Le praterie di Posidonia riducono gli effetti dell’acidificazione dei mari (e la prova sono i ricci di mare)
Realizzate nell’ambito del progetto UE FutureMARES, le ricerche dell’Università di Pisa – condotte anche nei ‘mesocosmi’ dell’Acquario di Livorno – su questa pianta che popola il Mediterraneo sono state pubblicate sulle riviste Science of the Total Environment ed Environmental Research
Foto 1 (mesocosmi). Sistema di mesocosmi composto da vasche con acqua di mare, utilizzate per testare gli effetti dell’acidificazione dei mari e della presenza della pianta marina, Posidonia oceanica, sullo sviluppo delle larve di riccio, Paracentrotus lividus
Le praterie di Posidonia possono ridurre in modo significativo gli effetti dell’acidificazione dei mari, la prova arriva da una specie sentinella come i ricci di mare. È questo quanto emerge da alcuni studi condotti dall’Università di Pisa nell’ambito del progetto europeo FutureMARES e pubblicati sulle riviste Science of the Total Environment e Environmental Research.
I ricercatori dell’Università di Pisa hanno condotto gli esperimenti nei mesocosmi collocati presso l’Acquario di Livorno, un sistema di vasche di grandi dimensioni che riproduce gli ecosistemi marini. Le analisi hanno dimostrato che Posidonia oceanica, la principale pianta marina che popola il Mediterraneo, contribuisce a difendere lo sviluppo delle larve del riccio di mare (Paracentrotus lividus). Questa specie, che ha anche un interesse commerciale, è minacciata dall’acidificazione delle acque marine che ostacola lo sviluppo dello scheletro composto da carbonato di calcio. Ma grazie alla propria attività fotosintetica, la Posidonia è stata in grado di alzare il pH dell’acqua di 0.15 unità. In presenza delle piante, le larve di riccio hanno così sviluppato meno malformazioni e raggiunto una grandezza maggiore nella fase finale dello sviluppo.
Foto 2 (ricci). In alto: esemplare adulto di riccio di mare, Paracentrotus lividus; in basso a sinistra una larva di riccio normale ed a destra una larva anormale
Le praterie di Posidonia possono quindi rappresentare un rifugio per alcune delle specie minacciate dall’acidificazione dei mari anche perché il fenomeno in sé non ha effetti significativi su queste piante. E tuttavia, come hanno dimostrato ulteriori indagini dell’Università di Pisa, se l’acidificazione è associata ad un innalzamento della temperatura dell’acqua, possono subentrare alterazioni fisiologiche e molecolari, specialmente nelle piante più in profondità, che potrebbero ridurre la funzione protettiva.
“I nostri studi dimostrano le praterie di piante marine come Posidonia oceanica possano mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici su altre specie, con importanti ricadute in termini sia di biodiversità che economici – spiega il professore Fabio Bulleri del Dipartimento di Biologia e del Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC) dell’Università di Pisa – questa capacità però può essere compromessa da un ulteriore riscaldamento del mare e per questo è necessario individuare popolazioni di piante più tolleranti allo stress termico e siti caratterizzati da un minore tasso di riscaldamento che possano funzionare da rifugi in scenari futuri”.
Fabio Bulleri, responsabile scientifico del progetto FutureMARES, si occupa della valutazione degli effetti dei cambiamenti climatici in ambiente marino. Insieme a lui hanno collaborato, per l’Università di Pisa, Chiara Ravaglioli assegnista di ricerca del Dipartimento di Biologia che si occupa degli effetti antropici sulle piante marine; Lucia De Marchi e Carlo Pretti, esperti in ecotossicologia del Dipartimento di Scienze Veterinarie. Partner esterni sono il Dipartimento di Scienze Della Vita dell’Università di Trieste, il Centro Interuniversitario di Biologia Marina “G. Bacci” (CIBM) di Livorno, la Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, il National Institute of Oceanography, Israel Oceanographic and Limnological Research, Haifa in Israele e il National Biodiversity Future Centre (NBFC) di Palermo.
Medicina di precisione: individuati nuovi biomarcatori per migliorare e personalizzare la diagnosi del carcinoma midollare della tiroide
Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma ha utilizzato una tecnologia innovativa, non invasiva ed economica per identificare caratteristiche molecolari peculiari di questa neoplasia. I risultati dello studio, pubblicati su Biomarker Research, possono migliorare la diagnosi e la prognosi dei pazienti.
Il carcinoma midollare della tiroide è un tumore la cui diagnosi, a oggi, si basa sul riscontro di alti livelli di calcitonina, ormone prodotto dalle cellule C della tiroide da cui origina il tumore, in pazienti con nodulo tiroideo rilevato mediante esame ecografico.
Tuttavia, alti livelli di calcitonina non sono specifici di tale neoplasia e possono essere dunque riscontrati anche in pazienti non affetti da questo tipo di tumore. Inoltre, i livelli di tale ormone, in presenza di neoplasia, non sempre correlano con l’estensione del tumore stesso. Pertanto, la ricerca biomedica sta facendo grossi sforzi per migliorare la diagnosi e di conseguenza la prognosi dei pazienti.
In questo contesto, il gruppo di ricerca coordinato da Elisabetta Ferretti e Agnese Po della Sapienza di Roma ha utilizzato una tecnologia innovativa e al tempo stesso relativamente economica per identificare nuove caratteristiche molecolari nel DNA circolante presente nel sangue di pazienti affetti da carcinoma midollare della tiroide. Lo studio, nato dalla collaborazione di tre dipartimenti della Sapienza e importanti enti nazionali come l’Università di Siena, l’Università di Pisa, l’Università di Cagliari e l’Istituto Pascale di Napoli, è stato pubblicato sulla rivista Biomarker Research del gruppo Nature.
“Da alcuni anni il DNA circolante nel sangue dei pazienti oncologici viene analizzato alla ricerca di mutazioni presenti nelle cellule tumorali. Tuttavia, il numero di diverse mutazioni che possono essere presenti è molto elevato e le indagini possono mancare la diagnosi poiché cercano la molecola sbagliata – spiega Agnese Po. Ci sono altre caratteristiche del DNA circolante che possono essere sfruttate per identificare una patologia, e tra queste abbiamo analizzato la metilazione e la frammentazione, che sono legate al fenotipo e al comportamento delle cellule”.
Raccogliendo campioni di biopsia liquida di pazienti affetti da carcinoma midollare della tiroide al momento della diagnosi per estrarre il DNA circolante (o cell-free DNA) è infatti possibile integrare le indagini che già si eseguono, migliorando il livello di caratterizzazione del paziente.
“Per queste analisi abbiamo utilizzato una tecnologia altamente specifica come la PCR digitale o droplet digital PCR – afferma Elisabetta Ferretti – che permette una risoluzione fino alla singola molecola di DNA”.
“Questi risultati – concludono Anna Citarella e Zein Mersini Besharat, prime autrici dello studio e ricercatrici presso il Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza – gettano le basi per l’aggiunta di nuovi biomarcatori non invasivi, utili per la diagnosi e gestione del paziente affetto da carcinoma midollare della tiroide nell’ambito della medicina di precisione”.
Inoltre questi risultati aprono la strada alla ricerca di nuovi biomarcatori circolanti anche per altre tipologie di tumore, dove la ricerca di biomarcatori diagnostici e prognostici specifici e sensibili è un’importante esigenza medica.
Riferimenti:
Circulating cell-free DNA (cfDNA) in patients with medullary thyroid carcinoma is characterized by specific fragmentation and methylation changes with diagnostic value – Citarella A, Besharat ZM, Trocchianesi S, Autilio TM, Verrienti A, Catanzaro G, Splendiani E, Spinello Z, Cantara S, Zavattari P, Loi E, Romei C, Ciampi R, Pezzullo L, Castagna MG, Angeloni A, Elisei R, Durante C, Po A and Ferretti E – Biomarker Research (2023) https://doi.org/10.1186/s40364-023-00522-4
Medicina di precisione: individuati nuovi biomarcatori per migliorare e personalizzare la diagnosi del carcinoma midollare della tiroide. Foto di Konstantin Kolosov
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Perucetus colossus: è un cetaceo fossile – scoperto in Perù nel Deserto di Ica – l’animale più pesante mai vissuto
La ricerca, pubblicata su Nature, è stata coordinata dai paleontologi dell’Università di Pisa e ha visto la partecipazione dell’Università di Milano-Bicocca e di Camerino.
Milano, 3 agosto 2023 – Dal Deserto di Ica, lungo la costa meridionale del Perù, riaffiorano i resti fossilizzati di uno straordinario animale risalente a quasi 40 milioni di anni fa: un antenato delle balene e dei delfini caratterizzato da ossa grandissime e pesantissime che fanno pensare a un mostro marino dalle proporzioni titaniche.
Un articolo appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature presenta una prima analisi di questo eccezionale cetaceo, a cui è stato dato il nome di Perucetus colossus in onore del paese sudamericano in cui è stato rinvenuto ed in riferimento alla sua taglia letteralmente colossale.
Il gruppo internazionale di scienziati autori della ricerca vede in primo piano i paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa: il professor Giovanni Bianucci, primo autore e coordinatore della ricerca, il dottorando Marco Merella e il ricercatore Alberto Collareta. Allo studio hanno partecipato anche altri geologi e paleontologi italiani provenienti dalle università di Milano-Bicocca (la ricercatrice Giulia Bosio e la professoressa Elisa Malinverno) e Camerino (i professori Claudio Di Celma e Pietro Paolo Pierantoni), affiancati da ricercatori peruviani e di diverse nazionalità europee.
Le ossa conservate di Perucetus colossus. Crediti per l’immagine: Giovanni Bianucci
Stima della massa corporea dell’esemplare di Perucetus colossus. Crediti per l’immagine: Giovanni Bianucci
Ricostruzione artistica del Perucetus colossus. Crediti per l’immagine: A. Gennari
La dott.ssa Giulia Bosio con vertebre dell’esemplare di Perucetus colossus. Crediti per la foto: Giulia Bosio
Studio della vertebra di Perucetus colossus al Museo di Storia Naturale di Lima. Crediti per la foto: Giovanni Bianucci
Team di geologi e paleontologi in Perù. Crediti per la foto: Elisa Malinverno
Accampamento nel Deserto di Ica, in Perù. Crediti per la foto: Giovanni Bianucci
Elisa Malinverno e Giulia Bosio davanti ad un affioramento. Crediti per la foto: Claudio Di Celma
Giulia Bosio ed Elisa Malinverno campionano sedimenti. Crediti per la foto: S. Malagù
Le ossa fossili di questo cetaceo primitivo sono state recuperate in successive campagne di scavo e sono ora conservate presso il Museo di Storia Naturale di Lima. Consistono di tredici vertebre, quattro costole e parte del bacino, quest’ultimo a indicare che Perucetus era ancora provvisto di piccole zampe posteriori, una condizione riscontrata anche negli altri Basilosauridi, il gruppo di cetacei arcaici a cui è stato riferito questo nuovo mostro marino.
«Sebbene lo scheletro da noi studiato non sia completo, stime rigorose basate sulla misurazione delle ossa conservate e sulla comparazione con un ampio database di organismi attuali e fossili – spiega Giovanni Bianucci – indicano che la massa scheletrica di Perucetus era di circa 5-8 tonnellate, un valore perlomeno doppio rispetto alla massa scheletrica del più grande animale vivente, la balenottera azzurra. Il pesantissimo scheletro di Perucetus, che in vita avrebbe raggiunto i 20 metri di lunghezza, suggerisce che la massa corporea di questo antico cetaceo potesse raggiungere le 340 tonnellate, quasi il doppio della più grande balenottera azzurra e oltre quattro volte quanto stimato per l’Argentinosauro, uno dei più grandi dinosauri mai rinvenuti.»
Perucetus rappresenta dunque un ottimo candidato al ruolo di animale più pesante di tutti i tempi, un record da cui verrebbe scalzata proprio la balenottera azzurra. Le implicazioni paleobiologiche di una simile scoperta sono di estrema importanza.
«L’enorme massa corporea di Perucetus – prosegue Bianucci – indica che i cetacei sono stati protagonisti di fenomeni di gigantismo in almeno due fasi: in tempi relativamente recenti, con l’evoluzione delle grandi balene e balenottere che popolano gli oceani moderni, e circa 40 milioni di anni fa, con la radiazione dei Basilosauridi di cui Perucetus è il rappresentante più straordinario.»
Lo studio di un simile ‘peso massimo’ è stato certamente eccitante ma non privo di difficoltà.
«Ciascuna delle vertebre di Perucetus è talmente pesante (la più leggera pesa oltre 100 kg) da richiedere diverse persone robuste per ogni minimo spostamento – racconta Marco Merella – Oltre a rendere più difficili le fasi di scavo e preparazione, ciò ha complicato fortemente l’analisi osteoanatomica dei reperti. Ci siamo quindi rivolti alle innovative metodologie della paleontologia virtuale e in particolare alla scansione a luce strutturata, per acquisire ed elaborare modelli tridimensionali di dettaglio di tutte le ossa raccolte. Questi modelli ci hanno poi permesso di proseguire lo studio una volta ritornati a Pisa; infatti, è proprio grazie alla scansione a luce strutturata che è stato possibile stimare in maniera rigorosa il volume dello scheletro, fornendo così un supporto quantitativo alla ricostruzione della forma del corpo e del modo di vita di questo eccezionale cetaceo estinto.»
«La taglia titanica delle ossa di Perucetus rappresenta certamente il tratto più appariscente di questa nuova specie – afferma Alberto Collareta – ma l’enorme massa ricostruita per l’intero scheletro riflette anche l’alto peso specifico della tipologia di tessuto osseo di cui esso si compone. Tutte le ossa di Perucetus, infatti, sono costituite da osso estremamente denso e compatto, simile a quello che si rinviene, anche se in maniera decisamente meno marcata, nei sireni attuali. Questi mammiferi abitano in acque costiere poco profonde, dove uno scheletro particolarmente pesante funziona da ‘zavorra’, facilitando così l’alimentazione al fondale ed aumentando l’inerzia all’azione delle onde. L’ispessimento e appesantimento dello scheletro, in termini tecnici pachiosteosclerosi, che accomuna Perucetus ai sireni non si rinviene in nessun cetaceo attuale. Dunque, benché sia difficile fornire un’interpretazione paleoecologica di questo straordinario adattamento, è probabile che esso fornisse a Perucetus la stabilità necessaria per abitare acque agitate prossime alla linea di costa. Perucetus si alimentava probabilmente presso il fondale, forse privilegiando la ricerca di carogne di altri vertebrati marini come fanno oggi alcuni grandi squali.»
«Per quanto la scoperta di Perucetus sia stata inaspettata, non sorprende che essa sia avvenuta nel Deserto di Ica – racconta la ricercatrice Giulia Bosio dell’Università di Milano-Bicocca – Questo deserto ospita infatti uno dei più grandi giacimenti di vertebrati fossili del mondo, oggetto di studio ormai da più di quindici anni grazie ad una serie di progetti di ricerca nazionali ed internazionali che hanno visto la collaborazione delle università italiane di Pisa, Milano-Bicocca e Camerino, affiancate da ricercatori peruviani tra cui Mario Urbina, lo scopritore di Perucetus colossus, e da ricercatori di diverse nazionalità europee.»
Gli studi presso l’Università di Milano-Bicocca si sono concentrati sulla ricostruzione della stratigrafia e sulla datazione dell’antico antenato delle balene.
«Sulla base di studi micropaleontologici di specie planctoniche e di una datazione radiometrica di una cenere vulcanica trovata nelle vicinanze del reperto – interviene la professoressa Elisa Malinverno dell’Università di Milano-Bicocca –abbiamo potuto stimare un’età compresa tra 39.8 e 37.84 milioni di anni per questo fossile. Perucetus colossus viveva quindi nell’epoca denominata Eocene, quando gli antenati dei cetacei attuali stavano abbandonando lo stile di vita terrestre a favore di quello marino.»
Claudio Di Celma e Pietro Paolo Pierantoni della sezione di Geologia dell’Università di Camerino hanno realizzato lo studio geologico-stratigrafico dell’area in cui è stato scoperto Perucetus colossus.
«Attraverso lo studio delle rocce sedimentarie che lo contenevano – spiega Claudio Di Celma – abbiamo contribuito alla ricostruzione dell’ambiente in cui questo antico mammifero marino ha vissuto. Dove oggi c’è un deserto che si estende per centinaia di chilometri lungo la costa del Perù meridionale, in passato si trovava un ampio bacino marino, il Bacino di Pisco, caratterizzato da una notevole abbondanza di nutrienti e una ricca biodiversità.»
«Il ritrovamento delle prime ossa di Perucetus risale a tredici anni fa ed è merito di Mario Urbina, ricercatore di campo e vera e propria leggenda vivente della paleontologia peruviana – spiega Bianucci – ed è solo grazie alla perseveranza di Mario che lo scavo pluriennale di questo straordinario (e pesantissimo) fossile è stato possibile. Scommetto che le sorprese non sono finite» conclude Bianucci.
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.
Le pulsar, stelle di neutroni che ruotano rapidamente, emettono un vero e proprio vento, composto da particelle di alta energia e permeato da campi magnetici, che può scontrarsi con il gas che incontra sul suo cammino. Da questo scontro viene prodotta radiazione di sincrotrone che letteralmente “accende” le nebulose. Un’indagine sulle proprietà della luce proveniente da uno di questi oggetti celesti, la Vela Pulsar Wind Nebula (PWN), osservabile nella direzione della costellazione della Vela, nel cielo australe, mostra come essa risulti polarizzata.
Questo aspetto fornisce importanti indicazioni sulla distribuzione e sulla geometria dei campi magnetici che caratterizzano la pulsar, e dalle quali dipende la direzione di emissione del vento di particelle responsabile della radiazione di sincrotrone all’origine della luminosità della nebulosa circostante. Il risultato, pubblicato oggi, mercoledì 21 dicembre, sulla rivista Nature, è stato ottenuto dalla collaborazione internazionale dell’esperimento Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE), satellite, frutto di una collaborazione tra NASA e ASI, che è dotato di innovativi rivelatori sviluppati, realizzati e testati dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e dall’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica). IXPE è stato in grado di osservare la polarizzazione della luce nella banda X dalla Vela PWN e di studiare il vento prodotto dalla sua pulsar.
Immagine composita della pulsar Vela e della sua nebulosa, ottenuta con osservazioni degli osservatori spaziali IXPE,Chandra e Hubble Space Telescope. Crediti: NASA/CXC/SAO/IXPE
Prodotta circa 12000 anni fa a seguito dell’esplosione di una stella, la nebulosa della Vela, insieme a quella del Granchio (risultato anch’essa di una supernova, talmente luminosa da essere visibile anche di giorno, come riportato da astronomicinesi nel 1054), sono tra i più studiati oggetti celesti della loro tipologia. Ma le somiglianze tra le due sorgenti astrofisiche non terminano qui. Le radiazioni emesse da entrambe le nebulose risultano infatti polarizzate. Ciò significa che i campi elettromagnetici dei fotoni non sono distribuiti in modo casuale, ma risultano essere allineati lungo direzioni specifiche, che variano in base alla regione della nebulosa da cui sono stati emessi. L’allineamento dei fotoni implica che gli elettroni ad altissima energia che compongono il vento della pulsar alla base del meccanismo responsabile dell’emissione della luce di sincrotrone, e quindi dei fotoni stessi, si muovano lungo una spirale all’interno del campo magnetico delle PWN. Comportamento che suggerisce che i campi magnetici di Vela PWN siano disposti in una geometria molto ordinata.
“IXPE ha rivelato che i campi magnetici di Vela PWN sono ben allineati con l’immagine nei raggi X della nebulosa” dice Fei Xie, professoressa associata alla Guangxi University e già post-doc presso l’INAF di Roma, prima autrice dell’articolo pubblicato su Nature. “Questi campi formano delle strutture a forma di ciambella (dette tori) che circondano l’equatore della pulsar e i getti di emissione che partono dai poli della pulsar stessa. Ancora più sorprendentemente, il grado di polarizzazione misurato risulta essere molto elevato, superando il 60% in più regioni. Questo è il grado di polarizzazione più elevato mai misurato in una sorgente celeste nei raggi X ed è un valore prossimo al valore massimo permesso dalla fisica dell’emissione di sincrotrone”.
“L’alta polarizzazione vista da IXPE, assieme alla distribuzione energetica costante (nel blu), suggerisce che gli elettroni non sono accelerati da processi di shock turbolenti, che risultano svolgere un ruolo predominante in altre sorgenti di raggi X, quali i resti di Supernova con strutture a guscio. A produrre un tale risultato, invece, potrebbe essere un processo non turbolento come la riconnessione magnetica”, dice Roger W. Romani, astrofisico di Stanford coinvolto nell’analisi dei dati.
“Questa misura di polarizzazione in banda X, ottenuta da IXPE, aggiunge un pezzo finora mancante al puzzle di Vela PWN”, dichiara Alessandro Di Marco, ricercatore presso l’INAF di Roma che ha contribuito all’analisi dei dati. “IXPE ha svelato la struttura dei campi magnetici nella regione centrale, fornendoci una loro mappa con una risoluzione precedentemente mai ottenuta, mostrando come questa sia in accordo con le immagini ottenute in radio per la nebulosa esterna”.
“Il risultato è stato reso possibile dalle caratteristiche uniche degli strumenti, tutti Italiani, al piano focale dei tre telescopi di IXPE, che non solo forniscono una sensibilità alla polarizzazione senza precedenti in questa banda di energia, ma permettono anche di misurare, fotone per fotone, la direzione d’arrivo e l’energia”, commenta Luca Baldini, ricercatore dell’INFN e dell’Università di Pisa, Co-Principal Investigator italiano di IXPE.
“Le misure di polarizzazione della Vela PWN nei raggi X evidenziano quanto sia diversificata in sorgenti astrofisiche la struttura dei campi magnetici alla base dell’emissione X osservata. Quella della Vela PWN è di certo tra le meno complesse, dato l’elevato grado di polarizzazione vicino al limite teorico previsto” dice Immacolata Donnarumma, ASI Project Scientist.
IXPE sta continuando a osservare il cielo ai raggi X sondando più in profondità nelle strutture dei campi magnetici di diverse sorgenti celesti, fornendoci nuove informazioni sulla fisica estrema di questi acceleratori cosmici di particelle.
Testo e immagine dagli Uffici Stampa Agenzia Spaziale Italiana, Istituto Nazionale di Astrofisica, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
IL CUORE CHE SI “EMOZIONA” E GUIDA IL NOSTRO CERVELLO
Lo studio dell’Università di Pisa in collaborazione con l’Università di Padova e l’University of California Irvine pubblicato nei “Proceedings of the National Academy of Science of the USA”
Le emozioni nascono nel cuore, e non nel cervello, dicevano i poeti. Ora la ricerca scientifica conferma le fondamenta di questo topos letterario. Uno studio dei bioingegneri dell’Università di Pisa in collaborazione con l’Università di Padova e l’University of California Irvine e pubblicato sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Science of the USA” analizza il meccanismo che ci porta a provare una specifica emozione a fronte di determinati stimoli e trova nel cuore la radice delle emozioni.
“Che il corpo giochi un ruolo fondamentale nel definire gli stati emotivi è ormai ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica – spiega Gaetano Valenza, docente di bioingegneria al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa e ricercatore al Centro “E. Piaggio” – Tuttavia, se escludiamo alcune teorie proposte agli inizi del secolo scorso, fino ad ora l’attività cardiovascolare è stata vista come un semplice supporto metabolico a sostegno del cervello. E solo il cervello sarebbe la sede dei processi biologici responsabili dell’esperienza emotiva cosciente. Noi abbiamo invece evidenze del fatto che l’attività cardiovascolare gioca un ruolo causale nell’iniziare e nel sentire una specifica emozione, e precede temporalmente l’attivazione dei neuroni della corteccia cerebrale. In sostanza, per dirla parafrasando William James, che fu il padre, insieme a John Lange, della cosiddetta teoria periferica delle emozioni, non abbiamo la tachicardia perché abbiamo paura, ma la sensazione di paura è l’esperienza emotiva cosciente innescata dalla tachicardia”.
Per dimostrare questa teoria sono stati utilizzati modelli matematici complessi applicati ai segnali elettrocardiografici ed elettroencefalografici in soggetti sani durante la visione di filmati con contenuto emotivo altamente spiacevole o piacevole. I ricercatori hanno così scoperto che nei primi secondi lo stimolo modifica l’attività cardiaca, che a sua volta induce e modula una specifica risposta della corteccia. Un continuo e bidirezionale scambio di informazioni tra cuore e cervello sottende quindi l’intera esperienza cosciente dell’emozione e, soprattutto, della sua intensità.
“Ovviamente – prosegue Valenza – la complessità delle emozioni che proviamo deriva da uno scambio molto complesso tra il nostro sistema nervoso e i vari sistemi “periferici”, ma è l’attività cardiaca, e non quella cerebrale, a dare il via all’esperienza emotiva.”
Per potere estrarre da una semplice analisi dell’ECG la valutazione di uno stato emotivo, i ricercatori hanno sviluppato delle equazioni matematiche in grado di “decodificare” continuamente la comunicazione cuore-cervello nei diversi stati emozionali. In pratica, data una certa dinamica cardiaca, in un futuro prossimo, potrebbe essere possibile comprendere quale emozione è stata provata dal soggetto sotto osservazione, per esempio utilizzando uno smartwatch.
“La scoperta può avere delle ricadute molto rilevanti sulla comprensione dei disturbi psichici e sulla loro relazione con la salute fisica – afferma Claudio Gentili, del Dipartimento di Psicologia Generale e Centro per i Servizi Clinici Psicologici dell’Università di Padova – e può spiegare perché soggetti con disturbi affettivi, come la depressione, sono associati ad una maggior probabilità di sviluppare patologie cardiache, o, viceversa, tra soggetti con problemi cardiaci quali patologie coronariche o aritmie si riscontra un incremento di ansia e depressione. Il nostro lavoro, oltre a riportare in auge la teoria della genesi periferica delle emozioni, conferma le più recenti posizioni neuroscientifiche che propongono di superare il dualismo tra il cervello inteso come organo esclusivo della mente e il corpo, suggerendo come noi non siamo (solo) il nostro cervello”.
Testo dagli Uffici Stampa dell’Università di Pisa e dell’Università degli Studi di Padova.
Il primo sorvolo di Mercurio della missione BepiColombo
Il 2 ottobre all’1.35 ora italiana la sonda spaziale passerà a 200 km dalla superficie del pianeta. A bordo un esperimento, il Mercury Orbiter Radioscience Experiment (MORE), sviluppato dal team guidato da Luciano Iess della Sapienza, che permetterà di determinare la gravità e l’orbita del corpo celeste più vicino al sole.
La sonda spaziale BepiColombo, lanciata il 20 ottobre 2018 dal Centro spaziale di Kourou nella Guyana francese, è in viaggio verso Mercurio, la sua destinazione finale. Il primo dei sei sorvoli del pianeta più vicino al Sole avverrà il 2 ottobre 2021 all’1.35 ora italiana (23.15 del primo ottobre, ora di Greenwich), quando la sonda passerà a 200 km dalla superficie.
BepiColombo ha già effettuato con successo un sorvolo della Terra, il 10 aprile 2020, e due sorvoli di Venere, il 20 ottobre 2020 e il 10 agosto 2021. Questi incontri ravvicinati hanno lo scopo primario di modificare la traiettoria della sonda, facendole acquistare velocità sufficiente per la cattura finale da parte della gravità di Mercurio, prevista per la fine del 2025. Ma allo stesso tempo sono anche un primo assaggio di quanto verrà poi osservato con assai maggiore dettaglio nella missione primaria, quando BepiColombo orbiterà attorno al pianeta per due anni.
BepiColombo nasce dalla collaborazione tra l’ESA (Agenzia Spaziale Europea) e la JAXA (Agenzia Spaziale Giapponese). Prende il nome dallo scienziato italiano Giuseppe (da cui Bepi) Colombo, che diede un contributo fondamentale allo studio di Mercurio. La sonda è composta da tre moduli principali: il modulo MPO (Mercury Planetary Orbiter) e il modulo MTM (Mercury Transfer Module) sviluppati dall’ESA, il terzo modulo MMO (Mercury Magnetospheric Orbiter) sviluppato dalla JAXA. Con la sofisticata strumentazione scientifica di bordo, BepiColombo vuole rispondere ad alcune domande fondamentali per comprendere la formazione e l’evoluzione del pianeta: qual è la sua struttura interna, dal nucleo alla superficie? Quali sono gli elementi e i minerali di cui è composto? Qual è l’origine del campo magnetico e come interagisce con il vento solare, un flusso di particelle alla velocità di 400 km/s?
Quattro dei sedici esperimenti scientifici di BepiColombo sono italiani. Tra questi, l’esperimento di radioscienza, MORE (Mercury Orbiter Radioscience Experiment), è guidato dal professor Luciano Iess del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, coadiuvato da un gruppo internazionale di scienziati e ingegneri. In Italia, collaborano le Università di Pisa e Bologna, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università d’Annunzio. Gli obiettivi scientifici di MORE sono la determinazione della struttura interna di Mercurio attraverso misure di precisione della gravità del pianeta, la ricerca di violazioni della teoria della relatività generale di Einstein e la dimostrazione in volo di un nuovo e avanzato sistema di navigazione spaziale.
Il primo sorvolo di Mercurio della missione BepiColombo. Immagine ESA
Mercurio è il pianeta più vicino al Sole, dove la curvatura dello spazio-tempo, prevista da Einstein nel 1915, è più accentuata. Tale curvatura produce “anomalie” nell’orbita del pianeta (tra cui la famosa precessione del perielio) e nella propagazione della luce e dei segnali radio (compresa la deflessione osservata durante l’eclisse solare del 1919). Circa un secolo dopo, MORE consentirà di verificare a un livello di precisione mai raggiunto finora se la relatività einsteniana rimane una teoria valida della gravità. I primi esperimenti di fisica fondamentale sono già cominciati nel marzo 2021 e proseguiranno fino alla fine della missione, nel 2027.
MORE si prefigge di raggiungere tali obiettivi scientifici tramite l’utilizzo di segnali radio scambiati tra grandi antenne di terra (34 m di diametro) ubicate in Argentina e California, e uno strumento di bordo, il KaT (Ka-band Transponder), realizzato da Thales Alenia Space Italia con la collaborazione del team di Sapienza e finanziato dall’Agenzia spaziale italiana. L’avanzato sistema radio renderà possibile misurare la distanza della sonda con precisione di pochi centimetri e la sua velocità a livello di alcuni millesimi di millimetro al secondo. I dati di un altro strumento italiano (Italian Spring Accelerometer – ISA) saranno utilizzati per misurare tutte quelle accelerazioni della sonda non riconducibili alla gravità, permettendo di ottenere una determinazione più precisa del moto della sonda.
Il ruolo fondamentale che svolge l’esperimento MORE all’interno della missione BepiColombo conferma Sapienza come un polo centrale della ricerca per le tematiche di struttura ed evoluzione planetaria, fisica fondamentale e sistemi di navigazione interplanetaria.
Testo, foto e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
TESTATO SULLO STROMBOLI UN SISTEMA DI ALLERTAMENTO IN TEMPO REALE DELLE ERUZIONI VIOLENTE
Pubblicati su Nature Communicationsi risultati dello studio coordinato dall’Università di Firenze, in collaborazione con i ricercatori del Dipartimento della Protezione civile, delle Università di Palermo, di Pisa e di Torino e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Napoli
Monitorando la deformazione del suolo dei vulcani è possibile capire in anticipo quando arriverà una violenta eruzione. Lo ha verificato sul vulcano Stromboli il team di ricercatori coordinati da Maurizio Ripepe, ricercatore dell’Università di Firenze, che ha sviluppato un sistema di allerta automatico in tempo reale. All’indagine, i cui risultati sono pubblicati sull’ultimo numero della rivista Nature communications, hanno collaborato i ricercatori del Dipartimento della Protezione civile, delleUniversità di Palermo, di Pisa e di Torino, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) di Napolie dell’Università di Tohoku in Giappone.
“Le eruzioni vulcaniche esplosive sono fenomeni violenti e improvvisi, la cui dinamica è talmente rapida da sfuggire al controllo della maggior parte delle reti di monitoraggio – racconta Ripepe, responsabile del Laboratorio di geofisica sperimentale Unifi –. Tali eruzioni rappresentano un grave pericolo, soprattutto quando le aree circostanti al vulcano sono densamente abitate oppure costituiscono un’attrazione turistica. Come succede a Stromboli, dove migliaia di visitatori sono richiamati dalle deboli ma spettacolari esplosioni che si verificano ogni giorno. Questa moderata attività esplosiva – prosegue il ricercatore – può essere interrotta da eventi parossistici, come quelli che hanno devastato l’isola a luglio e ad agosto 2019, generando colonne eruttive di diversi chilometri di altezza, incendi e piccole onde di tsunami e ricoprendo di cenere e lapilli i centri abitati dell’isola”.
Proprio sull’isola delle Eolie i ricercatori hanno raccolto negli ultimi 15 anni migliaia di dati, utilizzando sensori clinometrici – che misurano cioè l’inclinazione del suolo – molto sensibili. Questi sensori permettono di stabilire come le esplosioni parossistiche siano precedute da una debole ma chiara deformazione del suolo (dell’ordine di un milionesimo di grado), fenomeno che si è ripetuto in maniera identica per ogni singolo episodio, dal più debole al più violento.
“L’intero edificio vulcano – spiega Ripepe – inizia a ‘gonfiarsi’ quasi 10 minuti prima dell’esplosione parossistica per effetto della espansione dei gas durante il processo di risalita del magma nel condotto di alimentazione”.
I segnali rilevati dai ricercatori con la loro rete multi-parametrica sono cruciali non solo per dare allerta per gli eventi esplosivi ma anche per quelli che si verificano in un lasso di tempo successivo, come i maremoti, che possono avere effetti altrettanto devastanti.
“Il sistema di allertamento automatico per le eruzioni parossistiche a Stromboli – spiegano dal Dipartimento della Protezione Civile – è operativo in via sperimentale dall’ottobre 2019 e rappresenta il primo sistema automatico di allertamento al mondo per le eruzioni vulcaniche esplosive”.
Il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino collabora da numerosi anni al monitoraggio geochimico e satellitare di Stromboli e contribuisce allo sviluppo di nuove tecniche di allerta in grado di segnalare repentinamente i cambiamenti di attività di questo vulcano unico nel suo genere