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Bimbi prematuri: col progetto ParWelB, un’indagine di Milano-Bicocca dà voce alle esperienze dei genitori

Sono le madri dei neonati prematuri a soffrire di livelli di stress più elevati, in particolare le più giovani. A rivelarlo il progetto ParWelB, avviato nel 2021 in collaborazione con ASST Niguarda e ASST Rhodense, finanziato da Fondazione Cariplo.

Milano, 20 febbraio 2024 – Sono le madri di neonati prematuri a soffrire di livelli di stress più elevati, in particolare le più giovani. Ma, rispetto ai padri, sono sempre le madri a mostrare maggior “autoefficacia”, cioè percezione di saper gestire il proprio neonato, soprattutto se con prematurità più grave.

Questa la sintesi conclusiva del progetto ParWelB (Voicing preterm parents’ experiences. A multidisciplinary study to set neonatal practices and enhance families’ wellbeing), avviato a novembre 2021, con lo scopo di migliorare il benessere dei genitori di neonati prematuri e, allo stesso tempo, con l’obiettivo di facilitare il coinvolgimento dei cittadini e sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della prematurità.

Lo studio, finanziato da Fondazione Cariplo, è stato coordinato dal Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano Bicocca (Alessandra Decataldo) insieme al Reparto di Terapia intensiva neonatale dell’Azienda socio-sanitaria territoriale-ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano (diretto da Stefano Martinelli) e al Reparto di Terapia sub-intensiva neonatale dell’ASST Rhodense Ospedale di Rho (diretto da Salvatore Barberi).

Focus della ricerca sono state le interazioni tra le diverse componenti del personale sanitario (medici con diverse specializzazioni e infermieri); la relazione tra tali operatori e i genitori di bambini nati pretermine; infine, la relazione tra il benessere dei genitori e gli esiti in termini di salute del loro bambino.

I partecipanti hanno risposto a interviste con questionario e monitoraggio post dimissione con web app appositamente progettata per ParWelB. Tramite la web-app si è puntato a realizzare un monitoraggio annuale (con cadenza mensile) del benessere dei genitori pretermine che hanno aderito al progetto ParWelB. Oltre a questo, son state realizzate interviste narrative e video interviste.

Il progetto ParWelB ha previsto anche attività di supporto e public engagement tra cui: supporto psicologico; incontri informativi sulla prematurità; corsi pre-parto; incontri psico-educativi con i genitori di neonati in degenza; gruppi peer to peer di genitori post-dimissione; open meeting con differenti categorie professionali; infine, 4 workshop rivolti ad un pubblico più ampio.

Campione di ricerca

Le attività di ricerca hanno coinvolto 60 neonati (46 ricoverati presso l’Ospedale Niguarda e 14 presso quello di Rho) e 104 genitori.

Dei 104 genitori il 56,7 per cento erano donne (58 erano partorienti e 46 partner). L’età dei genitori variava dai 23 ai 53 anni. Per quanto riguarda l’occupazione, l’86,4 per cento dei genitori ha dichiarato di avere un lavoro (97,8 per cento degli uomini e 77,6 per cento delle donne).

Per quanto riguarda la gravità della prematurità, questa è stata misurata sia in base alle settimane di gestazione alla nascita, definita gravità di tipo 1 (suddivisa in estrema/molto alta con riferimento alla situazione dei bambini nati prima della trentaduesima settimana e moderata/lieve relativamente a quella dei nati dopo 32 più 1) sia in base al peso alla nascita, definita gravità di tipo 2 (e classificata come estrema/molto alta nel caso di bambini con un peso inferiore ai 1.500 grammi e moderata/lieve in quello dei nati con un peso superiore).

Il 34,6 per cento dei neonati coinvolti nella ricerca era nato prima della trentaduesima settimana di gestazione e il 42,3 per cento pesava meno di 1.500 grammi alla nascita.

Risultati dell’indagine

Gli esiti dello studio mostrano che le madri hanno livelli di stress più elevati rispetto ai padri. Ad avere sintomi di depressione più elevati, sono i genitori più giovani (23/24 anni), rispetto a quelli con età più alta (35 anni o più).

Contrariamente alle attese, i livelli di depressione più alti si osservano tra i genitori con figli con prematurità moderatamente grave rispetto a quelli i cui nascituri si trovavano in una situazione molto più critica. Questo risultato, apparentemente controintuitivo, è da attribuire alle maggiori competenze sviluppate dai genitori con degenze più lunghe dei loro neonati. Questi genitori, infatti, imparano all’interno del reparto e con il supporto del personale sanitario a comprendere e gestire i bisogni del proprio bambino.

Se si guarda all’autoefficacia percepita – in questo caso, la percezione dei genitori di essere in grado di gestire il proprio neonato – si osserva che le madri, pur più colpite da stress, come emerge dall’analisi precedente, mostrano livelli medi di autoefficacia decisamente più elevati di quelli dei padri (25,13 e 17,31 rispettivamente).

In particolare, l’autoefficacia risulta maggiore per i genitori con figli in condizioni più gravi, proprio grazie ai benefici tratti dal maggiore accompagnamento del personale sanitario e di supporto psicologico.

«Questa ricerca è nata da uno sforzo collettivo e interdisciplinare: quello di ragionare sull’esperienza dei genitori che hanno vissuto un’esperienza di ospedalizzazione in terapia intensiva neonatale non solo raccogliendo le loro narrazioni e le loro caratteristiche psico-sociali con diversi strumenti di rilevazione, ma anche coinvolgendoli nella creazione di uno spazio comune di riflessione sull’esperienza di prematurità e sul modo in cui questa investe la triade madre-padre-bambino. – ha detto Alessandra Decataldo, sociologa di Milano-Bicocca alla guida del progetto – La nostra attenzione è verso il benessere dei genitori con la convinzione che questo rappresenti le fondamenta per la salute del bambino. Oggi si conclude l’esperienza finanziata da Fondazione Cariplo, ma il progetto continuerà a vivere grazie ad un nuovo finanziamento del Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica».

ospedale terapia cancro alla prostata Malattia di Charcot-Marie-Tooth di tipo 2A
Bimbi prematuri: col progetto ParWelB, un’indagine dell’Università di Milano-Bicocca dà voce alle esperienze dei genitori. Foto di tahabaz

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

LINGUAGGIO DELLA MAMMA E CERVELLO DEI NEONATI

Dallo studio dell’Università di Padova pubblicato su Science Advances si evince che il cervello del neonato sembra essere strutturato per ricordare e rispondere in modo diverso alla lingua che ha ascoltato già prima della nascita. Questa risposta “forte” indica una sorta di “privilegio” linguistico che modella le prime fasi dell’apprendimento del linguaggio.

Sappiamo per esperienza che è molto più facile imparare una lingua da bambini che da adulti e lo studio delle cosiddette “finestre di opportunità” dimostra che i primi mesi e anni di sviluppo sono fondamentali per l’acquisizione del linguaggio. Imparare una seconda lingua da adulti è molto più difficile, inoltre l’acquisizione del linguaggio inizia già durante il periodo di gravidanza durante il quale il feto può sentire il suono che si propaga – benché distorto – all’ interno del grembo materno. I bambini, quindi, hanno già avuto una certa esposizione alla lingua parlata dalla loro mamma anche prima di nascere.

Nello studio dal titolo Prenatal experience with language shapes the brain pubblicato su Science Advances i ricercatori hanno indagato quanto il cervello dei neonati sia influenzato da questa precedente esposizione al linguaggio.

«Ci siamo chiesti – affermano gli autori della ricerca – come cambia l’attività del cervello dei neonati dopo aver sentito delle frasi nella loro lingua o in altre lingue e abbiamo ipotizzato che questi cambiamenti siano la base neurale dell’apprendimento della lingua madre. Siamo quindi passati a misurare l’attività neurale dei neonati mentre ascoltavano frasi in francese, la loro lingua madre, così come in spagnolo e inglese, due lingue sconosciute. Tutto questo mediante l’elettroencefalografia, una tecnica standard di misurazione dell’attività neuronale. Il nostro studio mostra che l’attività neuronale è più complessa dopo l’esposizione alla lingua materna e conserva una memoria delle risposte neuronali date in passato. Infatti, queste risposte diventano più frequenti».

Per misurare questa forma di complessità nel dominio temporale abbiamo utilizzato una tecnica chiamata Detrended Fluctuation Analysis (DFA) che aiuta a capire quanto bene un sistema “ricorda” ciò che è successo prima e lo fa misurando quanto un processo sia simile a sé stesso a diverse scale di tempo. Possiamo chiamare auto-similare un processo in cui piccole variazioni si ripresentano allo stesso modo anche su scale temporali più lunghe (come quando una melodia si ripete in modo riconoscibile); all’opposto processi completamente aleatori (come i numeri generati dal lancio di un dado) non mostrano nessun tipo di regolarità, o memoria, e quindi hanno una complessità minore nella loro struttura temporale.

Il risultato principale della DFA è un numero α, chiamato “esponente di Hurst”: è questo α a contenere la chiave della “memoria” del segnale neuronale. Più grande è α per un segnale, più le esperienze passate influenzano ciò che accade dopo il che corrisponde a processi. Più grande è α per un segnale, più le esperienze passate influenzano ciò che accade dopo il che corrisponde a processi neuronali più complessi.

«Abbiamo scoperto che quando a un neonato viene fatto ascoltare il linguaggio a cui è stato esposto durante la gravidanza, la sua attività cerebrale mostra un picco di α, cosa che non accade quando invece la lingua è diversa. Questo fatto – dice Judit Gervain del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova – indica che nel cervello dei neonati, l’esposizione alla lingua materna innesca processi cerebrali di natura complessa, dinamiche neuronali che probabilmente sono associate all’elaborazione e apprendimento della lingua. Questi processi sono molto meno forti quando i neonati sentono un’altra lingua, e possiamo concludere che siano stati generati ed evoluti durante lo sviluppo prenatale. In altre parole, il cervello del neonato sembra essere strutturato per ricordare e rispondere in modo diverso alla lingua che ha ascoltato già prima della nascita e questa maggiore risposta indica una sorta di “privilegio” linguistico che modella le prime fasi dell’apprendimento del linguaggio. Si tratta di una rivelazione – conclude la professoressa Gervain – che mette in luce la straordinaria capacità di adattamento del cervello, soprattutto in relazione con la grande complessità del linguaggio umano».

Judit Gervain
Judit Gervain, del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova

Link alla ricerca: https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.adj3524

Titolo: “Prenatal experience with language shapes the brain” Science Advances 2023

Autori: Benedetta Mariani, Giorgio Nicoletti, Giacomo Barzon, Maria Clemencia Ortiz Barajas, Mohinish Shukla, Ramón Guevara, Samir Simon Suweis, Judit Gervain.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova sullo studio circa linguaggio della mamma e  cervello dei neonati.

A NOVE MESI I BAMBINI IMPARANO LA GRAMMATICA DALLA PROSODIA, CIO LA MELODIA DEL PARLATO

Pubblicato su Science Advances lo studio congiunto dei ricercatori delle Università di Padova e Barcellona che rivela come i bambini siano in grado di iniziare a imparare la grammatica della lingua molto prima di quanto si pensasse finora, già a nove mesi, e lo fanno prestando attenzione alla prosodia, cioè la melodia del linguaggio.

Il linguaggio umano ha un’incredibile forza espressiva. Ciò è dovuto alla nostra abilità di pronunciare frasi lunghe e complesse in cui le parole che sono correlate insieme possono essere talvolta molto distanti tra loro. Ad esempio comprendiamo benissimo che nella frase “Lei dorme bene”, “Lei” è il soggetto di “dorme”, ma è altrettanto vero che capiamo lo stesso legame nella frase “Lei, che non beve caffè, dorme bene” in cui le parole “Lei” e “dorme” sono separate da altre.

Gli adulti sono esperti con la lingua perciò non ci sorprende affatto che possano facilmente capire e produrre frasi come queste. Ma come funziona per i bambini molto piccoli, quelli che stanno appena imparando la lingua? Come fa il loro cervello a trovare le regolarità tra parole che sono separate da altre in una frase? Dato che ci sono infinite possibili parole che potrebbero star bene insieme, sembra un compito davvero arduo quello di tenere traccia di tutte le possibilità.

Fino ad ora i ricercatori pensavano che i bambini fossero in grado di imparare le relazioni tra parole distanti soltanto dopo il primo anno di età, cioè dopo aver iniziato a parlare. Un recente studio dal titolo “Prosodic cues enhance infants’ sensitivity to nonadjacent regularities”, pubblicato sulla rivista «Science Advances», dimostra invece che i bambini sono in grado di imparare queste relazioni già a nove mesi.

La ricerca, condotta da Ruth de Diego Balaguer e Ferran Pons dell’Istituto di Neuroscienze dell’Università di Barcellona, in collaborazione con Anna Martinez-Alvarez e Judit Gervain, dell’Università di Padova e del CNRS di Parigi, mostra come il cervello sia già sensibile a queste regolarità all’età di 9 mesi. La pubblicazione suggerisce che i bambini siano in grado di risolvere questo compito principalmente ascoltando molto attentamente la prosodia, cioè la melodia del linguaggio. Attraverso le osservazioni del loro comportamento e monitorando le risposte cerebrali i ricercatori hanno notato che quando le parole, tra loro dipendenti, venivano pronunciate con una tonalità più alta – marcate cioè con l’intonazione – i bambini riuscivano a capire meglio le dipendenze tra le parole distanti.

«Lo studio suggerisce – dice Judit Gervain del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova – che i bambini siano in grado di iniziare a imparare la grammatica della lingua molto prima di quanto si pensasse finora, e che lo fanno prestando attenzione alla sonorità del linguaggio.

Judit Gervain
Judit Gervain

Gli autori hanno esaminato la sensibilità di bambini di 9 mesi alle dipendenze non adiacenti, quindi alle dipendenze come quella tra il soggetto “I bambini” e il verbo “giocano” in una frase come “I bambini della vicina di mia nonna giocano nel giardino”, dove il soggetto e il verbo sono separati da altre parole. Invece di usare una vera lingua, i ricercatori hanno creato una lingua inventatacomposta di sequenze trisillabiche secondo la struttura AXB, in cui le sillabe A e B predicevano l’uno l’altro, mentre X variava ogni volta, per esempio “petabu” oppure “pegobu”. Non solo, hanno modulato la stessa lingua inventata in due varianti: la prima in cui le sillabe contenenti le dipendenze avevano una modulazione più acuta (intonata), l’altra in cui l’intonazione era identica in tutte le sillabe (monotona).

Per misurare le risposte in modo non invasivo, i ricercatori hanno impiegato la spettroscopia nel vicino infrarosso (near-infrared spectroscopy – NIRS). Questa tecnica analizza il modo in cui la luce infrarossa viene riflessa, che dipende dai cambiamenti nel consumo di ossigeno nel flusso sanguigno, per rilevare quali aree cerebrali rispondono alle diverse condizioni sperimentali.

Quando ai bambini veniva presentato un linguaggio monotono, cioè senza alcuna modulazione dell’intonazione, il loro cervello dimostrava un livello ridotto di apprendimento della dipendenza non adiacente. Quando invece la stessa frase veniva proposta nella lingua intonata, in particolare con una tonalità più alta che evidenziava le sillabe A e B collegate tra loro, le risposte neurali indicavano che i bambini erano in grado di imparare le dipendenze.

Questa selettività di recepimento delle dipendenze, attraverso la melodia, permette ai bambini piccoli di imparare la lingua in modo efficiente già prima del loro primo compleanno e che già, in tenerissima età, sono dotati di potenti meccanismi di apprendimento.

Questo studio indica che se una rudimentale sensibilità alle regolarità non-adiacenti potrebbe essere presente già a 9 mesi, un apprendimento robusto e affidabile può essere raggiunto a questa età solo quando sono presenti informazioni melodiche che aiutano il cervello dei bambini a rilevare le parole che costituiscono una dipendenza non-adiacente.

Questi risultati gettano luce sulla comprensione del ruolo della prosodia nell’acquisizione del linguaggio e forniscono evidenza dell’impatto cruciale che hanno i cambiamenti anche sottili di intonazione nel processamento di informazioni statistiche nei bambini molto piccoli.

grammatica linguaggio nove mesi bambino
A nove mesi i bambini imparano la grammatica dalla prosodia. Foto di Lisa Runnels

Link alla ricercahttps://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.ade4083

Titolo: “Prosodic cues enhance infants’ sensitivity to nonadjacent regularities” – «Science Advances» 2023

Autori: Anna Martinez-Alvarez, Judit Gervain, Elena Koulaguina, Ferran Pons, Ruth de Diego-Balaguer

Testo e immagini (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova sullo studio congiunto che dimostra come a nove mesi i bambini imparino la grammatica dalla prosodia.

È rientrato all’Università di Torino, dove si era laureato, dopo 10 anni di ricerca sulla genomica e l’ingegneria cardiaca a Cambridge e Seattle

ALESSANDRO BERTERO, DAGLI USA A TORINO PER STUDIARE LE MALATTIE AL CUORE

Il ricercatore piemontese è il vincitore del Career Development Award della Fondazione Armenise Harvard, che finanzia fino a un milione di dollari per 5 anni per l’avvio di nuovi laboratori di ricerca in Italia. 

Alessandro Bertero. Crediti: Maurizio Marino

Torino, 2 luglio 2021. Alessandro Bertero ha scelto Torino per avviare un laboratorio in cui svolgere le proprie ricerche sul cuore.

È un po’ come tornare a casa, sono partito da neolaureato e ora che ho la possibilità di essere leader di un team di ricerca sulle malattie cardiache, ho scelto di ritornare a Torino.” – spiega Alessandro Berteroche per10 anni ha lavorato all’estero, all’Università di Cambridge e di Washington.

Come “dote”, Bertero porta un finanziamento di 1 milione di dollari (200.000 dollari all’anno per 5 anni) della Fondazione Giovanni Armenise Harvard, vinto dopo essersi aggiudicato il competitivo bando Career Development Award del 2020.

Grazie a questo finanziamento, Alessandro Bertero dà ufficialmente il via al suo nuovo Laboratorio Armenise-Harvard di Genomica dello Sviluppo ed Ingegneria Cardiaca al Molecular Biotechnology Center (MBC) dell’Università di Torino. Lo stesso Ateneo dove aveva iniziato la sua formazione scientifica con il biologo cellulare Guido Tarone, laureandosi nel 2009 in biotecnologie e specializzandosi nel 2011 in biotecnologie mediche.

Alessandro Bertero Torino
Alessandro Bertero. Crediti: Maurizio Marino

Dopo aver vinto una borsa di dottorato dalla “British Heart Foundation”, Bertero si è trasferito all’Università di Cambridge nel Regno Unito, dove ha lavorato sulle cellule staminali. Successivamente ha continuato la sua carriera a Seattle grazie a un finanziamento di EMBO, che gli ha permesso di specializzarsi nei meccanismi dello sviluppo cardiaco, con un focus sulla cardiomiopatia dilatativa ereditaria, una grave malattia genetica al cuore ad oggi curabile soltanto attraverso il trapianto d’organo.

“Conosciamo troppo poco le basi molecolari delle malattie cardiache, che restano la più comune causa di morte – spiega Bertero – e l’obiettivo del mio laboratorio sarà proprio quello di capire quali sono i geni coinvolti in queste gravi patologie. E magari, in futuro, la mia ricerca potrebbe portare allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici, in particolare di medicina rigenerativa per le cardiopatie congenite, la più comune malformazione potenzialmente letale nei neonati. Chiarire i meccanismi di regolazione genica alla base dello sviluppo embrionale e delle patologie cardiache può infatti fornire le conoscenze necessarie per generare cellule e tessuti da utilizzare per la rimuscolarizzazione del cuore”. 

“Siamo orgogliosi di riportare in Italia e presso Università degli Studi di Torino un altro ricercatore eccellente – dichiara la Prof.ssa Fiorella Altruda, Direttrice del Molecular Biotechnology Center dell’Università di Torino – che si aggiunge ad altri, con un riconoscimento prestigioso dalla Fondazione Armenise Harvard. Il Centro di Biotecnologie Molecolari con il dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute sta investendo su giovani che hanno maturato all’estero ottime competenze che dalla comprensione dei meccanismi cellulari aprono la via a nuovi approcci terapeutici. Il reclutamento di giovani ricercatori molto brillanti permette di aumentare la massa critica indispensabile per competere nella ricerca a livello internazionale.” 

33 anni e originario di Bra, comune in provincia di Cuneo, Alessandro Bertero è l’ultimo dei 29 vincitori del grant Career Development Award Armenise Harvard, che promuove la ricerca di base in campo biomedico.  Ogni anno la Fondazione premia uno o più promettenti giovani scienziati, italiani e non, che vogliano aprire un proprio laboratorio di ricerca in Italia.

Attualmente sono aperte le candidature per il Career Development Award 2021, con scadenza il prossimo 15 luglio. Tutte le informazioni sul sito della Fondazione Armenise Harvard https://armeniseharvard.org/

Testo dall’Università degli Studi di Torino