Il Regio Museo di Fisica e l’insegnamento nel corso dell’Ottocento: la Collezione di Fisica di Ateneo inaugura una nuova esposizione su Augusto Righi
“Il Regio Museo di Fisica e l’insegnamento nel corso dell’Ottocento”, il titolo del nuovo percorso espositivo permanente, a cura del Sistema Museale di Ateneo (SMA) e del Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” (DIFA).
Presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Alma Mater (Via Irnerio, 46 – Bologna) inaugura una nuova esposizione permanente che arricchisce la Collezione di Fisica dell’Università di Bologna: Il Regio Museo di Fisica e l’insegnamento nel corso dell’Ottocento, dedicato alla figura di Augusto Righi. Se nel 2020 una prima esposizione permanente aveva riguardato Righi e le onde elettromagnetiche, oggi, la nuova sezione sarà dedicata a Righi e alla sua attività di docente presso l’Ateneo bolognese.
A cura del Sistema Museale di Ateneo (SMA) e del Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” (DIFA), l’esposizione è situata al piano terra dello storico edificio, nella zona antistante l’Aula Magna, per offrire un’ideale ricostruzione del Regio Museo di Fisica inaugurato il 12 aprile del 1907 da Augusto Righi contestualmente alla fondazione dell’Istituto.
Tale Museo ospitava strumenti scientifici utilizzati da Righi e dai suoi predecessori per spiegare la fisica nel corso delle lezioni. Oggi tali strumenti sono esposti nelle teche originali e suddivisi secondo i criteri adottati all’epoca: strumenti per esperimenti relativi all’ottica, elettricità e magnetismo, termodinamica, meccanica, acustica e geodesia. L’abilità dei costruttori di strumenti ottocenteschi – le cui firme sono ancora visibili sugli strumenti esposti – conferisce a tale esposizione, oggi come allora, un forte impatto estetico, creando un connubio tra scienza e arte.
Il Regio Museo di Fisica non nasceva dal nulla. Esso integrava e ampliava l’antico Gabinetto di Fisica dell’Istituto delle Scienze che si era costituito a partire dal 1711 e che per tutto il Settecento aveva supportato l’attività didattica di docenti che hanno preceduto Righi, quali Jacopo Bartolomeo Beccari, Laura Bassi e Giovanni Aldini. A tali docenti di chiara fama dell’Ateneo bolognese viene dato ampio spazio nei pannelli di sala grazie alle stampe dei loro autografi, dei registri o degli appunti presi a lezione dagli studenti per i quali è stata preziosa la collaborazione di importanti Archivi universitari – come l’Archivio Storico dell’Università, l’Archivio dell’Accademia delle Scienze, l’Archivio del DIFA – e archivi cittadini, come l’Archivio di Stato.
Apposite didascalie e QR-code, inoltre, permetteranno ai visitatori di approfondire il funzionamento degli apparati esposti tramite video e schede di approfondimento.
Il nuovo allestimento permanente sarà visitabile gratuitamente a partire dal 21 giugno, dal lunedì al venerdì, durante gli orari di apertura del Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi”, via Irnerio 46, Bologna.
SVELATA L’OPERA IN MARMO DEDICATA ALLA PRIMA LAUREATA DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO
Oggi, venerdì 18 novembre 2022, alle ore 10.00,presso lo Scalone Monumentale del Palazzo del Rettorato (Via Verdi 8, Torino), si è tenuta la cerimonia di scoprimento del ritratto marmoreo in memoria di Maria Velleda Farnè, prima donna a conseguire la laurea a Torino nel 1878 in Medicina e chirurgia, la seconda nel Regno d’Italia. Sono intervenute Giulia Carluccio, Prorettrice dell’Università di Torino, Mia Caielli, Presidente CUG dell’Università di Torino, Elena Bigotti, Consigliera di Fiducia dell’Università di Torino, Chiara Rollero, Direttrice CirsDe dell’Università di Torino e Paola Novaria, Archivio Storico di Ateneo, autrice di una recente biografia su Maria Velleda Farnè.
A trecento anni dall’apertura del Palazzo dell’Università di via Po, voluto da Vittorio Amedeo II per essere sede dell’Ateneo e inaugurato nel 1720, un volto di donna trova finalmente posto nella Galleria dei Dotti che si incontrano entrando nel cortile, al piano terra e al piano nobile. Tra professori delle diverse discipline, riformatori dell’istruzione, allievi illustri, studenti combattenti si inserisce il ritratto in marmo di Maria Velleda Farnè (1852-1905). L’opera è stata eseguita a Carrara dal maestro artigiano Michele Monfroni e trova collocazione lungo lo scalone monumentale che conduce all’Aula Magna. La Commissione Toponomastica della Città di Torino inoltre, ha di recente approvato la proposta di intitolazione alla dottoressa Farnè del sottopasso tra corso Grosseto e corso Potenza.
Scoprimento del ritratto marmoreo dedicato alla memoria di Maria Velleda Farnè
Maria Velleda Farnè nasce a Bologna nel 1852 e successivamente emigra con la famiglia in Piemonte. Nel 1873si iscrive alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Torino, dove si laurea nel 1878. Il quotidiano La Stampa, il 22 luglio 1878, a tal proposito riporta:
“La signorina Farnè non si è arrestata a mezza strada, ma l’ha percorsa tutta intera con coraggio, a piè fermo e sicuro, con la serenità negli occhi modesti, con lo stimolo di un’onesta ambizione”.
In seguito si trasferisce a Roma, poiché nominata nel 1881 medichessa onoraria della regina Margherita di Savoia. Trascorre nella capitale il resto della breve esistenza, pubblicando anche due articoli in tema di igiene e abbigliamento femminile. Non contrae matrimonio e deve fronteggiare, dalla fine degli anni Novanta, un progressivo impoverimento. Si spegne precocemente nel novembre del 1905 in casa di parenti, in una dimora destinata alla villeggiatura estiva sulle colline non distanti da Torino.
Oggi, venerdì 18 novembre, alle ore 18.00, presso il Teatro anatomico (c.so Massimo d’Azeglio 52, Torino), nell’ambito dell’evento VICINI, è previsto inoltre un incontro pubblico dedicato alla presentazione della biografia della dottoressa Farnè: Paola Novaria dialogherà con Sylvie Coyaud, giornalista e divulgatrice scientifica.
Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
Parte a Bologna il reclutamento per il progetto ESCAPE
Il reclutamento1 per l’ambizioso progetto di ricerca europeo coinvolgerà pazienti anziani dell’Ospedale Bellaria con scompenso cardiaco ed altre patologie coesistenti
Il 9 settembre 2022, presso l’UOC Cardiologia dell’Ospedale Bellaria di Bologna e con la collaborazione del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, ha avuto inizio il reclutamento di pazienti con diagnosi di scompenso cardiaco cronico e altre patologie compresenti per il progetto di ricerca internazionale “ESCAPE”.
Il progetto di ricerca, finanziato con fondi europei, si propone di cambiare consistentemente il percorso di cure di pazienti anziani con più patologie croniche e dei loro familiari.
Il modello oggetto di studio cerca infatti di rispondere alla domanda di cura particolarmente frammentata di questi pazienti, che devono fare ricorso a numerosi medici, specialisti e piani di trattamento molto differenziati nella gestione delle loro patologie. A fronte di tale complessità viene proposta la figura del Care Manager: attraverso l’uso di tecnologie informatiche per la salute e la collaborazione con numerosi professionisti sanitari, il Care Manager si occuperà di assistere il paziente nel coordinamento delle cure e nella gestione delle sue necessità psicofisiche specifiche.
All’interno del progetto di ricerca sono coinvolti 16 partner distribuiti in 8 nazioni diverse, con il gruppo italiano guidato dalla Prof.ssa Chiara Rafanelli, professoressa ordinaria di Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, e dal Dr. Stefano Urbinati, Direttore dell’UOC Cardiologia dell’Ospedale Bellaria di Bologna.
Lo studio, iniziato nel 2021, terminerà nel 2025, con un investimento di risorse previsto pari a 6,1 milioni di euro, stanziati integralmente dall’Unione europea.
Più informazioni sul progetto, la sua struttura e i suoi obiettivi sono reperibili sul sito ufficiale https://escape-project.org/ .
Post Instagram del dott. Graziano Gigante, assegnista di ricerca per il progetto ESCAPE al dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna.
Testo dal progetto ESCAPE – Università di Bologna
Nota: Per reclutamento si intende la procedura tipica della ricerca in cui sono identificati, invitati a partecipare, valutati ed eventualmente inseriti nello studio soggetti che presentano criteri per prendervi parte.
This project has received funding from the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme under grant agreement No 945377 (ESCAPE). This output reflects the views of the authors and the European Commission is not responsible for any use that may be made of the information contained therein.
PROGETTO SUNDISH: ALLA SCOPERTA DEL SOLE NELLE ONDE RADIO
È stato pubblicato sulla rivista Solar Physics lo studio, guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), che presenta il nuovo sistema di osservazione del Sole nelle onde radio con i radiotelescopi INAF di Bologna e di Cagliari, realizzato in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). Questi dati, attualmente unici nel panorama astrofisico internazionale, integrano le osservazioni solari condotte in altre frequenze e saranno preziose per monitorare e comprendere meglio l’attività della nostra stella in vista del suo massimo, previsto per il 2024.
Progetto Sundish: alla scoperta del Sole nelle onde radio
L’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo a poter vantare una rete di radiotelescopi in grado di lavorare in modo coordinato. Distribuita tra Emilia Romagna, Sicilia e Sardegna – e gestita dalle Strutture dell’INAF di Bologna e Cagliari – questa sofisticata rete di antenne ha avviato da qualche anno il progettoSundish, coordinato dall’astrofisico dell’INAF Alberto Pellizzoni, con una serie di osservazioni congiunte nelle onde radio di una sorgente celeste tanto vicina quanto finora poco monitorata in questa finestra dello spettro elettromagnetico: il nostro Sole.
Questo nuovo sistema di monitoraggio radio-solare, che vede per ora protagoniste le antenne di Medicina e il Sardinia Radio Telescope (SRT), è l’oggetto dell’articolo appena pubblicato sulla rivista Solar Physics, in cui si svelano i dettagli dei ricevitori e dei software appositamente creati per l’analisi dei dati solari, oltre che un catalogo di 170 immagini prodotte dalle antenne italiane.
Lo studio – che ha coinvolto anche le università di Cagliari, Trieste ed Exeter, in Inghilterra, oltre che l’istituto olandese di radioastronomia ASTRON – ha rafforzato la già intensa collaborazione scientifica tra INAF e ASI, grazie allo sforzo congiunto per lo sviluppo presente e futuro del sistema di osservazione radio-solare. Il sistema, che tra non molto potrebbe arrivare ad osservare fino alla frequenza di ben 100 GHz, consente di mappare e studiare, tramite strumenti dedicati, sia l’emissione del Sole quieto che delle sue regioni attive, sempre più numerose man mano che ci si avvicina al massimo del ciclo solare, previsto per il 2024.
“Ad oggi – spiega Pellizzoni – siamo i primi e per ora gli unici a osservare il Sole alle frequenze radio nell’intervallo tra 18 e 26 GHz, e quindi siamo in grado di poter ottenere informazioni fisiche in una regione dello spettro elettromagnetico cruciale, ma al momento poco utilizzata per gli studi solari per via delle difficoltà osservative in questa particolare banda radio. Per la prima volta è stato possibile misurare la temperatura del Sole in questa banda. Inoltre studiare il Sole a queste frequenze ci fornisce informazioni preziose, non solo per capire meglio come funziona la nostra stella, ma anche per contribuire a sviluppare metodi per prevedere i suoi comportamenti più violenti.”
Le regioni attive sono aree molto luminose del Sole, caratterizzate da intensi campi magnetici locali, che forniscono energia per i brillamenti solari e le espulsioni di massa coronale, eventi che in situazioni estreme possono avere effetti negativi sulle moderne tecnologie, specie in ambito spaziale, come i sistemi satellitari di telecomunicazioni, ormai indispensabili alla nostra vita quotidiana.
“In realtà – continua Pellizzoni – siamo partiti da una curiosità tecnica: si può osservare il Sole con i radiotelescopi INAF? Questa curiosità ha innescato gli studi di fattibilità da parte di tanti tecnologi e ricercatori INAF e ASI. Da qui è nato il progetto SunDish che ho ideato e guidato personalmente, e che ora mi occupa a tempo pieno, insieme a molti altri entusiasti giovani e meno giovani! Abbiamo scoperto non solo che queste osservazioni erano fattibili, ma anche che la comunità scientifica internazionale si dimostrava molto interessata ai risultati che avrebbero prodotto nell’ambito dello Space Weather, ovvero la meteorologia dello spazio”.
La tempesta solare più potente finora registrata è stata il cosiddetto “Evento di Carrington”, il 1° settembre 1859. L’evento produsse i suoi effetti su tutta la Terra dal 28 agosto al 2 settembre, con l’interruzione delle linee telegrafiche per 14 ore, e con la produzione di un’aurora boreale visibile anche a latitudini inusuali, addirittura fino a Roma. Conoscere in anticipo questi fenomeni, aiuterebbe sicuramente a attivare per tempo contromisure in grado di limitare i possibili malfunzionamenti o guasti alle infrastrutture tecnologiche più esposte.
“Una cosa curiosa – aggiunge Simona Righini, ricercatrice INAF e co-Principal Investigator del progetto Sundish – è sicuramente il fatto che le parabole di Medicina ed SRT in principio non sono state concepite per osservare il Sole. Anzi agli astronomi era proibito puntare le antenne verso il Sole per timore che l’intenso calore e la forte radiazione potessero danneggiare gli strumenti. È stato necessario un grande impegno da parte di tanti tecnologi e ricercatori INAF, con la preziosa collaborazione di ASI, per rendere tutto questo possibile”.
“Le osservazioni radio del Sole effettuate nell’ambito del progetto SunDish sono di fondamentale importanza per lo Space Weather, in quanto forniscono diagnostiche chiave sulla fisica delle regioni attive e sulla previsione dei brillamenti solari” conclude Mauro Messerotti, fisico solare e senior advisor dell’INAF per lo Space Weather. “In questo contesto, due nuovi strumenti dedicati al monitoraggio del Sole nelle onde radio saranno operativi a breve all’INAF di Trieste ed alla sezione INAF presso l’Università della Calabria”.
L’articolo “Solar Observations with Single-Dish INAF Radio Telescopes: Continuum Imaging in the 18 – 26 GHz Range”, di A. Pellizzoni, S. Righini, M. N. Iacolina, M. Marongiu, S. Mulas, G. Murtas, G. Valente, E. Egron, M. Bachetti, F. Buffa, R. Concu, G. L. Deiana, S. L. Guglielmino, A. Ladu, S. Loru, A. Maccaferri, P. Marongiu, A. Melis, A. Navarrini, A. Orfei, P. Ortu, M. Pili, T. Pisanu, G. Pupillo, A. Saba, L. Schirru, G. Serra, C. Tiburzi, A. Zanichelli, P. Zucca & M. Messerotti, è stato pubblicato su Solar Physics.
Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
Il Museo dei Botroidi di Luigi Fantini è un piccolo spazio che promuove la più grande collezione al mondo di botroidi. Si propone come obiettivo la conservazione del patrimonio locale e la sua condivisione col pubblico.
L’esplorazione della Val di Zena
La Val di Zena offre una grande varietà sotto l’aspetto speleologico, naturalistico, botanico, archeologico e non ultimo, geologico. Situata nell’Appennino Bolognese, è una valle stretta con ampie zone a calanchi, caratterizzata da pochi e piccoli centri abitati.
Veduta della Val di Zena. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
La ragione non è soltanto la sua conformazione poco adatta allo sviluppo di grandi centri urbani, bensì l’attività di preservazione del territorio e della sua storia ad opera dei suoi abitanti. I personaggi di spicco di questo movimento furono Francesco Orsoni e Luigi Fantini, a cui è dedicato il Museo dei Botroidi nella frazione di Tazzola.
Orsoni e Fantini furono instancabili esploratori della Val di Zena. Nel 1871 Orsoni scoprì la Grotta del Farneto, un importante deposito preistorico risalente all’Età del Bronzo. Dagli anni 30 del Novecento Fantini lavorò per tenere in vita la memoria di Orsoni e per continuare la sua opera di esplorazione e preservazione. Le fotografie scattate e il materiale raccolto in quasi cinquant’anni di attività, hanno popolato le vetrine del Museo Civico di Bologna e le pagine della pubblicazione Antichi Edifici della Montagna Bolognese (1972). Ed ora anche del Museo dei Botroidi.
Fantini sulla porta della casa natale al Farneto e mentre fotografa con la sua macchina fotografica a lastra sotto il Monte delle Formiche. Foto Gruppo Speleologico bolognese, dal sito Parco museale della Val di Zena
Il Museo dei Botroidi, un museo senza barriere
La filosofia dietro la realizzazione del museo è quella di una “geologia a portata di mano”. La visita non prevede l’esposizione in tradizionali vetrine: l’ospite è invitato a sperimentare la geologia attraverso tutti i sensi.
“L’idea nasce dalla volontà di rendere accessibile in senso ampio il museo (non solo a chi ha disabilità ma anche a chi magari ignora certi argomenti) cercando di creare stimoli e curiosità verso il paesaggio, il suolo e l’ambiente” dice il suo curatore Lamberto Monti.
La visita al museo è possibile in completa autonomia e “permette di conoscere caratteristiche, forme e particolarità di fossili e minerali veri, toccando, manipolando e coinvolgendo attraverso sollecitazioni sensoriali. Il percorso è adatto a tutti; l’accessibilità non è uno strumento accessorio ma diventa parte integrante del museo.”
Lamberto Monti durante un incontro con i ragazzi di una scuola in vista al Museo. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
La location scelta è una stalla in roccia, restaurata in terra cruda e materiali naturali situata nel comune di Pianoro (Bologna).
L’allestimento è suddiviso in sezioni, principalmente a tema geologia ma anche archeologia e paleontologia. La sezione principale è quella relativa alla geologia della Val di Zena, che ripercorre l’evoluzione della valle a partire dal periodo Cretaceo (oltre 65 milioni di anni fa) fino al Pleistocene (0.8 milioni di anni fa).
Foto palma fossile di Idan J Grunberg
Grazie ai campioni esposti, il visitatore ha modo di scoprire che nell’epoca in cui la Terra era popolata dai dinosauri quest’area era occupata dall’Oceano Ligure. Può inoltre imparare dove andare alla ricerca del luogo dove furono trovati i resti fossili di una Balenoptera acuto rostrata, abitante di un mare caldo e tranquillo circa 5 milioni di anni fa ma abituata a risalire i corsi d’acqua verso la foce. Ed imparare cosa siano le “Scodellette del diavolo”. Spoiler: non servono a servire la zuppa!
Interno del Museo Tattile dei Botroidi. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
I botroidi
Il pezzo forte della zona e del museo è la più grande collezione al mondo di botroidi, sassi di origine pliocenica dalle forme antropomorfe. Per questa loro particolarità vengono chiamati anche “pupazzi di pietra”. Nei sotterranei del castello di Zena nel 2006 furono ritrovati più di 500 esemplari raccolti dal Fantini e questo diede la spinta per creare il museo come spazio per conservarli, tutelarli e farli conoscere.
Botroide della collezione Fantini. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
Per definizione, tutte le forme rocciose simili a grappoli rientrano nella categoria dei botroidi. Si trovano nelle rocce clastiche pelitiche e finemente sabbiose, nel nostro caso nelle sabbie gialle che costituiscono la sezione più giovane dell’esposizione. Il visitatore può ammirare sia le forme locali raccolte dal Fantini sia quelle provenienti dai continenti africano ed americano (ad esempio Algeria ed Alaska).
Botroide della collezione Luigi Fantini. Foto associazione Parco museale della Val di Zena
Il museo offre anche visite guidate su richiesta e percorsi didattici geotattili per scuole. Inoltre, uno degli obiettivi del progetto è “coniugarsi con il territorio per un reciproco sviluppo, creare valore dalla relazione con la realtà geografica”. Vicino al museo passano importanti sentieri che sono parte integrante dell’esposizione: percorso CAI 815, Via Mater Dei e Via del Fantini.
Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra
In un nuovo studio (https://www.nature.com/articles/s41561-021-00797-y), pubblicato sulla rivista Nature Geoscience (https://www.nature.com/ngeo/), un team di ricercatori italiani guidato da Alessandro Aiuppa (Università di Palermo) e che vede fra i co-autori Federico Casetta (Università di Ferrara), Massimo Coltorti (Università di Ferrara), Vincenzo Stagno (Sapienza Università di Roma) e Giancarlo Tamburello (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Bologna), ha sviluppato un nuovo approccio per ricostruire la quantità di Carbonio immagazzinato nel mantello superiore della terra, dalla cui fusione sono segregati i magmi.
Il Carbonio, il quarto elemento più abbondante in termini di massa nell’universo, è un elemento chiave per la vita. Il suo ricircolo, da e verso l’interno della Terra, regola i livelli di CO2 nell’atmosfera, giocando quindi un ruolo fondamentale nel rendere il nostro pianeta abitabile. Il Carbonio è un elemento unico, perché può essere immagazzinato nelle profondità della Terra in varie forme: all’interno di fluidi, come componente di fasi minerali, oppure disciolto nei magmi. Si ritiene, inoltre, che il Carbonio giochi un ruolo chiave nella geodinamica terrestre, in quanto questo elemento è in grado di controllare i processi di fusione che avvengono mantello superiore. Vista la sua tendenza ad essere incorporato nei magmi prodotti per fusione delle rocce peridotitiche nel mantello superiore, il Carbonio è facilmente trasportato verso la superficie terrestre, ove viene poi rilasciato come CO2 nelle emissioni gassose di vulcani attivi o quiescenti. I magmi ed i gas derivati dal mantello sono, pertanto, i mezzi di trasporto più efficaci per portare il Carbonio verso l’idrosfera e l’atmosfera, dove gioca un ruolo primario nel controllo dei cambiamenti climatici su scala geologica.
Ma quanto Carbonio è immagazzinato all’interno della Terra?
Questa domanda ha ispirato ricerche in diversi ambiti delle geoscienze, che si sono avvalse di molteplici approcci empirici, quali lo studio dei gas emessi in aree vulcaniche, del contenuto in CO2 nelle lave eruttate lungo le dorsali medio-oceaniche e/o nelle inclusioni di magma all’interno dei cristalli, delle inclusioni fluide in xenoliti di mantello portati in superficie dai magmi, e le misure sperimentali sviluppate con lo scopo di comprendere la massima quantità di CO2 che può essere disciolta nei magmi a pressioni e temperature tipiche dell’interno della Terra. Sfortunatamente, questi approcci hanno portato spesso a conclusioni contrastanti, al punto che le stime sul contenuto di Carbonio del mantello (così come dell’intera Terra) divergono di più di un ordine di grandezza. Le “melt inclusions”, o inclusioni di magma, cioè piccole goccioline di fuso silicatico intrappolate nei cristalli al momento della loro formazione nei magmi, possono essere sorgenti di informazione uniche per quantificare il contenuto di Carbonio del mantello da cui i magmi stessi sono segregati. Tuttavia, il massivo rilascio di gas (degassamento), tra cui CO2, a cui i magmi sono soggetti durante la loro risalita verso la superficie (prima della loro messa in posto ed eruzione) ha rappresentato un fattore limitante nella comprensione delle variazioni di concentrazione di Carbonio nel mantello.
Nel loro studio, Aiuppa e co-autori hanno revisionato e catalogato i dati relativi al contenuto in CO2 (e zolfo) nei gas vulcanici emessi da 12 vulcani di hot-spot e di rifting continentale, i cui magmi sono generati da sorgenti mantelliche più profonde rispetto a quelle del mantello impoverito da cui derivano i magmi delle dorsali medio-oceaniche.
Gas magmatici ricchi in CO2 rilasciati dal degassamento del lago di lava a condotto aperto presso il vulcano Nyiragongo, Repubblica Democratica del Congo (foto di Sergio Calabrese, Università di Palermo)
I risultati ottenuti hanno permesso di comprendere che il mantello superiore (50-250 km di profondità) che alimenta il vulcanismo in aree di rifting continentale e di hot-spot contiene in media 350 parti per milione (ppm) di Carbonio (intervallo compreso tra 100 e 700 ppm di C). Questo ampio range conferma la visione di un mantello superiore fortemente eterogeneo, la cui composizione è stata variabilmente modificata, in tempi geologici, dall’infiltrazione di fusi carbonatici-silicatici generati in profondità. Le nuove stime ottenute da Aiuppa e co-autori indicano che il mantello superiore ha una capacità totale di Carbonio di circa ~1.2·1023 g. È possibile che la Terra, nelle sue porzioni interne, sia in grado di contenere ancora più Carbonio, come suggerito dai diamanti provenienti da profondità sub-litosferiche (fino a 700 km), i quali mostrano evidenze dell’esistenza di minerali e fusi che contengono significative quantità di C.
In aggiunta, il team di ricercatori ha stimato che il contenuto di Carbonio aumenta con la profondità di fusione parziale nel mantello. Questa scoperta permette di validare i dati sperimentali, che suggeriscono come il Carbonio giochi un ruolo nel determinare percentuale e profondità di fusione parziale nelle sorgenti di mantello che alimentano i vulcani in aree di rift continentali e di hot-spot. I risultati ottenuti, indicando che le porzioni di mantello ricche in Carbonio fondono più in profondità rispetto a porzioni povere in Carbonio, confermano il ruolo di primaria importanza giocato da questo elemento nel guidare i cicli geodinamici.
Aumento della concentrazione di Carbonio con la profondità di fusione nel mantello superiore terrestre. I magmi prodotti in contesti di Isole Oceaniche e di Rift Continentale sono alimentati da sorgenti di mantello più ricche in Carbonio rispetto alle porzioni di “Depleted MORB Mantle (DMM)”, cioè di mantello impoverito da cui sono prodotti i “Mid-Ocean Ridge Basalts (MORB)”, ovvero basalti di dorsale medio-oceanica
L’esistenza di un mantello ricco in Carbonio, evidenziata da Aiuppa e co-autori, ha profonde implicazioni rispetto alle modalità di immagazzinamento del Carbonio primordiale nel mantello, e per il suo riciclo nel tempo e nello spazio. I risultati ottenuti con questo studio sono anche importanti per comprendere le possibili variazioni nel ciclo geologico del Carbonio causate da eventi vulcanici di grande magnitudo, quali la messa in posto delle “Large Igneous Provinces (LIP)”, o grandi province ignee. Se i magmi prodotti dai “plume”, o pennacchi, di mantello sono ricchi in Carbonio, come suggerito da questo studio, allora il rilascio di Carbonio dalle grandi province ignee nel Fanerozoico può aver contribuito a causare le estinzioni di massa, le cui tracce sono preservate nei record sedimentari in tutto il mondo.
Sezione schematica dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano (passando attraverso il cratone Africano), che mostra le variazioni nelle concentrazioni di Carbonio ricostruite nelle sorgenti di mantello da cui sono prodotti i magmi delle Isole Oceaniche e dei Rift Continentali
Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra
CITAZIONE
Alessandro Aiuppa, Federico Casetta, Massimo Coltorti, Vincenzo Stagno and Giancarlo Tamburello (2021), Carbon concentration increases with depth of melting in Earth’s upper mantle, Nature Geoscience, https://doi.org/10.1038/s41561-021-00797-y
Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra. Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, Università di Palermo, Università di Ferrara, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.