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Ophiuroid Optimum: grazie alle stelle serpentine antartiche è stata identificata un nuovo periodo climatico della Terra

Pubblicato su Scientific Reports lo studio del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa su una carota di sedimento marino dell’Antartide

Un gruppo di ricercatori e ricercatrici del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa ha identificato un nuovo periodo climatico del nostro pianeta denominato “Ophiuroid Optimum” che va dal 50 al 450 d.C.

Lo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports è stato condotto in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo. Ricercatori e ricercatrici hanno analizzato una carota di sedimento marino raccolta ad una profondità di 462 m sotto il livello del mare nell’Edisto Inlet, un fiordo nel Mare di Ross occidentale in Antartide.

Lo studio della carota ha consentito di ricostruire la storia climatica della Terra negli ultimi 3600 anni evidenziando anche periodi già noti come il caldo medievale, fra il 950 e il 1250 d.C., e la piccola età glaciale, dal 1300 sino al 1850 d.C.. Durante l’intervallo di tempo denominato “Ophiuroid Optimum”, nell’area antartica dell’Edisto Inlet, si sono susseguite estati australi caratterizzate dall’assenza di ghiaccio marino ed importanti fioriture algali. Il persistere di queste condizioni ambientale ha permesso lo sviluppo di un’ampia comunità “bentonica”, ossia di organismi acquatici, animali e vegetali che vivono vicino ai fondali, ricca in stelle serpentine.

Questa carota di sedimento ci ha consentito di effettuare degli studi paleoecologici e paleoclimatici ad altissima risoluzione – spiega Giacomo Galli dottorando fra gli Atenei di Pisa e Ca’ Foscari Venezia – questo perché è in gran parte fatta di fango costituito principalmente da diatomee, cioè piccole alghe unicellulari con guscio siliceo, a cui si aggiungono foraminiferi che sono organismi unicellulari con guscio che può fossilizzare, e resti di ofiure, cioè animali noti con il nome di stelle serpentine, echinodermi simili alle stelle marine. In particolare, gli abbondanti resti fossili delle stelle serpentine hanno permesso di identificare e caratterizzare il nuovo periodo climatico”.

La nostra comprensione del clima presente, nonché la possibilità di modellare quello futuro, è possibile solo grazie ai dati che derivano dalle informazioni sul clima del passato – conclude la professoressa Morigi dell’Università di Pisa – ogni tassello che ci aiuta a comprendere meglio la storia climatica del nostro Pianeta ha enormi implicazione nell’aiutarci a capire come questa si evolverà nel prossimo futuro”.

Hanno partecipato alla ricerca per il dipartimento della di Scienze della terra dell’Università di Pisa Giacomo Galli, la professoressa Caterina Morigi, responsabile di vari progetti per la ricerca in Antartide (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide, PNRA) ed in Artide (Programma di Ricerca in Artico, PRA) e Karen Gariboldi, ricercatrice esperta di diatomee. Fra gli altri autori Ben Thuy, ricercatore presso il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo, uno dei maggiori esperti di ofiuroidi fossili al mondo.

Riferimenti bibliografici:

Galli, G., Morigi, C., Thuy, B. et al. Late Holocene echinoderm assemblages can serve as paleoenvironmental tracers in an Antarctic fjord, Sci Rep 14, 15300 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-024-66151-5

Nella foto, la bivalve Adamussium colbecki, il riccio Sterechinus neumayeri, la spugna Homaxinella balfourensis, la stella serpentina Ophionotus victoriae, ragni di mare Colossendeis. Foto NSF/USAP, di Steve Clabuesch, in pubblico dominio
L’immagine ha lo scopo di mostrare una specie di stelle serpentine, Ophionotus victoriae, i cui fossili sono stati centrali in questa ricerca che ha individuato il nuovo periodo climatico Ophiuroid Optimum. Nella foto, la bivalve Adamussium colbecki, il riccio Sterechinus neumayeri, la spugna Homaxinella balfourensis, la stella serpentina Ophionotus victoriae, ragni di mare Colossendeis. Foto NSF/USAP, di Steve Clabuesch, in pubblico dominio

Testo dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Misurata, nei laboratori del CERN, la massa del Bosone W, con una precisione mai raggiunta prima

Il prof. Bianchini dell’Università di Pisa coordinatore nell’esperimento sulla particella che nel 1984 è valsa il Nobel a Rubbia

Lorenzo Bianchini bosone W
Lorenzo Bianchini

 80360,2 Megaelettronvolt: è questa la massa del bosone W, una misura determinata con una precisione mai raggiunta prima da un team di scienziati e scienziate, al lavoro nei laboratori del CERN di Ginevra. La misura è stata realizzata analizzando i dati prodotti nelle collisioni protone-protone nell’acceleratore Large Hadron Collider (LHC) grazie al Compact Muon Solenoid (CMS), una sorta di gigantesca fotocamera ad alta velocità, che scatta “fotografie” 3D di collisioni di particelle da tutte le direzioni fino a 40 milioni di volte al secondo.
“Questa misura è il risultato di molti anni di lavoro capillare durante il quale abbiamo affrontato e risolto numerose problematiche sperimentali”, spiega Lorenzo Bianchini, professore di Fisica all’Università di Pisa, associato all’INFN e coordinatore del progetto ERC ASYMOW dedicato proprio a questa misura.

“Abbiamo fatto tesoro dell’esperienza accumulata – ha aggiunto Binchini – e ne è uscita una misura moderna e innovativa sotto molti punti di vista, frutto di un lavoro di collaborazione internazionale in cui il contributo italiano è risultato estremamente importante, anche grazie alle opportunità offerte dai finanziamenti europei alla ricerca”.

Il risultato della misura è molto rilevante per la comunità scientifica, non solo per la sua capacità di confermare con precisione più elevata le predizioni del Modello Standard, la teoria che da più di mezzo secolo usiamo per spiegare le interazioni tra le particelle elementari, ma soprattutto perché rappresenta un importante passo in avanti per risolvere un puzzle nato nel 2022, quando un altro esperimento al collider Tevatron presso il Fermi National Accelerator Laboratory (Stati Uniti) ha invece ottenuto una misura della massa del Bosone W con analoga precisione, ma in netto disaccordo col Modello Standard.


Dalla sua scoperta, il bosone W è stato misurato con sempre maggiore precisione da diversi esperimenti, al CERN e in altri laboratori. Assieme al bosone Z, il bosone W è la particella elementare mediatrice della forza debole ed è stato osservato per la prima volta nel 1983 nei laboratori del CERN da Carlo Rubbia, laureato all’Università di Pisa come allievo della Scuola Normale, e Simon van deer Meer, che per questo furono insigniti del premio Nobel per la Fisica l’anno successivo.

 

Testo e foto dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

La Gioconda in due millimetri: l’elettronica stampabile non è mai stata così micro – Realizzato all’Università di Pisa un prototipo di stampante per microdispositivi elettronici. La ricerca pubblicata sulla rivista Advanced Materials Technologies.

prototipo di stampante per microdispositivi elettronici La Gioconda di Leonardo da Vinci in due millimetri, il Cherubino dell’Università di Pisa in appena mezzo millimetro. Sono micro “prove di maestria” per testare un nuovo prototipo di stampante ad alta risoluzione dell’Ateneo pisano destinato a fabbricare microdispositivi elettronici su supporti bidimensionali come la carta. Lo strumento è infatti in grado di realizzare stampe a risoluzioni submicrometriche, superando i limiti dei dispositivi attualmente in commercio.

“Questa miniaturizzazione costituisce un ulteriore passo avanti – spiega Elisabetta Dimaggio, ricercatrice dell’Università di Pisa – Il futuro è infatti nell’elettronica flessibile e indossabile, nella creazione di sistemi alternativi rispetto a quelli classici basati su silicio che possano adattarsi a diverse superfici per portare l’elettronica ovunque, proprio lì dove serve. In questo scenario, uno dei campi di applicazione più promettenti è ad esempio quello biomedicale con apparecchi indossabili e capaci di registrare i parametri vitali senza dover necessariamente far ricorso a sistemi ingombranti o invasivi”.

Dal punto di vista tecnico la stampante realizzata è estremamente versatile e integra due diverse tecniche di deposizione additiva di materiali (Inkjet e Dip Pen Nanolithography) e una tecnica sottrattiva (Scratching Lithography). Le diverse modalità possono essere eseguite in sequenza senza dover mai rimuovere il campione dalla stampante, fattore che riduce il rischio di danneggiamento dei substrati e dei materiali.

La stampante è stata messo a punto nel laboratorio di Printable Electronics del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione in collaborazione con l’azienda toscana Quantavis srl e NANO-CNR di Pisa. La ricerca, pubblicata sulla rivista Advanced Materials Technologies ha come primo autore Riccardo Sargeni, dottorando UNIPI ed è stata finanziata dalla Commissione europea attraverso due progetti (ERC PEP2D e ERC Proof of Concept PREPRINT) che vedono impegnato il gruppo guidato dal professore Gianluca Fiori dell’Università di Pisa.

Link all’articolo scientifico:

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/admt.202400610?af=R

Testo e immagini dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Fossili di grandi squali e mammiferi marini raccontano come è cambiato il Mediterraneo dopo la Crisi di Salinità del Messiniano

L’Università di Pisa ha partecipato a uno studio sulle conseguenze del “gigante salino” formatosi oltre cinque milioni di anni fa

Tra 7,2 e 5,3 milioni di anni fa, nell’intervallo di tempo che i geologi chiamano Messiniano, le specie marine del Mediterraneo furono decimate da un aumento vertiginoso di sale nelle acque del mare, con una perdita di biodiversità che riuscì a ricostituirsi solo nel corso di oltre un milione e mezzo di anni.  In uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Science, un gruppo internazionale di geologi e paleontologi composto da 29 scienziati di 25 università e istituti di ricerca europei è stato in grado di quantificare tale perdita di biodiversità nel Mar Mediterraneo in corrispondenza della Crisi di Salinità del Messiniano e il successivo recupero biotico.

Guidato da Konstantina Agiadi dell’Università di Vienna, tale team di ricerca ha visto la partecipazione dell’Università di Pisa nelle persone del professor Giovanni Bianucci e del ricercatore Alberto Collareta, paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa.

Sulla base di un estensivo censimento del registro fossile risalente al Miocene Superiore e al Pliocene Inferiore (da 12 a 3,6 milioni di anni fa), il team ha scoperto che i due terzi delle specie marine del Mar Mediterraneo del Pliocene Inferiore era differente da quelle presenti nel bacino precedentemente alla Crisi di Salinità del Messiniano. Solo 86 delle 779 specie endemiche del Mediterraneo (presenti, cioè, esclusivamente in tale bacino) sopravvissero agli sconvolgimenti ambientali conseguenti alla separazione dall’Oceano Atlantico.

In particolare, i due ricercatori dell’Università di Pisa hanno analizzato le evidenze paleontologiche dei popolamenti a squali e mammiferi marini del Mar Mediterraneo a cavallo di questo grande evento geologico.

“Mentre il registro fossile, nel suo complesso, suggerisce un drastico impatto della Crisi di Salinità del Messiniano sulle forme di vita presenti nel Mediterraneo – spiega Alberto Collareta – i fossili di squali offrono delle informazioni diverse e complementari. In particolare, il rinnovamento faunistico che si osserva nel Pliocene Inferiore – con la comparsa nel Mar Mediterraneo di forme moderne come lo squalo bianco (Carcharodon carcharias) e il declino di altri predatori apicali più tipici del Miocene (ad esempio il famoso ‘Megalodon’) – riflette fenomeni evolutivi e turnover faunistici osservabili alla scala globale più che eventi relativi dalla portata regionale. In questo senso, il biota mediterraneo che rinacque dalle ceneri della crisi messiniana fu dunque necessariamente altro rispetto a quello che aveva caratterizzato il bacino nel corso del Miocene”.

“Una dinamica simile si osserva anche nell’evoluzione della fauna a cetacei del Mediterraneo – osserva Giovanni Bianucci – con l’emergere e la rapida diversificazione dei delfini oceanici (famiglia Delphinidae) nel Pliocene Inferiore, come testimoniato da un eccezionale record fossile rinvenuto in Toscana, Piemonte ed Emilia-Romagna. Analogamente a quanto osservato per gli squali, la comparsa di forme moderne coincide con il declino di specie tipicamente mioceniche, come i grandi capodogli macropredatori. Il fatto che anche questo turnover tra i cetacei abbia avuto una portata globale suggerisce che la coincidenza temporale degli eventi non sia casuale: un fenomeno regionale, ma comunque catastrofico, come la Crisi di Salinità Messiniana, potrebbe infatti aver avuto ripercussioni su scala mondiale sugli ecosistemi marini”.

Nella foto: i due ricercatori, a sinistra Giovanni Bianucci, a destra Alberto Collareta
Nella foto: i due ricercatori, a sinistra Giovanni Bianucci, a destra Alberto Collareta

Questo nuovo studio apre a nuove prospettive sulla Crisi di Salinità Messiniana e provvede, per la prima volta, a una quantificazione sinottica delle conseguenze di tale crisi su molti gruppi di organismi marini. Allo stesso tempo, esso fornisce uno stimolo per ulteriori questioni di ricerca: dove si rifugiarono le poche specie endemiche del Mediterraneo miocenico che furono in grado di sopravvivere alla Crisi di Salinità Messiniana? Quale fu l’impatto dei molti altri “giganti salini” che punteggiano la crosta terrestre? Quale sono le lezioni che questo evento può insegnarci nell’attuale contesto di crisi biologica?

La Crisi di Salinità del Messiniano

Da oltre cinquant’anni la comunità scientifica si interroga sulle cause e le conseguenze della Crisi di Salinità del Messiniano, e soprattutto sull’impatto di un evento tanto eccezionale sugli ecosistemi mediterranei. Ipotesi contrastanti si sono confrontate – e talvolta scontrate – nel corso dei decenni: alcuni ricercatori hanno ipotizzato la quasi completa sterilizzazione di un Mar Mediterraneo divenuto eccessivamente salino, mentre altri hanno argomentato a favore della persistenza locale di corpi d’acqua a salinità normale e di ecosistemi francamente marini per tutta la durata della Crisi di Salinità del Messiniano.

Riconosciuto nelle sue proporzioni titaniche nei primi anni ’70 del secolo scorso, questo “gigante salino” si formò in un bacino in via di disseccamento a seguito dell’emersione dei corridoi marini che fino ad allora avevano connesso il Mediterraneo all’Oceano Atlantico nell’area ispano-marocchina garantendo l’afflusso costante di acque marine di origine atlantiche nell’arida regione mediterranea. Tali condizioni estreme si protrassero alcune centinaia di migliaia di anni: il ritorno a condizioni marine normali avvenne soltanto 5,3 milioni di anni fa, all’inizio dell’epoca pliocenica, in conseguenza dell’apertura dello Stretto di Gibilterra e a seguito di una breve fase in cui le acque mediterranee divennero salmastre.

Fossili di grandi squali e mammiferi marini raccontano come è cambiato il Mediterraneo dopo la Crisi di Salinità del Messiniano
Fossili di grandi squali e mammiferi marini raccontano come è cambiato il Mediterraneo dopo la Crisi di Salinità del Messiniano

 

Testo e immagini dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Con le donne al comando si respira un’aria migliore, letteralmente: uno studio rileva una correlazione tra politiche ambientali ed empowerment politico delle donne

Studio dell’Università di Pisa pubblicato sull’European Journal of Political Economy evidenza che la qualità dell’aria è migliore con l’empowerment femminile. L’analisi ha riguardato 230 regioni di 27 paesi UE.

 

La qualità dell’aria è migliore se le donne comandano le istituzioni. La notizia arriva da uno studio condotto all’Università di Pisa e pubblicato sull’European Journal of Political Economy. L’analisi ha riguardato 230 regioni di 27 Paesi dell’Unione europea.

I nostri risultati evidenziano una relazione positiva tra l’empowerment politico delle donne e la qualità dell’aria – spiega una delle autrici dello studio, la professoressa Lisa Gianmoena del dipartimento di Economia e Management dell’Ateneo pisano – Questo suggerisce che le donne, quando occupano posizioni di potere, tendono ad adottare politiche ambientali più rigide e orientate verso la sostenibilità rispetto alle regioni governate da uomini e questo fenomeno può essere attribuito alla loro maggiore sensibilità e al loro impegno sociale”.

In particolare, questa correlazione positiva risulta evidente in numerose regioni del Nord Europa, tra cui Finlandia, Irlanda, Estonia, Svezia e Danimarca, mentre la maglia nera va alla Polonia, Ungheria e Romania. In Italia, la Valle d’Aosta si distingue per la qualità dell’aria migliore, mentre la Lombardia registra i livelli peggiori.

Per realizzare lo studio ricercatori e ricercatrici hanno lavorato alla costruzione di un dataset a livello regionale che integrasse empowerment politico femminile e dati ambientali. Questa impostazione è stata fondamentale anche perché nel contesto europeo le condizioni ambientali e sociali possono variare notevolmente tra le diverse zone e sono poi le autorità sub-nazionali ad essere maggiormente responsabili dell’applicazione di direttive e standard ambientali nazionali e sovranazionali. Per quanto riguarda le donne, è stato utilizzato l’Indice di Empowerment Politico delle Donne (WPEI), considerando la loro presenza a vari livelli di governo (nazionale, regionale e locale).

“Per assicurarci che il rapporto tra empowerment politico femminile e qualità aria non fosse una “correlazione spuria”, cioè puramente casuale – conclude Gianmoena – abbiamo testato altre variabili economiche e non economiche come lo sviluppo economico, il livello di istruzione, le innovazioni in tecnologie verdi, l’ideologia politica e la densità di popolazione. Tuttavia la relazione positiva tra empowerment politico femminile e qualità dell’aria è rimasta significativa, confermando la robustezza del risultato”.

Lisa Gianmoena è autrice dell’articolo insieme al collega Vicente Rios, docente del dipartimento di Economia e management dell’Ateneo pisano. Entrambi collaborano con il centro di ricerca REMARC (Responsible Management Research Center) dell’Università di Pisa. Gli altri autori sono la dottoranda Izaskun Barba e il professore Pedro Pascual entrambi del dipartimento di Economia della Università Pubblica di Navarra (Universidad Pública de Navarra – UPNA), Spagna.

Con le donne al comando si respira un’aria migliore: la correlazione tra politiche ambientali ed empowerment politico delle donne. Foto di JürgenPM 

 

Testo dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Dai germogli della salicornia un aiuto per il fegato: l’estratto dei germogli di Salicornia europaea può contribuire a prevenire la steatosi epatica, conosciuta anche come “fegato grasso”

Lo studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Antioxidants realizzato nell’ambito del progetto europeo  HaloFarMs

 

L’estratto dei germogli di Salicornia europaea può contribuire a prevenire la steatosi epatica, conosciuta anche come “fegato grasso”, una condizione frequente e spesso asintomatica che però in alcuni casi può arrivare a compromettere l’organo e la sua funzionalità. A rivelare gli effetti protettivi di questa pianta mediterranea sempre più amata dagli chef è uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Antioxidants e condotto nell’ambito del progetto europeo HaloFarMs.

Lo studio è stato condotto su modelli animali.

Per la prima volta scienziati e scienziate hanno dimostrato che le foglie più giovani di salicornia hanno livelli significativamente più alti di composti bioattivi, come polifenoli totali, flavonoidi, flavonoli e antociani rispetto a quelle più vecchie.

“Alla luce di questi risultati, la salicornia emerge come un alimento prezioso da inserire nei pasti, soprattutto per coloro che soffrono di malattie cardiovascolari, disturbi epatici e steatosi”, commenta la professoressa Annamaria Ranieri dell’Università di Pisa.

La salicornia è una pianta alofita, capace cioè di vivere in terreni salini e marginali in condizioni proibitive per la maggior parte della vegetazione. Qui la salicornia esercita una importantissima funzione ecologica: la sua capacità di estrarre i sali dal suolo serve infatti a contrastare l’impoverimento idrico dei terreni. Basti pensare che attualmente circa 18 milioni di ettari nel mondo, che corrispondono al 25% del totale delle terre irrigate nell’area Mediterranea e al 7% della superficie totale del pianeta, sono colpite dal fenomeno della salinità.

“Oltre a questo fondamentale ruolo ecosistemico, la salicornia è quindi un alimento che può avere una funzione importante nella dieta – continua Ranieri – come emerge dalla nostra ricerca gli estratti di questa pianta testati su modelli animali evidenziando un recupero completo dalla steatosi epatica”.

Lo studio sulla salicornia si è svolto nell’ambito di HaloFarMs, un progetto finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca e dal Programma PRIMA, la Partnership per l’innovazione del settore idrico e agro-alimentare nell’area mediterranea promossa dall’Unione Europa con la partecipazione di 19 paesi

Alla base di HaloFarMs c’è l’idea di sviluppare e ottimizzare nuovi sistemi di agricoltura sostenibile basati sull’uso delle piante alofite. Oltre a desalinizzare il suolo, le alofite vengono studiate per impiegarle nell’industria cosmetica, alimentare e veterinaria. L’adozione da parte degli agricoltori dei risultati del progetto ha così l’obiettivo di diminuire la salinizzazione del suolo, aumentare le rese dei terreni senza esaurire le risorse di acqua dolce, e diversificare le fonti di reddito.

 

Riferimenti bibliografici:

Souid, Aymen, Lucia Giambastiani, Antonella Castagna, Marco Santin, Fabio Vivarelli, Donatella Canistro, Camilla Morosini, Moreno Paolini, Paola Franchi, Marco Lucarini, and et al. 2024. “Assessment of the Antioxidant and Hypolipidemic Properties of Salicornia europaea for the Prevention of TAFLD in Rats”, Antioxidants 13, no. 5: 596, DOI: https://doi.org/10.3390/antiox13050596

Salicornia europaea. Foto dallo stagno di Cagliari
Salicornia europaea. Foto dallo stagno di Cagliari, di Marco Vinicio Olla, CC BY-SA 3.0

Testo dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Il ruolo cruciale delle vaccinazioni contro il virus dell’epatite B (HBV) e il papilloma virus (HPV) nella popolazione carceraria come strategia per promuovere l’equità sanitaria e prevenire il cancro.

Studio Università di Pisa pubblicato su The Lancet Regional Health evidenzia il ruolo cruciale delle vaccinazioni contro epatite B e papilloma nella popolazione carceraria.

Il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa, in collaborazione con diversi partner internazionali, ha guidato uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet Regional Health – Europe. Nel lavoro dal titolo “Cancer-preventing vaccination programs in prison: promoting health equity in Europe”, la dottoressa Lara Tavoschi e gli altri coautori e coautrici evidenziano il ruolo cruciale delle vaccinazioni contro il virus dell’epatite B (HBV) e il papilloma virus (HPV) nella popolazione carceraria come strategia per promuovere l’equità sanitaria e prevenire il cancro.

La ricerca ha coinvolto 20 paesi europei, valutando i dati sui servizi di vaccinazione e le politiche sanitarie rispetto alle persone che vivono e che lavorano in carcere. Per quanto riguarda l’Italia, sono rientrati nello studio quattro istituti penitenziari: la casa circondariale di Milano San Vittore, l’istituto penale per i minorenni di Milano “Beccaria”, il carcere di Bollate, e la casa di reclusione di Opera per un totale di persone recluse coinvolte di circa 3600 persone (a fronte di una capacità ospitativa inferiore ai 3000 posti). Dall’analisi è emersa una notevole variabilità a livello europeo nella disponibilità e nella copertura dei servizi vaccinali. In Italia la vaccinazione contro il virus dell’epatite viene offerta mentre non sono disponibili dati specifici sulla realizzazione o i benefici della vaccinazione contro il papilloma virus.

Dal lavoro emergono dieci raccomandazioni chiave per migliorare le strategie vaccinali contro il cancro nell’ambito carcerario. Si va dalla richiesta di inclusione esplicita delle popolazioni carcerarie nelle strategie di vaccinazione nazionali e internazionali, enfatizzando il principio di “equivalenza delle cure” come dichiarato da The Nelson Mandela Rules, alla necessità di espansione dei programmi di vaccinazione contro HBV e HPV rivolti a tutte le persone incarcerate che ne possono beneficiare, in particolare adolescenti e giovani adulti, utilizzando approcci neutri rispetto al genere.

“Le vaccinazioni – dice Lara Tavoschi – dovrebbero far parte di un pacchetto più ampio di servizi di salute sessuale e riduzione del danno, compreso lo screening per altre infezioni sessualmente trasmissibili e garantendo il follow-up delle cure post-rilascio”.

“Questa ricerca – conclude Tavoschi – fornisce prove solide a sostegno dell’implementazione di programmi di vaccinazione che non lascino indietro nessuno, a beneficio dell’intera popolazione. Affrontando le specifiche esigenze sanitarie delle persone che vivono in carcere, questi programmi possono infatti contribuire in modo significativo alla prevenzione del cancro e al miglioramento complessivo della salute pubblica in Europa”.

Lo studio è stato sviluppato come parte del progetto RISE-Vac, co-finanziato dal 3° Programma per la Salute dell’Unione Europea nell’ambito del GA n° 101018353. Gli autori estendono la loro gratitudine a Europris e ai membri del consorzio RISE-Vac per i loro preziosi contributi.

Link all’articolo scientifico:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S266677622400125X

Foto di Joseph Fulgham

Testo dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Funghi simbiotici inoculati sui semi, ecco come difendere i terreni dalle erbe infestanti

Nelle serre dell’Università di Pisa riprodotti i funghi autoctoni che verranno distribuiti agli agricoltori dei paesi del progetto europeo GOOD.

Per difendere i terreni dalle erbe infestanti e ridurre l’uso di erbicidi c’è una tecnica che consiste nell’inoculare i funghi simbiotici sui semi delle cover crops, cioè le colture usate per proteggere i terreni dall’erosione e aumentare la sostanza organica. Al fine di promuovere questa pratica, ricercatori e ricercatrici dei laboratori di Microbiologia dell’Università di Pisa hanno riprodotto nelle serre del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali i funghi autoctoni di vari paesi europei da distribuire agli agricoltori. L’attività rientra nel progetto europeo GOOD (AGrOecOlogy for weeDs) che proprio a Pisa il 28 al 29 maggio scorsi ha riunito i vari partner per il primo meeting ufficiale.

I partecipanti al First Annual Meeting del Progetto Europeo GOOD - Agroecology for weeds.
I partecipanti al First Annual Meeting del Progetto Europeo GOOD – Agroecology for weeds

“Gli scienziati arrivati a Pisa da undici paesi europei (Belgio, Cipro, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Olanda, Portogallo, Serbia, Spagna) hanno potuto visitare la nostra serra sperimentale dove si trovano oltre settanta vasi contenenti le piante “trappola” che utilizziamo per riprodurre i funghi simbiotici che poi vengono inoculati per incrementare l’abilità competitiva delle cover crops verso le erbe infestanti”,

spiega la professoressa Alessandra Turrini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Ateneo pisano.

I funghi simbiotici autoctoni riprodotti a Pisa saranno utilizzati per la concia del seme nei diversi living lab del progetto, dei veri e propri laboratori interattivi dove scienziati e scienziate portano avanti le ricerche insieme agli agricoltori.

L’obiettivo di GOOD è infatti trovare soluzioni innovative per gestire le erbe infestanti in Europa, aumentare la sostenibilità e resilienza degli agroecosistemi, promuovere la transizione agroecologica e ridurre la dipendenza dagli erbicidi, che rappresentano la seconda categoria di pesticidi più venduta in Europa.

Il meeting pisano è stato organizzato da docenti e staff del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali: Alessandra Turrini responsabile della Unità Operativa, Monica Agnolucci, Luciano Avio e Manuela Giovannetti, coadiuvati dai giovani collaboratori Matteo Bellanca, Eleonora Granata, Arianna Grassi e Irene Pagliarani.

Funghi simbiotici inoculati sui semi erbe infestanti  I partecipanti al First Annual Meeting del Progetto Europeo GOOD - Agroecology for weeds nella serra adibita alla riproduzione dei funghi simbionti autoctoni dei 16 Living Labs.
I partecipanti al First Annual Meeting del Progetto Europeo GOOD – Agroecology for weeds nella serra adibita alla riproduzione dei funghi simbionti autoctoni dei 16 Living Labs

Testo e foto dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Progetto ASCenSIon: veicoli orbitali che utilizzano propellenti “verdi”, ecco il futuro delle esplorazioni spaziali

Lo studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Acta Astronautica realizzato nell’ambito del progetto europeo ASCenSIon

Pisa, 12 giugno 2024 – La sostenibilità può arrivare anche nello spazio grazie ad uno studio su nuova classe di veicoli orbitali che per muoversi nello spazio utilizzano propellenti “verdi”. La notizia arriva da uno studio del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Acta Astronautica e realizzato nell’ambito di ASCenSIon, un progetto europeo che ha visto la partecipazione di molti partner nazionali e internazionali, tra cui il Politecnico di Milano e Università La Sapienza di Roma in Italia, e numerose altre realtà in Germania, Francia, Belgio e Spagna. La ricerca pubblicata nell’articolo è stata svolta da Alberto Sarritzu sotto la supervisione del professore Angelo Pasini; il team del progetto all’Università di Pisa include anche la dottoranda Lily Blondel-Canepari.

“I nuovi propellenti “verdi” potranno certamente sostituire i propellenti tossici oggi prevalentemente usati – spiega Alberto Sarritzu – Questo permetterà da un lato di migliorare l’efficienza della propulsione e rendere possibili missioni che al momento non lo sono, dall’altro di semplificare le operazioni a terra in preparazione dei veicoli orbitali, che oggi sono lunghe, complicate e costose”.

Lo studio di propellenti verdi è uno sforzo internazionale che va avanti da decenni, con l’Università Pisa che negli anni ha ricoperto un ruolo chiave. I propellenti verdi sono generalmente composti chimici a basso impatto ambientale e tossicità, come acqua ossigenata ad alte concentrazioni o protossido d’azoto, comunemente conosciuto come anestetico. Rientrano tra questi anche il comune cherosene e altri idrocarburi, che rappresentano comunque un enorme passo avanti rispetto ai tradizionali composti utilizzati che invece contengono idrazina o tetrossido di azoto, sostanze estremamente tossiche e dannose per l’ambiente e la salute umana. La gestione di questi componenti è non solo potenzialmente dannosa per il personale coinvolto, ma anche estremamente costosa, per cui il settore da anni cerca di trovare delle valide alternative.

L’Ateneo, nell’ambito del progetto ASCenSIon, si è occupato di studiare sistemi propulsivi compatibili con i propellenti “verdi”. I sistemi propulsivi sono uno degli elementi più cruciali per il corretto funzionamento dei veicoli orbitali ed hanno un ruolo chiave per il successo delle missioni, regolando sia il movimento dei veicoli in orbita che il controllo d’assetto.

“La nuova classe di veicoli spaziali che abbiamo studiato promette di portare innovazioni che possono avere ricadute per tutti noi – sottolinea Angelo Pasini– come ad esempio un accesso più facile e sostenibile allo spazio, la rimozione attiva dei detriti spaziali causati da decenni di utilizzo incontrollato delle nostre orbite e lo sviluppo di nuove missioni per l’esplorazione spaziale”.

Progetto ASCenSIon foto del team di ricerca propellenti verdi per veicoli orbitali da sinistra verso destra Lily Blondel-Canepari, Alberto Sarritzu, Angelo Pasini
il team del Progetto ASCenSIon, appena uscito con uno studio su una nuova classe di veicoli orbitali che per muoversi nello spazio utilizzano propellenti “verdi”: da sinistra verso destra Lily Blondel-Canepari, Alberto Sarritzu, Angelo Pasini

Alberto Sarritzu sta terminando il suo dottorato all’Università di Pisa. Ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo diversi anni di lavoro in multinazionali all’estero. Ha deciso di intraprendere la ricerca per avere un impatto sull’industria, in particolare per provare a rendere più sostenibile e attraente un ambito in forte crescita come quello dello spazio. Lily Blondel-Canepari è una studentessa di dottorato all’Università di Pisa. È laureata in fisica alla EPFL di Losanna in Svizzera e ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo aver lavorato presso il CERN e precedentemente l’Agenzia Spaziale Europea. Il suo lavoro è improntato sulla ricerca di una nuova definizione all’aggettivo “verde” per quanto riguarda i propellenti spaziali in modo da valutare il reale impatto delle scelte future. Angelo Pasini è ricercatore di propulsione aerospaziale al dipartimento di ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa dal 2016. Prima di intraprendere la carriera accademica, ha lavorato per oltre dieci anni nel settore della propulsione verde, inizialmente presso l’azienda ALTA, spin-off dell’università, e successivamente presso l’azienda Sitael.

 

LInk articolo scientifico: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0094576524000407

 

Testo e foto dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura
dell’Università di Pisa.

Grazie alla geodesia satellitare, il magma come fonte di energia semi-infinita

Lo studio dell’Università di Pisa pubblicato su Nature Communications.

Il magma può essere utilizzato come fonte di energia semi-infinita, ma per farlo è prima necessario capire dove si trova sotto i nostri piedi e come si muove. Per la prima volta, grazie ad innovative tecniche di geodesia satellitare, scienziati e scienziate dell’Università di Pisa sono riusciti a studiare il magma a profondità sinora mai esplorate per capire come si muove e come risale verso la superficie. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications è stata svolta dal dottore Alessandro La Rosa e dalla professoressa Carolina Pagli del dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano. Hanno inoltre collaborato al lavoro il professore Freysteinn Sigmundsson dell’Università dell’Islanda e altri studiosi da Cina, Francia e Regno Unito.

La possibilità di ricavare energia dal magma è una opportunità concreta allo studio in Paesi come l’Islanda – racconta Carolina Pagli – per misurare i movimenti millimetrici della superficie terrestre la tecnica principale che abbiamo usato è l’Interferometric Synthetic Aperture Radar (InSAR) che abbiamo combinato con il sistema globale di navigazione satellitare (GNSS) per avere una visione a tre dimensioni dei movimenti della crosta terrestre”.

Il monitoraggio satellitare è durato dal 2014 al 2021 e ha riguardato il rift dell’Afar, una depressione nel Corno d’Africa tra Stato di Gibuti, Eritrea, Somalia ed Etiopia dove si trova il punto più basso del continente africano. I risultati hanno rilevato un sollevamento della crosta terrestre di circa 5 mm/anno rivelando la comune origine di fenomeni in superficie molto distanti fra loro.

“Nel nostro studio abbiamo dimostrato come l’apporto di magma nella crosta avvenga ad impulsi, in luoghi diversi ma contemporaneamente – spiega Alessandro La Rosa – nello specifico l’afflusso di magma è avvenuto simultaneamente in quattro diversi luoghi, distanti decine di km e a profondità comprese tra 9 e 28 km, causando il sollevamento della superficie su una zona larga circa 100 km”.

Carolina Pagli si occupa da sempre di ricerca sui vulcani attivi tramite tecniche di geodesia satellitare. Dopo avere acquisito il PhD all’Università d’Islanda dove ha studiato i vulcani attivi e l’influenza del ritiro dei ghiacciai sulla produzione di magma ha continuato il suo percorso presso l’Università di Leeds nel Regno Unito. Tornata in Italia grazie al programma ministeriale Rita Levi Montalcini è adesso professoressa associata di Geofisica della Terra Solida al dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Pisa.

Alessandro La Rosa è stato dottorando e assegnista di ricerca nel gruppo di ricerca di Carolina Pagli ed è attualmente Research Fellow a GFZ-Potsdam (Germania).

 Alessandro La Rosa e Carolina Pagli durante le ricerche ad Afar
Grazie alla geodesia satellitare, il magma come fonte di energia: in foto, Alessandro La Rosa e Carolina Pagli durante le ricerche ad Afar

Riferimenti bibliografici:

La Rosa, A., Pagli, C., Wang, H. et al. Simultaneous rift-scale inflation of a deep crustal sill network in Afar, East Africa, Nat Commun 15, 4287 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-47136-4

 

Testo e foto dal Polo Comunicazione CIDIC dell’Università di Pisa.