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Università degli studi di Pisa

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Perché e come giocano i puledri? Studio su cavalli semi-bradi del Parco Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli in Toscana

La ricerca del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa fa luce sul comportamento dei cavalli allo stato naturale, condizione di cui si sa molto poco

Un branco di cavalli allo stato semi-brado del Parco Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli in Toscana è stato al centro di una ricerca dell’Università di Pisa. L’obiettivo era di capire la funzione e le strategie di gioco nei puledri allo stato naturale, una condizione molto poco studiata in questi animali. La ricerca pubblicata sulla rivista Applied Animal Behaviour Science è stata coordinata dalla professoressa Elisabetta Palagi del Dipartimento di Biologia.

“Le prime prove di domesticazione dei cavalli risalgono a circa 6.000 anni fa. Da allora, i cavalli sono stati principalmente utilizzati come animali da lavoro e, in tempi più recenti, sono diventati anche uno dei nostri animali domestici preferiti con i quali molte persone riescono a stabilire legami speciali – ha detto Elisabetta Palagi – Nonostante l’impatto economico e sociale che questo animale ha per tutti noi, si sa poco circa il suo comportamento allo stato naturale. La maggior parte degli studi riguarda cavalli in stalla e spesso sono rivolti a risolvere i problemi del cavaliere più che del cavallo”.

Le ricercatrici Veronica Maglieri e Giuliana Modica dell’Università di Pisa e Chiara Scopa dell’Università di Parma, guidate da Elisabetta Palagi, hanno registrato e analizzato i comportamenti di 13 puledri dalla nascita fino a sei mesi di età. Dai risultati è emerso che i diversi tipi di gioco dipendono non solo dalle diverse fasi di sviluppo del puledro, ma anche dall’ambiente sociale in cui questo cresce.

Così come accade anche nei nostri bambini, il gioco si fa sempre più complesso con il passare del tempo – spiega Palagi – I giochi solitari, come mordere e lanciare oggetti o saltare, scalciare e girare su sé stessi, e quelli rivolti alla madre (che spesso fa molta fatica a rispondere!) compaiono e si affermano molto precocemente, suggerendo come esplorazione ed esercizio fisico già nei primi giorni di vita siano cruciali per raggiungere un certo livello di maturazione psicomotoria”.

Attraverso il gioco, i puledri mettono alla prova le proprie capacità e saggiano quelle dei loro coetanei, utilizzando tecniche di autocontrollo e riduzione della tensione quando necessario. I puledri di madri di alto rango, cioè con una posizione dominante all’interno del branco, erano inoltre più coinvolti nel gioco sociale ed erano capaci di migliore autocontrollo quando giocavano con puledri di madri di basso rango. Questa capacità migliorava la reciproca partecipazione al gioco, creando le premesse per sessioni più appaganti ed efficaci. Inoltre, i giochi erano spesso intervallati da reciproche toelettature del pelo (grooming) che contribuivano a prolungare le interazioni ludiche. Sembra quindi che il gioco nei puledri non sia legato alla necessità di migliorare la propria posizione gerarchica nel gruppo, peraltro già ereditata dalle madri.

“Negli esseri umani e nelle grandi scimmie non esiteremmo ad attribuire tali tattiche a competenze cognitive complesse – conclude Palagi – Sebbene siamo lontani dall’essere in grado di comprendere appieno il ruolo della cognizione nel gioco sociale, è giunto il momento di considerare altre specie modello, come il cavallo appunto, se vogliamo ipotizzare nuovi scenari sull’evoluzione del comportamento ludico nei mammiferi. Questa tipologia di studio aiuta a capire meglio le tappe naturali di sviluppo e di complessità di questi meravigliosi animali e le informazioni che ne derivano possono essere utilizzate per migliorarne la gestione anche nelle scuderie”.

cavalli a San Rossore
Perché e come giocano i puledri? In foto, cavalli a San Rossore

Elisabetta Palagi è professoressa associata al dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. I suoi interessi di studio riguardano il comportamento sociale in varie specie animali, uomo incluso, in particolare la comprensione dell’evoluzione di alcuni comportamenti come il gioco, i meccanismi di risoluzione dei conflitti e le capacità empatiche alla base della vita sociale. Nel 2020, ha ricevuto il premio dall’Animal Behavior Society per i risultati conseguiti grazie ai suoi studi sul comportamento animale. Veronica Maglieri è assegnista di ricerca del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Studia il comportamento sociale in numerose specie di mammiferi, uomo incluso. Nel 2021 si aggiudica il Pineapple Science Awards per la PsicologiaChiara Scopa è dottoranda dell’Università di Parma, esperta di meccanismi di mimica facciale nei primati (uomo incluso) e cultrice della materia presso il dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Collabora da numerosi anni con il gruppo di ricerca di Elisabetta Palagi. Giuliana Modica, studentessa presso l’Università di Pisa, ha conseguito la laurea in Conservazione ed Evoluzione al Dipartimento di Biologia con una tesi sul comportamento di gioco nel cavallo.

gruppo di ricerca
il gruppo di ricerca: da sinistra a destra Veronica Maglieri, Giuliana Modica, Elisabetta Palagi, Chiara Scopa nel giorno della laurea di Giuliana

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

SkinSource: riprodurre il senso del tatto grazie alla propagazione dell’energia lungo mano e braccio
Lo studio dell’Università di Pisa e dell’Università della California Santa Barbara premiato all’IEEE Haptics Symposium, una delle conferenze più prestigiose di Aptica

 

Le vibrazioni trasmesse attraverso mano e braccio quando tocchiamo un oggetto giocano un ruolo essenziale nel farci provare una determinata sensazione tattile. Ma misurarle e costruirne dei modelli è estremamente complesso. Uno studio dell’Università di Pisa e dell’Università della California Santa Barbara ha messo a punto SkinSource, uno strumento open source in grado di misurare e modellare le vibrazioni della pelle lungo gli arti superiori in risposta a un insieme molto ampio di stimoli tattili localizzati. Le potenziali applicazioni vanno dal design di nuove potessi e mani robotiche fino alla realtà aumentata tattile. Il toolbox ha destato un grande entusiasmo nella comunità di studiosi del senso del tatto, che include discipline molto diverse tra loro, come le neuroscienze, la medicina e l’ingegneria, ed è stato premiato con il Best Paper Award all’IEEE Haptics Symposium, una delle maggiori conferenze internazionali del settore dell’Aptica, che si è svolto nei giorni scorsi a Long Beach, California.

“Il senso del tatto – spiega Matteo Bianchi, docente di robotica al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa – è il più complesso e diffuso in tutto il corpo. Le nostre sensazioni tattili dipendono non solo dai recettori locali della pelle, ma anche da diversi altri fattori, come le vibrazioni che si diffondono attraverso la mano e il braccio nel momento in cui tocchiamo un oggetto. Il tatto è un senso chiave sia per la propriocezione – ovvero la capacità di percepire il nostro corpo come collocato nello spazio in una certa posizione – sia per l’esterocezione, ovvero la capacità di capire le proprietà fisiche degli oggetti, quali la rugosità e la rigidezza. È con il tatto che sappiamo se siamo in una posizione stabile, se stiamo tenendo un bicchiere di carta abbastanza dritto da non rovesciarlo, ma abbastanza delicatamente da non stritolarlo. Senza il tatto non potremmo camminare, stare seduti, tenere una posizione in modo consapevole, interagire, esplorare e modificare il mondo che ci circonda.

Per questo, la capacità di modellare le dinamiche del nostro corpo nel momento in cui tocchiamo un oggetto, per poterle riprodurre per esempio in una protesi, o in una mano robotica, o in un’applicazione di realtà aumentata o virtuale, assume una grande rilevanza.

Il nostro dispositivo è in grado di predire l’estensione e l’intensità delle vibrazioni che si trasmettono lungo gli arti superiori a seguito di differenti tipi di stimoli di forza localizzati, in modo accurato. Il toolbox è open-source, ed è quindi a disposizione di tutta la comunità scientifica che ne vuole fare uso, liberamente scaricabile da questo link https://doi.org/10.5281/zenodo.10547601. Proprio questo aspetto, data la complessità e la difficoltà di riprodurre in modo affidabili le sensazioni tattili, è stato accolto con grande entusiasmo”.

SkinSource

SkinSource infatti, oltre ad essere uno strumento per lo studio delle basi meccaniche della percezione tattile, può essere utilizzato per la progettazione e design di interfacce per la restituzione sensoriale in protesi degli arti superiori e in mani robotiche teleoperate in cui è fondamentale avere un ritorno tattile, così come nella chirurgia robotica e in molte applicazioni che fanno uso della realtà aumentata. Gli ingegneri pisani, infatti, all’interno del FoReLab, il laboratorio del dipartimento di ingegneria dell’informazione dedicato al 5.0, stanno mettendo a punto dispositivi di realtà aumentata che integrano la percezione visiva e tattile.

“Con SkinSource – conclude Bianchi – possiamo sfruttare lo studio e la modellazione della propagazione dell’energia meccanica lungo la pelle per costruire sistemi indossabili distribuiti, per garantire un’esperienza immersiva che integri stimoli visivi e tattili. Il sistema può operare accanto alle interfacce per realtà aumentata a cui stiamo lavorando nel laboratorio FoReLab, che consentono di vedere o toccare oggetti reali modificandone la percezione visiva o  tattile mediante stimoli artificiali.”

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

CityPets: gestire gli animali in città è un gioco di carte da bambini e bambine (e non solo)

L’iniziativa nelle scuole fa parte del progetto di ricerca europeo InHabit del dipartimento di Scienze veterinarie dell’Università di Pisa. In Italia ci sono circa 65 milioni di pet censiti,  Inhabit lavora per realizzare a Lucca la prima città europea con una politica integrata humanimal. L’idea è di esportare il modello anche in altre città, a cominciare da Pisa.

Trovare una casa adatta a più cani possibili, il primo che ne sistema quattro ha vinto. È questa la sfida di CityPets, un gioco di carte realizzato in collaborazione con LuccaCrea nell’ambito del progetto europeo InHabit del dipartimento di Scienze veterinarie dell’Università di Pisa. L’obiettivo è, insieme al Comune, quello di rendere Lucca una città ideale per umani e animali, la prima in Europa a valorizzare gli animali per promuovere qualità della vita e benessere per tutti e dove gli animali assicurano beni pubblici per cittadine e cittadini. A giocare con CityPets saranno intanto 19 classi di alcune scuole primarie di Lucca. Bambini e bambine dovranno trovare gli abbinamenti più adatti fra famiglie e “amici a quattro zampe” tenendo conto delle esigenze di persone e animali e dei servizi offerti dalla città.

“Il nostro progetto si costruisce attraverso il coinvolgimento attivo di tutti – spiega Francesco Di Iacovo, direttore del dipartimento di Scienze veterinarie dell’Ateneo pisano – con le scuole, in accordo con il Comune di Lucca, abbiamo già iniziato attività di co-disegno (con il contributo del partner Design For Change) nelle quali coinvolgiamo bambine e bambini nell’esprimere idee sugli animali presenti in città e su cosa ritengono utile per creare condizioni di proficua convivenza tra animali e umani anche per aiutarci a vivere meglio. Il gioco, quindi, rappresenterà un ulteriore utile momento di apprendimento”.

CityPets presentato alle scuole a Lucca durante la manifestazione Verde Mura. Gallery

In Italia ci sono circa 65 milioni di pet censiti, l’idea generale di Inhabit è di realizzare a Lucca la prima città europea con una politica integrata humanimal. Si tratta cioè di ripensare la relazione esseri umani-animali per migliorare la qualità della vita nei centri urbani, luoghi dove si concentra oramai l’85% della popolazione e una grandissima quota, peraltro in crescita, di animali.

Per fare il punto sul progetto a metà percorso è appena uscito un articolo sulla rivista scientifica Animals in cui, per la prima volta, si introduce l’idea degli animali come soluzioni per migliorare la qualità della vita in città.

Dal suo avvio nel 2020, InHabit si è sviluppato guardando all’economia, alla società e al benessere. Il progetto, grazie al supporto del partner Bridge for Billions, ha incubato circa 15 imprenditori che stanno approntando soluzioni innovative per valorizzare l’interazione degli animali non umani nella società (nel turismo, nella gestione dei pet, nei servizi innovativi di interventi assistiti con animali, nella predisposizione di app mirate, nella facilitazione della costruzione dei rapporti con i propri pet). La pet economy è considerata tra le grandi opportunità di sviluppo economico del futuro, si va dal cibo, ai servizi agli animali e ai loro portatori, a tutto il settore del turismo. Per quanto riguarda l’ambito sociale e sanitario il Comune di Lucca, nel progetto inhabit, ha selezionato e coinvolto più associazioni in un lavoro di co-progettazione che ha portato, alla fine del 2023, a iniziare degli interventi assistiti con animali, ancora in corso in due RSA. L’interazione degli animali gestiti da equipe competenti con più gruppi di anziani aventi diversi livelli di capacità e deficit ha dato esiti incoraggianti in termini di riattivazione delle persone, dal punto di vista fisico, mentale e relazionale, portando a un miglioramento della loro routine quotidiana di vita. Sempre in ambito sociale, InHabit ha poi lanciato un nuovo servizio di pet-care volto ad assicurare sostegno a persone con fragilità temporanea che si trovano in difficoltà nella gestione quotidiana dei loro animali.

Fra gli altri traguardi tagliati dal progetto c’è stata anche la realizzazione da parte del Comune di Lucca, delle “animabili”, cioè percorsi urbani smart in alcune zone di Lucca (parco fluviale del Serchio ed ex ospedale). Il futuro è un cammino di 15 km che comprende il Parco del Serchio, le mura e l’acquedotto Nottolini. L’idea è di disegnare tragitti a diversa intensità di impegno in funzione della taglia dei cani e della capacità fisica dei conducenti.

“La nostra ambizione è di replicare anche altrove il modello che stiamo sviluppando a Lucca basato sul concetto di One health o Salute unica – conclude Di Iacovo – in questa prospettiva abbiamo già inviato una proposta al Comune di Pisa, dopo un primo contatto positivo con il Sindaco Conti, mentre intendiamo coinvolgere l’Associazione Nazionale Comuni Italiani per trasferire l’idea su scala regionale. Gli animali sono con noi, la costituzione assicura loro nuovi diritti e la valorizzazione delle loro capacità apre percorsi di innovazione sociale capaci di dare nuove risposte ai bisogni emergenti nelle città valorizzando le risorse già disponibili, quelle dei nostri animali”.

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Il lupo è ritornato sulle colline pisane

 La conclusione da uno studio del Dipartimento di Scienze veterinarie dell’Università di Pisa

 

È tornato il lupo sulle colline pisane e la sua presenza è la più alta mai attestata da oltre tre secoli. La notizia arriva da uno studio condotto dal dipartimento di Scienze veterinarie dell’Università di Pisa recentemente pubblicato su Human Dimensions of WildlifeLa ricerca traccia l’evoluzione della presenza del lupo nelle colline pisane tra XVII e XXI secolo in relazione ai cambiamenti socio-economici, ambientali e culturali del territorio. Il quadro che emerge segna un progressivo declino di questo animale con una fase di estinzione locale nell’immediato secondo dopoguerra, sino alla ripresa nel XXI secolo. Due le cause fondamentali del fenomeno: la riduzione del bosco (e delle prede) causato dall’aumento delle aree agricole e la persecuzione esercitata dall’uomo.

Più in dettaglio la ricerca ha evidenziato che l’andamento della popolazione di lupi nelle colline pisane è stato segnato da tre momenti storici cruciali: l’inizio della dominazione dei Lorena del Granducato di Toscana (1737), l’Unità d’Italia (1861) e la Riforma agraria del 1950. Nel XVII secolo il lupo era  ampiamente diffuso nelle colline pisane e la caccia era intensamente praticata per proteggere il bestiame transumante. L’ espansione dell’attività agricola con deforestazione e bonifica iniziata dai Lorena fino all’Unità d’Italia ha determinato quindi un profondo cambiamento nel paesaggio rurale con il conseguente declino dei lupi, fino ad arrivare ad una estinzione locale durante la Seconda Guerra Mondiale. A partire dalla seconda metà del XX secolo, la Riforma agraria ha però sancito l’inizio di un graduale ripristino dell’ambiente naturale che ha portato ad una ricolonizzazione da parte del lupo di quasi tutto il territorio delle colline pisane.

“L’idea di questa ricerca è nata dalla curiosità di conoscere e capire la storia di questo predatore sulle colline pisane dopo che nell’ottobre 2018 è stata accertata inaspettatamente la presenza di un branco nell’area di Crespina-Lorenzana e Casciana Terme-Lari” ha raccontato il professore dell’Università di Pisa Antonio Felicioli.

La presenza storica e attuale del lupo sulle colline pisane è stata delineata dal gruppo di ricerca coordinato dal professore Felicioli mettendo insieme metodi di rilevazione attuali, come fototrappole e analisi genetiche, accanto ad un vaglio minuzioso delle fonti storiche e archivistiche. L’analisi storica ha portato inoltre all’identificazione di 14 toponimi nelle colline pisane che richiamano la presenza di questo carnivoro, alcuni dei quali, come “Salto del Lupo”, ancora oggi usati. Sempre per ricostruire il quadro storico, sono stati fondamentali anche i resoconti di caccia nei vari giornali d’epoca, dalla settecentesca “Gazzetta Toscana”, sino a “Diana”, la principale rivista di caccia del Novecento.

“La presenza attuale del lupo nelle colline pisane è frutto di una naturale ricolonizzazione da parte di questo predatore avvenuta a seguito di un processo di rinaturalizzazione del territorio che ha permesso un ritorno della fauna selvatica ai livelli pre Ottocenteschi – sottolinea la dottoressa Francesca Coppola, prima autrice dell’articolo e attualmente assegnista di ricerca presso l’Ateneo pisano – l’auspicio è di favorire una presa di coscienza sull’importanza dei processi di “restoring” e “rewilding” ambientale e al tempo stesso di frenare “l’irrazionale onda emotiva” che spinge verso l’uccisione del lupo”.

Insieme ad Antonio Felicioli e Francesca Coppola hanno partecipato allo studio Alessia Di Rosso, Laureata in Produzioni animali con dottorato di ricerca in Scienze Veterinarie, Chiara Benedetta Boni, laureata in Conservazione ed Evoluzione e dottoranda in Scienze veterinarie, Samuele Baldanti, dottore agronomo e forestale e libero professionista in ambito faunistico, Michele Malasoma impegnato con lo sportello di Agroecologia per lo studio e conservazione della fauna selvatica nel monte pisano, e Cosimo Gabbani, appassionato di natura ed esperto ornitologo.

Link articolo scientifico:

https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/10871209.2024.2325159?src=

Canis lupus. Foto di Jim Peaco, ritagliata da ZeWrestler, in pubblico dominio

Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Pubblicato il nuovo censimento delle piante in Italia: al 2024, si contano 46 specie autoctone in più e 185 aliene in più

Il professore Lorenzo Peruzzi dell’Università di Pisa fra i coordinatori del lavoro che ha aggiornato i dati del 2018

Secondo il nuovo censimento delle piante in Italia, che ha aggiornato i dati del 2018, sono 46 in più le specie autoctone e 185 in più quelle aliene registrate. Dai dati complessivi emerge che nel nostro Paese ci sono oggi 8.241 specie e sottospecie autoctone, di cui 1.702 endemiche (cioè esclusive del territorio italiano) mentre 28 sono probabilmente estinte. A queste si aggiungono 1.782 specie aliene. Tra di esse, 250 sono invasive su scala nazionale e ben 20 sono incluse nella ‘lista nera’ della Commissione Europea, che elenca una serie di piante e animali esotici, la cui diffusione in Europa va assolutamente tenuta sotto controllo.

“Rispetto all’analogo censimento pubblicato sei anni fa abbiamo un incremento dei numeri totali: ciò è dovuto a nuovi studi e all’esplorazione di nuovi territori, ma anche, per quanto riguarda le aliene, all’ingresso di numerose nuove specie, da monitorare attentamente e se possibile eradicare”,

racconta Lorenzo Peruzzi, fra i coordinatori della ricerca, professore di Botanica sistematica nel Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e direttore dell’Orto e Museo Botanico.

Nuovo censimento delle piante in Italia al 2024, gallery con foto di piante autoctone

Gli elenchi aggiornati della flora vascolare (ossia felci e affini, conifere e piante a fiore) autoctona e aliena presente in Italia sono stati appena pubblicati sulla rivista internazionale “Plant Biosystems”, organo ufficiale della Società Botanica Italiana. Si è trattato di una ricerca collaborativa, realizzata grazie agli sforzi congiunti di 45 ricercatori italiani e stranieri. Insieme a Lorenzo Peruzzi hanno coordinato lo studio anche Gabriele Galasso del Museo Civico di Storia Naturale di Milano e Fabrizio Bartolucci e Fabio Conti dell’Università di Camerino. Tra gli autori della ricerca anche Francesco Roma-Marzio, Curatore dell’Erbario dell’Orto e Museo Botanico dell’Ateneo pisano.

Nuovo censimento delle piante in Italia al 2024, gallery con foto di piante aliene

“C’è ancora molto da fare – conclude Peruzzi – e il lavoro di continua ricerca e verifica svolto dai floristi e dai tassonomi per descrivere la biodiversità vegetale italiana è ben lungi dall’essere concluso. Certamente, però, il quadro delle conoscenze che abbiamo oggi è sempre più completo e potrà permettere azioni di tutela maggiormente mirate e consapevoli”.

Lorenzo Peruzzi Censimento piante 2024
Lorenzo Peruzzi
Censimento flora nativa:
Censimento flora aliena

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa. Aggiornato l’8 aprile 2024.

Un condensatore per accumulare energia in pochi nanometri. Una tecnologia innovativa dai laboratori dell’Università di Pisa

Un condensatore che permette di accumulare energia in pochi nanometri per applicazioni fino a media e alta frequenza. Il lavoro pubblicato su Advanced Materials, una delle più prestigiose riviste del settore

 

Una tecnologia innovativa per produrre condensatori robusti, flessibili e a basso costo, capaci di accumulare energia in pochi nanometri e posizionabili su ogni tipo di substrato, anche flessibile. 
Lo studio del team del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa coordinato da Giuseppe Barillaro è stato condotto in collaborazione con il Surflay Nanitec GmbH di Berlino e il Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa, ed è stato pubblicato su Advanced Materials (link), la rivista più prestigiosa nel settore della scienza dei materiali.
“Un condensatore – spiega Giuseppe Barillaro – è in grado di immagazzinare energia in un materiale isolante posto tra due conduttori metallici. La sua capacità aumenta al diminuire dello spessore del materiale isolante.
Il metodo che abbiamo sviluppato ci consente di controllare l’assemblaggio dei condensatori chiamati elettrolitici, cioè quelli che tipicamente usano come materiale isolante un liquido o un gel con un’elevata concentrazione di ioni (detto elettrolita). 
I condensatori elettrolitici prodotti con il nostro metodo hanno spessore ridotto di almeno cinquanta volte rispetto ai condensatori attuali, mentre una frequenza di funzionamento di almeno cinquanta volte superiore.
A differenza degli attuali condensatori elettrolitici, che funzionano per applicazioni a bassa frequenza, come le reti elettriche, i 
nano-condensatori dell’Università di Pisa possono essere usati per applicazioni a media ed alta frequenza, come per esempio le comunicazioni wireless”.
Il processo di produzione individuato dai ricercatori è molto semplice: un substrato metallico sul quale è stata indotta una carica superficiale viene immerso in un liquido contenente un polielettrolita di spessore nanometrico con carica opposta, che quindi si deposita sul metallo. Il substrato può essere poi immerso di nuovo in un altro liquido contenente un polielettrolita con carica opposta alla prima, per formare un altro strato. Il processo è semplicissimo e può essere automatizzato con una macchina che immerge alternativamente il metallo nei due liquidi, il che lo rende anche estremamente economico.
“Il condensatore  – conclude Barillaro – è realizzabile su qualunque tipo di substrato, anche su materiali curvi e flessibili, e su aree molto vaste, aprendo la strada a diverse possibili applicazioni in campo di sistemi wearable, automotive, e energy storage. Per esempio, la flessibilità intrinseca dei polielettroliti permetterebbe di usarli all’interno di una pelle elettronica – electronic skin -, come sensori di pressione e/o per immagazzinare energia, ma le potenzialità sono infinite, e in settori che nella nuova rivoluzione industriale del 5.0 assumeranno una rilevanza sempre più marcata.” 
 
Il lavoro su materiali innovativi per immagazzinare energia infatti è una delle ricerche condotte nel laboratorio FoReLab del Dipartimento, dedicato allo sviluppo delle tecnologie per industria e società 5.0.
 
Giuseppe Barillaro
Giuseppe Barillaro

Link all’articolo scientifico:

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/adma.202309365

 

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Cambiamento climatico: le aree marine protette difendono la fauna ittica dalle ondate di calore, nel Mediterraneo tasso di riscaldamento triplo rispetto agli oceani

Il lavoro coordinato dall’Università di Pisa pubblicato su Nature Communications

Un drammatico innalzamento della temperatura dell’acqua di 4 o 5 gradi per almeno cinque giorni. Sono queste le ondate di calore che interessano sempre più i mari del nostro pianeta mettendo a rischio la fauna ittica e la sopravvivenza di alcune specie. Le aree marine protette sono però una risposta in grado di mitigare questo fenomeno dovuto al cambiamento climatico. La notizia arriva da uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature Communications coordinato dall’Università di Pisa.

“È noto che le aree marine protette, se ben gestite e con opportuna sorveglianza, hanno effetti positivi sulla fauna marina eliminando o riducendo gli effetti diretti della pesca – spiega il professore Lisandro Benedetti-Cecchi del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano primo autore dell’articolo – per la prima volta grazie a questo studio abbiamo dimostrato che sono anche in grado di mitigare l’impatto delle ondate di calore”.

La ricerca ha riguardato 2269 specie di pesci costieri che vivono in 357 siti interni alle aree marine protette e 747 siti esterni. I dati provengono da oltre 70mila osservazioni ottenute su intervalli temporali che vanno da un minimo di 5 a un massimo di 28 anni. Le aree marine protette studiate sono sparse in tutto il globo, nel Mediterraneo soprattutto in prossimità delle coste spagnole, poi in Australia, California e Indopacifico. Tutta questa mole di informazioni è stata messa insieme anche grazie alla cosiddetta “citizen science”, la scienza che si realizza con il contributo dei cittadine e cittadini.

“Le proiezioni suggeriscono che i cambiamenti nel clima oceanico, di cui le ondate di calore sono espressione, si acutizzeranno nei prossimi decenni e che gli attuali tassi di riscaldamento supereranno presto il margine di sicurezza termica di molte specie – sottolinea Benedetti-Cecchi – L’allarme è ancora maggiore per il Mar Mediterraneo, che si sta riscaldando a un ritmo allarmante di tre volte quello dell’oceano globale”.

A subire le conseguenze delle ondate di calore è la stabilità dell’intero ecosistema e delle popolazioni, con i pesci erbivori che tendono ad aumentare e i carnivori, come squali, barracuda, cernie o dentici, che invece sono più minacciatiIl risultato può essere il collasso dell’intero sistema sino all’estinzione locale di alcune specie. Questi effetti sono però molto mitigati dalle aree marine protette. Qui le popolazioni di pesci sono più abbondanti e funzionalmente strutturate rispetto alle aree non protette, conferendo stabilità alle comunità anche in presenza di eventi climatici estremi.

“Il nostro lavoro – conclude Benedetti Cecchi – vuole enfatizzare l’importanza delle aree marine protette per salvaguardare la fauna marina fornendo supporto alle politiche di conservazione, articolate nelle varie direttive internazionali, come ad esempio la Convention for Biological Diversity, secondo le quali entro il 2030 almeno il 10% della superficie degli oceani dovrebbe essere sottoposta a protezione”.

fauna ittica aree marine protette ondate di calore
Cambiamento climatico: le aree marine protette difendono la fauna ittica dalle ondate di calore, nel Mar Mediterraneo tasso di riscaldamento triplo rispetto agli oceani

 

Riferimenti Bibliografici:

Benedetti-Cecchi, L., Bates, A.E., Strona, G. et al. Marine protected areas promote stability of reef fish communities under climate warming, Nat Commun 15, 1822 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-44976-y

 

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Il greenwashing danneggia gli affari, ma l’effetto è mitigato dalla presenza femminile

La ricerca del Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa sulla rivista Research in International Business and Finance.

L’ambientalismo di facciata, il cosiddetto greenwashing, influisce negativamente sugli affari, ma l’effetto è mitigato dalla presenza femminile, quando cioè nei consigli di amministrazione c’è una sostanziale parità di genere. La notizia arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Research in International Business and Finance e condotto dalla professoressa Giuliana Birindelli del Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa in collaborazione con la professoressa Helen Chiappini dell’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara, e il Dottor Raja Nabeel-Ud-Din Jalal dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. La ricerca si è concentrata su un campione di banche europee quotate in borsa (in totale 77, di cui 15 italiane) nel periodo 2013-2020.

“Le banche sono imprese sulle quali l’attenzione della comunità è molto alta – spiega Giuliana Birindelli – tant’è che quando il greenwashing viene scoperto o anche solo percepito scatta la punizione degli investitori e dei clienti. In altre parole, il mercato reagisce con rabbia al tradimento della fiducia, i clienti diventano scettici e personale qualificato può allontanarsi dall’azienda, così come brillanti partner”.

Ma pur rischiando una perdita di legittimità sul mercato e un deterioramento delle performance aziendali, gli esempi di ambientalismo di facciata sono molti. Nel gennaio 2024, la Banca Centrale Europea (BCE) per esempio ha pubblicato un report che ha sollevato preoccupazioni sul greenwashing delle banche europee. Il documento ha infatti rilevato che le banche che si dichiarano più attente all’ambiente hanno in realtà concesso ingenti prestiti alle aziende inquinanti. E tuttavia, come dimostra la ricerca, questi effetti negativi si riducono in presenza di una diversità di genere nei consigli di amministrazione.

“Come dimostrano anche altri studi che abbiamo condotto, le donne sono più sensibili alle tematiche ambientali e più orientate alla trasparenza informativa – sottolinea Birindelli – questi aspetti giocano un ruolo importante nel mitigare una pratica scorretta come il greenwahing, ampiamente diffusa anche nel settore bancario, attenuando gli impatti negativi in termini di performance finanziarie. In sostanza, la ricerca dimostra che il greenwashing peggiora la performance bancaria, ma l’effetto si riduce se nei CdA siedono anche le donne”.

Giuliana Birindelli greenwashing affari presenza femminile
Giuliana Birindelli

Giuliana Birindelli è professoressa ordinaria di Economia degli Intermediari finanziari dell’Università di Pisa. È membro del Banking Advisory Panel presso l’European Financial Reporting Advisory Group, del Comitato scientifico della Fondazione “Organismo Italiano di Business Reporting” e del Comitato Tecnico-Scientifico dell’Associazione Italiana Financial Industry Risk Managers. È Associate Editor di “Economics Notes” (Wiley) e dal dicembre 2017 è sindaca della Banca d’Italia.

Link articolo scientifico:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0275531924000278?via%3Dihub

 

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Acceleratore SuperKEKB: il 20 febbraio la prima collisione elettrone-positrone nell’ambito della raccolta dati Run 2

Continua l’esperimento Belle II nel laboratorio KEK di Tsukuba in Giappone con il contributo del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa e dell’INFN

l'acceleratore KEKB a Tsukuba, Giappone
l’acceleratore KEKB a Tsukuba, Giappone. Foto Flickr di yellow_bird_woodstock, CC BY-SA 2.0

Il 20 febbraio scorso l’acceleratore SuperKEKB del laboratorio KEK di Tsukuba, in Giappone, ha registrato la prima collisione elettrone-positrone nell’ambito della nuova campagna di raccolta dati “Run 2”.

Continua così l’esperimento Belle II in corso dal 2019 per studiare le proprietà della materia a livello microscopico attraverso le collisioni elettrone-positrone, un fenomeno che genera principalmente mesoni B, ma anche mesoni con charm e leptoni tau. Obiettivo generale degli scienziati è quello di trovare il cosiddetto “cigno nero, ovvero anomalie (come ad esempio nuove particelle e nuovi fenomeni fisici) rispetto al Modello Standard che definisce la fisica così come la conosciamo oggi.

La nuova fase di raccolta dati è partita il 29 gennaio dopo un anno e mezzo di lavori di potenziamento e manutenzione per permettere all’acceleratore di raggiungere luminosità sempre più elevate, e all’esperimento di ricostruire con maggiore precisione ed efficienza gli eventi prodotti.

Il Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa partecipa a Belle II insieme all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) con un gruppo di circa 70 ricercatori e ricercatrici di che fanno parte di otto strutture: i Laboratori Nazionali di Frascati, e le Sezioni di Napoli, Padova, Perugia, Pisa, Roma Tre, Torino e Trieste.

“L’intervento di maggiore rilevanza che ha riguardato Belle II è stata l’installazione di un nuovo rivelatore di tracce nello strato più interno dell’esperimento, e quindi più vicino al punto di interazione fra elettroni e positroni: si tratta di un rivelatore a pixel di silicio che, insieme al rivelatore a strip di silicio Silicon Vertex Detector (SVD) che lo circonda, permette di misurare con altissima precisione il punto di passaggio delle particelle cariche”, spiega Giuliana Rizzo, ricercatrice all’INFN e professoressa all’Università di Pisa, project leader del Silicon Vertex Detector.

“L’intervento ha richiesto il completo smontaggio e rimontaggio del rivelatore SVD, costruito e gestito grazie a un importante contributo italiano, e ha compreso anche l’installazione di un nuovo tubo a vuoto intorno al punto di interazione, e il potenziamento delle schermature del rivelatore dal ‘fondo’ di radiazione prodotto dall’acceleratore in misura maggiore all’aumentare della luminosità. Tutte queste operazioni sono state completate con successo nei tempi stabiliti, permettendo di testare la piena funzionalità del rivelatore con i raggi cosmici e il ripristino delle performance precedenti l’intervento”, conclude Rizzo.

Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Dagli scarti di melagrana un estratto, una protezione per il cuore

Una ricerca condotta dall’Istituto per la bioeconomia del CNR e dall’Università di Pisa ha rivelato che i residui della trasformazione dei frutti di melograno offrono un’importante protezione cardiovascolare dall’ipertensione. Lo studio, pubblicato su Nutrients, apre a potenziali applicazioni mediche favorendo anche un minor impatto degli scarti di melagrana sull’ambiente

Sottoprodotti derivanti dall’estrazione
Sottoprodotti derivanti dall’estrazione. Crediti per la foto: Francesco Meneguzzo

Un estratto di bucce e semi di melagrana completamente solubile in acqua, ottenuto mediante una tecnica innovativa, verde, efficiente e scalabile fino a capacità produttive industriali, si rivela efficace nel trattamento dell’ipertensione, sia acuta che cronica. Lo dimostra una ricerca in vivo condotta su un modello murino, pubblicata sulla rivista Nutrients e realizzata da un gruppo di ricerca dell’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze (CNR-IBE) e dell’Università di Pisa.

Estratto ottenuto da bucce e semi
Estratto ottenuto da bucce e semi. Crediti per la foto: Francesco Meneguzzo

L’estrazione del succo di melagrana genera sottoprodotti non edibili, bucce e semi, pari al 60% del peso del frutto, che sono disponibili in grandi quantità e conosciuti da tempo per le loro proprietà salutari, in gran parte dovute ai cosiddetti ellagitannini, in particolare punicalagina e acido ellagico.

“Finora, il recupero e la valorizzazione di questi sottoprodotti sono stati ostacolati dalla mancanza di una tecnica di estrazione adeguata, in grado di restituire un prodotto completamente solubile in acqua e più sicuro per l’organismo. Infatti, la qualità e le proprietà degli estratti di prodotti naturali, tra cui i sottoprodotti della melagrana, dipendono anche dalla tecnica estrattiva. L’applicazione della cavitazione idrodinamica, già verificata con successo su sottoprodotti degli agrumi e delle filiere forestali, ha consentito di estrarre una grande quantità di bucce e semi di melagrana in sola acqua, a bassa temperatura e in pochi minuti, con un consumo energetico molto limitato, restituendo un prodotto completamente solubile”, sottolinea Francesco Meneguzzo, ricercatore del CNR-IBE.

Lo studio ha previsto la somministrazione dell’estratto di melagrana per via orale a ratti spontaneamente ipertesi. “Dopo la somministrazione orale, i risultati hanno dimostrato una buona bioaccessibilità intestinale e la capacità di contrastare efficacemente l’incremento della pressione in un modello sperimentale di ipertensione, migliorando la disfunzione e riducendo lo spessore dell’endotelio, che è il tessuto che riveste l’interno dei vasi sanguigni. In aggiunta a questo, la somministrazione dell’estratto di melagrana ha dimostrato importanti effetti a livello cardiaco, perché ha consentito di abbassare i livelli di citochine, le molecole responsabili dei processi infiammatori e fibrotici a livello cellulare. Questi riscontri suggeriscono la possibilità di sviluppare meccanismi diversi e a più ampio spettro, rispetto alla protezione cardiovascolare”, afferma Lara Testai dell’Università di Pisa.

Questo tipo di ricerca scientifica dimostra come gli scarti della lavorazione di prodotti vegetali come la melagrana siano ricchi di sostanze preziose per la salute, rappresentando anche un valore aggiunto in un’ottica di sostenibilità. Gli esiti dello studio, infatti, oltre a suggerire i potenziali benefici per la salute umana, potranno contribuire ad aumentare il valore della filiera della melagrana e ad abbattere l’impatto ambientale connesso ai relativi sottoprodotti.

Processo estrattivo del succo di melagrana
Processo estrattivo del succo di melagrana. Crediti per la foto: Francesco Meneguzzo

Roma, 21 febbraio 2024

 

La scheda

Chi: Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche di Sesto Fiorentino (Firenze), Università degli studi di Pisa – dipartimento di farmacia, Università degli studi di Parma – dipartimento di medicina e chirurgia, Azienda ospedaliero-universitaria di Parma – divisione di cardiologia, Azienda unità sanitaria locale-Ircss di Reggio Emilia – dipartimento di salute pubblica, HyRes srl

Che cosa: Benedetti G., Flori L., Spezzini J., Miragliotta V., Lazzarini G., Pirone A., Meneguzzo C., Tagliavento L., Martelli A., Antonelli M., Donelli D., Faraloni C., Calderone V., Meneguzzo F. and Testai L. (2024) Improved Cardiovascular Effects of a Novel Pomegranate Byproduct Extract Obtained through Hydrodynamic Cavitation «Nutrients» 16, 506

Link alla ricerca: https://doi.org/10.3390/nu16040506

Testo e foto dall’Ufficio Stampa del Consiglio nazionale delle ricerche – CNR