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L’Eruzione di Maddaloni: scoperta una delle eruzioni più potenti della storia dei Campi Flegrei

Risale a oltre centomila anni fa una delle eruzioni più significative in quest’area. A rivelarlo, uno studio congiunto CNR-IGAG, Sapienza Università di Roma, INGV e Università Aldo Moro di Bari, pubblicato sulla rivista scientifica Communications Earth and Environment di Nature. La conoscenza approfondita della storia eruttiva di questa regione potrà migliorare la valutazione dei rischi vulcanici associati alla zona.

I Campi Flegrei sono un complesso vulcanico attivo, circondato da aree urbane ad alto rischio. Tra i più studiati al mondo, la loro storia eruttiva è ben documentata solo negli ultimi 40.000 anni. Un nuovo studio rivela che, 109.000 anni fa, si verificò un’eruzione di magnitudo simile all’’Ignimbrite Campana’, la più grande eruzione dell’area mediterranea.

A ricostruire l’entità dell’eruzione, un team italiano di ricercatori e ricercatrici dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IGAG), della Sapienza Università di Roma, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), e dell’Università di Bari Aldo Moro. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Communications Earth and Environment di Nature.

“Nell’area dei Campi Flegrei, le testimonianze geologiche dell’attività più antica sono difficilmente accessibili perché giacciono in profondità nel sottosuolo, sotto notevoli spessori di rocce vulcaniche più recenti”, spiegano Gianluca Sottili e Giada Fernandez, della Sapienza Università di Roma. “La ricostruzione dell’intera storia eruttiva di questo vulcano è tuttavia cruciale per evidenziare alcuni parametri fondamentali per la definizione della sua pericolosità, quali la frequenza e la magnitudo degli eventi eruttivi. A tal riguardo, le ceneri prodotte dalle grandi eruzioni depositate in aree remote rispetto al vulcano, offrono la possibilità di estendere molto indietro nel tempo lo studio della storia eruttiva di un vulcano, consentendone una ricostruzione più completa”.

“Come le impronte digitali o il DNA distinguono i singoli individui, alcune proprietà stratigrafiche, chimiche e cronologiche dei livelli di cenere rinvenuti nei sedimenti marini o lacustri, anche a migliaia di chilometri dal vulcano, possono consentire agli scienziati di identificare la sorgente vulcanica e, in alcuni casi, persino il singolo evento eruttivo che le ha prodotte”, aggiunge Biagio Giaccio, del CNR-IGAG. “Più precisamente, attraverso la datazione e l’analisi chimica dei micro-frammenti di pomice, di cui è costituito il materiale vulcanico trasportato dal vento in aree lontane, è possibile ricostruire l’area di dispersione della cenere di uno specifico evento eruttivo”.

“Con i dati già a nostra disposizione e tramite modelli di dispersione delle ceneri vulcaniche, abbiamo potuto ricostruire la dinamica e la magnitudo dell’eruzione”, prosegue Antonio Costa, dell’INGV. “Abbiamo così ottenuto le stime di alcuni parametri fondamentali come, ad esempio, il volume del magma eruttato e l’altezza della colonna o nube di cenere e gas”.

Attraverso questo approccio multidisciplinare, comunemente applicato ad eruzioni recenti le cui tracce sono chiaramente documentate intorno al vulcano, i ricercatori hanno ricostruito i principali parametri eruttivi di un’antica eruzione Flegrea di 109.000 anni fa, denominata ‘Eruzione di Maddaloni, pressoché inaccessibile nell’area del vulcano ma ben documentata dalle ceneri depositate in aree remote, note con la sigla ‘X-6’ e rinvenute in un’ampia area del Mediterraneo, dall’Italia centrale fino alla Grecia.

“Sorprendentemente”, prosegue Antonio Costa, “i risultati della modellazione hanno fornito una stima di magnitudo di 7.6, cioè di poco inferiore a quella della famosa Ignimbrite Campana di circa 40.000 anni fa, definendo l’eruzione di Maddaloni come il secondo più grande evento della storia eruttiva dei Campi Flegrei”.

“Il fatto che questo sistema vulcanico abbia prodotto diverse grandi eruzioni nel corso della sua storia suggerisce che la struttura della caldera, la depressione vulcano-tettonica che si forma durante le grandi eruzioni a seguito del rilascio di un ingente volume di magma in superficie, potrebbe essere molto più complessa di quanto ipotizzato finora”, sottolinea Jacopo Natale, dell’Università Aldo Moro di Bari.

I risultati della ricerca gettano nuova luce sulla ricorrenza degli eventi di grande magnitudo ai Campi Flegrei ed evidenziano come, anche per un vulcano intensamente studiato, una dettagliata e completa ricostruzione della sua storia necessiti di ulteriori indagini per una migliore valutazione della pericolosità vulcanica.

Riferimenti bibliografici:

Fernandez, G., Costa, A., Giaccio, B. et al. The Maddaloni/X-6 eruption stands out as one of the major events during the Late Pleistocene at Campi Flegrei, Commun Earth Environ 6, 27 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s43247-025-01998-8

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo

Passo, trotto e galoppo: le andature equine seguono dei veri e propri modelli ritmici. Due studi condotti dalla Sapienza e dall’Università di Torino indagano sulla loro musicalità.

La sequenza degli zoccoli di un cavallo che colpiscono il terreno sembra intuitivamente ritmica, ma lo è davvero? Un team di ricercatori guidato da Marco Gamba dell’Università di Torino e da Andrea Ravignani della Sapienza Università di Roma, finanziato dal progetto ERC The Origins of Human Rhythm (TOHR), ha risposto a questa domanda in due studi pubblicati sul Journal of Anatomy e Annals of the New York Academy of Sciences mettendo in luce le somiglianze tra i ritmi della locomozione dei cavalli e quelli musicali. Questa connessione potrebbe spiegare perché le diverse andature equine – passo, trotto e galoppo – risultino così ritmiche e riconoscibili.

Il ritmo musicale in molte culture occidentali si basa su sequenze di intervalli temporali che seguono rapporti di numeri interi, ciascuno dei quali definisce una categoria ritmica. Una nota, per esempio, può durare quanto la precedente, oppure il doppio o il triplo. Negli ultimi anni, studi su diverse specie animali hanno già rivelato che simili rapporti si trovano nelle vocalizzazioni di altre specie, confermando il ruolo chiave di queste strutture temporali nella percezione del ritmo.

Per la prima volta, i ricercatori hanno dimostrato che anche l’andatura dei cavalli condivide queste stesse strutture temporali: gli intervalli tra zoccoli successivi che colpiscono il terreno sono caratterizzati da categorie ritmiche. In particolare, il passo e il trotto dei cavalli sono isocroni,  poiché il terreno è colpito a intervalli regolari, come il ticchettio di un orologio;  il galoppo, invece, presenta una sequenza di tre intervalli in cui il terzo dura il doppio degli altri due, vale a dire un pattern 1:1:2, richiamando il ritmo base del brano “We Will Rock You” dei Queen.

“Questo pattern di 1:1:2 incidentalmente si ritrova anche nell’Overture del Guglielmo Tell di Rossini. Forse questo spiega perché spesso questo brano venga usato come colonna sonora nei film in cui si vedono cavalli al galoppo”, dichiara Andrea Ravignani.

“Questi studi proseguono un filone di ricerca che vede unite le nostre Università al fine di indagare le caratteristiche ritmiche dei comportamenti di animali e umani, cercando di scovare similarità e differenze che sono ancora da interpretare per ciò che concerne il loro significato evolutivo”, aggiunge Marco Gamba.

Oltre alle categorie ritmiche, “un altro elemento fondamentale nella distinzione tra le andature dei cavalli è il tempo, ossia la velocità con cui si susseguono i battiti in un qualsiasi pattern ritmico, analogamente a quanto osserviamo tra diversi generi musicali” spiega Teresa Raimondi, postdoc di Sapienza Università di Roma.

In particolare, passo e trotto risultano facilmente distinguibili grazie alla maggiore durata degli intervalli, e quindi un pattern ritmico più lento nel trotto rispetto al passo.

“La scoperta di schemi ritmici comuni tra musica, comunicazione animale e locomozione rafforza l’idea che locomozione e controllo motorio possano aver giocato un ruolo cruciale nell’evoluzione del ritmo, sia nella comunicazione umana che in quella di altre specie”, conclude Lia Laffi, dottoranda dell’Università di Torino in collaborazione con la Fondazione Zoom.

I risultati delle due ricerche discriminano quantitativamente le andature dei cavalli in base al ritmo, rivelando sorprendenti comunanze con la musica umana e con alcuni segnali comunicativi animali. L’andatura e la ritmicità vocale condividono caratteristiche chiave, e la prima è probabilmente precedente alla seconda. La capacità di produrre e riconoscere ritmi legati alla locomozione potrebbe infatti aver costituito un preadattamento fondamentale per lo sviluppo di ritmi vocali più complessi in una fase evolutiva successiva. In particolare, la percezione della ritmicità locomotoria potrebbe essersi evoluta in diverse specie sotto la pressione del riconoscimento dei predatori e della selezione degli accoppiamenti; in seguito potrebbe essere stata adattata alla comunicazione vocale ritmica.

A questo sforzo di ricerca internazionale, hanno partecipato anche professori e ricercatori dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna, dell’Università di Copenaghen e dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

 

Riferimenti bibliografici:

Laffi, L., Raimondi, T., Ferrante, C., Pagliara, E., Bertuglia, A., Briefer, E. F., Gamba, M., & Ravignani, A. (2024). “The rhythm of horse gaits”, Ann NY Acad Sci., 1–8. DOI: https://doi.org/10.1111/nyas.15271

Laffi, L., Bigand, F., Peham, C.,Novembre, G., Gamba, M. & Ravignani, A. (2024) “Rhythmic categories in horse gait kinematics”, Journal of Anatomy, 00,1–10. DOI: https://doi.org/10.1111/joa.14200

Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo, secondo due studi appena pubblicati. Un cavallo (Equus ferus caballus) frisone. Foto di Andizo [1], CC BY-SA 3.0
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Rigidità muscolare nella malattia di Parkinson: gli effetti della levodopa, il farmaco più efficace per il trattamento dei sintomi motori della patologia

Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, ha indagato sperimentalmente i meccanismi alla base della rigidità muscolare nella malattia di Parkinson, individuando inoltre un nuovo circuito nervoso sensibile alla dopamina che potrebbe essere responsabile del sintomo. I risultati, pubblicati sulla rivista Movement Disorders, aprono nuove strade a terapie innovative.

L’incidenza della malattia di Parkinson sembra essere in rapida crescita a livello globale. A oggi la patologia colpisce circa 300 mila persone in tutta Italia. Nonostante la rigidità muscolare sia un segno cardine della malattia – come la bradicinesia, ovvero il rallentamento dei movimenti volontari, e il tremore – tale sintomo rimane ancora poco studiato.

La levodopa, considerata un farmaco “miracoloso” per trattare la malattia di Parkinson, rappresenta ancora oggi il trattamento più efficace per gestire i segni motori della patologia. Tuttavia, a oggi non esistono studi che abbiano valutato e chiarito in modo oggettivo l’effetto della terapia dopaminergica sulla rigidità muscolare in pazienti con malattia di Parkinson.

Lo studio, coordinato da Antonio Suppa del Dipartimento di Neuroscienze Umane della Sapienza in collaborazione con IRCCS Neuromed, intende colmare questo vuoto. Al fine di chiarire l’effetto della levodopa sulla rigidità muscolare nei pazienti affetti da Parkinson, il gruppo di ricerca ha utilizzato un innovativo approccio sperimentale che combina strumentazioni robotiche e misure neurofisiologiche non invasive. Tale approccio metodologico ha consentito di ricostruire con precisione i meccanismi alla base della rigidità muscolare permettendo così di descrivere in modo più accurato le basi fisiopatologiche della rigidità muscolare nella malattia di Parkinson.

Per indagare l’efficacia del trattamento, i segni e i sintomi motori della malattia sui pazienti sono stati valutati sia in stato di OFF farmacologico (almeno 12 ore dopo l’ultima assunzione della dose abituale di levodopa) che in stato di ON farmacologico (almeno 1-2 ore dopo l’assunzione del farmaco).

“Abbiamo dimostrato che la rigidità muscolare dipende da un riflesso specifico, chiamato long-latency stretch reflex (LLR), che nei pazienti affetti da malattia di Parkinson risulta alterato – spiega Antonio Suppa, professore della Sapienza – La levodopa ha mostrato di ridurre significativamente questa anomalia ripristinando dei patterns di attivazione più fisiologici”.

Sulla base dei risultati ottenuti, i ricercatori hanno poi ipotizzato e descritto un nuovo circuito nervoso responsabile della rigidità nella malattia di Parkinson che collega il tronco encefalico, il cervelletto e il midollo spinale. Tale circuito è influenzato dalla dopamina e potrebbe essere il punto di partenza per nuove terapie.

La ricerca sulla rigidità muscolare è ancora in corso ed è tra i principali argomenti di approfondimento del nuovo laboratorio di “Neurologia sperimentale, neuroingegneria e telemedicina” della Sapienza. Dimostrando oggettivamente e nel dettaglio i meccanismi su cui agisce la levodopa e attraverso i quali il farmaco è in grado di ridurre la rigidità muscolare nei pazienti, lo studio rappresenta un importante riferimento scientifico sul tema. Inoltre, l’individuazione del possibile circuito neuronale alla base della rigidità muscolare suscettibile alla stimolazione dopaminergica, apre strade per terapie innovative.

Riferimenti bibliografici:

Falletti M, Asci F, Zampogna A, Patera M, Pinola G, Centonze D, Hallett M, Rothwell J, Suppa A.Rigidity in Parkinson’s Disease: The Objective Effect of Levodopa, Mov Disord. 2025 Jan 8. doi: 10.1002/mds.30114. Epub ahead of print. PMID: 39777428.

SLA Tumore vescica NUMB biomarcatore microscopio SLA molecola leucemia RNA serina idrossimetiltrasferasi serina
Foto PublicDomainPictures 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Come si sono formati gli Appennini? Nella ricerca pubblicata sulla rivista Tectonics, un approccio innovativo allo studio dei sedimenti consente di ricostruire l’evoluzione della catena montuosa

Uno studio recentemente pubblicato su Tectonics e condotto dall’INGV e dalle Università Sapienza e Roma Tre ha evidenziato un nuovo potenziale indicatore basato sulle caratteristiche geometriche delle particelle che costituiscono le rocce. Il modello consentirà di definire con maggiore precisione l’età e le trasformazioni geologiche dei bacini sedimentari.

Campionamento a) Esempio di depositi analizzati nello studio b) campionamento per analisi della mineralogia delle argille, c) frustoli legnosi, d) campionamento per analisi di anisotropia della suscettività magnetica
Come si sono formati gli Appennini? Campionamento:
a) Esempio di depositi analizzati nello studio b) campionamento per analisi della mineralogia delle argille, c) frustoli legnosi, d) campionamento per analisi di anisotropia della suscettività magnetica

Una collaborazione tra ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), della Sapienza Università di Roma e dell’Università Roma Tre ha permesso di sviluppare un modello innovativo per ricostruire l’evoluzione delle catene montuose.

È quanto emerge dallo studio “Magnetic fabric as a marker of thermal maturity in sedimentary basins: A new approach for reconstructing the tectono‐thermal evolution of fold‐and‐ thrust‐belts”, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Tectonics.

Per stabilire l’età e le trasformazioni delle catene montuose, i geo-scienziati prendono in esame la maturità termica dei sedimenti, ovvero il riscaldamento cui le rocce e in particolare alcuni indicatori in esse presenti – come i minerali delle argille e i frustoli di legno – sono stati sottoposti nel tempo geologico.

“La maturità termica dei sedimenti riflette il grado di evoluzione della materia organica e le trasformazioni dei minerali argillosi durante la diagenesi da seppellimento”, spiega Chiara Caricchi, ricercatrice dell’INGV e prima autrice dell’articolo. “Tale maturità termica è influenzata da fattori come temperatura e tempo, ed è un concetto fondamentale per comprendere la formazione di risorse energetiche come il petrolio e il gas naturale”.

La diagenesi è un processo geologico che coinvolge i cambiamenti chimici, fisici e biologici che i sedimenti subiscono dopo la loro deposizione e prima della loro litificazione, ovvero la loro trasformazione in roccia. Questo processo avviene a temperature relativamente basse (fino a circa 200 °C) e a pressioni moderate (2-3 bar), e può durare milioni di anni.

L’affidabilità di una ricostruzione dell’evoluzione delle catene montuose dipende dal numero di indicatori termici utilizzabili, che non sono sempre disponibili.

I ricercatori di INGV, Sapienza e Roma Tre hanno individuato un nuovo potenziale indicatore basato sulle caratteristiche geometriche delle particelle che costituiscono una roccia e le loro relazioni di orientamento reciproco. Queste informazioni si ottengono a partire da una proprietà, la cosiddetta “anisotropia della suscettibilità magnetica” (AMS), che si riferisce alla tendenza dei minerali a predisporsi prevalentemente in piani perpendicolari alla direzione di deposizione e successiva compattazione dei sedimenti. Un processo che avviene quando i sedimenti vengono progressivamente ricoperti da altri depositi più recenti e poi portati in profondità nella crosta, dove sono soggetti a temperature e pressioni crescenti, per poi riemergere in superficie durante la formazione delle catene montuose.

“Le nostre analisi si prefiggono di rispondere alla domanda ‘Fino a che profondità sono stati sepolti i sedimenti analizzati prima di essere riportati in superficie dalla formazione degli Appennini?’, ovvero ‘A quali massime temperature sono stati sottoposti?”, spiega Leonardo Sagnotti, ricercatore dell’INGV e co-autore dell’articolo. “L’AMS è una proprietà che si misura nei laboratori di paleomagnetismo con strumentazione dedicata e che mette in relazione la variabilità della suscettività magnetica con la direzione in cui essa viene misurata, che dipende – a sua volta – dall’orientazione preferenziale dei minerali che costituiscono il sedimento”.

“Il nostro studio si è concentrato nell’Appennino settentrionale, in un’area compresa tra Umbria e Toscana, dove abbiamo prelevato campioni di sedimenti tra loro coerenti per le analisi di AMS e diffrazione a raggi X”, aggiunge Luca Aldega, ricercatore di Sapienza Università Sapienza di Roma e co-autore dell’articolo. “I dati delle analisi indicano che l’AMS di questi sedimenti argillosi può essere messa in diretta correlazione con i processi di deposizione e compattazione, come suggeriscono gli indicatori di maturità termica, riflettendo così l’evoluzione dei sedimenti durante il seppellimento sedimentario e/o tettonico”.

“Questa osservazione ci ha permesso di calibrare un modello basato su una correlazione lineare tra il parametro AMS e gli indicatori paleotermici che può essere applicato con successo per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari, superando le limitazioni dei metodi classici e vincolando su scala temporale le condizioni di diagenesi delle successioni sedimentarie”, evidenzia Massimo Mattei, ricercatore dell’Università Roma Tre e co-autore dell’articolo.

Correlazione tra Foliazione (parametro AMS) e gli indicatori paleotermici che può essere applicato per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari
Correlazione tra Foliazione (parametro AMS) e gli indicatori paleotermici che può essere applicato per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari

Ulteriori ricerche future in questa direzione potranno essere utili per migliorare la definizione della correlazione in caso di stadi di maturità termica avanzata e in successioni sedimentarie altamente deformate.

Riferimenti bibliografici:

Caricchi, L. Aldega, L. Sagnotti, F. Cifelli, S. Corrado, M. Mattei, Magnetic Fabric as a Marker of Thermal Maturity in Sedimentary Basins: A New Approach for Reconstructing the Tectono-Thermal Evolution of Fold-and-Thrust-Belts,Tectonics, Tectonics (2024), DOI: https://doi.org/10.1029/2024TC008530

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa

Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.

1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)
1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)

Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.

2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico
2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico

Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.

I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.

L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.

“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia
3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia

“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.

“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.

Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.

4. Un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman
4. I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico: un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman

 

Riferimenti bibliografici:

Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Individuato un nuovo potenziale biomarcatore della SLA: GDF15, la proteina che riduce l’appetito
Uno studio internazionale, coordinato da Sapienza Università di Roma, ha dimostrato il coinvolgimento della citochina GDF15, nota per causare la riduzione dell’appetito, nella progressione della SLA. Il lavoro, pubblicato sulla rivista Brain Behavior and Immunity, suggerisce un nuovo potenziale biomarcatore e bersaglio terapeutico per il trattamento della malattia.

 

La sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è una malattia multifattoriale caratterizzata dalla degenerazione progressiva dei motoneuroni e dalla paralisi muscolare. Nonostante i trattamenti attualmente utilizzati, i pazienti sopravvivono solo 3-5 anni dopo la diagnosi iniziale.

La perdita di peso è un’importante caratteristica clinica, al momento della diagnosi, delle persone affette da SLA. Con una prevalenza stimata del 56%-62%, la perdita di peso è definita come un rilevante e indipendente fattore prognostico. Diversi studi hanno riportato che il decorso della malattia è sfavorevole quando i pazienti perdono peso rapidamente o hanno un indice di massa corporea basso al momento della diagnosi.

Lo studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, che ha visto la partecipazione dei dipartimenti di Fisiologia e Farmacologia, di Chimica e Tecnologie del Farmaco, di Neuroscienze Umane e dell’Università di Amsterdam, ha dimostrato che la citochina GDF15 è coinvolta nelle disfunzioni metaboliche che caratterizzano la patologia.

Utilizzando un modello murino della patologia e campioni di pazienti affetti da SLA, i ricercatori hanno osservato che GDF15 è altamente espresso nel sangue periferico e in campioni di tessuto umano a livello della corteccia cerebrale motoria, nel midollo spinale e nel tronco encefalico.

In particolare, lo studio si è focalizzato sul ruolo del recettore GFRAL, presente nei neuroni di una regione specifica del sistema nervoso centrale, e cioè l’area postrema e il nucleo del tratto solitario. I ricercatori hanno mostrato che silenziando l’espressione del GFRAL solo in queste regioni provocava un rallentamento della perdita di peso e di tessuto adiposo, il miglioramento della funzione motoria e una maggiore sopravvivenza nei topi.

I risultati dello studio evidenziano un coinvolgimento dell’asse GDF15-GFRAL nella modulazione delle alterazioni metaboliche alla base della perdita di peso e della progressione della malattia nella SLA. La ricerca mette in luce l’importanza di aumentare l’attenzione sull’aspetto nutrizionale e sui cambiamenti metabolici nei pazienti per anticipare la diagnosi della malattia e per sviluppare interventi terapeutici innovativi.

“Questo studio contribuisce ad aumentare la nostra comprensione dei meccanismi alla base della sclerosi laterale amiotrofica – commenta Cristina Limatola del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza. Sappiamo infatti che la SLA non è più definibile come una patologia del motoneurone, perchè numerose alterazioni sono state descritte a carico della componente gliale e del sistema immunitario prima che si manifestino sintomi nei pazienti e prima che sia misurabile un danno neurodegenerativo. La nostra scoperta del coinvolgimento della citochina GDF15 nella perdita di peso che precede la manifestazione dei sintomi della SLA conferma l’importanza di un approccio olistico per una diagnosi precoce della malattia e l’identificazione di nuovi bersagli terapeutici”.

 

Riferimenti bibliografici:

Cocozza G., Busdraghi L. M., Chece G., Menini A., Ceccanti M., Libonati L., Cambieri C., Fiorentino F., Rotili D., Scavizzi F., Raspa M., Aronica E., Inghilleri M., Garofalo S., Limatola C., “GDF15-GFRAL signaling drives weight loss and lipid metabolism in mouse model of amyotrophic lateral sclerosis”, Brain, Behavior, and Immunity (2025) DOI: https://doi.org/10.1016/j.bbi.2024.12.010

microscopio cellule invecchiamento
Individuato un nuovo potenziale biomarcatore della SLA: GDF15, la proteina che riduce l’appetito; lo studio su Brain, Behavior, and Immunity. Foto PublicDomainPictures 

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Sotto la superficie di Io non c’è un oceano di magma liquido, ma un mantello solido

Un nuovo studio pubblicato su Nature, basato sui dati di gravità raccolti dalla sonda Juno della NASA durante dei sorvoli della luna Io di Giove esclude la presenza di un oceano di magma sotto la sua superficie

Sotto la superficie di Io, il satellite Galileiano più vicino a Giove, non c’è un oceano di magma liquido come si era pensato fino ad oggi, ma un mantello solido. A rivelarlo è uno studio pubblicato su Nature realizzato anche grazie al lavoro di diversi ricercatori della Sapienza Università di Roma e dell’Università di Bologna.

La ricerca, coordinata da Ryan Park del Jet Propulsion Laboratory dalla NASA, ha sfruttato i dati collezionati dalla sonda Juno della NASA durante due recenti sorvoli ravvicinati della luna insieme ai dati storici della missione Galileo, la sonda della NASA che tra il 1995 e il 2003 ha esplorato il sistema di Giove.

“La combinazione dei dati acquisiti da Juno con quelli collezionati dalla sonda Galileo oltre 20 anni fa – spiega Daniele Durante, ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale – ha permesso di migliorare la stima della risposta mareale di Io, che fornisce indicazioni dirette della deformabilità della struttura interna della luna.”

Io è un satellite unico nel sistema di Giove grazie alla sua intensa attività vulcanica, che lo rende l’oggetto geologicamente più attivo del sistema solare. Per decenni si è creduto che l’enorme attrazione gravitazionale di Giove fosse sufficiente a creare un oceano di magma sotto la sua superficie, che alimentasse i suoi vulcani. Le misure di induzione magnetica condotte dalla sonda Galileo avevano infatti suggerito la presenza di un oceano di magma sotto la superficie di questa luna.

Questo scenario è stato però rivisto a seguito delle nuove osservazioni realizzate da Juno, la sonda che dal 2016 sta esplorando Giove e, più recentemente, le sue lune. Juno ha sorvolato per due volte Io a circa 1.500 chilometri di quota, raccogliendo dati del campo gravitazionale della luna molto accurati. I risultati dell’analisi mostrano una risposta gravitazionale della luna alle forze di marea piuttosto modesta.

“La risposta della luna alle forze di marea esercitate da Giove è risultata piuttosto bassa – afferma Luciano Iess, professore presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale – indicazione dell’assenza di un oceano di magma vicino alla superficie e, piuttosto, della presenza di un mantello solido profondo al suo interno”.

Lo studio è stato pubblicato su Nature con il titolo “Io’s tidal response precludes a shallow magma ocean”. Per Sapienza Università di Roma hanno partecipato Daniele Durante e Luciano Iess, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Bologna, Luis Gomez Casajus, Marco Zannoni, Andrea Magnanini e Paolo Tortora. Le attività di ricerca sono state realizzate nell’ambito di un accordo finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana.

Struttura interna di Io. La nuova misura della deformazione mareale suggerisce che la luna non abbia un oceano globale di magma vicino la superficie ma è coerente con la presenza di un mantello più solido (sfumature di verde), con una quantità significativa di materiale fuso (in giallo e arancione) che ricopre un nucleo liquido (in rosso/nero). Illustrazione di Sofia Shen (JPL/Caltech).
Struttura interna di Io. La nuova misura della deformazione mareale suggerisce che la luna non abbia un oceano globale di magma vicino la superficie ma è coerente con la presenza di un mantello più solido (sfumature di verde), con una quantità significativa di materiale fuso (in giallo e arancione) che ricopre un nucleo liquido (in rosso/nero). Illustrazione di Sofia Shen (JPL/Caltech).

Riferimenti bibliografici:

Park, R.S., Jacobson, R.A., Gomez Casajus, L. et al. Io’s tidal response precludes a shallow magma ocean, Nature (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08442-5

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un paradosso conservazionistico: le specie aliene invasive possono essere a rischio nei loro areali d’origine 

Le specie non autoctone rappresentano una minaccia per la biodiversità, ma 36 di esse sono a loro volta in pericolo di estinzione nelle aree da cui provengono. A rivelarlo uno studio condotto dalla Sapienza e dall’Università di Vienna, pubblicato sulla rivista Conservation Letters.

Le specie aliene invasive sono tra le principali cause della perdita globale di biodiversità, contribuendo al 60% delle estinzioni di specie registrate negli ultimi decenni. In Europa centrale, tra i mammiferi non autoctoni si annoverano il ratto norvegese, il muflone e il visone americano. Uno studio condotto da biologi della Sapienza di Roma e dell’Università di Vienna ha rivelato che alcune di queste specie introdotte dall’uomo sono minacciate di estinzione nei loro areali d’origine. I risultati dello studio sono stati pubblicati nell’ultimo numero della rivista scientifica Conservation Letters.

La crescente globalizzazione ha facilitato la diffusione di numerose specie animali e vegetali in regioni del mondo a cui non appartenevano originariamente. Le specie invasive possono mettere in pericolo quelle autoctone attraverso la competizione per le risorse o la trasmissione di nuove malattie. Tuttavia, alcune di queste specie invasive risultano essere a rischio di estinzione nei loro areali nativi. Questo fenomeno solleva un interessante paradosso per la conservazione: è giusto proteggere queste specie nei loro areali d’origine, nonostante il danno che possono arrecare altrove? Finora non era chiaro quante specie di mammiferi minacciati fossero coinvolte in questo paradosso. Il recente studio ha quantificato il fenomeno, facendo un passo avanti nella comprensione di questa complessa problematica.

Le specie aliene invasive sono tra le principali cause della perdita globale di biodiversità, contribuendo al 60% delle estinzioni di specie registrate negli ultimi decenni. In Europa centrale, tra i mammiferi non autoctoni si annoverano il ratto norvegese, il muflone e il visone americano. Attualmente, l’uomo ha introdotto 230 specie di mammiferi non autoctoni in nuove aree del mondo, dove si sono stabilite in modo permanente.

“Ci siamo chiesti quante di queste specie siano a rischio anche nei loro areali d’origine -, spiega Lisa Tedeschi, autrice principale dello studio, affiliata alla Sapienza di Roma e all’Università di Vienna – Abbiamo scoperto che 36 di queste specie sono minacciate nei loro areali originari, rientrando così nel cosiddetto paradosso della conservazione. Questo numero ci ha sorpreso molto – sottolinea Tedeschi – Inizialmente pensavamo che le specie aliene e invasive fossero comuni anche nei loro areali nativi”.

Un esempio emblematico di mammifero minacciato nel suo areale originario è il cinopiteco (o macaco crestato), la cui popolazione a Sulawesi, in Indonesia, è crollata dell’85% dal 1978. Tuttavia, la specie si è diffusa su altre isole indonesiane, dove si trovano popolazioni non autoctone stabili. Un caso simile è quello del coniglio selvatico, in pericolo di estinzione in Europa, ma con popolazioni introdotte molto numerose in altre parti del mondo, come l’Australia, che superano di gran lunga quelle europee.

La maggior parte delle specie minacciate nel loro areale originario si trova nelle regioni tropicali dell’Asia, dove la distruzione massiccia delle foreste pluviali e la caccia intensiva rappresentano le principali cause del declino.

“La regione del Sud-est asiatico rappresenta l’hotspot globale di rischio di estinzione per i mammiferi – spiega Carlo Rondinini della Sapienza, coordinatore del gruppo di ricerca – le tendenze degli ultimi decenni e le proiezioni per il futuro fanno ritenere che conservare i mammiferi a rischio in questa regione sarà molto complesso. Per questo, le popolazioni aliene di specie minacciate nel loro areale nativo potrebbero in alcuni casi rappresentare una carta in più per evitarne l’estinzione”.

Attualmente, nella valutazione del rischio di estinzione globale non vengono considerate le popolazioni di specie che vivono al di fuori del loro areale nativo. Questo studio, però, ha dimostrato che includere le popolazioni non autoctone potrebbe migliorare la classificazione di rischio per alcune specie.

“Per il 22% delle specie analizzate, il rischio di estinzione globale si ridurrebbe se si tenessero in considerazione anche le popolazioni non autoctone”,

spiega Franz Essl, dell’Università di Vienna e co-coordinatore dello studio. Secondo i ricercatori, questi risultati evidenziano quanto le popolazioni non autoctone possano essere cruciali per la sopravvivenza di specie minacciate, specialmente quando gli habitat d’origine sono fortemente compromessi.

Tuttavia, l’inclusione delle popolazioni non autoctone nella valutazione del rischio presenta anche delle criticità. Ad esempio, potrebbe diminuire l’attenzione verso la protezione delle popolazioni minacciate nel loro areale nativo. Inoltre, le popolazioni non autoctone possono danneggiare altre specie locali, contribuendo a nuovi squilibri ecosistemici.

“La priorità deve rimanere la protezione delle specie nei loro habitat d’origine”, sottolinea Essl. “Tuttavia, è probabile che in futuro vedremo sempre più specie a rischio di estinzione nei loro areali nativi, ma con migliori possibilità di sopravvivenza in nuovi areali. Questo pone la conservazione della biodiversità davanti al complesso compito di bilanciare rischi e opportunità”. Infine, Essl conclude: “Questa dinamica riflette il profondo impatto della globalizzazione sulla distribuzione delle specie”.

 

Riferimenti bibliografici:

Tedeschi L., Lenzner B., Schertler A., Biancolini D., Essl F., Rondinini C. – “Threatened mammals with alien populations: distribution, causes, and conservation” – Conservation Letters (2024) – DOI:  https://doi.org/10.1111/conl.13069

Visone americano (Neogale vison). Foto di Hugo.arg, CC BY-SA 3.0
Un paradosso conservazionistico: le specie aliene invasive possono essere a rischio nei loro areali d’origine. Un visone americano (Neogale vison) in Lituania. Foto di Hugo.arg, CC BY-SA 3.0

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La via italiana ai chatbot del futuro: presentata Minerva 7B, l’ultima versione del modello linguistico IA targato Sapienza, addestrato con 1.5 trilioni di parole e che alza lo standard di sicurezza degli LLM italiani

Minerva 7B stata sviluppata in ambito FAIR (Future Artificial Intelligence Research) e in collaborazione con CINECA

Roma, 26 novembre 2024 – L’eccellenza della ricerca Sapienza nel campo dell’Intelligenza artificiale: è stato annunciato oggi il rilascio di Minerva 7B, l’ultima versione della famiglia dei modelli Minerva, i Large Language Model (LLM) addestrati “da zero” per la lingua italiana.
Il nuovo modello linguistico Minerva è stato realizzato dal gruppo di ricerca Sapienza NLP (Natural Language Processing), guidato dal Prof. Roberto Navigli, all’interno di FAIR (Future Artificial Intelligence Research), il progetto che realizza la strategia nazionale sull’intelligenza artificiale grazie ai fondi PNRR, e in collaborazione con CINECA che ha reso disponibile il supercomputer Leonardo.
Alla presentazione la Rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, il Presidente FAIR Giuseppe De Pietro, la Direttrice Generale CINECA Alessandra Poggiani e il docente alla guida del gruppo Sapienza NLP Roberto Navigli, che ha illustrato le caratteristiche della nuova versione, con il supporto di una demo.

Minerva 7B è una versione più potente di quella messa in rete lo scorso aprile, forte di 7 miliardi di parametri contro i 3 della precedente, e quindi con maggior capacità di memorizzazione e rielaborazione dei testi, sempre basata su fonti aperte di dati, elemento distintivo nel panorama degli LLM.
Dopo oltre 5 mesi di lavoro incessante, il team di ricerca è approdato a questa nuova versione per un totale di oltre 2 trilioni (migliaia di miliardi) di token, corrispondenti a circa 1,5 trilioni di parole. Mediante un nuovo mix di istruzioni create appositamente in italiano, Minerva 7B è stato sottoposto al cosiddetto processo di instruction tuning, una tecnica avanzata di addestramento per i modelli di intelligenza artificiale che mira a fornire la capacità di seguire le istruzioni e di colloquiare con l’utente in italiano.

Grazie appunto all’instruction tuning Minerva è in grado di interpretare meglio le richieste e di generare risposte più pertinenti, coerenti e adattate al contesto, evitando per quanto possibile le cosiddette allucinazioni e la generazione di contenuti di tipo volgare, sessuale, discriminatorio e sensibile. Si tratta di un tema cruciale che riguarda tutti i chatbot, particolarmente sentito dai ricercatori del team della Sapienza.
Il Prof. Navigli ha mostrato durante la demo diverse conversazioni con il modello, tra cui la richiesta di scrivere una favola, di tradurre e riassumere un breve testo, e ha mostrato la robustezza del modello a richieste che potrebbero generare contenuti sensibili o discriminatori.

“Il nostro impegno è continuare a lavorare per massimizzare la sicurezza e gli aspetti conversazionali in una sorta di laboratorio permanente, con la consapevolezza scientifica che il rilascio di oggi non è un traguardo ma un punto di partenza – sottolinea Roberto Navigli – La scarsità di dati di qualità in italiano, sia per il preaddestramento linguistico che per le conversazioni e le istruzioni, è uno dei temi chiave che intendiamo affrontare nei prossimi mesi. In quest’ottica auspichiamo che il progetto possa crescere aprendosi a nuove collaborazioni, coinvolgendo ad esempio il mondo editoriale ed enti pubblici per l’impiego di Minerva in ambiti istituzionali. Minerva è il primo – e a oggi unico – modello completamente aperto, che si presta a essere utilizzato dalle Pubbliche Amministrazioni, proprio per la trasparenza delle fonti e del processo di addestramento. Inoltre sono molto orgoglioso del trasferimento tecnologico che si realizza grazie a Babelscape – spin-off di successo di Sapienza – che sta lavorando alacremente a versioni industriali più potenti e sofisticate dell’LLM e alle sue applicazioni.”


Dichiara Antonella Polimeni, Rettrice di Sapienza Università di Roma:

“La Sapienza ha una lunga tradizione di eccellenza nell’ambito della ricerca tecnologica e scientifica. Negli ultimi anni, abbiamo rafforzato il nostro impegno nello sviluppo di competenze avanzate in settori strategici come l’intelligenza artificiale, promuovendo un approccio interdisciplinare che combina il rigore accademico con una visione orientata all’innovazione. Con il progetto Minerva, confermiamo la nostra missione: essere un motore di innovazione e progresso al servizio della società e del futuro.”


Dichiara Giuseppe De Pietro, Presidente di FAIR – Future AI Research:

“La realizzazione di Minerva, oltre a costituire un risultato scientifico di indubbio valore, rappresenta un’esperienza di successo del modello di cooperazione tra la Fondazione ed i propri soci. FAIR, infatti, ha tra i suoi compiti quello di  supportare le attività e i prodotti di eccellenza della ricerca svolta all’interno del partenariato, come Minerva e molti altri. Crediamo davvero che Minerva abbia tutte le potenzialità per diventare il Large Language Model di riferimento per la Pubblica Amministrazione e lavoreremo come Fondazione per valorizzarlo.”


Dichiara Alessandra Poggiani, Direttrice generale di Cineca:

“Siamo felici di mettere le nostre competenze e l’infrastruttura a disposizione di un progetto di ricerca d’avanguardia nel campo dell’intelligenza artificiale, che offre significativi potenziali benefici a tutto il sistema Paese – in particolare alla sua pubblica amministrazione. È un progetto che interpreta bene la vocazione di Cineca a creare le condizioni di contesto ideali verso una più compiuta e ampia cittadinanza digitale.”

Il modello è accessibile al pubblico all’indirizzo https://minerva-llm.org e sarà possibile scaricarlo nelle settimane successive. Questa fase di test permetterà di svolgere un ulteriore affinamento sulla base delle conversazioni effettuate nei prossimi giorni.

Il team che ha lavorato allo sviluppo di Minerva 7B include ben 15 ricercatori e dottorandi (in ordine alfabetico): Edoardo Barba, Tommaso Bonomo, Simone Conia, Pere-Lluís Huguet Cabot, Federico Martelli, Luca Moroni, Roberto Navigli, Riccardo Orlando, Alessandro Scirè, Simone Tedeschi; hanno anche contribuito Stefan Bejgu, Fabrizio Brignone, Francesco Cecconi, Ciro Porcaro, Simone Stirpe. Si ringraziano anche Giuseppe Fiameni (NVIDIA) e Sergio Orlandini (Cineca).

Simulare l’attività cerebrale con l’intelligenza artificiale
Immagine di Ahmed Gad

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Nuove frontiere per il trattamento della SLA: la proteina HuD, un nuovo possibile target terapeutico
Lo studio, pubblicato su Nature Communications e coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha osservato un coinvolgimento della proteina HuD nei difetti della giunzione neuromuscolare, tra i primi segni distintivi della patologia. I risultati aprono allo sviluppo di nuove terapie mirate.

La SLA è una malattia neurodegenerativa progressivamente invalidante, dovuta alla compromissione graduale dei neuroni motori, le cellule nervose che stimolano la contrazione muscolare permettendo il movimento e altre funzioni importanti. Quando nei pazienti i neuroni motori degenerano, i muscoli volontari non ricevono più stimoli dal cervello e si atrofizzano, portando così alla paralisi completa. Attualmente, si utilizzano trattamenti capaci di ridurre i sintomi della malattia ma non esiste una cura per fermarne la progressione.

I difetti della giunzione neuromuscolare – il punto di connessione tra i neuroni motori e il muscolo – sono tra i primi segni distintivi della SLA.

Da quanto emerge dalla ricerca, condotta dal gruppo di Alessandro Rosa del Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e l’Università di Pittsburgh, ci sarebbe un legame tra la disregolazione di una specifica proteina, denominata HuD, e i disturbi della giunzione neuromuscolare nei pazienti affetti da SLA.

“I risultati ottenuti individuano in questa proteina un ruolo cruciale in un momento precoce della malattia suggerendola quindi come un possibile target in ambito terapeutico”, ha sottolineato Alessandro Rosa.

La ricerca ha mostrato come livelli elevati di proteina HuD possano portare a difetti alla giunzione neuromuscolare con conseguente degenerazione dei neuroni motori. Riducendo quindi i livelli della proteina con terapie mirate si potrebbero limitare i disturbi della giunzione neuromuscolare nei pazienti.

Questa evidenza è stata confermata in vivo in un modello animale, il moscerino Drosophila melanogaster, in cui la sovraespressione della proteina causa difetti nella locomozione, mentre la sua riduzione migliora il fenotipo motorio.

Il progetto è stato finanziato dal PNRR nell’ambito del Centro Nazionale 3 – Sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA. Per il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie hanno contribuito al lavoro anche Alessio Colantoni e Monica Ballarino.

Riferimenti bibliografici:

“HuD impairs neuromuscular junctions and induces apoptosis in human iPSC and Drosophila ALS models” – Beatrice Silvestri, Michela Mochi, Darilang Mawrie, Valeria de Turris, Alessio Colantoni, Beatrice Borhy, Margherita Medici, Eric Nathaniel Anderson, Maria Giovanna Garone, Christopher Patrick Zammerilla, Marco Simula, Monica Ballarino, Udai Bhan Pandey & Alessandro Rosa, Nature Communications, volume 15, Article number: 9618 (2024) doi: https://www.nature.com/articles/s41467-024-54004-8

Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma