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COVID-19, RISULTATI STUDIO SIEROLOGICO SU 10 MILA DIPENDENTI CITTÀ DELLA SALUTE E UNITO: DAI VACCINI RISPOSTA DI LUNGA DURATA

L’indagine si è svolta in due fasi, la seconda ha evidenziato come la positività al test sierologico sia presente nella quasi totalità dei soggetti vaccinati (99,8%) e come la persistenza di una risposta cellulare complessiva sia superiore al 70% a 8 mesi di distanza dalla vaccinazione.

sierologico 10 mila vaccini
COVID-19, risultati studio sierologico su 10 mila dipendenti Città della Salute e UniTo. Foto di Lela Maffie

Oggi, martedì 15 febbraio, sono stati presentati i risultati dello studio sierologico “Ricerca di IgG specifiche per SARS-CoV-2 nel Personale dell’A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino e dell’Università degli Studi di Torino e valutazione della risposta immunitaria post-vaccinazione anti-COVID 19”.

Sono intervenuti, introducendo lo studio, il Dott. Giovanni La Valle e il Dott. Lorenzo Angelone, rispettivamente Direttore generale e Direttore sanitario dell’A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino, il Dott. Antonio Scarmozzino, Direttore Dipartimento Qualità e Sicurezza delle cure, la Prof.ssa Paola Cassoni, Direttrice Dipartimento Medicina di Laboratorio, la Prof.ssa Rossana Cavallo, Direttrice S.C. Microbiologia Virologia U, P.I. (Principal Investigator) dello studio. E, successivamente, presentando specifici risultati dello studio: la Dott.ssa Gitana Scozzari, S.C. Direzione Sanitaria P.O. Molinette, Disegno dello Studio di coorte: obiettivi, fasi e metodi; il Dott. Giovannino Ciccone, S.S.D. Epidemiologia Clinica e Valutativa, Risultati della fase pre-vaccinale: sieroprevalenza; la Dott.ssa Enrica Migliore, S.S.D. Epidemiologia Clinica e Valutativa, Risultati della fase post-vaccinale: risposta sierologica; la Prof.ssa Cristina Costa, S.C. Microbiologia Virologia U Risultati della fase post-vaccinale: analisi di immunità cellulare; il Prof. Antonio Amoroso, S.C. Immunogenetica e Biologia dei Trapianti U, Risultati della fase post-vaccinale: analisi delle frequenze HLA; il Dott. Maurizio Coggiola, S.C. Medicina del Lavoro U, Rischio Occupazionale Ospedaliero Dati di Sorveglianza Sanitaria.

Lo studio è stato progettato dall’A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino (CSS), a partire dal mese di aprile 2020, ed è stato successivamente esteso ai dipendenti dell’Università degli Studi di TorinoVi hanno preso parte 10 mila persone che, su base volontaria, hanno aderito allo studio. I risultati della prima fase sono stati pubblicati sulla rivista Viruses.

La prima fase, condotta tra maggio e agosto 2020, ha avuto l’obiettivo di stimare la proporzione di soggetti entrati in contatto con il virus SARS-CoV-2 durante la prima ondata pandemica. Tra i dipendenti CSS la prevalenza di positivi al test è risultata pari al 7,6%; tra quelli di UniTo pari al 3,3%, un valore simile a quello stimato nella popolazione generale del Piemonte nell’indagine condotta dall’Istat a maggio 2020.

Questi risultati hanno documentato che i dipendenti del comparto sanità hanno avuto, almeno durante i primi mesi della pandemia, un rischio aumentato di contrarre l’infezione rispetto al resto della popolazione e hanno confermato l’importanza della precoce adozione di idonee misure preventive (incluso l’uso standardizzato di adeguati dispositivi di protezione individuale) per il contenimento della diffusione dell’infezione, spesso asintomatica, tra gli operatori sanitari.

La seconda fase dello studio, condotta a maggio 2021, aveva come obiettivo principale la valutazione della risposta immunitaria alla vaccinazione anti-Covid, misurata su tutta la coorte attraverso la positività al test sierologico, e, su un sottocampione di 419 soggetti, anche attraverso indagini di immunità cellulare. L’indagine ha evidenziato che la positività al test sierologico (ovvero la presenza di livelli di anticorpi circolanti superiori a 33.8 BAU/mL) era presente nella quasi totalità dei soggetti vaccinati (99,8%).

In corrispondenza con la seconda fase dello studio, sono stati effettuati due specifici approfondimenti di indagine, condotti su un campione di 419 dipendenti CSS selezionati casualmente tra i partecipanti alla seconda fase dello studio.  Il primo approfondimento è stato mirato a valutare la risposta immunitaria cellulare SARS-CoV-2 specifica, rilevata nel periodo tra luglio e ottobre 2021. È noto che la risposta immunitaria a un agente infettivo virale, oltre che attraverso la produzione di specifici anticorpi circolanti, avvenga attraverso l’attivazione di particolari cellule (Linfociti T), e alcuni dati preliminari sembrano suggerire che la risposta immunitaria cellulare contro il SARS-CoV-2 sia di lunga durata. I primi risultati osservati nello Studio suggeriscono la persistenza di una risposta cellulare complessiva superiore al 70% a 8 mesi di distanza dalla vaccinazione.

Il secondo approfondimento è stato, invece, finalizzato a valutare se la diversa risposta individuale al vaccino potesse essere messa anche in relazione alla variabilità genetica individuale. Ogni individuo presenta, infatti, una variabilità in circa l’1% delle lettere del Dna, che lo fanno unico e differente dagli altri. Questa variabilità genetica spiega anche come la nostra risposta immunitaria abbia un’efficacia diversa. Di tutte le caratteristiche genetiche scritte nel genoma (e sono circa 23.000) i ricercatori si sono concentrati su un gruppo di geni – HLA, Human Leucocyte Antigens – che consentono di costruire alcune molecole espresse sulle nostre cellule, comprese quelle del nostro sistema immunitario. Queste ultime hanno il compito di proteggerci dagli intrusi, attivando la risposta degli anticorpi contro i bersagli estranei (ad esempio virus, batteri e vaccini). Quale sia il bersaglio, lo definiscono proprio le molecole HLA, e quindi la variabilità di queste molecole ci aiutano a capire la diversità che osserviamo nella popolazione in relazione alla quota di anticorpi prodotti contro il virus a seguito della vaccinazione. L’approfondimento ha mostrato come alcune varianti siano più di frequenti in coloro che hanno dimostrato una più bassa produzione di anticorpi rispetto a coloro in grado di sviluppare una risposta anticorpale più consistente.

 

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

TRASMISSIONE AEREA DEL COVID – LA SCOPERTA DI ARPA E UNITO

Lo studio frutto della collaborazione tra i due enti è stato pubblicato sul prestigioso Journal of Hazardous Materials. Il modello sperimentale messo a punto può fornire indicazioni essenziali per la gestione del rischio di infezione negli ambienti chiusi. Attraverso lo sviluppo di un nuovo metodo per il campionamento e l’analisi del SARS-CoV-2 nell’aria è stato dimostrato che il virus può essere trasmesso per via aerea in ambienti chiusi non solo tramite le goccioline respiratorie di più grandi dimensioni. Lo studio per la parte sperimentale ha visto impegnati l’Arpa Piemonte e l’Università di Torino e per la parte teorica e modellistica l’Università di Cassino e la Queensland University of Tecnology.

trasmissione aerea COVID-19
Trasmissione aerea del COVID-19

Il Centro regionale di Biologia molecolare di Arpa Piemonte, in collaborazione con il Laboratorio di Virologia Molecolare e Ricerca Antivirale diretto dal professor David Lembo del Polo Universitario San Luigi Gonzaga di Orbassano dell’Università di Torino, ha sviluppato, sperimentato e validato un metodo per il campionamento e l’analisi del SARS-CoV-2 nell’aria. E, grazie a questo metodo, l’Arpa ha fornito dimostrazione diretta del collegamento tra emissione di una carica virale nota di un soggetto infetto e le relative concentrazioni di SARS-CoV-2 nell’aria in condizioni controllate, dimostrazione non ancora presente in letteratura scientifica.

Gli esperimenti condotti, oltre a stabilire che il virus SARS-CoV-2 si trasmette tramite aerosol ben oltre le distanze a lungo ritenute “di sicurezza” (1-1.5 m), hanno confermato anche l’influenza esercitata dalla tipologia di attività respiratoria rispetto all’emissione di aerosol virale e alla conseguente diffusione nell’ambiente: come già anticipato da studi precedenti, le emissioni durante la fonazione (la produzione di suoni o rumori per mezzo degli organi vocali) risultano essere di un ordine di grandezza superiori rispetto alla semplice attività di respirazione.

E, proprio in questi giorni, viene pubblicato dal prestigioso Journal of Hazardous Materials, editore Elsevier, lo studio dal titolo Link Between SARS-CoV-2 Emissions and Airborne Concentrations: Closing the Gap in Understanding, frutto della collaborazione tra l’Arpa Piemonte e l’Università di Torino da una parte e l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale e la Queensland University of Technology di Brisbane, Australia, dall’altra, rappresentate dal Prof. Giorgio Buonanno e dalla Prof.ssa Lidia Morawska, ricercatori leader nella scienza dell’aerosol e nella gestione dei rischi di infezione.

I risultati sperimentali forniti da Arpa Piemonte hanno, inoltre, validato un nuovo approccio teorico predittivo finalizzato a calcolare modellisticamente la concentrazione del virus in un ambiente indoor partendo dalle emissioni delle persone infette e dalle caratteristiche di ventilazione dell’ambiente. Sulla base di tale strumento modellistico è possibile costruire politiche coerenti nella gestione degli ambienti interni e nella determinazione di misure di controllo per ridurre il rischio di infezione (ad esempio calcolando la massima occupazione degli ambienti indoor e la durata massima dell’occupazione).

Questa scoperta con la prestigiosa pubblicazione su una autorevole rivista scientifica internazionale, per noi è una grande soddisfazione in quanto certifica che gli investimenti fatti per la realizzazione del dipartimento di Virologia ambientale in Regione Piemonte sta portando importanti risultati scientifici – commenta l’assessore regionale alla Ricerca applicata Covid, Matteo Marnati – La scoperta di questa nuova metodologia permetterà di studiare e ridurre lo sviluppo del virus negli gli ambienti chiusi. Questo risultato conferma ancora una volta lo sforzo che il “sistema Piemonte” mette in atto per conoscere la pandemia e fornire risposte efficaci. La ricerca e la conoscenza sono l’unica arma che abbiamo per combattere il Covid 19 e per poter formulare strategie sanitarie, basate su analisi dei dati e modelli matematici sicuri”.

Questo studio colma finalmente una lacuna di conoscenza circa la trasmissione di SARS-CoV-2 con una solida evidenza sperimentale che risolve un tema controverso – sottolinea Il Direttore del Laboratorio di Virologia Molecolare dell’Università di Torino, Prof. David Lembo – Possiamo ora affermare che il virus può essere trasmesso per via aerea in ambienti chiusi e non solo attraverso le droplets. Un successo della ricerca italiana che permetterà di applicare i metodi sviluppati anche allo studio degli altri virus respiratori noti e a quelli che si potrebbero presentare in futuro“.

La migliore ricerca scaturisce dall’incontro di competenze differenti, complementari e sinergiche – precisa il direttore generale di Arpa Piemonte, Angelo Robotto – Arpa Piemonte è parte di un prestigioso pool internazionale di scienziati che fa del metodo scientifico il proprio driver nella gestione del rischio di infezione da patogeni a trasmissione aerea negli spazi chiusi. Non c’è dubbio che un adeguamento tecnologico radicale deve essere introdotto per mettere in sicurezza gli ambienti indoor attraverso la ventilazione ed il trattamento dell’aria. L’ambiente e le matrici ambientali sono fondamentali come sentinelle per le ricadute sanitarie”.

Lo ripetiamo da tempo e ora ne abbiamo anche la dimostrazione. Il virus si trasmette per via aerea negli ambienti chiusi – conclude il Prof. Giorgio Buonanno dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale – E qui mascherine chirurgiche, distanziamento e vaccini non sono sufficienti ad evitare il diffondersi dell’infezione, come la variante Omicron ha ulteriormente dimostrato. Ma ci sono valide contromisure, di tipo tecnico-ingegneristico: ventilazione, riduzione dell’emissione, gestione dei tempi di esposizione e affollamento possono mitigare il rischio di infezione. Siamo in grado di mettere in sicurezza l’aria, a prescindere dalle varianti, come già è stato fatto con l’acqua”.

 

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Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino, sulle nuove scoperte riguardo la trasmissione aerea del COVID-19.

COVID-19, DISTANZIAMENTO E DROPLET TRANSMISSION CON E SENZA MASCHERINA 

Pubblicato sul «Journal of the Royal Society Interface» lo studio del team internazionale di ricerca dell’Università di Padova, Udine, Vienna e Chalmers: si può quantificare il rischio di contagio in funzione della distanza interpersonale, temperatura, umidità e tipo di evento respiratorio considerato. Quando si parla senza mascherina le goccioline infette emesse possono raggiungere oltre un metro, fino a 3 metri per un colpo di tosse mentre starnutendo raggiungono i 7 metri, con le mascherine chirurgiche e FFP2 il rischio di contagio diventa praticamente trascurabile sia che si parli, che si tossisca o starnutisca.

COVID-19 distanziamento mascherina
Dinamica di gocce e aerosol, vettori della trasmissione virale

Il gruppo di ricerca del professor Francesco Picano del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Padova – costituito dai dottori Federico Dalla Barba e Jietuo Wang, in collaborazione con il professor Alfredo Soldati, il dottor Alessio Roccon della Technische Universität Wien e Università di Udine, e il prof. Gaetano Sardina della svedese Chalmers University of Technology) – sul «Journal of the Royal Society Interface» propone un modello di quantificazione del rischio di contagio da COVID-19 in funzione della distanza interpersonale, condizioni ambientali di temperatura e umidità e tipo di evento respiratorio considerato (parlare, tossire o starnutire) con o senza l’utilizzo di mascherine.

Le strategie per combattere il COVID – 19, oltre al fondamentale utilizzo del vaccino, si basano su lockdown più o meno totali, distanziamento interpersonale (1-2 metri, three/six-feet rule), sanificazione di superfici e mani o areazione degli ambienti. La puntuale revisione di queste modalità di profilassi è fondamentale per contenere la diffusione di questa e altre future pandemie simili. È bene ricordare che la scienza ha fatto sempre tesoro delle esperienze passate: negli anni successivi alla pandemia di influenza spagnola del 1918 la comunità scientifica studiò le strategie per evitare la propagazione dei virus tanto che nel 1934 in una ricerca dell’americano William Firth Wells furono definite le basi per lo studio della trasmissione aerea dei virus e del distanziamento sociale.

I virus, come il SARS-COV-2, passano da un individuo infetto a uno sano tramite la trasmissione di goccioline salivari emesse parlando, tossendo o starnutendo. Le goccioline in sospensione si possono depositare sulle superfici che diventano quindi il terreno di contagio una volta toccate dall’individuo sano. In questo caso si può contrastare la catena del contagio sanificando superfici e mani.

Più articolata è la questione della trasmissione aerea: le regole fin qui usate per evitare la propagazione sono state il distanziamento interpersonale, la capienza ridotta degli ambienti e le mascherine.  Wells, come si è detto, distinse la trasmissione aerea in droplet o airborne/aerosol.

L’emissione di goccioline salivari avviene tramite la formazione di uno spray di goccioline spinto dall’aria espirata: le gocce nel loro moto evaporano, si depositano o restano sospese. Quelle più grandi e pesanti cadono prima di evaporare mostrando un moto balistico (droplet), mentre le più piccole evaporano prima di cadere e tendono ad essere trasportate dal fluido (airborne).

Wells, utilizzando le conoscenze dell’epoca sulla dinamica delle goccioline e sull’evaporazione di spray, propose la cosiddetta evaporation-falling curve in cui quantificò i tempi necessari per l’evaporazione completa o la caduta a terra delle goccioline respiratorie in funzione della loro dimensione iniziale. Dal punto di vista pratico: la distanza di 1,8 metri (six-feet) è quella in cui le goccioline più grandi arrivano prima di cadere su terreno (droplet transmission), mentre quelle più piccole, una volta evaporate, diventano minuscoli residui di materiale non-volatile capaci di rimanere sospesi nell’aria ed essere infettivi a lungo in ambienti chiusi non ventilati (aerosol/droplet-nuclei).

Nel tempo la comunità scientifica ha approfondito nuovamente la caratterizzazione degli spray respiratori, le distanze raggiunte dalle goccioline salivari e l’efficacia del distanziamento. È assodato che: le goccioline mostrano tempi di evaporazione molto più lunghi rispetto a quanto atteso dal modello del 1934 e che parte delle goccioline più grandi (airborne-droplet) sono trasportate dal getto d’aria emesso durante gli atti respiratori, raggiungendo distanze maggiori di quanto si pensasse.

La ricerca

Dallo studio pubblicato sul «Journal of the Royal Society Interface» emerge che senza mascherina le goccioline infette emesse quando si parla posso raggiungere la distanza di poco più d’un metro mentre starnutendo arrivano fino 7 metri in condizioni di elevata umidità. Tali distanze, stimate dal modello, mostrano un pieno accordo con le più recenti evidenze sperimentali. Dall’applicazione del modello per la stima del rischio di contagio si capisce che non esiste una distanza di sicurezza “universale” in quanto essa dipende dalle condizioni ambientali, dalla carica virale e dal tipo di evento respiratorio. Ad esempio, considerando un colpo di tosse (con media carica virale) si può avere un alto rischio di contagio entro i 2 metri in condizioni di umidità relativa media mentre diventano 3 con alta umidità relativa, sempre senza mascherina.

«La pandemia di COVID-19 ha evidenziato l’importanza di modellare accuratamente la trasmissione virale operata da goccioline salivari emesse da individui infetti durante eventi respiratori come parlare, tossire e starnutire. Le regole del distanziamento interpersonale usualmente utilizzate si basano principalmente sullo studio proposto da Wells nel 1934. Nel nostro lavoro – dice Francesco Picano – abbiamo revisionato tale teoria utilizzando le più recenti conoscenze sugli spray respiratori arrivando a definire un nuovo modello per quantificare il rischio di contagio respiratorio diretto. L’applicazione del modello fornisce una valutazione sistematica degli effetti del distanziamento e delle mascherine sul rischio d’infezione. I risultati indicano che il rischio è fortemente influenzato dalle condizioni ambientali come l’umidità, dalla carica virale e dal tipo di attività respiratoria, suggerendo l’inesistenza di una distanza di sicurezza “universale”. Di contro – sottolinea Picano – indossare le mascherine fornisce un’eccellente protezione, limitando efficacemente la trasmissione di agenti patogeni anche a brevi distanze interpersonali e in ogni condizione ambientale».

Francesco Picano, uno degli autori dello studio relativo a COVID-19, distanziamento e droplet transmission con e senza mascherina

La ricerca, utilizzando i più recenti dati sperimentali sulla riduzione dell’emissione di goccioline ad opera delle mascherine, ha testato il modello per quantificare come i dispositivi di protezione individuale abbattano il rischio di contagio: l’utilizzo della mascherina, chirurgica e ancor di più se FFP2, si dimostra essere un eccellente strumento di protezione abbattendo il rischio di contagio che diventa trascurabile già a brevi distanze (circa 1m), indipendentemente dalle condizioni ambientali o dall’evento respiratorio considerato.

«Sappiamo che il Virus richiede un vettore per essere trasmesso da una persona ad un’altra. Sappiamo anche che il vettore sono le goccioline di saliva emesse mentre respiriamo, parliamo starnutiamo, cantiamo. Le indicazioni mediche che stiamo seguendo sono basate su studi di fluidodinamica del 1940: Noi stiamo chiudendo le scuole, limitando le capienze dei locali, limitando le distanze tra le persone sulla base di studi del 1940. È importante – conclude Alfredo Soldati ordinario di fluidodinamica dell’Università di Udine e direttore dell’Institute of Fluid Mechanics and Heat Transfer della Technische Universität di Vienna – che ingegneri e fisici si cimentino nello studio di questi fenomeni insieme a biologi e virologi per fornire indicazioni precise che consentano di rilassare le norme quando si può e di rinforzarle quando si deve. Dall’inizio della pandemia la comunità internazionale si è messa al lavoro e ha prodotto in soli due anni un bagaglio di conoscenze basate su sofisticati esperimenti e accurate simulazioni sui moderni supercomputer. La gestione di questa pandemia richiede un continuo e razionale impegno da parte delle amministrazioni pubbliche, della comunità medica e di quella scientifica al fine di identificare misure sostenibili e accettabili dalla società. Il mio auspicio è che la comunità sanitaria che identifica le misure di sicurezza accolga volentieri i nostri suggerimenti e il nostro aiuto».

COVID-19, distanziamento e droplet transmission con e senza mascherina

Link alla pubblicazione: https://doi.org/10.1098/rsif.2021.0819

Titolo: “Modelling the direct virus exposure risk associated with respiratory events” – «Journal of the Royal Society Interface» – 2022; Autori: J. Wang, F. Dalla Barba, A. Roccon, G. Sardina, A. Soldati & F. Picano

 

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Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova sullo studio relativo a COVID-19, distanziamento e droplet transmission con e senza mascherina.

Infodemia e pandemia, fenomeni a confronto 
Un team di esperti di Data Science ed epidemiologi computazionali, coordinati da Walter Quattrociocchi, dell’Università Sapienza di Roma, ha pubblicato sulla rivista Cell uno studio volto a individuare differenze e interconnessioni tra il fenomeno pandemico e quello infodemico.

infodemia pandemia social distance
Infodemia e pandemia, fenomeni a confronto. Foto di congerdesign

In che modo affrontare la massiccia diffusione di informazione sulla pandemia in atto? E come misurare il loro effetto sulla gestione del fenomeno pandemico? Queste sono le principali domande a cui tenta di rispondere, in un nuovo studio pubblicato sulla rivista Cell, un team di esperti composto da epidemiologi computazionali, rappresentanti dell’OMS e dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) americani, cinesi e africani, coordinati da Walter Quattrociocchi del Dipartimento di Informatica della Sapienza di Roma. I ricercatori hanno cercato di porre in relazione i due fenomeni, quello pandemico e quello infodemico, portando alla luce le differenze essenziali ma anche le forti interconnessioni tra i due e la possibilità che si influenzino vicendevolmente.

Uno dei primi punti che lo studio sottolinea è la differenza che sussiste tra i due fenomeni: il processo di diffusione del virus, al contrario delle informazioni, non gode della caratteristica dell’opzionalità. È infatti impossibile decidere di accettare, o non accettare, la presenza del virus mentre ogni utente ha la possibilità di accogliere un’informazione piuttosto che un’altra, rigettando quelle che non sono di suo gradimento.

Proprio i diversi bias comportamentali, ovvero pregiudizi sviluppati sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, sono stati l’altro elemento cardine all’interno dello studio. Conoscere le dinamiche che mettiamo in atto quando processiamo informazioni è, infatti, fondamentale per una comunicazione efficace che consenta anche una gestione migliore della pandemia. Il primo comportamento preso in esame è il confirmation bias, ovvero la tendenza a cercare informazioni che confermino le nostre convinzioni e, allo stesso tempo, ignorare quelle che possano in qualche modo contrastarle. Questo tipo di atteggiamento si ripropone, a livello comunitario, anche in un secondo tipo di bias, l’echo chamber: termine con cui si intende la creazione di comunità omofile, gruppi di individui che si associano a partire dalla condivisione di una comune narrativa (verità), che trova così modo di rinforzarsi reciprocamente.

Entrambi i pregiudizi sono caratterizzati quindi dalla polarizzazione, ovvero dalla tendenza spesso determinata dall’atteggiamento dei media nel veicolare le informazioni legate alla pandemia. Occorrerebbe quindi partire da qui per cercare di far fronte al fenomeno infodemico, che, come posto in evidenza dallo studio, ha effetti diretti sulla gestione della pandemia.

“Non bisogna sottovalutare l’impiego e le potenzialità offerte dalla Data Science – commenta Walter Quattorciocchi. “Questa, applicata ai contesti sociali, potrebbe essere utilizzata per cogliere meglio, ed eventualmente anche prevedere, l’evoluzione dell’opinione pubblica e gli effetti della stessa tanto sulla società quanto sulle politiche per la gestione della pandemia”.

 

Riferimenti:

Infodemics: A new challenge for public health – Sylvie C. Briand, Matteo Cinelli. Tim Nguyen, Akhona Tshangela, Lei Zhou, Walter Quattrociocchi – Cell 2021 DOI:https://doi.org/10.1016/j.cell.2021.10.031

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La Sapienza in prima fila nella caccia alle zanzare “invernali”

I ricercatori chiedono l’aiuto dei cittadini per tracciare l’invasione di specie di zanzare invasive provenienti dall’Asia

Lotta alle zanzare: approda in Italia MosquitoAlert, l’app che permette ai cittadini di contribuire con un click 

Trent’anni fa la zanzara tigre asiatica (Aedes albopictus) ha cominciato la sua invasione del mondo arrivando a stabilirsi in tutti i continenti. Ma la storia non è finita lì! Negli ultimi anni si sono moltiplicate le segnalazioni in Europa di altre specie di zanzare invasive di origine asiatica, in particolare quella coreana (Aedes koreicus) e quella giapponese (Aedes japonicus), ancora più adatte della zanzara tigre a vivere in climi e stagioni fredde. Tutte specie molto aggressive, soprattutto a causa della loro attività di puntura durante le ore diurne, ma anche pericolose, perché capaci, se pungono una persona infetta da un virus tropicale come il dengue o il chikungunya, di trasmetterlo dopo pochi giorni ad una persona sana, attraverso una successiva puntura.

Proprio in questi giorni è arrivata la notizia che la zanzara coreana, prima segnalata in Italia solo in Veneto e Friuli Venezia Giulia, nel 2020 era presente anche in Lombardia nelle province di Bergamo e Brescia. È ancora presente in queste regioni? Potrebbe essere presente anche altrove? E come conoscere l’espansione della sua cugina giapponese? La ricerca di queste specie attraverso catture di esemplari adulti, di larve o di uova grazie a specifiche trappole entomologiche può dare una riposta a queste domande, ma non dappertutto in Italia vengono effettuati monitoraggi su vasta scala e l’arrivo di nuove specie invasive, inclusa la più pericolosa di tutte (l’Aedes aegypti), potrebbe passare inosservata.

Per questo motivo i ricercatori del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive dell’Università Sapienza – in collaborazione con colleghi dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, del MUSE di Trento e dell’Ateneo di Bologna – hanno pensato di chiedere il contributo dei cittadini, sviluppando un progetto di scienza partecipata, la cosiddetta “citizen science”. Come partecipare al progetto? È molto semplice: basta scaricare sul proprio telefono cellulare l’app gratuita MosquitoAlert e inviare tramite l’app segnalazioni fotografiche di zanzare o semplicemente segnalazioni di punture. Un team di esperti entomologi identificheranno la specie grazie alle fotografie inviate, informeranno tramite l’app stessa “i cittadini scienziati” della specie segnalata, e utilizzeranno i dati per generare mappe di distribuzione e di stagionalità delle zanzare più comuni, che potranno essere consultate sia dai cittadini, sia da chi si occupa di interventi di controllo anti-zanzara. Attraverso le segnalazioni ottenute sarà anche possibile identificare l’eventuale presenza di nuove specie invasive in nuove aree geografiche, come successo la scorsa estate in Spagna, dove grazie a MosquitoAlert, è stata identificata per la prima volta la presenza della zanzara giapponese. Ricevere segnalazioni in questi mesi autunnali e invernali, sarà particolarmente importante per tracciare la zanzara coreana, che riesce a sopravvivere bene anche a basse temperature.

MosquitoAlert La Sapienza zanzare invernali
La Sapienza in prima fila nella caccia alle zanzare “invernali”

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Svelato il motivo per cui i bambini si ammalano molto meno di Covid-19: una molecola “chiave” che apre le porte al virus è meno attiva

Lo hanno scoperto i ricercatori del CEINGE-Biotecnologie Avanzate di Napoli, studiando i meccanismi di attacco del virus all’interno delle prime vie respiratorie in soggetti di età inferiore o superiore ai 20 anni

Fin dall’inizio della pandemia medici e ricercatori si sono interrogati riguardo i motivi della differente espressività clinica dell’infezione da SARS-CoV-2 in età pediatrica.  I bambini ed i giovani di età inferiore ai 20 anni hanno infatti una suscettibilità a contrarre l’infezione pari a circa la metà rispetto agli adulti e, oltre ad essere molto spesso asintomatici, presentano quadri clinici comunque molto meno severi (e più spesso a carico del tratto gastrointestinale) con una prognosi nettamente migliore ed una letalità decisamente inferiore rispetto agli adulti.

bambini COVID-19
Svelato il motivo per cui i bambini si ammalano molto meno di Covid-19. Foto di Alexandra_Koch

Il gruppo di ricercatori coordinati da Roberto Berni Canani, professore di Pediatria dell’Ateneo Federico II e Principal Investigator del CEINGE-Biotecnologie Avanzate, ha finalmente svelato la causa di queste differenze.

Gli studiosi hanno analizzato i campioni biologici ottenuti dalle alte vie del respiro e dall’intestino (le due principali vie di ingresso del Coronavirus nel nostro organismo) di bambini e adulti sani ed hanno dimostrato che una molecola, denominata Neuropilina 1, nel tessuto epiteliale nasale dei bambini è molto meno espressa.  Si tratta di un recettore in grado di potenziare l’entrata del virus SARS-CoV2 nelle cellule e la diffusione nell’organismo. La Neuropilina1 ha un ruolo cruciale nel consentire l’attacco al recettore ACE-2 con cui la proteina spike del Coronavirus si lega per entrare nelle cellule dell’ospite.

Lo studio, che sarà pubblicato sul prossimo numero della prestigiosa rivista Frontiers in Pediatrics*, è frutto di una collaborazione tra gruppi di ricerca operanti presso il CEINGE-Biotecnologie Avanzate e guidati rispettivamente da Roberto Berni Canani (tra l’altro membro della Task Force per gli studi del Microbioma dell’Università di Napoli Federico II) e Giuseppe Castaldo (professore dell’Università Federico II, Principal Investigator e coordinatore della Diagnostica CEINGE), con i gruppi di ricerca dell’Università degli Studi Federico II, guidati da Elena Cantone e Nicola Gennarelli e dell’Università Vanvitelli, guidati da Caterina Strisciuglio.

«Abbiamo identificato un importante fattore in grado di conferire protezione contro SARS-CoV-2 nei bambini – afferma Roberto Berni Canani – che si aggiunge ad altri fattori immunologici che stiamo studiando. La definizione di questi co-fattori sarà molto utile per la creazione di nuove strategie per la prevenzione ed il trattamento del COVID-19».

 

* Frontiers in Pediatrics 2021 – Age-related differences in the expression of most relevant mediators of SARS-CoV-2 infection in human respiratory and gastrointestinal tract– Roberto Berni Canani, Marika Comegna, Lorella Paparo, Gustavo Bruno, Cristina Bruno, Caterina Strisciuglio, Immacolata Zollo, Antonietta G Gravina, Erasmo Miele, Elena Cantone, Nicola Gennarelli, Rita Nocerino, Laura Carucci, Veronica Giglio, Felice Amato Giuseppe Castaldo.

 

 

Il CEINGE-Biotecnologie avanzate è un centro di ricerca e di diagnostica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II e dell’Ateneo Federico II, che opera nel campo delle malattie onco-ematologiche (prevenzione, diagnosi e terapie dei tumori solidi e non), delle malattie genetiche ereditarie (prenatali e postnatali) e acquisite, delle malattie congenite del metabolismo, delle malattie rare e delle malattie neurodegenerative.

 

Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli

INFEZIONI VIRALI, LO STUDIO CHE RIVELA NUOVE STRADE PER LA TERAPIA

La scoperta dei ricercatori del Laboratorio di Patogenesi delle Infezioni Virali, Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell’Università di Torino

infezioni virali terapia
Infezioni virali, su Nature Communications lo studio che rivela nuove strade per la terapia. Da sinistra, il professor Marco De Andrea e il professor Santo Landolfo

Scoperta una nuova modalità utilizzata dai virus per replicarsi all’interno delle cellule umane. È il risultato di uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Nature Communications. Coordinati dai Professori Santo Landolfo e Marco De Andrea, co-fondatori anche dello spin-off NoToVir, i ricercatori del laboratorio di Patogenesi delle Infezioni ViraliDipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell’Università di Torino, hanno scoperto un nuovo meccanismo associato alla replicazione virale che apre nuove possibilità allo sviluppo di farmaci antivirali.

L’infezione virale

Il citomegalovirus umano (HCMV) è un herpesvirus che infetta una larga percentuale della popolazione umana. Sebbene l’infezione sia spesso innocua nei soggetti sani, può portare a gravi conseguenze in individui con un sistema immunitario deficitario, come i pazienti trapiantati o i malati di AIDS. Inoltre, l’infezione congenita da HCMV è la causa più comune di malformazioni fetali e neonatali nei paesi sviluppati. Più recentemente, HCMV è stato collegato a malattie autoimmuni e degenerative, come l’aterosclerosi, malattie vascolari e l’invecchiamento cerebrale precoce, nonché ad alcuni tipi di tumori.

Una delle strategie escogitate dal virus per favorirne la replicazione consiste nel modificare le proteine cellulari dell’ospite, alterando così la loro localizzazione e la loro attività funzionale. Una di queste modifiche, nota per essere associata a malattie di tipo degenerativo, è la citrullinazione. Sebbene il processo di citrullinazione sia stato descritto, e utilizzato anche a scopo diagnostico, in diverse condizioni infiammatorie, come l’artrite reumatoide, il lupus eritematoso sistemico, il morbo di Alzheimer, la sclerosi multipla, l’aterosclerosi e in diverse forme di cancro, nessuno aveva finora correlato la citrullinazione con le infezioni virali.

La scoperta

I ricercatori impegnati in questo studio hanno dimostrato non solo che il virus può indurre il processo di citrullinazione, ma anche che alcune proteine cellulari a forte attività antivirale sono quelle maggiormente modificate e inibite. Per la prima volta è stato svelato il cosiddetto “citrullinoma” (il complesso di tutte le proteine cellulari citrullinate) associato ad infezione virale. Inoltre, l’utilizzo di molecole che specificamente bloccano le modifiche delle proteine cellulari può drasticamente ridurre il processo infettivo, limitando la disseminazione del virus.

Nuove terapie

Alcune delle problematiche legate all’utilizzo dei farmaci antivirali, in particolare dei farmaci anti-erpetici, sono rappresentate dalla tossicità delle molecole utilizzate e dalla loro capacità di indurre “resistenza” (i farmaci possono diventare inefficaci col tempo). Lo studio in oggetto, frutto della collaborazione con gruppi internazionali ed in parte finanziato dalla comunità europea, evidenzia per la prima volta come anche delle molecole che non colpiscono direttamente il virus possono essere utili per bloccarne la replicazione, aprendo prospettive concrete per la terapia delle sopra citate patologie, ovviando così agli effetti collaterali degli antivirali oggi disponibili. Attualmente, il gruppo di ricercatori è impegnato a valutare l’impatto di questo meccanismo anche nei confronti di altre infezioni virali, inclusa l’infezione da SARS-CoV-2.

«I risultati ottenuti – ha spiegato il Prof. Santo Landolfo – sono molto incoraggianti, e chiariscono un aspetto della replicazione dei virus finora sconosciuto che potrà essere sfruttato per lo sviluppo di nuovi farmaci antivirali. Inoltre, poiché HCMV è stato implicato anche nello sviluppo di altre malattie, comprese quelle autoimmuni, cardiovascolari e alcuni tumori, tutte caratterizzate da un alto grado di citrullinazione delle proteine cellulari, è possibile che la citrullinazione mediata da HCMV costituisca anche un evento chiave nella patogenesi di tali patologie. Attualmente la nostra attività di ricerca è mirata a chiarire proprio questi aspetti, con lo scopo finale di individuare nuove opzioni terapeutiche per pazienti affetti da diverse malattie».

 

Testo e foto dall’Università degli Studi di Torino

Lotta alle zanzare: approda in Italia MosquitoAlert, l’app che permette ai cittadini di contribuire con un click
Un’istantanea dell’insetto consentirà a cittadini ed esperti di conoscere il tipo di zanzara, la sua pericolosità, le aree da disinfestare

MosquitoAlert

Un’app per conoscere i tipi di zanzare che vedremo arrivare, puntuali e numerose, con l’arrivo dei mesi caldi, ma soprattutto per contribuire a combatterne le infestazioni. Il tutto con una semplice fotografia dell’insetto da inviare tramite l’applicazione MosquitoAlert alla Task Force che ha riunito a collaborare a questo progetto esperti dell’Università Sapienza di Roma e dell’Ateneo di Bologna, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie e del MUSE di Trento.

Già utilizzata in Spagna, l’app ha consentito di raccogliere migliaia di fotografie validate in tempo reale da esperti entomologi e utilizzate per tracciare l’invasione da parte di eventuali nuove specie, per identificare le regioni ed aree più infestate e dirigere gli interventi di controllo. Quest’anno MosquitoAlert è disponibile anche in Italia e contemporaneamente in altri 20 paesi grazie al progetto europeo AIM-COST coordinato dalla Prof.ssa Alessandra della Torre dell’Università Sapienza di Roma.

La Task Force di MosquitoAlert Italia si fa promotrice dell’iniziativa nel nostro Paese, senz’altro uno dei più infestati d’Europa, dove le zanzare non rappresentano solo una fonte di fastidio (spesso elevato), ma possono trasmettere virus capaci di provocare serie patologie all’uomo come il virus del West Nile, o quelli tropicali del Chikungunya o del Dengue. “Chiediamo ai cittadini di scaricare gratuitamente sul proprio telefono l’app MosquitoAlert e di ricordarsi, ogni qual volta avvistano o riescono a catturare una zanzara anche dopo averla colpita per autodifesa, di inviarne una fotografia tramite la stessa app” spiega il Dott. Beniamino Caputo, ricercatore della Sapienza e coordinatore di MosquitoAlert Italia “L’app consente anche di mandare semplici segnalazioni di punture o segnalare la presenza di raccolte d’acqua stagnante dove si possono sviluppare le zanzare e fornisce inoltre un indirizzo a cui inviare eventualmente l’intero esemplare. In cambio, gli utenti potranno conoscere la specie che li infastidisce e informarsi sui rischi sanitari connessi e avere accesso ad una mappa delle diverse specie presenti sul proprio territorio”.

MosquitoAlert

È proprio la primavera il periodo della prevenzione, in cui cioè intervenire con trattamenti nelle aree pubbliche e private (giardini, orti, terrazzi), per rimuovere, con prodotti idonei, o rendere inaccessibili alle zanzare tutte quelle piccole o grandi raccolte d’acqua in cui potrebbero deporre le uova e nelle quali si possono sviluppare le larve. Ma come capire dove indirizzare le disinfestazioni per colpire le specie più pericolose?

Quest’anno esiste uno strumento in più che richiede la collaborazione attiva di tutti i cittadini per raccogliere dati sulle diverse specie di zanzare, incluse quelle invasive come la zanzara tigre e altre specie di origine asiatica. MosquitoAlert è un progetto di scienza partecipata (citizen science), come ormai ne esistono diversi che grazie all’aiuto dei cittadini consentono di raccogliere preziosissime informazioni sulla biodiversità, sulle specie invasive, sui rifiuti in plastica, sulla qualità dell’aria e dell’acqua, sull’inquinamento acustico e luminoso. Le zanzare possono colpire meno l’attenzione di un bel fiore o di una farfalla, tuttavia rappresentano non solo motivo di forte fastidio per molti, ma anche un rischio per la salute pubblica a causa dei virus che trasmettono con le loro punture. Ora, sono i ricercatori a chiedere una mano ai cittadini per conoscerle e combatterle meglio.

La Task force di Mosquito Alert Italia offre un supporto tecnico scientifico nella gestione di questa piattaforma contribuendo alla rapida validazione del materiale inviato tramite MosquitoAlert e al riconoscimento delle specie di zanzare rappresentate nelle immagini. “Per questo motivo” afferma il Dott. Francesco Severini, ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità da sempre impegnato nella ricerca e nelle attività che tutelano la salute dei cittadini “la qualità delle foto inviate è di fondamentale importanza per un’accurata e valida identificazione. Inoltre la possibilità di inviare l’esemplare fotografato ai laboratori di riferimento consentirà di identificare anche gli esemplari difficilmente riconoscibili senza un microscopio o perché parzialmente danneggiati.

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L’Università Sapienza è in prima linea nel progetto Mosquito Alert ITALIA che nasce dalla vasta esperienza del gruppo di ricerca di Entomologia Sanitaria del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive e si propone di coinvolgere tutti gli studenti ed il personale dell’Ateneo nell’utilizzo dell’app. L’11 maggio partirà la campagna social #SCATTALAZANZARA con il contributo degli studenti del corso di Laurea Magistrale in Comunicazione Scientifica Biomedica, coordinati dalla Prof.ssa Michaela Liuccio. “L’obiettivo è sensibilizzare studenti e personale della Sapienza a contribuire alla ricerca fornendo fotografie e segnalazioni ai colleghi entomologi e, al tempo stesso, sensibilizzare ai rischi associati alle zanzare e alle misure di prevenzione individuale e pubblica”. Ai più volenterosi si chiede inoltre di conservare eventuali esemplari di zanzare in freezer, utilizzando il codice della foto inviata tramite MosquitoAlert, e di consegnarle presso il punto di raccolta nell’atrio del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive.

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

 

SVOLTA NELLA RISPOSTA IMMUNITARIA A BATTERI, PARASSITI E VIRUS: IDENTIFICATA LA MOLECOLA MIR-210

La ricerca, condotta da un team di scienziati dell’Università di Torino (MBC) e del VIB-KU Leuven, può aprire nuove strade nella gestione delle infezioni

miR-210 macrofagi
Macrofago. Foto Flickr dal NIAID, CC BY 2.0

Venerdì 7 maggio 2021, sulla rivista Science Advances, è stata pubblicata la ricerca Macrophage miR-210 induction and metabolic reprogramming in response to pathogen interaction boost life-threatening inflammation, condotta dal team del Prof. Massimiliano Mazzone (VIB-KU Leuven e Università di Torino) in collaborazione con la Prof.ssa Daniela Taverna (Università di Torino) e il Dr. Federico Virga (Università di Torino e VIB-KU Leuven).

Lo studio ha analizzato i macrofagi, un tipo specifico di globuli bianchi che forma la prima linea di difesa contro gli agenti patogeni. In particolare, il team ha identificato la molecola miR-210 come un regolatore chiave della risposta infiammatoria dei macrofagi a batteri, parassiti e proteine virali. Più nel dettaglio i ricercatori hanno dimostrato che, durante la sepsi e nel corso di diverse infezioni, il miR-210 favorisce uno stato infiammatorio dannoso per l’organismo.

I macrofagi sono tra i principali attori nella lotta contro gli agenti patogeni come batteri, parassiti e virus. Da un lato, l’attivazione dei macrofagi è essenziale per avviare e coordinare la risposta immunitaria per proteggere l’individuo dall’attacco microbico. Dall’altro lato però, possono contribuire ad uno stato infiammatorio esacerbato portando al danneggiamento e alla disfunzione di diversi organi.

Nei laboratori del Prof. Massimiliano Mazzone e della Prof.ssa Daniela Taverna, il Dr. Federico Virga, mettendo a contatto macrofagi sia murini che umani con agenti patogeni, ha studiato il ruolo del miR-210. “L’interazione tra macrofagi e agenti patogeni come batteri, parassiti e la proteina spike della SARS-CoV-2 induce l’espressione del miR-210 nei macrofagi, scatenando una risposta pro infiammatoria”, ha dichiarato il Dr. Virga.

Oltre a queste nuove scoperte, il team ha studiato i monociti, cellule precursori dei macrofagi, isolati da pazienti settici. Questi monociti hanno mostrato livelli più elevati di miR-210 rispetto agli individui sani o ai pazienti con una malattia diversa come il cancro. In una collezione storica di campioni di plasma di pazienti settici, livelli più elevati di miR-210 circolanti sono stati correlati a una ridotta sopravvivenza. Anche se ulteriori studi prospettici sono necessari, questi risultati incoraggiano a indagare il miR-210 come biomarcatore nella sepsi.

Il potenziale traslazionale di questi risultati è stato sottolineato dal Prof. Massimiliano Mazzone“Più di 10 milioni di persone sono morte a causa della sepsi nel 2017. Nonostante l’alta mortalità e morbilità di questa sindrome, l’identificazione e il monitoraggio della sepsi rimangono impegnativi e le opzioni terapeutiche sono limitate. I nostri dati suggeriscono che gli approcci basati sul miR-210 potrebbero aprire nuove strade per una migliore gestione della sepsi”.

La Prof.ssa Daniela Taverna ha aggiunto: “Questo studio sottolinea ulteriormente la rilevanza della ricerca sull’RNA. Infatti, in questo lavoro, siamo riusciti ad evidenziare il ruolo di un piccolo RNA non codificante, il miR-210, nel controllo delle infezioni e il suo possibile collegamento con la clinica. In contemporanea, la pandemia da SARS-CoV-2 ha dimostrato come i vaccini a RNA, sviluppati peraltro molto rapidamente, siano altamente efficaci contro l’infezione. Sicuramente gli sforzi degli ultimi 20 anni, volti a capire meglio il ruolo delle diverse molecole di RNA presenti nelle nostre cellule, ci permetteranno di intervenire in maniera più mirata a livello clinico, in tempi rapidi”.

La ricerca è stata condotta grazie al finanziamento da parte di diversi enti e associazioni. Massimiliano Mazzone è stato supportato da un ERC Consolidator Grant, dal Flanders Research Foundation e dal programma di ricerca e innovazione dell’Unione Europea Horizon 2020. Daniela Taverna è stata sostenuta da AIRCFondazione Cassa di Risparmio Torino e dal Ministero della Salute. Federico Virga ha usufruito di una borsa di dottorato in Medicina Molecolare presso l’Università di Torino.
Testo e foto dall’Università degli Studi di Torino

Virus Herpes simplex per generare farmaci biologici contro il cancro

La scoperta dei ricercatori del CEINGE-Biotecnologie Avanzate di Napoli e del Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche dell’Università Federico II, in collaborazione con la NousCom Srl, si è rivelata efficace in modelli preclinici di tumori della mammella

Herpes Simplex visualizzato con ChimeraX. Victor Padilla-Sanchez, PhD. Immagine Victoramuse, CC BY-SA 4.0

Il virus Herpes simplex si può utilizzare per generare farmaci biologici ad attività oncolitica su carcinomi mammari HER2-negativi, di cui fanno anche parte i cosiddetti tumori della mammella triplo-negativi (TNBC).

È quanto hanno svelato gli studi che da circa 5 anni a questa parte portano avanti i ricercatori del CEINGE-Biotecnologie avanzate di Napoli e del Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche dell’Università Federico II, guidati da Nicola Zambrano, professore di Biologia molecolare, che nei laboratori del Centro di via Gaetano Salvatore lavora alla messa a punto proprio di nuove tecnologie per la selezione e la produzione di farmaci biologici per sperimentazioni precliniche.

Gli studiosi hanno generato, in collaborazione con la NousCom SRL, un virus erpetico capace di infettare selettivamente le cellule cancerose che espongono, sulla loro superficie, la mesotelina, un antigene tumorale frequentemente espresso nei tumori TNBC e nel mesotelioma pleurico.

«Herpes simplex appartiene ad una famiglia di virus con cui l’uomo convive da sempre – sottolinea il prof. Zambrano –, basti pensare alle comuni manifestazioni labiali che interessano tanti di noi, ed è molto ben conosciuto. Contro questo virus esistono anche dei farmaci per controllarne l’infezione. Tali caratteristiche lo hanno reso un modello di elezione per lo sviluppo di farmaci biologici ad attività antitumorale o, più precisamente, oncolitica».

«I vantaggi dei vettori virali da noi generati, validati mediante sperimentazione su cellule e in modelli preclinici – spiega Zambrano – risiedono nel corretto bilanciamento di efficacia nell’attivazione della risposta immunitaria anti-tumorale e della specificità oncolitica verso il tumore, con limitazione degli effetti fuori-bersaglio verso i tessuti normali. I nostri studi prevedono l’utilizzo di questi vettori virali in combinazione con l’immunoterapia dei tumori, che si sta sempre più affermando come il quarto presidio per le cure anticancro, in aggiunta alle terapie più invasive quali la chemioterapia, la radioterapia e la chirurgia».

Questo virus si aggiunge a quelli generati in collaborazione con l’Università di Bologna, per il targeting del cancro alla mammella di tipo HER2 positivo, ampliando di fatto il potenziale “arsenale” terapeutico nei confronti dei tumori mammari e non.

Oltre ad “educare” i virus per renderli efficaci e selettivi, il laboratorio del CEINGE diretto dal prof. Zambrano rappresenta una vera e propria palestra per numerosi studenti di Biotecnologie e dottorandi, che hanno la possibilità a di formarsi, a livello sia teorico che pratico, sull’utilizzo di metodologie e approcci innovativi della ricerca molecolare, in particolar modo per la cura dei tumori.

«Negli ultimi cinque anni abbiamo portato avanti studi per educare Herpes simplex a riconoscere selettivamente cellule tumorali, e a replicare esclusivamente in queste ultime, tralasciando le cellule normali. Il modello iniziale era basato sul riconoscimento di tumori mammari positivi ad HER2 e lo abbiamo migliorato nella selettività verso il tumore. Abbiamo poi generato un nuovo virus in grado di riconoscere anche tumori mammari negativi ad HER2, attraverso un diverso recettore, la mesotelina. Questo recettore potrebbe essere anche sfruttato per l’ingresso del nuovo virus oncolitico in cellule del mesotelioma, un tumore particolarmente aggressivo e con limitate opzioni terapeutiche».

Gli studi pubblicati su riviste scientifiche internazionali *

I risultati degli studi sono stati oggetto di una serie di recentissime pubblicazioni, la più recente nel gennaio 2021, la meno recente a marzo 2020. L’attività di ricerca si è avvalsa del finanziamento SATIN della Regione Campania, sebbene l’analisi di alcuni meccanismi dell’immunità antivirale sia di interesse anche per il chiarimento dei meccanismi patogenetici in capo alla Covid-19 e che, pertanto, riportano anche il contributo della Regione Campania alla Task-Force Covid-19 del CEINGE.

Il gruppo di ricerca guidato da Nicola Zambrano, formato anche da giovani ricercatrici come Guendalina Froechlich (dottoranda SEMM) e Chiara Gentile (dottoranda DMMBM), si è avvalso della collaborazione del dott. Emanuele Sasso della NousCom Srl, di Alfredo Nicosia, professore di Biologia molecolare della Federico II e Principal Investigator CEINGE, e del gruppo di Massimo Mallardo, professore di Biologia cellulare della Federico II.

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International Journal of Molecular Sciences 2021 –Generation of a Novel Mesothelin-Targeted Oncolytic Herpes Virus and Implemented Strategies for Manufacturing

Froechlich G, Gentile C, Infante L, Caiazza C, Pagano P, Scatigna S, Cotugno G, D’Alise AM, Lahm A, Scarselli E, Nicosia A, Mallardo M, Sasso E, and Zambrano N.

Seminars in Immunology 2020 – New viral vectors for infectious diseases and cancer

Sasso E, D’Alise AM, Zambrano N, Scarselli E, Folgori A, Nicosia A.

 

Cancers 2020 – Integrity of the Antiviral STING-mediated DNA Sensing in Tumor Cells Is Required to Sustain the Immunotherapeutic Efficacy of Herpes Simplex Oncolytic Virus

Froechlich G, Caiazza C, Gentile C, D’Alise AM, De Lucia M, Langone F, Leoni G, Cotugno G, Scisciola V, Nicosia A, Scarselli E, Mallardo M, Sasso E, Zambrano N.

 

Molecular Therapy – Oncolytics 2020 – Retargeted and Multi-cytokine-Armed Herpes Virus Is a Potent Cancer Endovaccine for Local and Systemic Anti-tumor Treatment

De Lucia M, Cotugno G, Bignone V, Garzia I, Nocchi L, Langone F, Petrovic B, Sasso E, Pepe S, Froechlich G, Gentile C, Zambrano N, Campadelli-Fiume G, Nicosia A, Scarselli E, D’Alise AM.

 

Scientific Reports 2020 – Replicative conditioning of Herpes simplex type 1 virus by Survivin promoter, combined to ERBB2 retargeting, improves tumour cell-restricted oncolysis

Sasso E, Froechlich G, Cotugno G, D’Alise AM, Gentile C, Bignone V, De Lucia M, Petrovic B, Campadelli-Fiume G, Scarselli E, Nicosia A, Zambrano N.

 

Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli sugli studi circa l’utilizzo di Herpes simplex per generare farmaci biologici contro il cancro.