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HSCHARME: scoperto un nuovo gene chiave per la salute del cuore

Una ricerca condotta da Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Istituto di biologia e patologia molecolari del CNR, ha identificato un gene finora sconosciuto nell’essere umano, che gioca un ruolo cruciale nello sviluppo delle cellule del cuore. La scoperta, pubblicata su Nature Communications, apre nuove prospettive nella diagnosi e nella terapia delle cardiomiopatie.

Identificato per la prima volta nell’essere umano un gene finora sconosciuto, che tuttavia ha un ruolo cruciale nella maturazione dei cardiomiociti, le cellule responsabili della contrazione cardiaca. La scoperta è di un gruppo di ricerca del Dipartimento di biologia e biotecnologie ‘Charles Darwin’ della Sapienza Università di Roma in collaborazione con l’Istituto di biologia e patologia molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IBPM) di Roma. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista Nature Communications.

Lo studio ha rivelato come il malfunzionamento di questo gene, battezzato HSCHARME, sia associato a cardiomiopatie in diverse coorti di pazienti, aprendo nuove prospettive per diagnosi più precise e terapie mirate.

“Questo gene appartiene alla categoria dei cosiddetti RNA non codificanti lunghi (lncRNA), molecole che non danno origine a proteine ma regolano finemente l’attività di altri geni”, afferma la prof.ssa Monica Ballarino della Sapienza Università di Roma. “HSCHARME agisce come un vero e proprio ‘architetto’ del genoma che guida la corretta attività dei geni del cuore. HSCHARME si è rivelato cruciale per guidare lo sviluppo e la maturazione dei cardiomiociti, le cellule muscolari responsabili della contrazione cardiaca. Quando questo gene non funziona correttamente, le cellule non si sviluppano in maniera adeguata, con conseguenze sulla salute dell’intero organo”.

“Lo studio ha mostrato per la prima volta che HSCHARME controlla un processo fondamentale chiamato ‘splicing alternativo’, che consente a singoli geni di produrre proteine diverse per garantire la complessità necessaria al buon funzionamento delle cellule”, continua Pietro Laneve del CNR-IBPM. “Nei pazienti affetti da cardiomiopatia ipertrofica e dilatativa, due patologie gravi e diffuse, la funzione di HSCHARME risulta alterata, con effetti negativi sui geni cardiaci e sul cuore. Questo rende il gene un potenziale bersaglio per nuove diagnosi precoci e terapie personalizzate”.

Il risultato è stato reso possibile grazie a un insieme di tecnologie d’avanguardia, dalla genomica comparativa alla trascrittomica a singola cellula, fino al genome editing e all’uso di cellule staminali pluripotenti indotte, differenziate in cardiomiociti umani. Grazie a questi strumenti i ricercatori hanno ricostruito i partner molecolari del gene e ne hanno studiato la funzione in modelli cellulari e in campioni clinici, individuando la proteina PTBP1 come cofattore fondamentale.

Si tratta di una scoperta che va oltre la ricerca di base: le malattie cardiache colpiscono milioni di persone nel mondo e, nonostante i progressi nella genetica, resta difficile prevederne l’evoluzione. Studi come questo aprono nuove prospettive verso una medicina di precisione in grado di identificare gli individui a maggior rischio e di guidare terapie personalizzate, con l’obiettivo di prevenire eventi drammatici come la morte cardiaca improvvisa.

Allo studio ha collaborato anche l’Istituto italiano di tecnologia (IIT).

Immagine rappresentativa di cardiomiociti umani derivati da cellule staminali pluripotenti
HSCHARME: scoperto un nuovo gene chiave per la salute del cuore, che apre nuove prospettive nella diagnosi e nella terapia delle cardiomiopatie. Immagine rappresentativa di cardiomiociti umani derivati da cellule staminali pluripotenti
 
Riferimenti bibliografici:

Buonaiuto G, Desideri F, Setti A, Palma A, D’Angelo A, Storari G, Santini T, Laneve P, Trisciuoglio D, Ballarino M., LncRNA HSCHARME is altered in human cardiomyopathies and promotes stem cell-derived cardiomyogenesis via splicing regulation, Nat Commun. 2025 Aug 23;16(1):7880. doi: 10.1038/s41467-025-62754-2, PMID: 40849301, Link: https://rdcu.be/eB3Fr

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

 TIP60, la centralina multiproteica che “viaggia” all’interno delle cellule per garantirne la corretta replicazione

La review, pubblicata sulla rivista Epigenetics & Chromatin dai ricercatori della Sapienza, fa il punto sulle conoscenze riguardanti il complesso multiproteico TIP60, in particolare sulle sue funzioni “non canoniche” relative alla mitosi. Lo studio apre nuove prospettive nella comprensione delle malattie legate a difetti della divisione cellulare e nell’individuazione di strategie terapeutiche

Il complesso multiproteico TIP60 è una sorta di “centralina” cellulare che controlla il rimodellamento della cromatina. La cromatina è la sostanza che compone il nucleo delle cellule ed è costituita da DNA avvolto a mo’ di gomitolo attorno alle proteine.
TIP60 svolge un ruolo cruciale per il corretto funzionamento delle cellule, regolando, tra l’altro, l’espressione dei geni e le sue alterazioni possono contribuire all’insorgenza di patologie umane, tra cui il cancro e disturbi dello sviluppo neurologico.

Da anni il Laboratorio di Epigenetics and cell division della Sapienza (Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin), coordinato da Patrizio Dimitri, studia le funzioni “non canoniche” svolte da TIP60.

“In particolare – spiega Dimitri – siamo stati incuriositi dall’osservazione che proteine note per svolgere funzioni cromatiniche si spostassero dal nucleo ai siti dell’apparato mitotico che controlla varie fasi divisione cellulare”.

Tali osservazioni, condotte su diversi organismi dall’uomo a Drosophila melanogaster (il moscerino della frutta), fino alle piante, indicano che questo fenomeno è conservato nel corso dell’evoluzione. Da questa esigenza è nata la recente review, con l’obiettivo di fare il punto sulle conoscenze attuali e stimolare nuove direzioni di ricerca in un campo tanto promettente quanto ancora poco esplorato.

L’articolo, pubblicato sulla rivista Epigenetics & Chromatin, si focalizza in particolare su quello che Dimitri ha chiamato il viaggio mitotico delle proteine rimodellatrici, un fenomeno che rivela le funzioni moonlighting del complesso TIP60, capace di svolgere compiti differenti in compartimenti cellulari distinti, mostrando una sorprendente versatilità.

Si tratta di un fenomeno di grande interesse, perché suggerisce l’esistenza di meccanismi genetico-molecolari ancora da chiarire, che svolgono un ruolo fondamentale nel controllo della divisione cellulare e nella stabilità del genoma. Approfondire questi meccanismi potrebbe aprire nuove prospettive nella comprensione delle malattie legate a difetti nei processi di divisione e regolazione genica. Non a caso, il TIP60 rappresenta un potenziale bersaglio per lo sviluppo di future strategie terapeutiche.

“Lo studio tocca anche aspetti centrali dell’evoluzione biologica – osserva Paolo Dimitri –Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’evoluzione non crea necessariamente geni o proteine del tutto nuovi. Molto più spesso riutilizza e modifica molecole già esistenti, adattandole a nuovi compiti senza far loro perdere del tutto le funzioni originarie”.

Le ricerche sono state condotte grazie a finanziamenti ottenuti dal Ministero dell’Università e della Ricerca (Progetto PRIN 2022: Integrating genetic models to mechanistically dissect cytokinesis failure in neurodevelopmental disorders).

Localizzazione della proteina TIP60 sul midbody in cellule umane in coltura
Localizzazione della proteina TIP60 sul midbody in cellule umane in coltura

La fotografia mostra il risultato di un esperimento di immunofluorescenza condotto da Maria Virginia Santopietro, presso l’Advanced Imaging Core Facility di Trento, utilizzando la Expansion Microscopy, una raffinata tecnica di imaging a super-risoluzione.  La freccia indica la presenza sul midbody della proteina TIP60 (che dà il nome al complesso). Il midbody è l’organello che definisce l’evento finale della divisione cellulare (final cut), che dà luogo alla formazione di due cellule figlie (il segnale di TIP60 è in arancione, mentre i fasci di microtubuli del fuso mitotico sono in verde).

 

Riferimenti bibliografici:

Santopietro, M.V., Ferreri, D., Prozzillo, Y. et al., The multitalented TIP60 chromatin remodeling complex: wearing many hats in epigenetic regulation, cell division and diseases, Epigenetics & Chromatin 18, 40 (2025), DOI: https://doi.org/10.1186/s13072-025-00603-8

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Da Pantelleria a Marte: in un lago siciliano si sperimenta l’origine della vita

Nell’isola siciliana, un team di ricercatori italiani ha identificato un ambiente naturale con analogie geologiche con Marte e che potrebbe simulare anche le condizioni della Terra primordiale. Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences, è frutto della collaborazione tra Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e le Università della Tuscia e Sapienza di Roma, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI).
In una lettera del 1871 al suo amico Joseph Dalton Hooker, Charles Darwin ipotizzava che la vita potesse essere nata in ‘un piccolo stagno caldo’. Oggi, a oltre 150 anni di distanza, quell’ipotesi trova maggiori conferme grazie allo studio che un team interdisciplinare di scienziati italiani ha effettuato sull’isola di Pantelleria, in particolare presso il piccolo lago termale chiamato ‘Bagno dell’Acqua’: Questo luogo si è rivelato un laboratorio naturale ideale per simulare ambienti simili a quelli che potrebbero essere esistiti miliardi di anni fa sia sulla Terra che su Marte, offrendo preziosi indizi sui meccanismi universali dell’origine della vita.
Immagine satellitare con esperimenti
Immagine satellitare con esperimenti

La ricerca, pubblicata sull’International Journal of Molecular Sciences, è stata condotta da ricercatori e ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), dell’Università della Tuscia, dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF), dell’Università Sapienza di Roma, con la collaborazione dell’Ente Parco nazionale Isola di Pantelleria e finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI)  con i progetti ‘ExoMars’ e ‘Migliora’.

“Il lago ‘Bagno dell’Acqua’ si distingue per la combinazione unica di alta alcalinità, attività idrotermale, diversità mineralogica e attività microbica. Utilizzando l’acqua del lago, ricca di minerali, siamo riusciti a sintetizzare molecole di RNA (una delle due molecole, assieme al DNA, fondamentali per la vita) a partire da alcuni suoi precursori: i nucleotidi contenenti la guanina, una delle quattro famose basi azotate”,
spiega Giovanna Costanzo, biologa molecolare dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del CNR (CNR-IBPM).
“A Pantelleria, in un’ambiente esterno al laboratorio, dove solitamente si svolgono le nostre attività, abbiamo verificato la possibilità di condurre esperimenti di astrobiologia, sfruttando le proprietà chimiche e fisiche di un lago con caratteristiche simili sia a quelle ipotizzate per la Terra primitiva, ovvero il nostro pianeta circa 4,5 miliardi di anni fa, che a quelle rilevate in aree marziane di grande interesse astrobiologico, come il cratere Jezero e la regione di Oxia Planum, attualmente considerati prioritari per la ricerca di antiche forme di vita”.
I ricercatori sono riusciti a sintetizzare non solo l’RNA, ma anche tutte le basi azotate presenti sia nel DNA che nell’RNA.
“Inoltre, sono stati ottenuti anche componenti del PNA (Acido Peptidico Nucleico), un potenziale precursore degli attuali acidi nucleici, che potrebbe aver rappresentato un ponte tra genetica e metabolismo” spiega il chimico organico Raffaele Saladino dell’Università della Tuscia di Viterbo. “La vita, pertanto, avrebbe potuto avere una modalità di origine chimica comune sia nel lontano passato di Marte che sulla Terra primitiva”.
Il progetto Migliora (‘Modeling Chemical Complexity: all’Origine di questa e di altre Vite per una visione aggiornata delle missioni spaziali’) si inserisce all’interno di un programma nazionale di astrobiologia che Asi sta coordinando già dal 2020.
“I risultati di questo progetto costituiscono un tassello fondamentale nella conoscenza dell’origine della vita sulla Terra” sottolinea Claudia Pacelli, Responsabile Scientifico del progetto per Asi. “Riteniamo che queste ricerche contribuiranno inoltre a rafforzare il ruolo della comunità scientifica italiana nel contesto della ricerca astrobiologica internazionale”.
microbialite Pantelleria
microbialite Pantelleria
Riferimenti bibliografici:
Valentina Ubertini, Eleonora Mancin, Enrico Bruschini, Marco Ferrari, Agnese Piacentini, Stefano Fazi, Cristina Mazzoni, Bruno Mattia Bizzarri, Raffaele Saladino, Giovanna Costanzo, “The “Bagno dell’Acqua” Lake as a Novel Mars-like Analogue: Prebiotic Syntheses of PNA and RNA Building Blocks and Oligomers”, International Journal of Molecular Sciences, 2025, 26, 6952. https://doi.org/10.3390/ijms26146952
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Malattie respiratorie e rischio infettivo: un nuovo studio evidenzia l’impatto del metapneumovirus umano sugli anziani italiani

I ricercatori della Sapienza sono tra gli autori di uno studio condotto su tutto il territorio nazionale. Pubblicata sulla rivista “The Journal of Infectious Diseases”, la ricerca offre un utile supporto per lo sviluppo di una futura campagna vaccinale.

Il metapneumovirus umano (hMPV) è un agente respiratorio che rappresenta una delle cause frequenti di malattie delle vie aeree con un grado di severità molto ampio e che colpisce tutte le fasce d’età, ma soprattutto i bambini piccoli e gli anziani.

Un ampio studio multicentrico condotto da Sapienza Università di Roma, dall’Università di Milano e quella di Pavia ha raccolto e analizzato i dati ottenuti tra il 2022 e il 2024 da diciassette centri distribuiti su tutto il territorio nazionale, evidenziando la diffusione del virus e il suo impatto nei soggetti più anziani. La ricerca, finanziata dai fondi del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR) nell’ambito delle iniziative sulle infezioni emergenti, è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista “The Journal of Infectious Diseases” in un numero interamente dedicato all’hMPV.

“Lo studio – spiega Guido Antonelli del Dipartimento di Medicina Molecolare della Sapienza, co-autore dello studio e responsabile della UOC “Microbiologia e Virologia” del Policlinico Umberto I di Roma – ha analizzato quasi 100.000 campioni respiratori provenienti da pazienti di tutte le età, ambulatoriali e ospedalizzati, rilevando un tasso di positività all’hMPV del 3,4%. Nella fascia di età superiore ai 50 anni, la positività si attestava al 2,6%, con un terzo dei casi riscontrati in soggetti con più di 80 anni”.

I risultati emersi hanno evidenziato due picchi stagionali del virus – a febbraio 2023 e ad aprile 2024 – che, seppur con alcune variazioni geografiche, hanno un’incidenza sovrapponibile tra la popolazione generale e quella anziana. In alcune aree del Nord-Ovest l’hMPV è stato riscontrato più frequentemente nei pazienti ambulatoriali piuttosto che nei ricoverati.

L’analisi genetica dei ceppi virali ha rilevato una distribuzione equilibrata tra i due principali sottotipi del virus (hMPV-A e hMPV-B), con la predominanza di varianti emergenti e la scomparsa di alcuni ceppi precedentemente circolanti.

“I risultati emersi indicano chiaramente che l’hMPV è un patogeno respiratorio rilevante soprattutto degli adulti più anziani – continua Alessandra Pierangeli, docente di Virologia e co-autrice dello studio – Ciò evidenza l’importanza dello sviluppo di strategia preventive mirate, inclusi eventuali strumenti vaccinali, per proteggere le fasce più vulnerabili della popolazione”.

La ricerca rappresenta il primo rapporto di tale ampiezza in Italia e un passo fondamentale per migliorare la comprensione dell’epidemiologia dell’hMPV, fornendo un’utile fonte di riferimento per valutare il rapporto costo-beneficio in vista di una futura campagna vaccinale e proponendosi come supporto per le autorità nello sviluppo di interventi mirati di sanità pubblica.

Riferimenti bibliografici:

Mancon, L. Pellegrinelli, G. Romano, E. Vian, V. Biscaro, G. Piccirilli, T. Lazzarotto, S. Uceda Renteria, A. Callegaro, E. Pagani, E. Masi, G. Ferrari, C. Galli, F. Centrone, M. Chironna, C. Tiberio, E. Falco, V. Micheli, F. Novazzi, N. Mancini, T.G. Allice, F. Cerutti, E. Pomari, C. Castilletti, E. Lalle, F. Maggi, M. Fracella, P. Ravanini, G. Faolotto, R. Schiavo, G. Lo Cascio, C. Acciarri, S. Menzo, F. Baldanti, G. Antonelli, A. Pierangeli, E. Pariani, A. Piralla, AMCLI-GLIViRe Working Group, on behalf, Multicenter Cross-sectional Study on the Epidemiology of Human Metapneumovirus in Italy, 2022–2024, With a Focus on Adults Over 50 Years of Age, The Journal of Infectious Diseases, Volume 232, Issue Supplement_1, 15 July 2025, Pages S109–S120, DOI: https://doi.org/10.1093/infdis/jiaf111

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Combattere le metastasi del tumore al colon-retto: dimostrato il ruolo dell’alleanza tra macrofagi e le cellule “natural killer”

In uno studio condotto alla Sapienza Università di Roma, un gruppo di ricercatori ha dimostrato il ruolo chiave dell’alleanza tra macrofagi e cellule “natural killer” per contrastare la crescita delle metastasi. I risultati, pubblicati sul “Journal of Clinical Investigation” aprono la strada a nuove terapie per il tumore al colon-retto

Il cancro del colon-retto (CRC) è la seconda causa di morte per tumore al mondo. Nonostante sia divenuto molto più curabile negli ultimi anni, le terapie non sono ancora efficaci in tutti i pazienti. L’ancora elevato tasso di mortalità per questo tipo di tumore è dovuto soprattutto alla capacità di diffondersi in altre parti del corpo, facendo insorgere metastasi in una rilevante frazione di pazienti.

In questo contesto, le cellule “natural killer” (NK) sono un tipo di globuli bianchi appartenenti al sistema immunitario innato, che possono aiutare a contrastare la diffusione del tumore. Il loro nome deriva proprio dalla capacità di riconoscere e distruggere spontaneamente le cellule tumorali e inibire la formazione di metastasi. Nonostante ciò, rimane ancora poco chiaro il comportamento delle cellule “natural killer” a metastasi già formate, in particolare nel fegato.

In una ricerca sostenuta dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, l’immunologo Giovanni Bernardini e colleghi hanno studiato il ruolo specifico delle cellule NK nell’ambiente metastatico, per comprendere come proteggerne e preservarne meglio le capacità anti-tumorali. Coordinata dal Dipartimento di Medicina Molecolare della “Sapienza”, la ricerca è avvenuta in collaborazione con diversi gruppi nazionali e internazionali. I risultati, pubblicati sul Journal of Clinical Investigation, hanno mostrato un meccanismo naturale di difesa che può aiutare a rallentare la crescita delle metastasi epatiche.

In particolare il gruppo guidato da Bernardini, professore di Immunologia presso “Sapienza”, ha dimostrato che non tutte le metastasi al fegato sono uguali. Alcuni tipi formano dei microambienti in cui l’attività delle cellule NK è potenziata, grazie alla presenza di molecole in grado di promuovere la persistenza di queste cellule e la loro capacità di attaccare il tumore.

Nello studio i ricercatori hanno analizzato metastasi epatiche ottenute sia da topi sia da biopsie di pazienti, trovando in entrambi i casi che un tipo specifico di macrofagi, i cosiddetti “spazzini” del sistema immunitario, è in grado di insegnare alle cellule “natural killer” come attivarsi correttamente e attaccare le cellule tumorali.

“Per fare ciò – spiega Giovanni Bernardini – i macrofagi producono due chemochine. Si tratta di particolari proteine, chiamate CXCL9 e CXCL10, che, come dei messaggeri chimici, attirano le cellule NK all’interno delle metastasi e creano un ambiente che permette a queste cellule di attivarsi”.

Alcuni risultati raccolti evidenziano la notevole importanza delle chemochine CXCL9 e CXCL10. In particolare, in topi con un deficit del recettore CXCR3, che permette di “sentire” gli effetti di queste due proteine, si osserva una inibizione delle cellule “natural killer” e la successiva accelerazione della crescita delle metastasi.

Come CXCR3 rende possibile l’attivazione delle proteine e delle cellule NK nelle metastasi
Combattere le metastasi del tumore al colon-retto: dimostrato il ruolo dell’alleanza tra macrofagi e le cellule “natural killer”. Nell’immagine, come CXCR3 rende possibile l’attivazione delle proteine e delle cellule NK nelle metastasi

Nel complesso i dati pubblicati dimostrano che una corretta cooperazione tra macrofagi e cellule “natural killer” è fondamentale per attivare una risposta immunitaria in grado di limitare la diffusione del tumore del colon-retto, aprendo nuove prospettive terapeutiche basate sul potenziamento di questo network.

Riferimenti bibliografici:

Russo, C. D’Aquino, C. Di Censo, M. Laffranchi, L. Tomaipitinca, V. Licursi, S. Garofalo, J. Promeuschel, G. Peruzzi, F. Sozio, A. Kaffke, C. Garlanda, U. Panzer, C. Limatola, C.A.J. Vosshenrich, S. Sozzani, G. Sciumè, A. Santoni, G. Bernardini, Cxcr3 promotes protection from colorectal cancer liver metastasis by driving NK cell infiltration and plasticity, Journal of Clinical Investigation, 2025;135(11):e184036, DOI: https://doi.org/10.1172/JCI184036

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Proteine da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa rivoluzionano gli studi evoluzionistici

Una ricerca internazionale pubblicata su Nature ha recuperato sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte segnando una svolta nella ricostruzione dell’evoluzione delle specie estinte

Uno studio innovativo che sarà pubblicato in “Nature” annuncia il recupero di sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa, spingendo indietro di milioni di anni i confini della ricerca sulle proteine antiche. Questo risultato senza precedenti apre una nuova frontiera per la paleoproteomica, promettendo di svelare segreti dell’evoluzione risalenti a tempi remoti, ben oltre la portata del DNA antico.

Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature” il 9 luglio 2025, descrive l’estrazione e il sequenziamento di antiche proteine dello smalto da un dente di rinoceronte fossilizzato risalente a 21-24 milioni di anni fa, risalente al Miocene inferiore.

Questa straordinaria impresa, ottenuta a partire da un fossile rinvenuto nell’Alto Artico canadese, estende di ben dieci volte la scala temporale delle sequenze proteiche recuperabili e informative sull’evoluzione rispetto al più antico DNA conosciuto.

Questa ricerca segna un momento cruciale per la paleoproteomica, lo studio delle proteine antiche. Sebbene proteine antiche siano state trovate in fossili del Miocene medio-superiore (circa gli ultimi 10 milioni di anni), l’ottenimento di sequenze sufficientemente dettagliate per ricostruzioni robuste delle relazioni evolutive era precedentemente limitato a campioni non più vecchi di 4 milioni di anni. Questo nuovo studio amplia significativamente tale finestra temporale, dimostrando lo straordinario potenziale delle proteine di persistere su vaste scale temporali geologiche nelle giuste condizioni.

Lo studio, coordinato dal Globe Institute dell’Università di Copenaghen, ha ricostruito sequenze proteiche dallo smalto dentale di un rinoceronte vissuto nell’attuale Artico canadese durante il Miocene inferiore. Grazie alla stabilità dello smalto e alle condizioni ambientali estreme del cratere di Haughton — freddo costante e permafrost — le proteine sono risultate sorprendentemente ben conservate. Queste sequenze proteiche antiche hanno permesso di collocare con precisione evolutiva il rinoceronte all’interno del suo albero genealogico, e suggeriscono che la divergenza tra le sottofamiglie Elasmotheriinae e Rhinocerotinae sia avvenuta durante l’Oligocene (34–22 milioni di anni fa), più recentemente di quanto ipotizzato in precedenza.

Il progetto è stato guidato dal Dott. Ryan Sinclair Paterson e diretto dal Prof. Enrico Cappellini dell’Università di Copenaghen. All’interno di questo progetto, l’apporto del Dott. Gabriele Scorrano (Università di Tor Vergata), del Prof. Raffaele Sardella (Dipartimento di Scienze della Terra, Sapienza Università di Roma) e del Dott. Luca Bellucci (Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze) è stato fondamentale: hanno fornito e analizzato un esemplare di dente di rinoceronte di circa 400.000 anni fa, proveniente dal sito archeo-paleontologico di Fontana Ranuccio (Lazio, provincia di Frosinone).

La ricerca vede coinvolte anche due ricercatrici dell’Università di Torino: Meaghan Mackie, dottoranda del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi di UniTo e dell’University College Dublin, e la sua supervisor, la Prof.ssa Beatrice Demarchi, docente ordinaria presso l’Ateneo torinese ed esperta di biomolecole antiche.

 

In questo sito, insieme a una ricca fauna, sono stati rinvenuti alcuni tra i più antichi reperti del genere Homo in Italia. Il reperto ha funzionato da riferimento intermedio tra i campioni più recenti (esemplari medievali) e quello molto più antico analizzato in questo studio, offrendo un confronto diretto sulla conservazione proteica nel tempo.

Il contributo del team dell’Università di Torino è stato cruciale per la validazione dei dati e l’interpretazione dei processi di diagenesi proteica. “Abbiamo calcolato – spiega la Prof.ssa Beatrice Demarchi – che la bassa temperatura ha reso l’età termica del campione equivalente a quella di un reperto dieci volte più giovane in un luogo con temperatura media di 10°C, il che significa che le proteine erano significativamente meno danneggiate rispetto a quelle che si trovano in luoghi della stessa età geologica ma con clima più caldo”.

“È stato sorprendente”, commenta Meaghan Mackie. Il primo campione che ho analizzato pensavo non contenesse nulla, perché troppo antico! Sono rimasta a fissare lo schermo del computer per un minuto”. Questo risultato apre nuove prospettive per la ricerca evolutiva e la paleoproteomica perché permette di ricostruire la storia evolutiva di specie estinte da milioni di anni, ben oltre i limiti del DNA e, in prospettiva, potrebbe riaccendere le speranze per lo studio della biologia di specie dell’era Mesozoica. Indagini future su fossili della Formazione di Haughton e di altri contesti simili potrebbero far emergere ulteriori tracce di questa straordinaria conservazione biomolecolare.

“Si profila una nuova fase per la biologia evolutiva – aggiunge la Prof.ssa Demarchi – in cui le proteine antiche diventano preziosi testimoni della storia più remota della vita sulla Terra. Per l’Università di Torino, questo risultato conferma il ruolo di primo piano nell’ambito della paleobiologia molecolare internazionale”.

Vista del Cratere di Haughton sull'isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del "deserto polare" hanno contribuito a preservare l'antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman
Vista del Cratere di Haughton sull’isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del “deserto polare” hanno contribuito a preservare l’antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman

Riferimenti bibliografici:

Paterson, R. S., Mackie, M., Capobianco, A., Heckeberg, N. S., Fraser, D., Demarchi, B., Munir, F., Patramanis, I., Ramos-Madrigal, J., Liu, S., Ramsøe, A. D., Dickinson, M. R., Baldreki, C., Gilbert, M., Sardella, R., Bellucci, L., Scorrano, G., Leonardi, M., Manica, A., Racimo, F., Willerslev, E., Penkman, K. E. H., Olsen, J. V., MacPhee, R. D. E., Rybczynski, N., Höhna, S., Cappellini, E., Phylogenetically informative proteins from an Early Miocene rhinocerotid. Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09231-4

 

Testi dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dalla Sezione Comunicazione Digitale e Media Relations, Area Comunicazione dell’Università di Torino

Il “codice a barre” dei cromosomi: una nuova chiave per leggere il genoma umano; dal motivo centromerico alla mappa di centenia

I risultati di una ricerca della Sapienza Università di Roma hanno svelato la struttura organizzata dei centromeri, le regioni centrali dei cromosomi finora ritenute indecifrabili. Pubblicati sulla rivista “Science”, i dati offrono nuovi strumenti per lo studio dei tumori e delle malattie genetiche.

Ogni essere vivente cresce e si riproduce attraverso numerose divisioni delle proprie cellule. Affinché tale processo avvenga correttamente e senza complicazioni, è necessario che prima la cellula copi e organizzi precisamente le istruzioni genetiche che si trovano nel DNA.

Nella trasmissione delle informazioni ha un ruolo importante il centromero, ovvero la parte centrale di ogni cromosoma, costituito da due cromatidi che proprio lì si restringono. Il centromero, conosciuto anche come costrizione primaria, è costituito da DNA altamente ripetuto, cioè da sequenze di nucleotidi che si ripetono una di seguito all’altra molte volte.

In uno studio diretto da Simona Giunta, del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, il suo gruppo ha analizzato questa regione specifica del cromosoma, che da tempo si credeva costituita da un agglomerato oscuro di DNA. I ricercatori hanno scoperto che in realtà ogni centromero è portatore di un’organizzazione specifica per ogni cromosoma. I risultati, pubblicati sulla rivista “Science”, hanno permesso di indicizzare queste sequenze complesse, aprendo la strada a un confronto preciso tra individui e insorgenza di patologie specifiche.

“Utilizzando nuove tecnologie di sequenziamento e algoritmi computazionali – spiega Simona Giunta, docente presso la Sapienza e direttrice del laboratorio Giunta Lab – siamo riusciti non solo a leggere queste sequenze per la prima volta, ma abbiamo anche scoperto che ogni cromosoma possiede un proprio schema unico, come una sorta di codice a barre, che si dimostra coerente anche osservandolo in persone diverse”.

In particolare, i ricercatori hanno scoperto che il motivo centromerico – una sequenza di DNA originariamente considerata confinata al centromero – si trova anche al di fuori di esso, distribuito in modo conservato e organizzato lungo i bracci dei cromosomi. Come la sintenia che usa la posizione dei geni lungo il cromosoma, la specifica organizzazione di questo motivo, definito “centenia” dai ricercatori, permette di generare codici a barre specifici per ogni cromosoma.

La mappa di centenia umana fornisce uno strumento fondamentale per studiare e confrontare la struttura genomica ad alta risoluzione, comprese di quelle regioni – come i centromeri e altri elementi ripetitivi – che finora erano rimaste in gran parte escluse dalle analisi genomiche classiche.

“Proprio come si può scansionare un codice a barre per ottenere informazioni su un prodotto – specifica Luca Corda, primo autore dell’articolo e dottorando in Genetica e Biologia Molecolare alla Sapienza – sarà in futuro possibile scansionare i codici dei centromeri per conoscerne l’evoluzione e comprenderne il comportamento in patologie specifiche”.

Lo studio si inserisce in un progetto più ampio, sostenuto dalla Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro e, più recentemente, dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC), volto a indagare il ruolo dei centromeri nel cancro e nelle malattie genetiche. La ricerca nel campo della genetica sta subendo un cambiamento di paradigma: non ci si interessa più solo dei geni, ma anche delle regioni complesse e ripetitive del genoma – come i centromeri – rimasti finora ai margini.

“Queste regioni stanno diventando finalmente esplorabili, con strumenti nuovi e portando nuove domande che saranno al centro della ricerca del futuro”, afferma Simona Giunta. Comprendere i centromeri rappresenta una nuova frontiera per rivelare aspetti ancora inesplorati del nostro patrimonio genetico.

Riferimenti bibliografici:

Luca Corda, Simona Giunta, Chromosome-specific centromeric patterns define the centeny map of the human genome, Science 389, ads3484 (2025), DOI:10.1126/science.ads3484

microscopio Progeria trattamento leucemia acuta linfoblastica Philadelphia-positiva
Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Telescopio Einstein: inaugurato a Roma il Laboratorio Et-3g Lab

È stato inaugurato ieri, 18 giugno 2025, presso la facoltà di ingegneria della Sapienza Università di Roma, il laboratorio ET-3G Lab, dedicato allo sviluppo di ricerche avanzate nei settori della geomatica, geotecnica e idrogeologia per la progettazione del futuro osservatorio di onde gravitazionali, il telescopio Einstein (Einstein Telescope – ET).
La realizzazione del laboratorio è tra gli obiettivi del progetto ETIC, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) nell’ambito della Missione 4 del PNRR, di cui l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è capofila. In particolare, ETIC sostiene la candidatura italiana a ospitare ET in Sardegna, nell’area dell’ex miniera di Sos Enattos, nel Nuorese, attraverso la caratterizzazione del sito candidato e la creazione di una rete di laboratori di ricerca all’avanguardia in tutta Italia.

L’evento inaugurale è stato aperto dai saluti istituzionali della prorettrice alla Ricerca della Sapienza, Maria Sabrina Sarto, del preside della facoltà di Ingegneria civile e industriale, Carlo Massimo Casciola, del direttore del dipartimento di Ingegneria civile, edile e ambientale (DICEA), Francesco Napolitano, e dell’infrastructure manager del progetto ETIC, Monique Bossi (INFN).
A seguire, il responsabile della collaborazione internazionale telescopio Einstein, Michele Punturo (INFN), ha presentato il progetto ET, mentre Maria Marsella (Sapienza), Maria Laura Rossi (Sapienza) e Wissam Wahbeh (Università delle Scienze Applicate e Arti della Svizzera nordoccidentale, University of Applied Sciences and Arts Northwestern Switzerland) hanno illustrato gli obiettivi del laboratorio e le ricerche in corso. Dopo la visita al laboratorio e il tradizionale taglio del nastro, la serata si è conclusa con lo spettacolo “Le mappe del cosmo – Storie che hanno cambiato l’universo”, a cura dell’Osservatorio gravitazionale europeo (EGO), in collaborazione con l’INFN.

“L’inaugurazione di questo e degli altri laboratori ETIC, in corso in questo periodo, rappresenta un’occasione importante per celebrare il lavoro fatto nel corso del progetto, premiando l’impegno delle tante persone coinvolte e valorizzando la sinergia tra l’INFN, le università italiane e i centri di ricerca che fanno parte di ETIC”, sottolinea Monique Bossi, infrastructure manager del progetto.

“In particolare, il lavoro del laboratorio ET-3G Lab, coordinato dal gruppo di ricerca del dipartimento DICEA della Sapienza, è molto prezioso nel contesto di uno degli obiettivi principali del progetto ETIC, ossia lo studio di pre-fattibilità del sito candidato di Sos Enattos”.

“ET-3G Lab”, al quale partecipa anche il dipartimento DICEA della Sapienza Università di Roma, con il coordinamento dell’INFN, si concentra su studi avanzati multidisciplinari per la futura infrastruttura di ricerca Einstein Telescope. L’Italia ha individuato la Sardegna come luogo ideale per Einstein Telescope, candidandola per ospitare questa innovativa infrastruttura scientifica, fatto che le consentirebbe di posizionarsi al centro della ricerca internazionale in questo campo”,

sottolinea Maria Marsella, docente ordinaria di geomatica al DICEA, responsabile del laboratorio ET-3G Lab e fortemente coinvolta nel progetto telescopio Einstein, sia a livello nazionale sia internazionale.

“Il laboratorio, che dispone di 24 postazioni e si estende su una superficie di 180 metri quadrati, è concepito per favorire collaborazioni interdisciplinari. Mira a stimolare sinergie tra diverse aree dell’ingegneria civile, ambientale e industriale, promuovendo la ricerca scientifica e lo sviluppo di soluzioni innovative. Tra le sue attività principali figurano la modellazione 3D per la simulazione di infrastrutture e ambienti e l’elaborazione di approcci progettuali innovativi e multidisciplinari, con l’obiettivo di affrontare le sfide più complesse della progettazione moderna”.

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un bioreattore per ricostruire in laboratorio gli ambienti tumorali, e giungere a cure su misura e più efficaci

Il bioreattore sviluppato da Sapienza permette di ricreare in laboratorio tumori con vascolatura funzionale e le interazioni con il sistema immunitario. Pubblicata sulla rivista “Biomaterials”, la ricerca integra differenti discipline scientifiche, aprendo la strada a terapie personalizzate.

I modelli più tradizionali per la comprensione delle dinamiche tumorali, come le colture bidimensionali su piastra, spesso non riescono a rappresentare in modo accurato l’insorgere della malattia e la complessità del microambiente umano. Il rischio è che le terapie sviluppate da questi modelli, una volta applicate all’uomo, producano risultati inattesi e siano meno efficaci.

Uno studio internazionale, pubblicato sulla rivista “Biomaterials” e condotto dal Dipartimento di Scienze e Biotecnologie Medico-Chirurgiche della Sapienza, ha sviluppato un nuovo strumento in grado di ricreare in laboratorio tumori vascolarizzati complessi, fondamentali per comprendere l’insorgenza e la progressione di tumori correlati al sistema vascolare, ai parametri biomeccanici e alle risposte del sistema immunitario.

Il dispositivo si chiama “small Vessel Environment Bioreactor” (sVEB) e riproduce in miniatura i vasi sanguigni e il loro microambiente tumorale, offrendo un modello molto più realistico rispetto ai tradizionali sistemi in vitro e agli “organi su chip”, rappresentando un’importante innovazione nel campo della medicina di precisione.

Utilizzando cellule derivate dai pazienti e integrando differenti tecnologie di bio-fabbricazione, come la stampa 3D, la millifluidica, la tecnologia dei materiali e il magnetismo, sVEB consente di studiare le caratteristiche specifiche di ciascun individuo, aprendo la strada a terapie personalizzate.

“Il bioreattore – spiega Roberto Rizzi, coordinatore dello studio e professore di Bioingegneria tissutale alla Sapienza – permette di osservare come un tumore interagisce con i vasi sanguigni e come risponde all’arrivo delle cellule immunitarie, il tutto in condizioni dinamiche e controllate, simili a quelle presenti nel corpo umano”.

Una delle innovazioni più affascinanti introdotte da sVEB è l’uso di cellule del sistema immunitario “guidate” da minuscole particelle magnetiche. Queste particelle, soggette ad un campo magnetico, permettono di dirigere in modo preciso le cellule immunitarie verso il tumore, così da colpirlo in modo più accurato ed efficace. Ciò potrebbe aiutare a trasformare tumori poco sensibili all’immunoterapia, chiamati “freddi”, in tumori “caldi”, più reattivi ai cambiamenti.

Il dispositivo è stato sviluppato per lo studio del tumore al seno, ma offre un’ampia gamma di applicazioni anche per diverse patologie specifiche degli organi. Grazie infatti alla sua struttura modulare e alla capacità di replicare sistemi fisiologici vascolarizzati complessi e i loro parametri biomeccanici, lo sVEB può essere adattato per modellare anche i vasi all’interno del cuore, del cervello e degli altri organi.

“Questa versatilità consente di analizzare le interazioni tra cellule specifiche e il loro microambiente in condizioni controllate, facilitando la comprensione dei meccanismi di progressione patologica – continua Francesca Megiorni, autrice dello studio e professoressa del Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza – La possibilità di integrare cellule derivate da pazienti specifici rende sVEB uno strumento promettente per la medicina personalizzata, permettendo di sviluppare trattamenti basati sulle caratteristiche individuali del paziente”.

Sebbene l’applicazione sia ancora in fase iniziale, il bioreattore sVEB ha dimostrato di essere un sistema stabile e riproducibile nel tempo, caratteristiche fondamentali per un utilizzo affidabile nella ricerca, e rappresenta un grande passo avanti verso la possibilità di simulare e studiare malattie complesse come il cancro in modo più realistico e sicuro.

 

Riferimenti bibliografici:

Fabio Maiullari, Maria Grazia Ceraolo, Dario Presutti, Nicole Fratini, Matteo Galbiati, Alessandra Fasciani, Konrad Giżyński, Salma Bousselmi, Francesca Megiorni, Cinzia Marchese, Piotr Kasprzycki, Karol Karnowski, Alessandro Talone, Gaspare Varvaro, Davide Peddis, Marco Costantini, Claudia Bearzi, Roberto Rizzi, Modeling breast cancer dynamics through modulable small Vessel Environment Bioreactor (sVEB),
Biomaterials Volume 323 2025, 123441, ISSN 0142-9612, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biomaterials.2025.123441

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Un bioreattore per ricostruire in laboratorio gli ambienti tumorali, e giungere a cure su misura e più efficaci; lo studio su Biomaterials. Foto PublicDomainPictures

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Ricevitore MISTRAL, un vento d’innovazione nelle osservazioni di SRT

MISTRAL è un ricevitore di nuova generazione per osservazioni nelle lunghezze d’onda millimetriche realizzato nell’ambito del recente progetto di potenziamento del Sardinia Radio Telescope per lo studio dell’universo radio ad alta frequenza. Le caratteristiche principali di questo strumento consistono nel grandissimo numero di rivelatori che vengono raffreddati a temperature prossime allo zero assoluto e di un’ottica fredda dedicata che permettono di ottenere immagini di grande nitidezza. MISTRAL ha effettuato la sua “prima luce” osservando ben tre diversi oggetti celesti: la nebulosa di Orione, i lobi radio del buco nero supermassiccio nella galassia M87 e il resto di supernova Cassiopea A. Queste immagini rappresentano le prime osservazioni scientifiche a 90 GHz ottenute utilizzando SRT.

MISTRAL è il ricevitore di nuova generazione installato sul Sardinia Radio Telescope (SRT) e costruito da Sapienza Università di Roma per l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) nell’ambito del potenziamento del radiotelescopio per lo studio dell’universo alle alte frequenze finanziato da un progetto PON (Programma Operativo Nazionale), concluso nel 2023 e che oggi vede risultati sempre più concreti. MISTRAL, in questo caso, sta per “MIllimetric Sardinia radio Telescope Receiver based on Array of Lumped elements kids” , ovvero “ricevitore di onde millimetriche per il Sardinia Radio Telescope basato su una rete di rivelatori a induttanza cinetica”.

MISTRAL è un ricevitore innovativo sotto molteplici aspetti. I ricevitori radioastronomici sono tipicamente “mono pixel”, cioè sensibili alla radiazione proveniente da una sola direzione e questo richiede lunghe scansioni con il telescopio per poter realizzare immagini panoramiche della zona di cielo di interesse. Una soluzione per superare questa limitazione è costruire ricevitori “multi pixel”, sensibili cioè alla radiazione proveniente da più direzioni simultaneamente. MISTRAL porta questo concetto all’estremo. Al suo interno è infatti custodito un cuore ultra-freddo composto da una matrice di 415 rivelatori a induttanza cinetica (KIDs) sviluppati in collaborazione con il CNR-IFN di Roma e raffreddati ad appena una frazione di grado dalla temperatura di zero assoluto, pari a -273,15 gradi Celsius.

“È proprio questo elevato numero di rivelatori accoppiato con un sistema ottico sviluppato appositamente a rendere MISTRAL uno strumento estremamente efficace e rapido per l’imaging a largo campo di sorgenti deboli ed estese”, commenta Paolo de Bernardis, Coordinatore Scientifico del ricevitore per Sapienza Università di Roma.

MISTRAL è stato installato nel maggio 2023 nel fuoco gregoriano, localizzato al centro della grande parabola di 64 metri di diametro di SRT. Subito dopo è iniziata la messa in servizio del ricevitore, il cosiddetto commissioning, un’intensa serie di test tecnici e osservativi con l’obiettivo di integrare il ricevitore nel sistema del telescopio. Un team di ricercatori di INAF e Sapienza sta lavorando fianco a fianco con l’obiettivo di portare MISTRAL alle sue massime prestazioni e poterlo quindi offrire alla comunità scientifica per osservazioni regolari.

“Il commissioning – spiega Matteo Murgia, Responsabile Scientifico del ricevitore per INAF – è normalmente un passaggio di routine nella installazione di nuova strumentazione. Tuttavia, si trasforma in una vera sfida nel caso di un ricevitore nel millimetrico come MISTRAL, che richiede che le prestazioni del telescopio siano spinte al limite sotto ogni aspetto”.

“Inizialmente – dichiara Elia Battistelli, Project Manager del ricevitore per Sapienza Università di Roma – si sono affrontati e superati diversi ostacoli legati alla criogenia davvero eccezionale del ricevitore, ottenendo infine la temperatura necessaria per mettere in misura i KIDs, ossia appena 0,2 gradi sopra lo zero assoluto”.

Il miglioramento delle prestazioni della superficie attiva di SRT ha permesso a partire da settembre 2024 di raggiungere la sensibilità adeguata per calibrare lo strumento. È stato quindi possibile procedere all’ ottimizzazione dell’allineamento tra le ottiche di MISTRAL e quelle di SRT.

Il team di commissioning ha inoltre lavorato senza sosta per sviluppare le procedure e il software necessari per il puntamento e la messa a fuoco. Contemporaneamente, INAF e Sapienza hanno realizzato le procedure di calibrazione e composizione delle immagini. A questo punto MISTRAL era finalmente pronto per le osservazioni di “prima luce” di sorgenti radio estese. In successione sono stati osservati tre oggetti celesti iconici: la Nebulosa di Orione, la radiogalassia M87, e il resto di supernova Cassiopea A. Queste osservazioni hanno evidenziato la grande versatilità di MISTRAL e confermato le sue capacità di realizzare immagini di grande dettaglio di oggetti celesti in contesti astrofisici anche molto diversi tra loro.

“Il traguardo raggiunto con le immagini di prima luce di SRT a 90 GHz – commenta Isabella Pagano, Direttrice Scientifica dell’INAF – segna un passo importante nell’ampliamento degli orizzonti scientifici del radiotelescopio che dimostra così di essere in grado di operare con successo alle alte frequenze radio per le quali era stato progettato”.

Con la “prima luce” ottenuta osservando questi affascinanti oggetti cosmici, si conclude questa prima fase di test tecnici e inizia una fase, non meno importante, di validazione scientifica, volta a verificare le prestazioni di MISTRAL con sorgenti sempre più deboli, per garantire che sia pronto per le numerose sfide scientifiche per cui è stato progettato. MISTRAL affronterà un’ampia gamma di questioni scientifiche, dalla cosmologia e fisica degli ammassi di galassie, allo studio dei nuclei galattici attivi, della struttura delle nubi molecolari e della loro relazione con la formazione stellare nelle galassie vicine e nella Via Lattea, fino allo studio dei corpi celesti del nostro Sistema Solare. Le attività del team di commissioning continuano quindi con l’obiettivo di verificare le prestazioni di MISTRAL in ciascuno di questi casi scientifici e di rendere il ricevitore disponibile alla comunità scientifica il prima possibile.

 

Le prime immagini acquisite da MISTRAL

A dicembre 2024 MISTRAL è stato puntato verso la famosa Nebulosa di Orione (nota anche come M42) al centro della omonima costellazione. Situata a una distanza di circa 1350 anni luce dalla Terra, M42 è una delle regioni di formazione stellare attive più vicine ed è caratterizzata da idrogeno ionizzato eccitato da un gruppo di stelle massicce, noto come il Trapezio. M42 fa parte di un vasto complesso di nubi molecolari che si estende per 30 gradi nel cielo, mentre MISTRAL ne ha osservato la parte centrale ad una risoluzione angolare di 12 secondi d’arco. Nell’immagine è ben visibile la Barra di Orione a sud, che segna un confine netto tra la regione di idrogeno ionizzato e la nube molecolare sottostante. Si notano inoltre i picchi di emissione in prossimità delle stelle del Trapezio e della Nebulosa Kleinmann–Low, una densa nube molecolare di formazione stellare che ospita un ammasso stellare interessato in passato da un evento esplosivo. L’ emissione di M42 visibile a 90 GHz è una miscela pressoché uguale di radiazione prodotta dall’idrogeno ionizzato e quella delle polveri fredde contenute nel complesso di nubi molecolari sottostante.

Nel riquadro a sinistra si mostra l’immagine della nebulosa M42 realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL. A destra una sovrapposizione dell’immagine MISTRAL con una immagine a più largo campo ottenuta dall’ Hubble Space Telescope (Credits: MISTRAL commissioning team; NASA, ESA, and The Hubble Heritage Team (STScI/AURA))
Nel riquadro a sinistra si mostra l’immagine della nebulosa M42 realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL. A destra una sovrapposizione dell’immagine MISTRAL con una immagine a più largo campo ottenuta dall’ Hubble Space Telescope (Crediti per l’immagine: MISTRAL commissioning team; NASA, ESA, and The Hubble Heritage Team (STScI/AURA))

A febbraio 2025 MISTRAL ha osservato, sempre alla frequenza di 90 GHz, la radiogalassia M87, il cui nucleo attivo contiene un ormai famoso buco nero supermassiccio presente nella costellazione della Vergine, il primo di cui è stata ottenuta una immagine diretta grazie alla storica osservazione dell’Event Horizon Telescope nel 2019. La sorgente radio che circonda M87 ha una struttura complessa, costituita da lobi interni delle dimensioni di circa trentamila anni luce (poco più della distanza che ci separa dal centro della Via Lattea) circondati da una bolla di plasma esterna su più larga scala. Queste strutture sono il risultato dell’attività del buco nero centrale nel corso dei precedenti milioni di anni. Nell’immagine di MISTRAL sono visibili I lobi radio interni, le strutture più recenti tuttora alimentate da una coppia di getti radio relativistici che si propagano dal buco nero centrale. Osservare queste strutture a frequenze così alte fornisce informazioni nuove e preziose sui meccanismi fisici che alimentano le particelle radio emittenti all’interno della sorgente.

Immagine della sorgente radio attorno a M87 rivelata da MISTRAL a 90 GHz rappresentata in toni di rosso e curve di livello, sovrapposta ad una immagine ottica, in toni di blu, della galassia (Crediti per la foto: MISTRAL commissioning team; Sloan Digital Sky Survey)
Immagine della sorgente radio attorno a M87 rivelata da MISTRAL a 90 GHz rappresentata in toni di rosso e curve di livello, sovrapposta ad una immagine ottica, in toni di blu, della galassia (Crediti per la foto: MISTRAL commissioning team; Sloan Digital Sky Survey)

Infine, nell’ultima sessione di aprile 2025, MISTRAL ha osservato, attraverso due scansioni incrociate di circa mezz’ora ciascuna, il resto di supernova Cassiopea A (Cas-A) una delle più intense radio sorgenti del cielo avente una dimensione angolare di circa 5 minuti d’arco (circa un sesto del diametro apparente della luna piena). Il guscio di gas in espansione è visibile nella sua interezza e, grazie alla risoluzione angolare di SRT a queste lunghezze d’onda, si possono apprezzare i dettagli e le variazioni di luminosità della struttura filamentare.

Immagine del resto di supernova Cassiopea A realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL (Crediti per l'immagine: MISTRAL commissioning team)
Immagine del resto di supernova Cassiopea A realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL (Crediti per l’immagine: MISTRAL commissioning team)

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF