fino all’Università per vedere se in qualche modo la coorte di studenti che iniziava le lezioni alle 9 avrebbe poi avuto in futuro una carriera più brillante. Tuttavia, stiamo parlando di aspettative che non siamo riusciti ad implementare per diverse ragioni. La prima è che l’allora dirigente scolastico dell’Istituto Majorana Salvatore Giuliano, innovatore e rivoluzionario, è stato catapultato nell’empireo del governo italiano diventando sottosegretario di Stato al Ministero dell’Istruzione. L’Istituto Majorana continua ad avere nuove classi sperimentali dove, su base volontaria, gli studenti iniziano le lezioni alle 9 piuttosto che alle 8 ma non c’è più la complessa macchina organizzativa della valutazione. Probabilmente, con la presenza di Salvatore Giuliano a Brindisi le cose sarebbero potute andare diversamente.

Bisogna però tener conto di altri due aspetti. Il primo, è che stiamo parlando di uno studio geograficamente anomalo in quanto chi programmava lo studio e analizzava i dati si trovava all’Università La Sapienza di Roma, mentre l’acquisizione dei dati, l’organizzazione dei diari settimanali e lo svolgimento dei compiti al computer era a carico degli insegnanti dell’Istituto Majorana. Gli insegnanti, quindi, si sono trovati nei panni di sperimentatori succedanei che, in maniera volontaria, hanno dovuto fare un grande lavoro spesso al di là delle loro competenze. Il secondo aspetto è che questa ricerca non è stata supportata da alcuna risorsa economica. Tutta questa macchina ha avuto un costo che probabilmente l’organizzazione locale non poteva più tollerare.

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Figura 3: gli effetti descritti limitati ai soli giorni scolastici

 

Nel vostro studio sono state utilizzate misure soggettive, ovvero domande a cui erano i soggetti stessi a rispondere, per analizzare alcuni aspetti come la latenza del sonno, il numero dei risvegli e la durata dei risvegli. Come pensa che sarebbero stati i risultati, se fossero state utilizzate misure oggettive e dunque strumenti che indagano questi stessi aspetti attraverso indici psicofisiologici?

La misura oggettiva più ovvia da utilizzare sarebbe la polisonnografia, ma essa risultava inattuabile in termini di costi e di fattibilità. Inizialmente erano state considerate due possibilità di compromesso tra misure oggettive e soggettive. La prima era far diventare gli studenti ricercatori di loro stessi, affidandogli il carico gestionale e organizzativo. Poteva rappresentare una modalità peculiare di fare scuola-lavoro, ma non è stato possibile realizzarlo.

La seconda opzione sarebbe stata quella di utilizzare l’actigrafia, ovvero uno strumento non invasivo che, indossato al polso come un orologio, va a registrare l’attività motoria del polso stesso. Quest’ultima risulta essere rappresentativa dell’attività motoria dell’individuo. Considerando che movimento presente corrisponde alla veglia e che la quiescenza motoria corrisponde ad uno stato di sonno, l’actigrafia riesce a stimare in maniera consolidata alcune caratteristiche del sonno come la durata e la sua eventuale frammentazione. Essa ha, inoltre, il pregio di avere un’ottima risoluzione temporale e una memoria di uno o due mesi. Anche in questo caso non è stato possibile utilizzare questo strumento.

Ad ogni modo, la misura oggettiva non necessariamente avrebbe aggiunto qualcosa in più. In tanti contesti diagnostici dei disturbi del sonno la misura di eccellenza è il diario e, dunque, è il soggetto stesso che risponde a una specifica griglia di domande nei successivi minuti al risveglio. Il vantaggio di uno strumento così è l’assenza di costo e di essere anche facilmente attuabile. Anche se avessimo utilizzato misure oggettive, i risultati non sarebbero stati verosimilmente molto diversi. Infatti, tra misure self report e l’actigrafia vi è un accordo molto elevato.

 

Come spiegherebbe l’assenza di significatività dei risultati nel Pittsburgh Sleep Quality Index?

Il Pittsburgh Sleep Quality Index è una misura retrospettiva in cui viene chiesto ai soggetti di stimare alcune caratteristiche del sonno nel mese che precede la valutazione. È una misura che quantifica l’alterazione della qualità del sonno. Non ci aspettavamo un dato molto particolare, poiché non abbiamo inciso sui disturbi del sonno. Quello che abbiamo fatto è stato incidere sulla durata del sonno. Anche se i risultati non si sono mostrati significativi da un punto di vista statistico, questi sono comunque andati nella direzione attesa di un relativo miglioramento anche nella qualità del sonno.

Foto Wokandapix

Per eventuali ricerche future, ritiene sia utile poter differenziare gli studenti che riposano il pomeriggio da coloro che non lo fanno?

In questo studio la presenza di sonnellini diurni è stata valutata, ma non in maniera longitudinale, ovvero non per tutto il corso dello studio. Ogni studio futuro dovrebbe, ad ogni modo, meglio monitorare eventuali recuperi pomeridiani di sonno. Riguardo al come farlo, un fattore da tenere in considerazione sarebbe il cronotipo. Per quanto riguarda l’adesione dei nostri ritmi biologici e psicologici al modello circadiano la maggior parte di noi è sincronizzata su una tipologia intermedia in cui abbiamo adattato i nostri picchi di attività certi momenti del giorno.

Ma esistono due code della distribuzione: i mattutini e i serotini. Questi individui hanno una serie di variabili fisiologiche, ormonali e prestazionali spostate in maniera coerente alla loro tipologia. Nello specifico, il mattutino ha dei picchi legati alle prime ore del mattino e il serotino nella parte serale. Questo è un aspetto può essere manipolato. Un progetto quando viene costruito potrebbe prendere in considerazione non solo le singole classi, ma anche i cronotipi estremi e indagare su come rispondono al posticipo dell’orario.

Naturalmente ci si aspetta che siano i serotini a beneficiarne di più e i mattutini o ne beneficiano meno o non ne beneficiano affatto. Questo sarebbe da un punto di vista di pianificazione un aspetto molto facile da valutare e considerare. Infatti, nell’idea di un futuro in cui ipoteticamente l’organizzazione scolastica comincia a tener conto di queste conoscenze, è quella che è più facile da realizzare. Si potrebbero, in questo modo, comporre le classi in maniera oculata così da rispettare il cronotipo preferenziale dei singoli studenti. I mattutini verranno messi in classi tradizionali e i serotini in classi che posticipano l’orario di inizio delle lezioni.

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Lei pensa che i risultati ottenuti dal vostro lavoro possano essere estesi anche a contesti non scolastici? 

Assolutamente si. Prima però di muoverci ad altri contesti lavorativi rimaniamo ancora in quello scolastico. Nella scuola non ci sono solo gli studenti, ma anche gli insegnanti. Spesso noi insegnanti universitari ci troviamo a dover alternare anni accademici in cui si insegna la mattina ed anni in cui si insegna il pomeriggio. Parlando a titolo personale, essendo io un serotino, l’anno accademico in cui devo insegnare la mattina non mi rende particolarmente felice e se possibile cerco di farmi sempre posticipare un po’ la lezione nella composizione dei calendari delle lezioni.

Questo per dire che tutto ciò di cui abbiamo parlato nella prima parte, vale tanto per gli studenti quanto per gli insegnanti. Tuttavia, per quanto strano, mi sembra di ricordare che in tutti gli studi pubblicati finora hanno sempre guardato gli studenti e mai gli insegnanti, che avrebbero meritato anche loro di essere oggetto di studio. Per rispondere più specificatamente alla sua domanda, negli ultimi anni si è osservato un aumento di diverse organizzazioni professionali che rimangono attive 24h su 24: mentre fino a qualche decennio fa il turnismo era limitato al pronto soccorso ed ai mestieri di emergenza, ora sempre più categorie professionali ne sono interessate. Dunque, una parte sempre più cospicua della popolazione lavora in momenti cronobiologicamente non adatti. Non a caso, si parla proprio di “sindrome dei turnisti” riferendosi ad una costellazione di disturbi che sono conseguenze di questo drammatico sfasamento tra le attività lavorative e il proprio ritmo biologico.

Di conseguenza, la politica e le organizzazioni lavorative dovrebbero iniziare a considerare seriamente tutti quei fattori che minimizzano le conseguenze delle “sindromi dei turnisti”. Io stesso ho aperto un filone di ricerca sui turnisti in ambito infermieristico per documentare quanto l’errore in medicina del personale medico e paramedico (soprattutto durante i turni notturni) sia conseguente a questa desincronizzazione circadiana (Di Muzio et al., 2020; Di Muzio et al., 2019). Si tenga conto, per esempio, che qualche anno fa il British Medical Journal (Macary & Daniel, 2016), un autorevole giornale scientifico, ha pubblicato una drammatica statistica epidemiologica sulle cause di morte nel mondo: dopo i disturbi cardiocircolatori e le malattie oncologiche, la terza causa di morte nel mondo è la morte in contesti ospedalieri.

Non si può banalizzare questa osservazione perché si tratta di un fenomeno complesso ma una larga parte dei decessi dovuta agli errori in medicina è legato alle conseguenze del lavoro a turni. Quindi certamente queste osservazioni valgono anche per tutti gli altri contesti lavorativi, soprattutto quelli in cui le attività si svolgono in momenti cronobiologicamente non adatti. C’è da tener conto che la branca della cronobiologia ha numerose declinazioni, tra cui quella della cronofarmacologia, in cui si studiano quali sono i momenti dell’intero ciclo giornaliero in cui l’efficacia di certi principi attivi viene minimizzata o massimizzata. In definitiva, il ritmo cronobiologico è qualcosa che in futuro dovrebbe sempre più orientare certe scelte di carattere non solo farmacologico ma anche lavorativo e sociale.

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

Alfonsi, V., Palmizio, R., Rubino, A., Scarpelli, S., Gorgoni, M., D’Atri, A., Pazzaglia, M., Ferrara, M., Giuliano, S., & De Gennaro, L. (2020). The association between school start time and sleep duration, sustained attention, and academic performance. Nature and Science of Sleep, 12, 1161–1172.

Di Muzio, M., Diella, G., Di Simone, E., Novelli, L., Alfonsi, V., Scarpelli, S., Annarumma, L., Salfi, F., Pazzaglia, M., Giannini, A. M., & De Gennaro, L. (2020). Nurses and Night Shifts: Poor Sleep Quality Exacerbates Psychomotor Performance. Frontiers in neuroscience14, 579938.

Di Muzio, M., Reda, F., Diella, G., Di Simone, E., Novelli, L., D’Atri, A., Giannini, A., & De Gennaro, L. (2019). Not only a Problem of Fatigue and Sleepiness: Changes in Psychomotor Performance in Italian Nurses across 8-h Rapidly Rotating Shifts. Journal of clinical medicine8(1), 47.

Jenni, O. G., Achermann, P., & Carskadon, M. A. (2005). Homeostatic sleep regulation in adolescents. Sleep, 28(11), 1446–1454.

Louzada, F. (2019). Adolescent sleep: a major public health issue. Sleep science, 12(1), 1.

Makary, M. A., & Daniel, M. (2016). Medical error-the third leading cause of death in the US. British Medical Journal, 353, i2139.

Wright, K. P., Jr, Gronfier, C., Duffy, J. F., & Czeisler, C. A. (2005). Intrinsic period and light intensity determine the phase relationship between melatonin and sleep in humans. Journal of biological rhythms, 20(2), 168–177.