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Charme: la molecola di lncRNA che controlla lo sviluppo del cuore
Charme è un lncRNA che controlla lo sviluppo cardiaco attraverso circuiti molecolari che si instaurano nel muscolo grazie alla sua interazione con la proteina Matrin3 

La molecola di RNA è in grado di costruire specifiche reti di interazione per un controllo temporale e spaziale dei processi di formazione del cuore.

È quanto dimostrato da un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza e pubblicato sulla rivista eLife.

Charme: la molecola di lncRNA che controlla lo sviluppo del cuore 
Crediti per l’immagine: Taliani et al.

Per affrontare la complessità dei processi biologici, le cellule sfruttano molteplici sistemi di regolazione, spesso basati sull’attività di molecole di RNA, come nel caso dei lunghi RNA non codificanti (long non coding RNA, lncRNA) che non producono proteine. Queste molecole sono in grado di costruire specifiche reti di interazione per un controllo temporale e spaziale dei processi biologici.

È il caso di Charme, un lncRNA che controlla lo sviluppo cardiaco attraverso circuiti molecolari che si instaurano nel muscolo grazie alla sua interazione con la proteina Matrin3. Matrin3 è coinvolta in diverse miopatie e in malattie neurodegenerative, come la Sclerosi laterale amiotrofica (SLA).

Un nuovo studio italiano pubblicato sulla rivista internazionale eLife e coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza in collaborazione con l’Istituto italiano di tecnologia e l’European Molecular Biology Laboratory ha rivelato il ruolo chiave di Charme nell’accensione di geni necessari alla maturazione delle cellule del cuore. La presenza di Charme già durante le fasi embrionali dello sviluppo cardiaco, si è rivelata fondamentale per guidare Matrin3 sui giusti contesti genomici, promuovendo la funzionalità e lo sviluppo cardiaco.

“Tra i piani futuri del laboratorio – spiega Monica Ballarino della Sapienza – c’è l’ulteriore caratterizzazione funzionale di Charme che è abbondantemente espresso nel muscolo umano. Questo permetterà una migliore comprensione della fisiologia e dello sviluppo del cuore ed il disegno di nuove strategie diagnostiche e terapeutiche per le patologie cardiache.”

Riferimenti:

The long noncoding RNA Charme supervises cardiomyocyte maturation by controlling cell differentiation programs in the developing heart – Valeria Taliani, Giulia Buonaiuto, Fabio Desideri, Adriano Setti, Tiziana Santini, Silvia Galfrè, Leonardo Schirone, Davide Mariani, Giacomo Frati, Valentina Valenti, Sebastiano Sciarretta, Emerald Perlas, Carmine Nicoletti, Antonio Musarò, Monica Ballarino – eLife 2023 https://doi.org/10.7554/eLife.81360

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Le microscopiche regole del cuore: nuovo meccanismo di apertura dei canali ionici

Un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza e dall’Università di Chicago rivela un nuovo meccanismo di apertura di alcuni canali ionici che regolano la contrazione cardiaca. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, è stato realizzato nell’ambito del progetto ERC HyGate.

meccanismo di apertura di alcuni canali ionici cuore
Un nuovo studio rivela un nuovo meccanismo di apertura di alcuni canali ionici che regolano la contrazione cardiaca. Foto di Parentingupstream

Gli organi vitali come i muscoli, il cuore e il cervello per funzionare hanno bisogno di proteine, i canali ionici, che regolano il passaggio di ioni come potassio o sodio attraverso la membrana delle cellule grazie a un meccanismo controllato di apertura e chiusura definito “gating”.

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, coordinato dalla Sapienza e dall’Università di Chicago, ha esaminato il canale ionico Ether-à-go-go-Related Gene (hERG), un canale voltaggio-dipendente permeabile al potassio che regola la contrazione del cuore. Malfunzionamenti di questo canale sono associati alla Sindrome del QT Lungo di tipo 2 (LQTS2), una grave patologia cardiaca che può portare ad aritmia e persino alla morte improvvisa anche in persone molto giovani.

I ricercatori hanno rilevato la presenza di una catena inaspettata di contatti tra gli amminoacidi che collega il sensore del canale, sensibile alle variazioni di voltaggio, al poro che effettivamente ne determina l’apertura e la chiusura. Mutando gli amminoacidi più importanti di questa catena è stato possibile identificare, grazie ad una sinergia tra simulazioni molecolari e esperimenti di elettrofisiologia, un nuovo meccanismo di gating, di tipo non canonico.

 “Tali risultati– spiega Alberto Giacomello del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, coordinatore del lavoro – forniscono nuovi dettagli sul meccanismo di apertura e chiusura del canale hERG utili sia alla comprensione delle cause molecolari alla base della LQTS2 sia alla progettazione di terapie più specifiche per il trattamento della patologia.”

Riferimenti:
Noncanonical electromechanical coupling paths in cardiac hERG potassium channel – Carlos A. Z. Bassetto Jr, Flavio Costa, Carlo Guardiani, Francisco Bezanilla & Alberto Giacomello – Nat Commun 14, 1110 (2023). https://doi.org/10.1038/s41467-023-36730-7

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Scoperto un nuovo meccanismo di attivazione del nostro sistema immunitario cerebrale
Le ricercatrici e i ricercatori della Sapienza e dell’IIT svelano un meccanismo fondamentale per l’attivazione della microglia, un gruppo di cellule del sistema nervoso ancora poco compreso. Queste scoperte gettano le basi per possibili nuovi trattamenti contro il dolore neuropatico, spesso riscontrato in seguito alla chemioterapia.

sistema immunitario cerebrale microglia
Scoperto un nuovo meccanismo di attivazione del nostro sistema immunitario cerebrale. Nell’immagine, una microglia. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia

Un team di ricercatori e ricercatrici guidato da Silvia Di Angelantonio del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia “V. Erspamer” della Sapienza e del laboratorio Nanotechnologies for neurosciences, coordinato da Giancarlo Ruocco dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), in collaborazione con la Columbia University, ha pubblicato un articolo sulla rivista Cell Reports dove ha messo in luce un nuovo meccanismo di attivazione della microglia, una tipologia di cellule che costituisce la prima linea di difesa nel cervello. Questa scoperta potrebbe costituire la base di nuovi approcci da impiegare contro il dolore neuropatico, spesso riscontrato in seguito ai trattamenti chemioterapici, in cui la microglia è coinvolta.

La microglia è una tipo di cellula presente nel cervello, dove svolge funzione immunitaria, ossia difende il sistema nervoso da ciò che potrebbe danneggiarlo, come patogeni, cellule tumorali o infiammazione. Quando non sono presenti minacce, le cellule della microglia sono presenti nel cosiddetto “stato non attivato” o “di sorveglianza” caratterizzato da un gran numero di ramificazioni che vengono sfruttate proprio per sorvegliare l’ambiente del cervello alla ricerca di segnali di pericolo che, una volta trovati, faranno acquisire alla microglia il suo “stato attivato” passando da una forma ramificata a una forma tondeggiante, conformazione con il quale può svolgere la sua funzione di difesa.

Il gruppo ha scoperto il ruolo fondamentale che hanno i microtubuli, elementi fondamentali per dare la forma alle cellule, in questa conversione da stato non attivato a stato attivato.

Nella microglia non attivata i microtubuli si allineano parallelamente, mentre in quella attivata si dispongono a raggiera, simile a una ruota di bicicletta. Questa riorganizzazione dei microtubuli è fondamentale per l’attivazione della microglia, infatti, bloccando questo processo nel corso dei loro esperimenti, il team ha notato che la microglia non riusciva più ad attivarsi.

Mentre la microglia ramificata non attivata e quella tondeggiante attivata sono entrambe essenziali per la salute del cervello, la microglia che rimane bloccata nello stato attivato contribuisce all’infiammazione cerebrale e alla progressione di malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer.

Inoltre, la microglia è implicata nello sviluppo del dolore neuropatico, spesso riscontrato in pazienti trattati con la terapia chemioterapica. Ciò è dovuto al fatto che alcuni farmaci chemioterapici vanno ad attaccare i microtubuli per distruggere le cellule cancerogene. Il problema è che spesso questi farmaci colpiscono non solo le cellule tumorali, ma anche quelle sane, generando quindi il dolore.

“Il futuro sarà lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici mirati a modulare in maniera specifica i cambiamenti dei microtubuli della microglia, senza andare a intaccare le altre cellule – conclude Silvia Di Angelantonio, coordinatrice dello studio – Questo nell’ottica di prevenire o contrastare l’attivazione patologica della microglia. Siamo solo all’inizio di questo percorso, ma ci stiamo muovendo in questo senso”.

Riferimenti:

Microglia reactivity entails microtubule remodeling from acentrosomal to centrosomal arrays – Rosito M, Sanchini C, Gosti G, Moreno M, De Panfilis S, Giubettini M, Debellis D, Catalano F, Peruzzi G, Marotta R, Indrieri A, De Leonibus E, De Stefano ME, Ragozzino D, Ruocco G, Di Angelantonio S, Bartolini F. – Cell Reports 2023 Feb 28 42(2): 112104. DOI: https://doi.org/10.1016/j.celrep.2023.112104

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Buchi neri: quale destino dopo la loro evaporazione?

Uno studio congiunto Sapienza-INFN ipotizza, attraverso complesse simulazioni numeriche, i possibili effetti del fenomeno di evaporazione dei buchi neri, la cui esistenza è stata prevista da Stephen Hawking. La ricerca è pubblicata sulla rivista Physical Review Letter.

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Il buco nero supermassiccio nel nucleo della galassia ellittica Messier 87 nella costellazione della Vergine. Si tratta della prima foto diretta di un buco nero, realizzata dal progetto internazionale Event Horizon Telescope. Foto modificata Event Horizon TelescopeCC BY 4.0

Il destino dei buchi neri potrebbe essere quello di evaporare fino a dischiudere le singolarità gravitazionali altrimenti celate dall’inviolabile barriera rappresentata dall’orizzonte degli eventi, oppure assumere una forma stabile e paragonabile ai più suggestivi oggetti previsti dalla Relatività Generale di Einstein, i wormholes. È questa una delle conclusioni a cui è giunto uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), in collaborazione con una collega del Niels Bohr Institute danese, che, attraverso complesse simulazioni numeriche, ha esplorato per la prima volta, nell’ambito di una teoria della relatività generale modificata, i possibili esiti finali dell’evaporazione dei buchi neri, fenomeno previsto dal celebre fisico teorico Stephen Hawking. Il risultato, pubblicato sulla rivista Physical Review Letter, mette in evidenza l’importanza delle simulazioni numeriche (numerical relativity) per fornire nuove spiegazioni sul destino dei buchi neri, suggerendo al tempo stesso la possibilità di nuovi candidati di materia oscura formatisi alla fine della loro evaporazione nei primi istanti dell’universo.

Sebbene il regime di campo gravitazionale forte che li contraddistingue non consenta né alla materia, né alla luce, di liberarsi dalla loro oscura morsa, i buchi neri, a causa di effetti quantistici, evaporano emettendo radiazione termica in maniera continua. Descritta nel 1974 da Stephen Hawking, questa evaporazione comporterebbe il restringimento dell’orizzonte degli eventi di un buco nero, un processo non ancora osservato, il cui stadio finale rappresenta a sua volta uno dei grandi misteri della fisica teorica. La dissoluzione del buco nero potrebbe infatti non costituire l’unico esito possibile dell’evaporazione, che potrebbe cambiare drasticamente a seconda delle condizioni gravitazionali durante il processo.

“La riduzione di un buco nero”, spiega Fabrizio Corelli, ricercatore del Dipartimento di Fisica della Sapienza associato INFN e primo autore dello studio, “potrebbe comportare l’avvicinarsi dell’orizzonte degli eventi verso la singolarità gravitazionale presente al suo interno, e quindi verso regioni dello spaziotempo di curvatura sempre maggiore. È quindi inevitabile che, durante l’evaporazione di Hawking, effetti gravitazionali legati all’alta curvatura dello spaziotempo diverrebbero via via sempre più rilevanti, al punto da modificare lo stadio finale dell’evaporazione. Proprio per questo è particolarmente interessante studiare questi fenomeni in una teoria di gravità modificata come quella da noi considerata.”

Imponendo le opportune correzioni alla Relatività Generale e facendo ricorso a complesse simulazioni numeriche, i ricercatori sono stati perciò in grado di ottenere per la prima volta alcuni possibili stati finali per il processo di evaporazione dei buchi neri. Tra i risultati discussi nell’articolo apparso su Physical Review Letter, c’è quello che suggerisce la comparsa di singolarità al di fuori dei loro orizzonti degli eventi. Scenario che si pone tuttavia in contrasto con il cosiddetto principio di “censura cosmica” di Roger Penrose, il quale ipotizza come la singolarità debba essere relegata all’interno del buco nero e non possa essere in comunicazione diretta con l’esterno. Una seconda alternativa riguarda invece la trasformazione dei buchi neri in wormholes, strutture capaci di collegare punti diversi dello spaziotempo, previste sulla base di alcune soluzioni esotiche delle equazioni della Relatività Generale, ma finora mai osservate, le cui caratteristiche potrebbero consentire di spiegare l’ancora sfuggente natura della materia oscura.

“I risultati di questo studio – conclude Paolo Pani del Dipartimento di Fisica della Sapienza e ricercatore INFN – mostrano che l’evaporazione di un buco nero in teorie con correzioni ad alta curvatura alla Relatività Generale potrebbe violare la censura cosmica. Le simulazioni evidenziano infatti come durante il processo di evaporazione le singolarità potrebbero uscire dal buco nero. Se confermato, questo implicherebbe la necessità di una teoria quantistica della gravitazione per spiegare il destino dei buchi neri. È comunque possibile che il destino dell’evaporazione di Hawking sia la formazione di un wormhole, un oggetto senza singolarità e senza orizzonte degli eventi che non evapora ulteriormente, rispettando così la congettura di Penrose. Se confermato, in questo scenario i buchi neri primordiali, formati nei primi istanti dell’universo, evaporerebbero fino a raggiungere una configurazione stabile, diventando così dei perfetti candidati per spiegare la materia oscura”.

Riferimenti:

What is the fate of Hawking evaporation in gravity theories with higher curvature terms? – Fabrizio Corelli, Marina De Amicis, Taishi Ikeda, Paolo Pani – Physical Review Letter  https://doi.org/10.1103/PhysRevLett.130.091501

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Progetto CENIMINT: la collaborazione tra il Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma e Fondazione Santa Lucia IRCCS si allarga ulteriormente con lo studio delle neuroimmagini

Un nuovo progetto coinvolge il Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma e la Fondazione Santa Lucia IRCCS per far progredire la ricerca e contribuire alla formazione degli psicologi nell’ambito delle neuroimmagini, dell’analisi del segnale e della bioinformatica legati all’attività cerebrale.

neuroimmagini CENIMINT: Centro Neuroimmagini Multimodali Integrate
Immagine di Pete Linforth

Dalla collaborazione tra la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, ospedale di neuroriabilitazione e istituto di ricerca in neuroscienze, e il Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma, che ha recentemente ottenuto il prestigioso riconoscimento come dipartimento di eccellenza dal Ministero dell’Università, nasce il progetto CENIMINT: Centro Neuroimmagini Multimodali Integrate.

L’obiettivo del CENIMINT è applicare un approccio multimodale allo studio del cervello associando tecniche avanzate di neuroimaging non invasivo (con Risonanza Magnetica a 3 Tesla) all’analisi del segnale neuroelettrico (elettroencefalogramma). La combinazione di queste modalità di indagine permetterà di studiare la struttura, il funzionamento e la connettività cerebrale nella loro relazione con i diversi fenomeni mentali di interesse della psicologia – ad esempio come le immagini mentali, i pensieri, i ricordi, le emozioni sono realizzati ed implementati nelle varie reti di aree cerebrali. Sarà possibile studiare lo sviluppo del cervello dall’età pediatrica (dai 10 anni in su) fino all’età senile andando a misurare i cambiamenti sottostanti le principali malattie neurologiche che si manifestano nell’età evolutiva (ad es. ADHD, autismo, etc.) e nell’età adulta (malattie neurodegenerative come l’Alzheimer) e le conseguenze delle lesioni del sistema nervoso (ad esempio in caso di ictus).

Il progetto include anche lo studio degli effetti di diversi tipi di intervento psicologico e neuropsicologico, volti a potenziare le funzioni cognitive anche in persone sane, andando ad individuare le migliori pratiche di diagnosi e prevenzione delle malattie neurologiche e le opportune strategie di neuroriabilitazione – ad esempio studiando la riserva cognitiva, ossia quel patrimonio di conoscenze, competenze e funzioni accumulate dal cervello nell’arco della vita, che rappresenta un importante fattore di protezione in caso di malattie del sistema nervoso centrale.

A rendere possibile il progetto è l’apertura all’innovazione e alla ricerca del Dipartimento di Psicologia unite alla disponibilità presso l’istituto di ricerca romano di tecnologie e competenze nell’ambito delle neuroimmagini. Per l’avvio del progetto sono stati necessari tre requisiti: la disponibilità di strumentazione avanzata, in particolare apparecchiatura di risonanza magnetica a 3 Tesla, di competenze per la taratura, le variazioni e l’adattamento delle apparecchiature necessari per le sperimentazioni; la presenza in un unico istituto di sufficienti competenze multidisciplinari (psicologi, radiologi, neurologi, tecnici, fisici, etc.) necessari per la ricerca; la coesistenza con l’attività di ricerca di un’attività clinica di alto livello e con un ampio bacino di pazienti.

Il Centro si prefigge, inoltre, l’obiettivo di formare una nuova generazione di neuro-scienziati e coinvolgerà laureandi, dottorandi e specializzandi in attività di ricerca di frontiera favorendo il coinvolgimento precoce dei futuri ricercatori e operatori nelle attività di laboratorio.

“La costituzione di un centro di ricerca nel campo delle neuroimmagini”, dichiara la prof.ssa Anna Maria Giannini, psicologa e Direttrice del Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma, “è uno dei punti essenziali del progetto pluriennale di sviluppo del Dipartimento, che prevede l’acquisto di sofisticate strumentazioni scientifiche e il reclutamento di giovani ricercatori: progetto grazie al quale abbiamo recentemente ottenuto per la seconda volta consecutiva il riconoscimento come dipartimento di eccellenza. Il nostro Dipartimento è storicamente caratterizzato da un forte interesse per lo studio delle basi neurologiche dei processi mentali e da un’offerta didattica mirata a formare psicologi con solide competenze nel campo delle neuroscienze cognitive e della neuropsicologia. La possibilità per i nostri ricercatori e studenti di accedere a strumentazioni di avanguardia per lo studio in vivo del cervello umano in un contesto interdisciplinare rappresenta per noi un punto di svolta, che rafforza la posizione del Dipartimento nel panorama della ricerca neurocognitiva nazionale e internazionale e inaugura una nuova tappa della collaborazione storica con la Fondazione Santa Lucia”.

Commenta il prof. Carlo Caltagirone, neurologo e Direttore Scientifico del Santa Lucia IRCCS “L’innovatività del progetto consiste nella stretta cooperazione di clinici e ricercatori finalizzata all’obiettivo comune di studiare la neurobiologia del cervello in condizioni normali e malattie a livello strutturale, funzionale e molecolare, utilizzando tecniche di neuroimaging e di elaborazione del segnale all’avanguardia.

La collocazione all’interno della Fondazione Santa Lucia IRCCS permette un accesso diretto ad un contesto in cui coesistono ricerca di base e ricerca clinica traslazionale, fondando saldamente il progetto sulle competenze sviluppate nel servizio degli oltre 2000 pazienti ricoverati ogni anno all’interno del nostro ospedale di neuroriabilitazione e del vastissimo numero di persone con disturbi del sistema nervoso che si rivolgono ai nostri ambulatori”.

Frutto della più che trentennale cooperazione nell’ambito della ricerca, la collaborazione in ambito didattico tra il Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma e la Fondazione Santa Lucia IRCCS ha avuto inizio alla fine degli anni ’90 con l’istituzione presso l’ospedale romano della Scuola di specializzazione in neuropsicologia, la branca della psicologia che studia le alterazioni cognitive e comportamentali in pazienti colpiti da disturbi del sistema nervoso.

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Long Covid: identificati nuovi target molecolari correlati alla perdita dell’olfatto
Un nuovo studio italiano, a cui ha preso parte il Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza, rivela nuove vie molecolari coinvolte nella diminuzione o perdita dell’olfatto nel long Covid. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Brain, Behavior and Immunity.

La disfunzione olfattoria (OD), nota anche come anosmia o iposmia, ovvero la perdita o riduzione dell’olfatto, è uno degli effetti a lungo termine dell’infezione da Covid-19.

Un nuovo studio interamente italiano, frutto della collaborazione fra la Sapienza Università di Roma (Prof.ssa Roberta Lattanzi; Dott.ssa Daniela Maftei, Dott.ssa Martina Vincenzi del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia “Vittorio Erspamer”) il CNR (Dott.ssa Cinzia Severini, Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare, presso Dipartimento di Organi di Senso, Sapienza Università di Roma) e l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata (Prof. Nicola Biagio Mercuri, Prof. Francesco Maria Passali, Dott. Tommaso Schirinzi) ha individuato nuove vie molecolari coinvolte in questa manifestazione patologica della sindrome post-Covid. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Brain, Behavior, and Immunity.

Attraverso l’analisi dei neuroni olfattori di pazienti con OD da almeno 6 mesi, i ricercatori hanno dimostrato, rispetto ai soggetti di controllo, un grande aumento nell’attività di due vie infiammatorie strettamente legate alla fisiopatologia dell’olfatto vale a dire la sostanza P (SP) e la prochineticina-2 (PK2). Questo incremento, in correlazione con i test olfattivi, indica l’importanza di tali vie nelle alterazioni a lungo termine della sindrome post-Covid-19.

I neuroni olfattori sono stati ottenuti attraverso il nasal brush, lo spazzolamento della mucosa olfattoria, una tecnica non invasiva che permette di prelevare e poi analizzare questi neuroni simili, per molti aspetti, ai neuroni cerebrali.

“Mentre l’incremento di SP – spiega la Prof.ssa Roberta Lattanzi del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia Vittorio Ersparmer della Sapienza – sembra essere un fattore fondamentale nel processo infiammatorio probabilmente all’origine della tempesta di citochine, l’espressione di PK2 potrebbe invece essere correlata con il recupero delle funzioni olfattive”.

Considerando che le disfunzioni olfattorie post Covid-19 potrebbero essere preludio di potenziali conseguenze neurologiche a lungo termine, individuare nuovi target molecolari può essere utile sia per marcare precocemente condizioni a rischio sia per lo sviluppo di terapie mirate.

Attuali farmaci e nuove mutazioni del SARS-CoV-2; lo studio computazionale dell'Università degli Studi di Padova Long COVID olfatto
Immagine di Gerd Altmann

 

Riferimenti:

Substance P and Prokineticin-2 are overexpressed in olfactory neurons and play differential roles in persons with persistent post-COVID-19 olfactory dysfunction – Tommaso Schirinzi, Roberta Lattanzi, Daniela Maftei, Piergiorgio Grillo, Henri Zenuni, Laura Boffa, Maria Albanese, Clara Simonetta, Roberta Bovenzi, Riccardo Maurizi, Laura Loccisano, Martina Vincenzi, Antonio Greco, Stefano Di Girolamo, Nicola B Mercuri, Francesco M Passali, Cinzia Severini – Brain Behav Immun. 2022. doi: 10.1016/j.bbi.2022.12.017.

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Covid e trombosi: uno studio italiano coordinato da Sapienza scopre un recettore causa di ictus

La pubblicazione sulla rivista Circulation Research, giornale ufficiale della società americana di cardiologia, apre la strada a prospettive cliniche importanti nel trattamento dei pazienti COVID-19.

trombosi COVID-19 vaccinazione sesso stile vitaCovid e trombosi: uno studio italiano coordinato da Sapienza scopre un recettore causa di ictus. Foto di PIRO4D

La grave polmonite bilaterale con conseguente insufficienza respiratoria non è la sola causa di mortalità dovuta al COVID-19. I pazienti infatti subiscono spesso le complicanze di embolie polmonari, infarto del miocardio ed ictus, che sono altrettanti fattori di rischio di morte; nei casi più gravi circa il 20 % dei pazienti ospedalizzati può avere conseguenze cardiovascolari. Sebbene l’uso di eparina abbia ridotto l’entità di queste complicanze, il rischio rimane ancora elevato.

Lo studio realizzato da un gruppo di ricercatori di Sapienza Università di Roma, coordinato dal professore emerito Francesco Violi, apre nuove prospettive per contrastare il rischio trombotico nei pazienti affetti da COVID-19.  Attraverso lo studio di circa 50 pazienti gli autori hanno dimostrato che la proteina Spike del virus si lega al recettore TLR4 delle piastrine causandone l’attivazione e la trombosi; alla scoperta sono arrivati usando il sangue prelevato dai pazienti e seguendo 3 differenti metodologie, tutte concordanti sul legame tra proteina Spike e TLR4 delle piastrine.

“Il fatto che la trombosi mediata dalle piastrine sia stata bloccata da un inibitore del TLR4 – sottolinea Violi – apre prospettive cliniche importanti nel trattamento dei pazienti COVID-19 in quanto questo inibitore potrebbe essere usato per la prevenzione e la cura durante la fase acuta della malattia come farmaco antitrombotico”.

Al fine di favorire l’immediata sperimentazione clinica il gruppo di ricerca e la Rettrice della Sapienza Antonella Polimeni hanno scelto di non brevettare la scoperta e quindi favorire la libera circolazione nella comunità scientifica dei risultati dello studio, a beneficio della salute e della sicurezza collettiva.

Riferimenti:

Toll-Like Receptor 4-Dependent Platelet-Related Thrombosis in SARS-CoV-2 Infection

Roberto Carnevale, Vittoria Cammisotto, Simona Bartimoccia, Cristina Nocella, Valentina Castellani, Marianna Bufano, Lorenzo Loffredo, Sebastiano Sciarretta, Giacomo Frati, Antonio Coluccia, Romano Silvestri, Giancarlo Ceccarelli, Alessandra Oliva, Mario Venditti, Francesco Pugliese, Claudio Maria Mastroianni, Ombretta Turriziani, Martina Leopizzi, Giulia D’Amati, Pasquale Pignatelli and Francesco Violi

https://doi.org/10.1161/CIRCRESAHA.122.321541 Circulation Research. 2023;0

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La natura sociale dei concetti
Un nuovo numero speciale interdisciplinare, coordinato dal Dipartimento di Psicologia dinamica, clinica e salute della Sapienza, sottolinea l’importanza del linguaggio interno individuale e dell’interazione sociale nella costruzione dei concetti. I risultati del lavoro, promosso dal progetto europeo di scambi Traincrease, sono stati pubblicati sulla rivista Philosophical Transactions of the Royal Society B.

Foto di Hugo Hercer

Per sopravvivere gli esseri umani hanno bisogno dei concetti. Essi servono a distinguere gli oggetti e le entità che incontrano e con le quali interagiscono. I concetti sono la “colla” che collega il passato, il presente e il futuro degli esseri umani.

La scienza finora si è preoccupata soprattutto di studiare la creazione e la rappresentazione dei concetti e delle parole che li esprimono nel cervello, dando minor peso alla loro dimensione sociale.

Un nuovo numero speciale coordinato dal Dipartimento di Psicologia dinamica, clinica e salute della Sapienza propone di affrontare lo studio dei concetti attraverso una nuova lente, quella dell’interazione sociale. Tramite diversi studi teorici, sperimentali e computazionali, gli autori, che fanno parte del progetto europeo di scambi Traincrease, hanno evidenziato come l’interazione con le altre persone e l’interazione con noi stessi, ad esempio attraverso l’uso del linguaggio interno, influenzino i concetti e potenzino le nostre capacità cognitive.

Il lavoro si articola in due parti: la prima è dedicata all’influenza dell’interazione sociale sui concetti. Ad esempio, uno studio mostra che l’interazione sociale facilita l’accesso all’informazione quando le persone che interagiscono la pensano in modo simile (pensiero convergente) e promuove comportamenti di esplorazione quando le persone hanno opinioni differenti (pensiero divergente). In generale, i processi astrattivi sono facilitati se i gruppi sono composti da membri eterogenei e dissimili tra loro.

La seconda parte del lavoro si focalizza su come il linguaggio interno possa profondamente influenzare i nostri concetti, rappresentando un elemento fondamentale per la costruzione e la comprensione, in particolare di quelli astratti. Infatti questi ultimi, più complessi ed eterogenei dei concetti concreti, attivano maggiormente il linguaggio interno.

“Diversi tipi di linguaggio interno possono essere usati in fasi diverse dell’acquisizione e uso dei concetti astratti – spiega Anna Borghi della Sapienza – Supponiamo che ci venga detta una parola astratta, come “fantasia”: in una prima fase monitoriamo le nostre conoscenze e ne cerchiamo il significato nella memoria di lavoro; potremmo poi continuare la ricerca dialogando con noi stessi (linguaggio interno dialogico). Qualora questa ricerca non funzioni, ci rivolgiamo ad altri per avere informazioni”.

In generale, questo nuovo modo di intendere i concetti, che li àncora all’interazione con noi stessi e con gli altri, ha molte implicazioni sia teoriche che pratiche.

In ambito educativo può migliorare l’acquisizione dei concetti, in particolare di quelli astratti; in campo neuropsicologico aiuta ad affrontare il problema dei deficit concettuali che seguono a lesioni cerebrali, e sotto il profilo tecnologico, costituisce il presupposto per la creazione di sistemi artificiali in grado di riprodurre almeno in parte le più sofisticate capacità intellettive umane.

Riferimenti:
Concepts in interaction: social engagement and inner experiences – Anna M. Borghi, Albertyna Osinka, Andreas Roepstorff, Joanna Raczaszek-Leonardi – Philosophical Transactions of the Royal Society B, Biological Science (2022) https://doi.org/10.1098/rstb.2021.0351

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

L’importanza dell’Accordo di Parigi per le montagne e la loro biodiversità 
Il raggiungimento degli obiettivi definiti dall’accordo di Parigi sul clima favorirebbe in modo cruciale la sopravvivenza dei carnivori e degli ungulati di montagna. Ad affermarlo è uno studio condotto dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e pubblicato sulla rivista Conservation Biology.

Stambecco delle Alpi Capra ibex accordo Parigi montagne biodiversità
L’importanza dell’Accordo di Parigi per le montagne e la loro biodiversità. Stambecco delle Alpi (Capra ibex). Foto di Manfred Werner – Tsui, CC BY-SA 3.0

La montagna rappresenta da sempre un luogo di grande diversità biologica. Pur occupando una minima parte della superficie terrestre, circa il 20%, è in grado di ospitare ben 1/3 della diversità delle specie del mondo e metà di tutti gli hotspot di biodiversità globali.

Gli ambienti montani hanno fornito un rifugio a numerose specie durante i cambiamenti climatici del passato e potrebbero offrirlo anche in futuro, soprattutto a quelle che vivono immediatamente ai margini delle catene montuose. Ma le specie endemiche, già a rischio di estinzione, richiedono comunque imminenti misure di conservazione.

Le misure per limitare il fenomeno del riscaldamento globale (a 1,5 °C e 2 °C rispetto ai livelli preindustriali), stabilite con l’accordo di Parigi del 2015 tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, potrebbero favorire anche la salvaguardia dei mammiferi delle aree montane.

È quanto emerge da un nuovo studio, condotto da Chiara Dragonetti e Valeria Y. Mendez e coordinato da Moreno Di Marco del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza. In particolare, i ricercatori hanno analizzato la situazione dei carnivori e degli ungulati di montagna nel 2050, proiettando al futuro le loro nicchie climatiche, cioè l’insieme delle condizioni climatiche che permettono la sopravvivenza di una determinata specie.

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Conversation Biology, dimostrano che il rischio per la sopravvivenza dei carnivori e degli ungulati di montagna globalmente non è elevata, e che nessuna specie ha una probabilità di riduzione della propria nicchia climatica superiore al 50%. Il raggiungimento degli impegni dell’accordo di Parigi diminuirebbe però sostanzialmente l’instabilità climatica per le specie montane. Infatti, limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C comporterebbe una diminuzione della probabilità di contrazione di nicchia del 4% rispetto a uno scenario ad alte emissioni.

“A livello globale i mammiferi di montagna potrebbero essere in media meno in pericolo rispetto ad altri mammiferi – spiega Chiara Dragonetti, prima autrice dello studio – ma ci sono importanti eccezioni da tenere in considerazione, come per tutte le specie altamente endemiche, che non potranno trovare climi adatti altrove”.

Le montagne hanno fornito un rifugio a numerose specie durante i cambiamenti climatici del passato e potrebbero offrirlo anche in futuro, soprattutto a quelle specie che vivono immediatamente ai margini delle catene montuose. Ma le specie endemiche già a rischio di richiedono comunque imminenti misure di conservazione.

“Per proteggere la biodiversità montana saranno quindi necessari – aggiunge Dragonetti – sia una forte politica di mitigazione del clima, sia rapidi interventi di conservazione che abbiano come target le specie già vulnerabili. Inoltre, azioni mirate per un uso più sostenibile del suolo dovrebbero far parte delle politiche internazionali per preservare le montagne tropicali, soprattutto in Africa, Sud-est asiatico e Sud America. Queste sono infatti le zone del mondo con la più alta biodiversità montana, ma anche quelle che affrontano le sfide più grandi in termini di sviluppo e crescita della popolazione”.

“Gli obiettivi climatici definiti dall’accordo di Parigi – conclude Moreno Di Marco, coordinatore del laboratorio Biodiversity & Global Change della Sapienza – derivano da negoziazioni politiche che non sempre trovano riscontro scientifico per quanto riguarda i sistemi biologici. Con questo lavoro dimostriamo che non raggiungere l’accordo di Parigi comporta rischi seri per la biodiversità e per i delicati equilibri ecosistemici degli ambienti montani”.

Riferimenti:
Scenarios of change in the realized climatic niche of mountain carnivores and ungulates – Chiara Dragonetti, Valeria Y. Mendez A, Moreno Di Marco – Conservation Biology (2022)  https://doi.org/10.1111/cobi.14035

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Spatial Transcriptomic: una metodica innovativa che svela informazioni fondamentali sull’apparato muscolo scheletrico

Uno studio italo-francese, coordinato dalle università Sapienza e Sorbona, evidenzia le potenzialità di una metodica di ultima generazione nella comprensione del legame tra struttura del muscolo scheletrico ed espressione genica. Il lavoro, pubblicato sulla rivista Cell Reports, avrà importanti risvolti nella cura di alcune patologie traumatiche.

apparato muscolo scheletrico Spatial Transcriptomic
Muscolo scheletrico. Foto di Alexander G. Cheroske, CC BY-SA 4.0

Il muscolo scheletrico è una struttura organizzata, composta da distretti anatomici ben definiti, come vasi sanguigni, tessuto connettivo e nervi, ognuno con compiti ben precisi.

A oggi non è chiara la correlazione diretta tra struttura del tessuto ed espressione genica. Da qui la difficoltà a stabilire come ciascuna unità corrisponda a contesti fisio-patologici specifici.

Proprio per approfondire tali aspetti è nata una collaborazione tra il gruppo di studio della Sapienza guidato da Luca Madaro del Dipartimento di Scienze anatomiche, istologiche, medico legali e dell’apparato locomotore e quello dell’Università Sorbona di Parigi guidato da Lorenzo Giordani. Al lavoro hanno preso parte anche Alberto Macone e Laura Ciapponi della Sapienza e Claudio Sette dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Cell Reports, evidenzia le potenzialità di una metodica innovativa, chiamata Spatial Transcriptomic, nel colmare la carenza di informazioni circa la correlazione tra struttura del muscolo scheletrico ed espressione genica: tale approccio, insieme a un’analisi temporale, ha permesso di stabilire come i geni siano regolati in specifici distretti dell’apparato e come questa espressione genica si modifichi per effetto di perturbazioni esterne.

Il processo innovativo consiste in una combinazione tra la trascrittomica, disciplina che studia l’insieme di tutti gli RNA messaggeri detti trascrittomi, e l’immunofluorescenza, una tecnica immunologica che consente il rilevamento e la localizzazione di un’ampia varietà di antigeni in un dato tessuto o cellula.

Mediante questa tecnica, è stato possibile ottenere altre informazioni di notevole importanza sulla distribuzione spaziale degli enzimi, responsabili della sintesi delle poliammine, risulta essere circoscritta in una parte del muscolo corrispondente alle fibre muscolari con metabolismo glicolitico, e l’espressione di questi geni risulta dipendere dal nervo. Infatti, in caso di lesione di quest’ultimo, si osserva un’alterazione dell’espressione di tali geni.

Questi risultati hanno portato i ricercatori all’ipotesi che il ripristino dell’equilibrio nella sintesi delle poliammine potrebbe quindi rappresentare una valida strategia terapeutica in patologie traumatiche o genetiche dove il muscolo risulti denervato. Solo studi futuri potranno, però, confermare e dimostrare tale ipotesi innovativa.

Riferimenti:

Spatially resolved transcriptomics reveals innervation-responsive functional clusters in skeletal muscle – Chiara D’Ercole, Paolo D’Angelo, Veronica Ruggieri, …, Claudio Sette, Lorenzo Giordani, Luca Madaro – Cell Reports 2022 DOI:https://doi.org/10.1016/j.celrep.2022.111861

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma