SCOPERTA A TORINO UNA PROTEINA CHIAVE PER LA MEMORIA E L’APPRENDIMENTO, LA PROTEINA SKT
Un team del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute rivela il ruolo di SKT nelle sinapsi, aprendo nuove prospettive per comprendere i disturbi cognitivi e neurologici
Comprendere come funziona il cervello è una delle sfide più affascinanti e difficili della scienza. Un passo avanti decisivo arriva ora dall’Università di Torino: il gruppo di ricerca guidato dalla Prof.ssa Paola Defilippi, in collaborazione con i gruppi dei colleghi Ilaria Bertocchi e Andrea Marcantoni, ha scoperto il ruolo fondamentale di una proteina, finora poco conosciuta, chiamata SKT.
Lo studio, appena pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Cell Reports, dimostra che SKT è un elemento cruciale per la formazione e la funzione delle sinapsi, i punti di contatto attraverso cui i neuroni comunicano. In sua assenza, la comunicazione nervosa diventa imprecisa e inefficace, con ricadute su funzioni motorie e cognitive.
Le sinapsi non sono statiche: si rimodellano continuamente, permettendo al cervello di adattarsi e immagazzinare nuove informazioni. Questo processo, noto come plasticità cerebrale, si fonda anche sulla presenza di minuscole protuberanze chiamate spine dendritiche. Il team torinese ha dimostrato che SKT agisce come “adattatore molecolare”, indispensabile per far maturare correttamente le spine dendritiche e rendendole capaci di trasmettere i segnali nervosi in modo preciso.
Senza SKT, invece, si formano solo spine immature e disfunzionali, con conseguenze dirette sulla capacità di apprendere e ricordare. Non a caso, nei modelli animali privi di questa proteina sono emersi alcuni comportamenti riconducibili ai disturbi dello spettro autistico.
Studi genetici avevano già suggerito un legame tra il gene di SKT e test neuropsicologici per la memoria a breve termine. Ora il lavoro torinese, grazie anche al prezioso contributo dei giovani ricercatori Dr. Alessandro Morellato, Mario De Gregorio e Costanza Angelini, fornisce una solida spiegazione molecolare, confermando il coinvolgimento di SKT nei processi cognitivi.
La ricerca ha inoltre identificato le interazioni di SKT con altre due proteine già note per il loro ruolo nella plasticità sinaptica, PSD-95 e SHANK3, da tempo associate all’autismo.
“Abbiamo individuato un nuovo tassello essenziale per capire come funzionano le sinapsi e come si alterano in diverse patologie. Questo lavoro getta le basi per esplorare nuove strategie diagnostiche e terapeutiche nei disturbi cognitivi e del neurosviluppo”, dichiara la Prof.ssa Defilippi.
Alessandro Morellato
Mario De Gregorio
Ilaria Bertocchi
Paola Defilippi
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
Una nuova ricerca UniTo approfondisce la complessa relazione tra ghiaccio e magma per prevedere le eruzioni e ridurre i rischi ambientali
Un nuovo studio coordinato dal prof. Matteo Spagnolo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, appena pubblicato su Nature Communications, propone una possibile svolta nel monitoraggio dei vulcani ricoperti da ghiacciai: questi ultimi non sarebbero soltanto un ostacolo logistico per le attività di rilevamento, ma i loro cambiamenti potrebbero diventare nuovi e preziosi precursori di eruzioni future.
La ricerca ha analizzato su scala globale 307 vulcani attivi e 40.667 ghiacciai localizzati sulle loro sommità o nelle immediate vicinanze, confrontando le differenze di quota tra ghiacciai “vulcanici” e ghiacciai circostanti. I risultati mostrano che, nell’80% dei casi, i ghiacciai situati direttamente sopra i vulcani sono mediamente collocati a quote più elevate rispetto a quelli limitrofi.
Questa anomalia sarebbe legata al calore emesso dal sistema vulcanico: la presenza di camere magmatiche e gas ad alta temperatura, inclusi vapor d’acqua e anidride carbonica, provoca infatti un riscaldamento della superficie e un maggiore scioglimento del ghiaccio, che viene confinato a quote più alte rispetto ai ghiacciai circostanti che non risentono dell’effetto vulcanico.
“Poiché la temperatura dei vulcani tende ad aumentare man mano che ci si avvicina a un’eruzione”, spiega il prof. Spagnolo, “è plausibile che anche i ghiacciai reagiscano con un ritiro ancora più marcato. Monitorare la loro quota media potrebbe quindi diventare un nuovo strumento per migliorare le previsioni eruttive”.
Il monitoraggio dei vulcani si basa già sull’analisi di diversi precursori – dalle deformazioni del suolo ai cambiamenti delle emissioni di gas in superficie – nessuno dei quali, preso singolarmente, è sufficiente per predire con certezza un’eruzione. L’aggiunta del comportamento dei ghiacciai come ulteriore indicatore potrebbe rivelarsi strategica, soprattutto in quelle aree del mondo dove vulcani e ghiacciai convivono e dove spesso monitoraggi diretti sul posto non sono possibili per motivi economici o logistici.
Nel mondo circa il 20% dei vulcani è ricoperto da ghiacciai e le loro eruzioni sono particolarmente pericolose.
“La storia ci ricorda quanto questa combinazione possa essere devastante: nel 1985, il vulcano Nevado del Ruiz in Colombia causò una colata di fango e rocce, innescata dallo scioglimento improvviso dei ghiacci sommitali, che travolse intere comunità e uccise oltre 25.000 persone”, prosegue Spagnolo.
Matteo Spagnolo
Grazie a un approccio comparativo basato su banche dati internazionali e tecniche avanzate di analisi, il team di ricerca ha potuto isolare l’effetto del vulcano da quello del clima circostante, limitando lo studio a un raggio di 40 km attorno a ciascun edificio vulcanico. Questo ha permesso di dimostrare che le anomalie osservate nei ghiacciai sono legate direttamente all’attività vulcanica e non a fattori climatici.
Il lavoro del gruppo guidato dal prof. Spagnolo apre la strada a un nuovo capitolo della ricerca sui precursori vulcanici. Integrare i ghiacciai tra gli strumenti di monitoraggio significa non solo comprendere meglio la complessa relazione tra ghiaccio e magma, ma anche offrire un contributo concreto alla riduzione dei rischi naturali per milioni di persone che vivono nelle regioni vulcaniche del pianeta.
I BATTERI INTESTINALI POSSONO MODULARE L’ATTIVITÀ NEURONALE ATTRAVERSO SEGNALI BIOELETTRICI: SCOPERTA UNA COMUNICAZIONE DIRETTA TRA INTESTINO E CERVELLO
Un team di ricerca italo-spagnolo dimostra per la prima volta che i batteri intestinali possono modulare l’attività neuronale attraverso segnali bioelettrici, aprendo nuove strade per la cura di ansia e depressione
Un innovativo studio condotto congiuntamente dall’Università di Torino e dall’Università Complutense di Madrid, pubblicato sulla rivista Scientific Reports (gruppo Nature), apre nuove prospettive nella comprensione della comunicazione tra microbiota intestinale e sistema nervoso.
Per la prima volta, i ricercatori hanno dimostrato che un batterio probiotico di origine alimentare, Lactiplantibacillus plantarum, è in grado di modulare direttamente l’attività neuronale attraverso segnali bioelettrici, senza necessità di attraversare barriere o mediazioni immunitarie.
“Abbiamo sviluppato un modello in vitro che mette a contatto diretto neuroni corticali di ratto e L. plantarum” – spiega la Prof.ssa Celia Herrera Rincon, Principal Investigator dello studio – “e abbiamo osservato che i batteri si legano alla superficie neuronale senza penetrarne il nucleo, ma influenzano in modo significativo l’attività neuronale. È la prima volta che viene dimostrata questa interazione diretta, e i segnali bioelettrici coinvolti rappresentano una nuova frontiera nella ricerca biologica”.
L’analisi in tempo reale dell’attività neuronale, condotta tramite imaging del calcio, ha rivelato un aumento della segnalazione intracellulare dipendente sia dalla concentrazione batterica che dal loro metabolismo attivo. Parallelamente, l’analisi proteica ha evidenziato modifiche nei livelli di molecole chiave della neuroplasticità, come sinapsina I e pCREB.
“Questi risultati” – commenta il Rettore dell’Università di Torino e neuropsichiatra Stefano Geuna, co-autore dello studio – “aprono la strada a nuovi approcci terapeutici. Potremmo un giorno trattare disturbi neuropsichiatrici gravi e diffusi, come ansia e depressione, intervenendo sul microbiota intestinale con strategie dietetiche mirate”.
Il lavoro si inserisce nel crescente interesse scientifico per l’asse intestino-cervello, ma sposta l’attenzione dalle vie indirette, già ampiamente studiate, a un’interazione diretta tra batteri e cellule nervose. Questo rappresenta un cambio di paradigma nella biologia cellulare e nelle neuroscienze, con possibili ricadute cliniche e tecnologiche in ambito neurologico e psichiatrico.
Riferimenti bibliografici:
Lombardo-Hernandez, J., Mansilla-Guardiola, J., Aucello, R. et al., An in vitro neurobacterial interface reveals direct modulation of neuronal function by gut bacteria, Sci Rep15, 25535 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-10382-7
I batteri intestinali, come il Lactiplantibacillus plantarum, possono modulare l’attività neuronale attraverso segnali bioelettrici. Foto di Konstantin Kolosov
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
PISTE DA SCI E BIODIVERSITÀ: UNA RISORSA INATTESA PER GLI UCCELLI ALPINI
Uno studio del Bird Lab Torino scopre che, in primavera, le aree innevate artificialmente offrono occasioni di foraggiamento per alcune specie. Ma gli impatti ambientali restano una minaccia
Le piste da sci delle Alpi italiane, spesso al centro del dibattito per il loro impatto ambientale, potrebbero offrire un’insolita risorsa ecologica in primavera: aree di alimentazione per diverse specie di uccelli. È quanto emerge dallo studio “Spring snowmelt and mountain birds: foraging opportunities along ski-pistes”, appena pubblicato sulla rivista Bird Conservation International, condotto dal Bird Lab Torino e guidato dal dott. Riccardo Alba.
La ricerca, svolta nel comprensorio sciistico della Via Lattea, nei pressi di Sestriere (Alpi Cozie), ha documentato la presenza attiva di 17 specie di avifauna lungo le piste innevate. Gli uccelli sembrano prediligere i margini delle piste dove la neve si alterna al fango, creando microhabitat ricchi di invertebrati, proprio in un periodo critico dell’anno in cui le specie devono recuperare energie in vista della stagione riproduttiva.
Il fenomeno è legato allo scioglimento ritardato della neve sulle piste rispetto agli habitat circostanti, dovuto sia al compattamento del manto nevoso sia all’utilizzo di neve artificiale. Una dinamica simile a quella delle chiazze di neve residua in natura, che offre opportunità alimentari in ambienti altrimenti ancora inospitali a fine inverno.
Ma lo studio mette anche in guardia: il bilancio ecologico complessivo dell’attività sciistica resta negativo. La costruzione e la gestione delle piste comportano alterazioni significative dell’ambiente alpino, dalla rimozione della vegetazione alla compattazione del suolo, fino all’impiego sempre più massiccio di neve artificiale, con impatti idrici e biologici ancora poco noti.
Alla luce dei cambiamenti climatici e del previsto calo delle nevicate naturali, gli autori sottolineano l’urgenza di integrare le dinamiche ecologiche legate alla neve e alla fauna nelle strategie di gestione del territorio montano. Promuovere un turismo più sostenibile e una pianificazione attenta agli equilibri ecologici diventa fondamentale per tutelare la biodiversità alpina, oggi sempre più sotto pressione.
Piste da sci e biodiversità: in primavera, le aree innevate artificialmente offrono occasioni di foraggiamento per alcune specie di uccelli sulle Alpi Cozie; lo studio pubblicato sulla rivista Bird Conservation International. In foto, uno spioncello (Anthus spinoletta)
Riferimenti bibliografici:
Alba R, Fragomeni A, Rosselli D, Chamberlain D, Spring snowmelt and mountain birds: foraging opportunities along ski-pistes, Bird Conservation International 2025;35:e23. doi:10.1017/S0959270925100130
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario
Un team di ricercatori dell’IFOM, dell’Università di Torino e dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, l’Ospedale San Raffaele e l’Istituto di Candiolo, ha individuato una strategia innovativa per rendere i tumori del colon-retto sensibili all’immunoterapia, combinando due chemioterapici specifici. La scoperta, resa possibile grazie al sostegno dell’European Research Council (ERC) e della Fondazione AIRC, è stata pubblicata sull’autorevole rivista scientifica Cancer Cell e apre nuove possibilità terapeutiche per il tumore al colon-retto.
Il problema che affligge, ancora oggi, migliaia di pazienti oncologici è rappresentato dalla mancanza di terapie efficaci sebbene enormi passi avanti siano stati fatti. L’immunoterapia rappresenta una vera rivoluzione in oncologia negli ultimi 15 anni, incrementando le possibilità di cura per pazienti con melanoma, tumore del rene e alcune forme di cancro al polmone. Tuttavia, quando si tratta di tumore del colon-retto metastatico, questa terapia innovativa funziona solo in meno del 5% dei pazienti. La ragione sta nelle caratteristiche molecolari specifiche di questo tipo di cancro, che lo rendono praticamente “invisibile” al sistema immunitario.
“Da circa dieci anni nei nostri laboratorio studiamo una categoria di tumori che presentano un sistema di riparazione del DNA difettoso, chiamato mismatch repair”, spiega Alberto Bardelli, Direttore Scientifico di IFOM e Professore Ordinario del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, coordinatore dello studio. “Questi tumori definiti immunoresponsivi – prosegue Giovanni Germano, Ricercatore di IFOM e Professore associato di Istologia all’Università Statale di Milano, che ha coordinato lo studio insieme a Bardelli – sono particolari perché, a causa di questo difetto, accumulano centinaia di mutazioni che creano nuovi antigeni, ovvero molecole che funzionano come ‘bandierine rosse’ per richiamare l’attenzione del sistema immunitario.”
L’obiettivo era quindi trovare un modo per trasformare i tumori “freddi”, che il sistema immunitario non riesce a vedere, in tumori “caldi” che invece può attaccare efficacemente.
“In questa fase sperimentale, grazie al sostegno di Fondazione AIRC, avevamo già scoperto che alcuni farmaci come la temozolomide riescono a far emergere nel tumore le cellule in grado di presentare quelle bandierine rosse, quelle che il sistema immunitario riesce ad attaccare meglio – spiega Bardelli. – Il problema era che questo approccio funzionava solo per una piccola parte dei pazienti: meno del 20% di chi ha un tumore al colon-retto metastatico.”
“Partendo da queste considerazioni, quattro anni fa abbiamo avviato un percorso di studio innovativo. – illustra Pietro Paolo Vitiello, Ricercatore IFOM e Oncologo medico presso l’Università di Torino, primo autore dello studio pubblicato su Cancer Cell – Abbiamo pensato di osservare cosa succede quando esponiamo le cellule tumorali a specifiche combinazioni di chemioterapici.”
La svolta è arrivata studiando la combinazione di due farmaci: la temozolomide, già nota per la sua capacità di selezionare cellule con difetti nel riparo del DNA, e il cisplatino.
“La combinazione di questi due chemioterapici – prosegue Vitiello – riesce a indurre nelle cellule tumorali uno stato adattativo particolare. Per sfuggire all’azione distruttiva dei farmaci, infatti, le cellule riducono la loro capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA”.
Il meccanismo di difesa del tumore si trasforma paradossalmente in una vulnerabilità:
“Le cellule trattate con questa combinazione – aggiunge Germano – hanno iniziato ad accumulare un numero elevatissimo di mutazioni, creando così tantissime nuove proteine, situazione simile a quando un batterio o un virus invadono da estranei il nostro organismo. È come se il tumore, nel tentativo di proteggersi dalla chemioterapia, si fosse reso riconoscibile e attaccabile dal sistema immunitario.”
Ma i benefici non si fermano qui: “Grazie ad una collaborazione con l’Ospedale San Raffaele – illustra Vitiello – abbiamo osservato che la combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare anche l’ambiente circostante il tumore, il cosiddetto microambiente tumorale, rendendolo più favorevole all’attivazione della risposta immunitaria contro il cancro”.
La ricerca, sostenuta dall’Advanced Grant “TARGET” erogato dall’European Research Council e da un finanziamento della Fondazione AIRC, non è rimasta confinata ai laboratori: grazie a una collaborazione con il gruppo di Luis Diaz al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, i primi 18 pazienti sono già stati trattati con questo approccio chemioterapico sperimentale.
“Il passaggio dai laboratori ai pazienti ha prodotto i primi risultati incoraggianti. – sottolinea Bardelli – le analisi dei campioni ematici di questi pazienti ci confermano che il trattamento funziona: aumenta effettivamente le mutazioni nelle cellule tumorali. Tuttavia – precisa lo scienziato – è ancora necessario un lavoro di ottimizzazione prima di poter proporre questo nuovo regime terapeutico a un numero maggiore di pazienti.”
Questa scoperta rappresenta un cambio di paradigma significativo: invece di combattere direttamente i meccanismi di resistenza del tumore, i ricercatori hanno imparato a sfruttarli.
“Possiamo pensare – riflette Bardelli – a trattamenti sempre più personalizzati che guidino l’evoluzione delle cellule tumorali verso uno stato che è più facilmente trattabile con le terapie immunologiche a disposizione.”
Il prossimo passo? “sarà di valutare – anticipa Bardelli – altre strategie per rendere i tumori più sensibili all’immunoterapia, agendo sia sulla produzione degli antigeni tumorali che sull’interazione tra sistema immunitario e cancro.”
“Questo lavoro dimostra quanto sia importante accorciare le distanze tra le scoperte biologiche e l’applicazione clinica”, conclude lo scienziato “È un risultato che non sarebbe stato possibile senza il programma IFOM dedicato ai Medici-Ricercatori, di cui Vitiello è stato parte integrante fin dal suo arrivo nel nostro istituto. Un programma che crea figure professionali dalle competenze trasversali e fortemente traslazionali.”
APPROFONDIMENTO SCIENTIFICO
Il ruolo del sistema mismatch repair (MMR). I tumori con alterato sistema di riparo del DNA mismatch repair rappresentano il prototipo dei tumori responsivi all’immunoterapia. Questo perché a causa dell’alterato riparo del DNA, questi tumori accumulano centinaia di mutazioni che portano alla formazione di nuovi antigeni, molecole di derivazione proteica in grado di attirare l’attenzione del sistema immunitario.
Meccanismo molecolare della scoperta L’aggiunta di cisplatino alla temozolomide induce nelle cellule tumorali uno stato in cui il riparo del DNA è depotenziato. I due chemioterapici inducono numerosissime mutazioni al DNA tumorale, spingendo le cellule tumorali a ridurre la capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA per sfuggire all’azione dei farmaci. Questo adattamento, che protegge transitoriamente le cellule dall’effetto della chemioterapia, crea però una nuova vulnerabilità sfruttabile terapeuticamente, rendendo i tumori più riconoscibili al sistema immunitario e più sensibili all’immunoterapia.
I due chemioterapici protagonisti
Temozolomide: farmaco alchilante che danneggia il DNA delle cellule tumorali introducendo lesioni specifiche. È efficace contro tumori con specifiche caratteristiche molecolari, ed è attualmente utilizzato principalmente nel trattamento di alcuni tumori cerebrali.
Cisplatino: composto a base di platino che forma legami crociati con il DNA, impedendo la replicazione cellulare. È uno dei chemioterapici più utilizzati in oncologia per il trattamento di tumori solidi come quelli del testicolo, dell’ovaio, della vescica e del polmone.
Modifiche del microambiente tumorale I tumori sono costituiti sia da cellule tumorali che da cellule dell’organismo che circondano e interagiscono con esse, come quelle del sistema immunitario, che costituiscono il cosiddetto “microambiente tumorale”. La combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare le caratteristiche delle cellule presenti microambiente tumorale, potenziando gli elementi in grado di sostenere l’attivazione immunitaria contro il tumore.
Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario. Foto di StockSnap
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
AREE PROTETTE SOTTO PRESSIONE: IL CAMBIAMENTO CLIMATICO SPINGE GLI UCCELLI PIÙ IN ALTO, MA LA CONSERVAZIONE NON TIENE IL PASSO
Uno studio condotto dai ricercatori di UniTo nelle Alpi Cozie e Graie rivela che le specie adattate al freddo stanno scomparendo anche dove la natura è tutelata
Le montagne sono hotspot di biodiversità a livello globale, ma sono anche tra gli ambienti più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Nelle Alpi europee, il riscaldamento globale e le trasformazioni del paesaggio stanno rapidamente modificando la vegetazione, con effetti diretti sulle comunità di uccelli, in particolare su quelle di alta quota. Le aree protette rappresentano strumenti fondamentali per salvaguardare queste specie adattate al freddo, ma quanto sono realmente efficaci in un mondo che si riscalda?
A questa domanda hanno cercato di rispondere il dott. Riccardo Alba e il prof. Dan Chamberlain del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino nello studioElevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, recentemente pubblicato sulla rivista Biological Conservation. Coprendo un periodo temporale di 13 anni di dati raccolti lungo un ampio gradiente altitudinale nelle Alpi Cozie e Graie, i ricercatori hanno utilizzato il Community Temperature Index (CTI) – un indicatore della tolleranza termica delle comunità – per valutare l’evoluzione delle comunità ornitiche all’interno e all’esterno delle aree protette.
I risultati mostrano un dato sorprendente: mentre al di fuori delle aree protette il CTI è rimasto stabile, all’interno delle stesse è aumentato rapidamente, riflettendo un incremento delle temperature medie annuali di oltre 1,19 °C nel periodo di tempo coperto. Questo indica che qualcosa sta avvenendo all’interno delle aree protette alpine, dove le comunità ornitiche stanno diventando sempre più simili a quelle presenti in zone non tutelate, probabilmente a causa del declino delle specie di alta quota ma anche per la colonizzazione di specie più comuni dalle quote più basse, come ad esempio la capinera e lo scricciolo.
Le variazioni più marcate si osservano in prossimità del limite del bosco, una fascia sensibile dove la vegetazione arbustiva e forestale sta avanzando verso le alte quote a causa dell’abbandono delle attività pastorali e del cambiamento climatico. Gli autori individuano proprio il cambiamento della copertura vegetale come principale motore di trasformazione delle comunità, sottolineando come la semplice esistenza di aree protette dai confini stabili potrebbe non bastare più a garantire la sopravvivenza degli uccelli più specializzati alle quote estreme.
Per contrastare questi effetti, lo studio suggerisce misure gestionali adattive come il pascolo mirato e la conservazione della connettività altitudinale, oltre a un monitoraggio continuo delle comunità ornitiche negli anni a venire. Solo espandendo la protezione formale e integrando azioni concrete sul campo sarà possibile mantenere habitat eterogenei e resilienti, in grado di ospitare anche in futuro le specie simbolo delle Alpi evitando la loro scomparsa.
Aree protette sotto pressione: il cambiamento climatico spinge gli uccelli più in alto, ma la conservazione non tiene il passo. Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0
Riferimenti bibliografici:
Riccardo Alba, Dan Chamberlain, Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, Biological Conservation Volume 309 2025, 111267, ISSN 0006-3207, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2025.111267
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
METCL (METAPHOR ELABORATION IN TYPICALITY-BASED COMPOSITIONAL LOGIC), INTELLIGENZA ARTIFICIALE E CREATIVITÀ: UN SISTEMA PER LA GENERAZIONE E IL RICONOSCIMENTO DELLE METAFORE
Tre ricercatori italiani sviluppano una tecnologia innovativa capace di creare e identificare metafore, ispirata ai meccanismi della cognizione umana
La capacità di creare e interpretare metafore, una delle competenze cognitive più sofisticate dell’essere umano, potrebbe presto diventare patrimonio anche dei sistemi di intelligenza artificiale. Un passo in questa direzione è rappresentato dal lavoro di tre ricercatori italiani, recentemente selezionato per la conferenza mondiale sull’intelligenza artificiale IJCAI (International Joint Conference on Artificial Intelligence), che si terrà il prossimo agosto a Montréal, in Canada.
Il paper, dal titolo “The Delta of Thought: Channeling Rivers of Commonsense Knowledge in the Sea of Metaphorical Interpretations”, è firmato da Antonio Lieto (Università di Salerno), Gian Luca Pozzato (Università di Torino) e Stefano Zoia (Università di Torino) e introduce un nuovo sistema chiamato METCL (Metaphor Elaboration in Typicality-based Compositional Logic), in grado di generare e classificare metafore sfruttando un motore logico ispirato ai meccanismi della cognizione umana.
“Combinazione e composizione sono aspetti centrali del nostro modo di esprimerci – spiega Stefano Zoia, dottorando del Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino – e ciò è particolarmente evidente nel caso delle metafore. Per esempio, dire che qualcuno ha un cuore di pietra vuol dire associare metaforicamente il cuore alla pietra per evocare freddezza e insensibilità. METCL combina la conoscenza tipica legata ai concetti coinvolti per generare un concetto ibrido che cattura il significato della frase”.
Alla base del sistema c’è una logica composizionale basata sulla tipicalità, in grado di fondere concetti e creare nuove strutture di senso.
“Il cuore del nostro lavoro – racconta Antonio Lieto, direttore del CIIT Lab dell’Università di Salerno – è un motore di ragionamento in grado di operare in maniera simile ai processi cognitivi umani. Questo approccio è cruciale per replicare funzioni cognitive complesse, come la comprensione e la produzione di metafore, che richiedono una vera capacità di astrazione e generalizzazione”.
Un aspetto chiave del sistema METCL è la sua spiegabilità, ovvero la capacità di fornire motivazioni per le sue decisioni in modo comprensibile agli umani: il suo funzionamento è trasparente e fondato su solide basi formali, a differenza di molti modelli sub-simbolici oggi dominanti nel panorama dell’IA.
“In un’epoca in cui si tende a pensare, erroneamente, che i grandi modelli linguistici possano fare tutto, METCL dimostra quanto sia ancora fondamentale il contributo delle logiche per la rappresentazione della conoscenza – aggiunge Gian Luca Pozzato, Professore Ordinario del Dipartimento di Informatica e presidente dei corsi di studio SUISS dell’Università di Torino. – La nostra logica descrittiva basata sulla tipicalità permette al sistema di essere interpretabile e riutilizzabile in contesti anche molto diversi tra loro”.
Le innovazioni introdotte da METCL sono molteplici. Non solo migliora le prestazioni dei sistemi attualmente disponibili nella generazione e nell’identificazione di metafore, ma lo fa in maniera complementare rispetto ai grandi modelli linguistici neurali – come GPT-4o, Qwen 2.5 Max o DeepSeek R1 – e ai precedenti approcci simbolici basati su risorse come MetaNet (UC Berkeley). Inoltre, il lavoro offre un contributo teorico rilevante: mostra come la generazione di metafore possa essere considerata un processo cognitivo di categorizzazione creativa, in linea con alcune delle teorie più influenti nelle scienze cognitive.
L’impatto potenziale di METCL va ben oltre l’ambito accademico. Le metafore non sono solo abbellimenti stilistici, ma strumenti potenti per semplificare concetti complessi. Per questo, un sistema capace di generarle o identificarle automaticamente può rivelarsi prezioso per: insegnanti, che vogliono spiegare in modo più chiaro concetti astratti o difficili; scrittori, sceneggiatori e giornalisti, che cercano ispirazione creativa; professionisti della comunicazione e del marketing, interessati a formulare messaggi più evocativi.
In definitiva, METCL dimostra come approcci alternativi e integrati possano affiancare, e potenziare, i modelli neurali nell’ambito dell’IA generativa. Un passo in avanti importante per realizzare sistemi intelligenti più simili all’essere umano, non solo in termini di prestazioni, ma anche nella capacità di “pensare in modo creativo”.
COME GLI UCCELLI SI ADATTANO ALL’URBANIZZAZIONE DEI TERRITORI: TORINO È UN RIFUGIO VERDE PER I VOLATILI FORESTALI
Uno studio condotto in sei città italiane da parte dell’Università di Torino e appena pubblicato su Scientific Reports rivela come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione in maniera differente in base alle stagioni.
L’espansione delle città è una delle principali cause del declino globale della biodiversità, ma le comunità di uccelli possono rispondere in modo sorprendentemente diverso a questa minaccia nei vari periodi dell’anno. È quanto emerge dalla ricerca “Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons”, pubblicata oggi sulla prestigiosa rivista Scientific Reports e frutto di una collaborazione tra ricercatori di diverse università italiane e straniere, sotto la guida del National Biodiversity Future Center (NBFC).
Coordinato da Riccardo Alba, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino e del Bird Lab Torino, lo studio ha analizzato come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione lungo un gradiente che va dai centri cittadini fino alle periferie rurali. La ricerca, che ha coinvolto le città italiane di Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli e Campobasso, ha adottato un approccio multi-stagionale, includendo sia il periodo riproduttivo che quello invernale, per cogliere appieno la complessità delle dinamiche ecologiche urbane. Una particolare attenzione è stata posta ai tratti funzionali delle specie – come dieta, strategia riproduttiva, comportamento sociale e modalità di nidificazione – per comprendere quali caratteristiche favoriscano o penalizzino le diverse specie in ambienti urbanizzati.
I risultati mostrano come alcune specie, definite “winners”, riescano a prosperare in città grazie alla nidificazione coloniale, un’elevata numero di covate o una lunga durata della vita. In inverno, invece, prevalgono le specie solitarie e opportuniste, dotate di una dieta generalista. Al contrario, le specie “losers” tendono ad essere insettivore, migratrici e a nidificare al suolo – caratteristiche che le rendono vulnerabili alla perdita di habitat e alle pressioni dell’ambiente urbano. Tuttavia, la maggior parte delle specie rientra nella categoria degli “urban adapters”: non completamente favorite dagli ambienti urbani, ma comunque in grado di sfruttare efficacemente i contesti con un livello intermedio di urbanizzazione. Alcune specie, inoltre, mostrano però notevoli capacità di adattamento stagionale, frequentando aree urbane in inverno ma non durante la stagione riproduttiva e viceversa.
Torino si distingue tra le grandi città del Nord Italia per la sua eccezionale estensione di aree verdi e parchi urbani, che creano un mosaico urbano capace di ospitare una notevole diversità di uccelli, inclusi quelli tipici degli ambienti forestali. I grandi parchi urbani come il Parco della Colletta, il Meisino, il Valentino e la Pellerina offrono habitat idonei a molte specie sensibili, spesso rare in altri contesti metropolitani. In alcuni di questi parchi, ad esempio, si possono osservare specie come la cincia bigia, il rampichino comune e il picchio muratore, ma anche specie più rare nidificano, come il picchio rosso minore, il picchio nero, la colombella o il lodolaio.
Un ruolo chiave è svolto anche dalla collina di Torino, che con il Parco Naturale della Collina di Superga rappresenta un importante polmone verde a ridosso della città, fungendo da serbatoio di biodiversità e da zona di nidificazione per molte specie. Inoltre, il fiume Po, con le sue fasce perifluviali alberate, agisce come un vero e proprio corridoio ecologico, facilitando gli spostamenti e il collegamento tra le aree verdi urbane e quelle naturali circostanti. Questi elementi, inclusi i grossi viali alberati della città, rendono Torino un esempio virtuoso di come le città possano contribuire concretamente alla conservazione della biodiversità, anche di specie forestali più esigenti. Allo stesso tempo, la presenza di una fauna ricca e diversificata nelle aree verdi urbane migliora la qualità della vita dei cittadini, offrendo occasioni di contatto con la natura. Così la biodiversità urbana diventa un patrimonio sociale e culturale da valorizzare.
“Lo studio – dichiara Riccardo Alba – evidenzia la straordinaria capacità degli uccelli di adattarsi a una vasta gamma di condizioni ambientali, anche all’interno di paesaggi fortemente modificati dall’uomo. Considerare le variazioni stagionali è fondamentale per comprendere pienamente le risposte ecologiche delle specie all’urbanizzazione. Questo approccio può contribuire a migliorare la pianificazione del tessuto urbano, rendendolo più sensibile alle esigenze della fauna selvatica e più efficace nel promuovere città sostenibili e ricche di biodiversità”.
Riferimenti bibliografici:
Alba, R., Marcolin, F., Assandri, G. et al., Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons, Sci Rep15, 16181 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-00350-6
L’IMPATTO DEL TUMORE DEL COLON-RETTO SUL BENESSERE PSICOLOGICO DEI PAZIENTI
Uno studio esplorativo condotto dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera Universitaria “Città della Salute e della Scienza” di Torino, ha indagato l’impatto del cancro del retto e dei trattamenti medici sul benessere psicologico.
Una ricerca condotta dal gruppo di ricerca “ReMind the Body” del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino in collaborazione conl’equipe del reparto di Radioterapia Oncologica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria “Città della Salute e della Scienza” ha indagato l’impatto del cancro del colon-retto e dei trattamenti medici sul benessere psicologico dei pazienti. ùIn Italia, il tumore del colon-retto è il secondo più frequente dopo quello della mammella. Le ricercatrici Valentina Tesio, Agata Benfante e Annunziata Romeo, coordinate dal Prof. Lorys Castelli, dell’Università di Torino, hanno seguito per un periodo di circa 18 mesi dalla diagnosi oncologica e dall’inizio dei trattamenti un gruppo di 43 pazienti che avevano da poco ricevuto una diagnosi di cancro del retto localmente avanzato.
Lo studio, durato due anni e culminato in due lavori pubblicati rispettivamente sulle riviste scientifiche internazionaliClinical and Translational Radiation Oncology ePsychological Trauma: Theory, Research, Practice, and Policy, ha analizzato l’impatto della diagnosi e dei successivi trattamenti previsti per questa patologia oncologica non solo sulla qualità della vita e sui livelli di distress psicologico (ossia sintomi ansiosi e depressivi), ma anche sulla crescita post-traumatica (Post-Traumatic Growth – PTG), un cambiamento psicologico positivo nelle priorità e nelle nuove possibilità, nell’apprezzamento della vita, nella dimensione spirituale, nelle relazioni interpersonali e nel senso della vita, conseguente al fronteggiamento di circostanze di vita traumatiche che mettono in discussione le convinzioni personali, come può accadere con una diagnosi di cancro.
Al fine di esplorare quali fattori medico-psicologici possano predire gli esiti connessi al benessere psicologico di questa popolazione oncologica, la ricerca ha seguito i pazienti e le pazienti durante l’intero percorso di cura, che prevedeva la combinazione fra resezione chirurgica e trattamento chemioterapico e radioterapico, rivalutando la condizione medico-psicologica nelle seguenti fasi del trattamento: dopo la prima visita radioterapica, durante la quale venivano comunicate le indicazioni per la (chemio)radioterapia preoperatoria (T0 – diagnosi), almeno 1 mese dopo la fine del trattamento preoperatorio (T1, in media 3 mesi dopo la diagnosi), almeno 1 mese dopo la resezione chirurgica (T2, in media 6 mesi dopo la diagnosi) e al follow-up di almeno 1 anno dopo la resezione chirurgica (T3, in media 18 mesi dopo la diagnosi).
Alla valutazione iniziale i pazienti e le pazienti presentavano lievi sintomi fisici di tipo intestinale e dolorosi, direttamente associabili al tumore del retto localmente avanzato, con livelli moderati di distress psicologico e ansia per la salute probabilmente dovuti al carico emotivo iniziale connesso alla diagnosi di cancro e alla preoccupazione per gli effetti collaterali dei trattamenti preoperatori, in particolare quelli legati alla radioterapia, di cui i pazienti e le pazienti con cancro sono spesso poco consapevoli, come emerge anche dalla letteratura precedente sul tema.
Durante le fasi di trattamento attivo, si è evidenziato un peggioramento della qualità di vita, in particolare dopo l’intervento chirurgico, al quale è seguito un miglioramento nel follow-up a medio termine. L’ansia ha, invece, mostrato una traiettoria molto più fluttuante, con livelli elevati alla diagnosi che diminuiscono dopo il trattamento preoperatorio (solo il 10% presenta sintomi clinicamente rilevanti in questa fase), per aumentare nuovamente dopo l’intervento chirurgico (il 27% presenta sintomi clinicamente rilevanti in questa fase) e, infine, diminuire al follow-up. Inoltre, se da un lato è stata confermata la forte influenza dei sintomi fisici correlati al cancro e degli effetti collaterali dei trattamenti sulla qualità di vita dei pazienti e delle pazienti, particolarmente al momento della diagnosi e durante i trattamenti attivi, d’altra parte è emerso che la reazione psicologica alle prime fasi di diagnosi e trattamento (ossia gli stili di coping adottati per fronteggiare tali eventi stressanti) fosse determinante nel predire la qualità di vita dopo i trattamenti attivi e a medio termine.
Per quanto riguarda la crescita post-traumatica, si è riscontrato un suo aumento progressivo nel tempo, suggerendo che il processo di crescita psicologica si sviluppi gradualmente ma precocemente nei pazienti e nelle pazienti con cancro del retto, per poi mostrare un aumento più significativo tra la valutazione postoperatoria e il follow-up a medio-lungo termine. Inoltre, i livelli di crescita psicologica iniziali, ovvero quelli post trattamento preoperatorio, sono risultati essere il fattore predittivo più forte dei livelli di crescita misurati al follow-up, quasi un anno dopo, seguiti dagli stili di coping adottati nelle fasi iniziali del trattamento. Considerata la scarsità degli studi che hanno valutato longitudinalmente questa popolazione specifica sin dalle prime fasi di malattia/trattamento, questo dato è nuovo e incoraggiante da un punto di vista clinico, suggerendo l’importanza di sostenere e monitorare la reazione psicologica e il processo di crescita psicologica positiva fin dalle fasi iniziali della presa in carico oncologica.
“Questo studio – dichiara la Dott.ssa Agata Benfante– si inserisce in un ambito scientifico ancora poco approfondito e per il quale saranno necessari ulteriori studi longitudinali al fine di implementare interventi psicologici su misura e nei tempi più opportuni. La ricerca ha evidenziato come le diverse fasi del trattamento oncologico mostrino specifiche peculiarità, sia a livello di impatto psico-fisico, sia a livello di risposta psico-fisica del soggetto, che possono avere ripercussioni nel determinarne sul medio-lungo termine la qualità di vita e il benessere psicologico. Risulta pertanto di fondamentale importanza monitorare le risposte psicologiche nei pazienti e nelle pazienti con cancro del retto sin dalla diagnosi e durante le diverse fasi del trattamento, per identificare tempestivamente sintomi di disagio psicologico clinicamente rilevanti, per promuovere risposte adattive al cancro e per sostenere il processo di crescita psicologica”.
“La diagnosi di cancro – ha aggiunto la Ricercatrice Dott.ssa Valentina Tesio – può non solo portare a esiti di salute mentale negativi, come il disagio psicologico clinicamente rilevante, ma può, e deve, anche innescare cambiamenti psicologici positivi, come la crescita post-traumatica, e sono proprio le diverse caratteristiche intrapsichiche dell’individuo a contribuire al suo adattamento alla malattia e ad influenzare gli esiti psicologici. È, quindi, necessaria una valutazione in chiave biopsicosociale, a partire dalla comunicazione della diagnosi, attraverso tutte le fasi successive del processo terapeutico fino al follow-up, poiché ogni fase presenta specificità fisiche e psicologiche. Sulla base di queste specificità, i servizi di supporto dovrebbero essere adattati sia al singolo individuo sia alla fase di trattamento, in particolare attuando interventi preventivi e pre-abilitativi multidisciplinari e multimodali nei momenti più opportuni per migliorare sia le reazioni legate al cancro che la qualità della vita e la salute psicologica nel medio termine”.
FARMACI ONCOLOGICI: PERCHÉ EUROPA E STATI UNITI D’AMERICA PRENDONO DECISIONI DIVERSE?
Uno studio dell’Università di Torino evidenzia le discrepanze tra le due principali agenzie regolatorie nell’approvazione dei medicinali per il cancro.
La sicurezza dei medicinali è garantita da un’attenta analisi dei dati da parte delle Agenzie Regolatorie. Solo dopo la revisione approfondita dei dati derivanti dagli studi clinici, i farmaci possono essere messi a disposizione dei pazienti. Negli Stati Uniti, questa funzione è svolta dalla FDA, mentre in Europa è di competenza dell’EMA. Tuttavia, lo sviluppo di un farmaco è ormai globale e le diverse Agenzie Regolatorie valutano gli stessi studi clinici, sebbene possano arrivare a conclusioni differenti.
“Ci saremmo aspettati che le due agenzie più importanti del mondo, considerando gli stessi dati, arrivassero alle stesse conclusioni” – spiega Gianluca Miglio, professore di farmacologia all’Università di Torino – “ed invece oltre la metà dei farmaci è approvata per popolazioni leggermente diverse. In altre parole, vi sono pazienti dai due lati dell’Atlantico che hanno o non hanno accesso ad un dato medicinale a seconda della zona geografica in cui vivono”.
Nella ricerca sono state analizzate 162 indicazioni terapeutiche di 80 medicinali per tumori solidi e tumori del sangue autorizzate dall’EMA tra gennaio 2015 e settembre 2022 con le corrispondenti indicazioni approvate dalla FDA. Sono state identificate discrepanze clinicamente rilevanti per il 51,9% delle indicazioni valutate. Le differenze riguardano la collocazione nella terapia, la necessità che i pazienti siano refrattari a terapie precedenti, i requisiti di eleggibilità dei biomarcatori, i trattamenti concomitanti o le caratteristiche dei pazienti.
“Il nostro lavoro non è disegnato per definire quali delle due agenzie sia la migliore, sono entrambe eccezionali” – sottolinea Armando Genazzani, anche lui docente dell’Università di Torino, con esperienze sia in EMA che nell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) – “ma evidenziare quanto sia difficile prendere delle decisioni che impattano su milioni di malati in presenza di incertezze. Da un lato le agenzie mirano a concedere l’accesso del farmaco al maggior numero di persone possibile, e dall’altro, invece, devono essere sufficientemente sicure che per tutti i malati per i quali il farmaco è indicato vi è una ragionevole certezza di efficacia e sicurezza. Quello che cambia tra le due agenzie è il diverso bilanciamento tra questi due obiettivi”.
Le differenze osservate sono sottili, e derivano principalmente dalle discrepanze legislative e dalla differente inclinazione a estrapolare i dati in popolazioni non studiate direttamente nei trial clinici.
“Le ragioni per le differenze osservate sono molteplici così come lo sono le implicazioni” – continua Genazzani – “La nostra analisi sembra suggerire che l’FDA sia più incline ad allargare il bacino dei pazienti che potenzialmente potrebbero beneficiare del farmaco, mentre l’EMA è più conservativa e maggiormente incline a riservare il farmaco ai pazienti per i quali vi è una dimostrazione chiara. Questo vuol dire che i pazienti americani hanno più opportunità terapeutiche mentre i pazienti Europei hanno maggiori certezze sui farmaci che assumono”.
Con questo studio dell’Università di Torino mira a fornire un contributo fondamentale alla comprensione delle dinamiche di approvazione dei farmaci oncologici a livello internazionale, evidenziando il delicato equilibrio tra accesso alle terapie e sicurezza dei pazienti.
Riferimenti bibliografici:
Perini, Martina et al., Differences in the on-label cancer indications of medicinal products between Europe and the USA, The Lancet Oncology, Volume 26, Issue 2, e103 – e110, DOI: https://doi.org/10.1016/S1470-2045(24)00434-0
Farmaci oncologici: perché Europa e Stati Uniti d’America prendono decisioni diverse? Lo studio è stato pubblicato su The Lancet Oncology. Foto di StockSnap
Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino