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Federica Comoglio

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Il Museo dei Botroidi di Luigi Fantini è un piccolo spazio che promuove la più grande collezione al mondo di botroidi. Si propone come obiettivo la conservazione del patrimonio locale e la sua condivisione col pubblico.

L’esplorazione della Val di Zena

La Val di Zena offre una grande varietà sotto l’aspetto speleologico, naturalistico, botanico, archeologico e non ultimo, geologico.  Situata nell’Appennino Bolognese, è una valle stretta con ampie zone a calanchi, caratterizzata da pochi e piccoli centri abitati.

Veduta della Val di Zena. Foto associazione Parco museale della Val di Zena

La ragione non è soltanto la sua conformazione poco adatta allo sviluppo di grandi centri urbani, bensì l’attività di preservazione del territorio e della sua storia ad opera dei suoi abitanti. I personaggi di spicco di questo movimento furono Francesco Orsoni e Luigi Fantini, a cui è dedicato il Museo dei Botroidi nella frazione di Tazzola.

Orsoni e Fantini furono instancabili esploratori della Val di Zena. Nel 1871 Orsoni scoprì la Grotta del Farneto, un importante deposito preistorico risalente all’Età del Bronzo. Dagli anni 30 del Novecento Fantini lavorò per tenere in vita la memoria di Orsoni e per continuare la sua opera di esplorazione e preservazione. Le fotografie scattate e il materiale raccolto in quasi cinquant’anni di attività, hanno popolato le vetrine del Museo Civico di Bologna e le pagine della pubblicazione Antichi Edifici della Montagna Bolognese (1972). Ed ora anche del Museo dei Botroidi.

Fantini sulla porta della casa natale al Farneto e mentre fotografa con la sua macchina fotografica a lastra sotto il Monte delle Formiche. Foto Gruppo Speleologico bolognese, dal sito Parco museale della Val di Zena

Il Museo dei Botroidi, un museo senza barriere

La filosofia dietro la realizzazione del museo è quella di una “geologia a portata di mano”. La visita non prevede l’esposizione in tradizionali vetrine: l’ospite è invitato a sperimentare la geologia attraverso tutti i sensi.

“L’idea nasce dalla volontà di rendere accessibile  in senso ampio il museo (non solo a chi ha disabilità ma anche a chi magari ignora certi argomenti) cercando di creare stimoli e curiosità verso il paesaggio, il suolo e l’ambiente” dice il suo curatore Lamberto Monti.

La visita al museo è possibile in completa autonomia e “permette di conoscere caratteristiche, forme e particolarità di fossili e minerali veri, toccando, manipolando e coinvolgendo attraverso sollecitazioni sensoriali. Il percorso è adatto a tutti; l’accessibilità non è uno strumento accessorio ma diventa parte integrante del museo.”

Museo dei botroidi di Luigi Fantini Lamberto Monti
Lamberto Monti durante un incontro con i ragazzi di una scuola in vista al Museo. Foto associazione Parco museale della Val di Zena

La location scelta è una stalla in roccia, restaurata in terra cruda e materiali naturali situata nel comune di Pianoro (Bologna).

L’allestimento è suddiviso in sezioni, principalmente a tema geologia ma anche archeologia e paleontologia. La sezione principale è quella relativa alla geologia della Val di Zena, che ripercorre l’evoluzione della valle a partire dal periodo Cretaceo (oltre 65 milioni di anni fa) fino al Pleistocene (0.8 milioni di anni fa).

Foto palma fossile di Idan J Grunberg

Grazie ai campioni esposti, il visitatore ha modo di scoprire che nell’epoca in cui la Terra era popolata dai dinosauri quest’area era occupata dall’Oceano Ligure. Può inoltre imparare dove andare alla ricerca del luogo dove furono trovati i resti fossili di una Balenoptera acuto rostrata, abitante di un mare caldo e tranquillo circa 5 milioni di anni fa ma abituata a risalire i corsi d’acqua verso la foce. Ed imparare cosa siano le “Scodellette del diavolo”. Spoiler: non servono a servire la zuppa!

Museo dei botroidi di Luigi Fantini
Interno del Museo Tattile dei Botroidi. Foto associazione Parco museale della Val di Zena

I botroidi

Il pezzo forte della zona e del museo è la più grande collezione al mondo di botroidi, sassi di origine pliocenica dalle forme antropomorfe. Per questa loro particolarità vengono chiamati anche “pupazzi di pietra”. Nei sotterranei del castello di Zena nel 2006 furono ritrovati più di 500 esemplari raccolti dal Fantini e questo diede la spinta per creare il museo come spazio per conservarli, tutelarli e farli conoscere.

Botroide della collezione Fantini. Foto associazione Parco museale della Val di Zena

Per definizione, tutte le forme rocciose simili a grappoli rientrano nella categoria dei botroidi. Si trovano nelle rocce clastiche pelitiche e finemente sabbiose, nel nostro caso nelle sabbie gialle che costituiscono la sezione più giovane dell’esposizione. Il visitatore può ammirare sia le forme locali raccolte dal Fantini sia quelle provenienti dai continenti africano ed americano (ad esempio Algeria ed Alaska).

Botroide della collezione Luigi Fantini. Foto associazione Parco museale della Val di Zena

Il museo offre anche visite guidate su richiesta e percorsi didattici geotattili per scuole. Inoltre, uno degli obiettivi del progetto è “coniugarsi con il territorio per un reciproco sviluppo, creare valore dalla relazione con la realtà geografica”. Vicino al museo passano importanti sentieri che sono parte integrante dell’esposizione: percorso CAI 815, Via Mater Dei e Via del Fantini.

Instagram: museo_dei_botroidi

Twitter: @museobotroidi 

Museo dei botroidi di Luigi Fantini
Interno del Museo dei Botroidi. Foto associazione Parco museale della Val di Zena

Alle ore 7:30 della mattina del 18 maggio 1980, Don Swanson dello USGS dice “the bulge still bulges”. Lo strano rigonfiamento cresciuto sul fianco settentrionale del Monte Sant’Elena (Mount St. Helens in inglese) nelle ultime settimane è ancora lì, ormai da giorni tutto suggerisce una possibile un’eruzione. Inizierà esattamente un’ora dopo.

Per ripercorrere gli episodi dell’evento eruttivo, lo USGS (U. S. Geological Survey) ha riportato la fedele cronaca degli eventi accaduti quaranta anni fa, dettagliandola giorno per giorno sulla sua pagina Facebook. Foto e ricordi affascinanti, registrazioni video esclusive, curiosità e dettagli che nel tempo erano andati persi. Vi proponiamo qui una breve storia geologica del vulcano fino al giorno dell’eruzione, consigliandovi l’ulteriore lettura del racconto su Facebook e del libro In the Path of Destruction: Eyewitness Chronicles of Mount St. Helens di Richard Waitt, scienziato dello USGS.

Lo stratovulcano

Il Monte Sant’Elena è uno stratovulcano attivo che fa parte dell’arco vulcanico della Catena delle Cascate (Cascades, Stato di Washington, USA), segmento nordamericano della Cintura di fuoco del Pacifico (Pacific Ring of Fire). Un arco vulcanico si forma per risalita di magma in zone di subduzione, ossia quando una placca (oceanica in questo caso) scivola sotto una continentale. La discesa di crosta ricca di fluidi nel mantello a temperature e pressioni sempre maggiori crea instabilità ed una conseguente risalita di materiale fuso. I movimenti tettonici della placca Pacifica e di quelle attorno hanno generato diverse zone di subduzione e conseguenti archi vulcanici nella forma di un anello, la Cintura di fuoco.

L’Anello di Fuoco intorno all’Oceano Pacifico e posizione del Monte Sant’Elena, vettoriale di Gringer, pubblico dominio

Il magmatismo dei vulcani formatisi in zone di subduzione, solitamente ha origine a circa 100 km di profondità. Determinate condizioni di temperatura e pressione sono necessarie affinché il magma si formi e possa iniziare la sua risalita verso la superficie. La peculiarità del Monte Sant’Elena è quella di trovarsi a soli 67 km sopra il piano di subduzione. I risultati dello studio iMUSH (Imaging Magma Under St. Helens) suggeriscono che il vulcano sia posizionato sopra un cuneo di rocce magmatiche (serpentiniti) fredde che si formano quando il mantello reagisce con l’acqua. La sorgente del magmatismo sarebbe invece localizzata ad Est, sotto altri vulcani della stessa catena; il magma poi migrerebbe lateralmente fornendo materiale per le eruzioni del Monte Sant’Elena.

La storia geologica

L’edificio vulcanico di uno stratovulcano si forma per imposizione di prodotti emessi nel corso della sua storia eruttiva. La forma del Monte Sant’Elena prima dell’eruzione del 1980 è andata finalizzandosi durante lo stadio Spirit Lake (Olocene, 3900 anni – presente). Lo stadio è suddiviso in sei periodi eruttivi:  Smith Creek, Pine Creek, Castle Creek, Sugar Bowl, Kalama, Goat Rocks e quello Moderno iniziato con l’attività del 1980. Questi periodi furono caratterizzati eruzioni prevalentemente esplosive, come dimostrano i prodotti più antichi. L’evento più significativo avvenne durante il periodo Kalama con la crescita del duomo sommitale che definì la forma finale del vulcano. Ci vollero circa cento anni perché il duomo si formasse e dopo il 1720 l’elevazione massima della montagna raggiunse 1800 m, limite utile per la formazione del ghiacciaio in coma. Il vulcano rimase relativamente calmo fino alla metà del mese di marzo 1980.

Monte Sant'Elena
Il Monte Sant’Elena prima dell’eruzione del 1980. Foto Flickr dello U.S. Forest Service- Pacific Northwest Region, pubblico dominio

I segnali precursori

Il 20 marzo 1980, dopo 123 anni di quiete, un terremoto di magnitudo 4.2 (scala Richter) viene registrato nell’area del vulcano. Il suo ipocentro (il punto di origine all’interno della Terra) è poco profondo e segue altri deboli scosse che si verificano ormai da qualche giorno. Nei giorni successivi gli strumenti registrano differenti sciami sismici di bassa magnitudo e non percepiti dalla popolazione; gli esperti dello USGS ancora non sanno determinare l’origine dei movimenti tellurici (se tettonici o vulcanici) né se o quando ci sarà un’eruzione.

L’attività vulcanica inizia il 27 marzo quando dalle vedute aree gli esperti individuano un neonato cratere nel ghiaccio largo circa 70 metri e si alza una nuvola eruttiva fino a 2 km sopra la sommità. Mappano inoltre due sistemi di fratture con direzione Est-Ovest e documentano oltre 50 scosse sismiche di magnitudo superiore a 3.5 in un giorno solo. Nei giorni successivi sia l’attività sismica che eruttiva aumentano, le colonne eruttive si alzano fino a 3 km sopra la cima della montagna.

Eruzione freatica alla sommità del Monte Sant’Elena. Foto scattata il 4 aprile 1980. Foto di D.A. Swanson dello USGS, pubblico dominio

Nei primi giorni di aprile vengono registrate scosse sismiche armoniche a bassa frequenza. Contrariamente ai terremoti classici causati da rilascio improvviso di energia dalle rocce, le scosse armoniche sono associate ad attività vulcanica; sono generalmente causate da movimenti di magma nel sottosuolo o dal rilascio di gas dal magma. Possono quindi essere indicative di una eruzione imminente, che però sembra farsi attendere.

Il 3 aprile gli esperti notano un cratere largo 450 m e profondo 90 m sul fianco settentrionale, delle fratture visibili nella neve ed una strana zona di terreno esposto, probabilmente prime avvisaglie del rigonfiamento (bulge). Gli esperti raccolgono campioni dei prodotti eruttati e misurano basse concentrazioni di anidride solforosa (SO2), che invece può essere indicatrice di repentina risalita di magma se presente in alte concentrazioni. L’acqua ed il ghiaccio attorno al cratere hanno formato dei laghi fangosi sul fondo; quando nel cratere avviene una nuova immissione di fluidi dall’esterno, essi si riscaldano e vengono gettati in aria come vapore e cenere.

Il “bulge”

Nella prima metà di aprile l’attività eruttiva sembra assestarsi: esplosioni moderate che generano piccole colonne di cenere, tremori armonici, fratture sul fianco settentrionale ed crescita del bulge. Dalla seconda metà del mese l’attenzione degli esperti si concentra proprio sul rigonfiamento sul fianco verticale: alla fine del mese le sue dimensioni raggiungono il chilometro e mezzo di lunghezza, due e mezzo di larghezza e circa 100 m di altezza. La sua origine è una intrusione magmatica nel vulcano (anche chiamata criptoduomo) avvenuta alla fine di marzo. La velocità di crescita a fine aprile raggiunge il metro e mezzo al giorno. Il pericolo derivante dall’esistenza del bulge e dalla sua crescita così repentina è quello di un distaccamento di materiale (neve, ghiaccio e roccia) dal versante e la rapida discesa a valle.

Nonostante gli scienziati concordino sul pericolo derivante dal versante settentrionale, nessuno sa con certezza quando ciò accadrà: i geologi non conoscono la resistenza delle rocce sottostanti né la profondità della deformazione. Il 12 maggio un terremoto di magnitudo 5.0 provoca una valanga di ghiaccio e roccia larga 250 m sul versante settentrionale, confermando la fondatezza del pericolo.

Il “bulge” sul versante settentrionale del Monte Sant’Elena il 27 Aprile 1980. Foto di Peter Lipman dal CVO Photo Archives, pubblico dominio

18 maggio 1980

Poco dopo le 8:30 del mattino una frattura lunga un chilometro e mezzo con direzione Est-Ovest si apre a Nord del cratere principale. La scossa sismica che ne segue provoca il distacco di una sezione del versante verso valle e la discesa per 14 chilometri di 2.5 chilometri cubi di materiale, pari al volume di un milione di piscine olimpioniche.

La colonna eruttiva del Monte Sant’Elena il 18 maggio 1980. Foto di Austin Post dello USGS, pubblico dominio

La parte di versante distaccatasi era quella che manteneva il sistema magmatico sottostante pressurizzato; con la rimozione del criptoduomo, l’acqua bollente presente nel sistema si trasforma in vapore dando inizio ad esplosioni idrotermali laterali dalla frattura lasciata esposta dal bulge. L’esplosione crea una colonna eruttiva alta 24 chilometri in meno di 15 minuti ed un flusso piroclastico che viaggia a 130 km/h per 8 km verso Nord. Il flusso abbatte alberi nel raggio di 10 km.

Alberi abbattuti dall’esplosione orizzontale del 18 maggio 1980. Due geologi dell’USGS in basso a destra fanno da scala. L’allineamento degli alberi indica la direzione dell’esplosione (da sinistra a destra). Foto di Lyn Topinka, scattata il 24 settembre 1980. Fonte USGS Cascade Volcano Observatory, pubblico dominio

Inoltre, il flusso piroclastico scioglie parte dei ghiacci sul versante dando origine a svariati lahars, fiumi di fango che si muovono velocemente verso valle. Il più distruttivo viaggia fino ad 80 km dal vulcano. I lahars distruggono 27 ponti ed quasi 200 abitazioni.

Il ponte St Helens sulla Highway State 54 dopo essere stato travolto da uno dei lahar il 18 maggio 1980. La struttura di acciaio è stata trascinata a valle per mezzo km ed è stata parzialmente sepolta dal fango. Foto di R.L. Schuster dello USGS, pubblico dominio

Le vittime dell’esplosione del 18 maggio 1980 sono 57. Gran parte della popolazione e dei turisti era stata evacuata precedentemente durante la fase. Per via della sua potenza esplosiva, l’eruzione è stata classificata come pliniana nella scala dei tipi di eruzioni.

L’evento eruttivo continua fino ad ottobre dell’anno successivo, caratterizzato da piccoli episodi esplosivi che producono colonne di cenere alte fino a 15 km e flussi piroclastici sul versante settentrionale ed i cui prodotti raggiungono aree metropolitane degli stati di Washington ed Oregon che non erano state interessate dall’eruzione del 18 maggio.

Monte Sant'Elena
Vista del Monte Sant’Elena dal Johnson Ridge prima e dopo l’eruzione del 18 maggio 1980. La linea tratteggiata rossa mostra il volume di roccia rimossa dall’esplosione. Foto di Harry Glicken, USGS/CVO e Gripso_banana_prune; grafica di Gryphonis, pubblico dominio

 

Monte Sant'Elena
Un geologo dell’USGS osserva il Monte Sant’Elena dal punto di osservazione Coldwater II il primo maggio 1980. Autore sconosciuto, foto USGS in pubblico dominio

Accostare la parola “marea” alla Geologia può lasciare perplessi in prima battuta, scavando nella memoria difficilmente si recupera un ricordo che le vede accomunate. Un termine notoriamente associato al movimento di masse liquide e la scienza che studia le masse rocciose: in che modo sono legati?

A partire dalla metà del ventesimo secolo, la teoria della tettonica a placche è entrata a far parte stabilmente del pensiero scientifico: da allora gli esperti dibattono sui processi che governano il moto dei blocchi tettonici. Postulata e dimostrata la teoria della deriva dei continenti, gli scienziati hanno ricercato le sue cause nella struttura interna della Terra ed in particolare nei moti convettivi del mantello superiore, che determinano l’allontanamento o la collisione delle placche.

Secondo i dati raccolti, però, i movimenti relativi dei blocchi non sono governati esclusivamente dalla dinamica del mantello: esiste una componente orizzontale regolata da un processo diverso. Da ricercare fuori e non dentro il pianeta. Ecco che entrano in gioco le “maree solide”, movimenti di blocchi di litosfera dipendenti dai moti solari e lunari con lungo periodo di oscillazione (maggiore di un anno).

Lo studio “Tidal modulation of plate motions” di Davide Zaccagnino (Università Sapienza di Roma), Francesco Vespe (Agenzia Spaziale Italiana) e Carlo Doglioni (Università Sapienza di Roma e INGV) pubblicato su Earth Science Reviews fornisce dati a sostegno di questa teoria, facendo uso di misurazioni satellitari registrate in uno spazio temporale di più di venti anni.

La sezione di Terra oggetto di studio è la litosfera, l’insieme della crosta terrestre e della parte superiore del mantello. Il suo comportamento – se sottoposta a sforzo – è di tipo rigido, a differenza della sottostante astenosfera più fluida e facilmente deformabile. La separazione tra queste due masse è garantita dalla low velocity zone (LVZ), una fascia a basse velocità delle onde sismiche sulla quale la litosfera scorre con poca frizione.

 

maree solide Carlo Doglioni
La struttura della terra: 1) crosta, 2) mantello, 3) nucleo (esterno liquido e interno solido), 4) litosfera, 5) astenosfera. Immagine USGS, vettoriale di Anasofiapaixao, pubblico dominio

La ricerca ha analizzato la distanza relativa di una serie coppie di stazioni GNSS (Global Navigation Satellite Systems) collocate su placche differenti (9) ed una coppia di controllo sulla stessa placca. Lo studio si è focalizzato sui moti ciclici del Sole e della Luna con oscillazioni comprese tra uno e 18,61 anni. Cicli più brevi e quindi più frequenti vengono mascherati da effetti climatici sull’atmosfera e sul sottosuolo (influenzando ad esempio pressione dei fluidi). Inoltre, i cataloghi delle misurazioni satellitari hanno a disposizione dati degli ultimi 15-20 anni.

Il professor Carlo Doglioni ha quindi risposto per noi ad alcune domande relative a questo ultimo, importante studio.

Professor Doglioni, ci sono teorie e/o ricerche riguardo oscillazioni astronomiche con periodo maggiore? Che cataloghi e misurazioni vengono usati in quel caso?

Lo studio pubblicato è un tassello importante di un percorso di ricerca iniziato circa 30 anni fa, quando si è iniziato a vedere che le placche (cioè i frammenti della litosfera, il guscio esterno della Terra) non si muovono a caso, ma seguono un flusso primario, descritto da quello che abbiamo definito ‘equatore tettonico’, che fa un angolo di circa 30° rispetto all’equatore geografico.

Guarda caso, la proiezione del passaggio della Luna sulla Terra descrive un angolo molto simile. Poi però negli anni sono state documentate delle profonde asimmetrie della tettonica in funzione della polarità geografica, per esempio le differenze tra le catene montuose legate a subduzioni verso ‘est’ o verso ‘ovest’.

Infine è stato documentato come il guscio litosferico, circa 100 km di spessore, abbia un ritardo verso ‘ovest’ di alcuni centimetri l’anno rispetto al mantello sottostante. Quindi la tettonica delle placche è polarizzata. Queste osservazioni cruciali sono state in larga parte ignorate o liquidate come effetti secondari della sola dinamica interna di raffreddamento della Terra.

Ora abbiamo invece una prova sperimentale che le maree solide – e quindi le forze astronomiche – hanno invece un effetto cruciale sulla dinamica delle placche, in particolare quelle che hanno frequenze compatibili con le alte viscosità del mantello terrestre. L’equatore tettonico, per esempio, sembra avere una inclinazione controllata dalla precessione dell’asse di rotazione terrestre, cioè circa 26.000 anni.

Quindi sì, dovrebbero esserci effetti importanti anche con frequenze con periodi più lunghi a quelli delle nutazioni (18.6 anni). In questo caso però non ci sono cataloghi né sismici, né geodetici che ci possano aiutare, se non i dati geologici di lungo periodo.

maree solide Carlo Doglioni
Immagine di Arek Socha

Lo studio conferma inoltre la teoria secondo cui l’attività sismica ha un legame con il movimento relativo di Sole e Luna. Che impatto ha questa relazione sullo studio dei terremoti, in particolare sui cataloghi degli eventi sismici passati e sul monitoraggio delle aree attive? Potranno esserci (o esistono già) studi in “tempo reale” (geologicamente parlando) dell’effetto sui diversi tipi di faglia?

La gravità rimane sempre uno dei segreti più straordinari della natura e i suoi effetti sono in parte ancora da scoprire. Basti pensare che pur avendo il Sole il 99% della massa di tutto il sistema solare, il baricentro del sistema solare oscilla continuamente per effetto della massa rimanente inferiore all’1% di cui Giove fa la parte del leone. Le forze mareali, inoltre, vanno con il cubo della distanza, e questo spiega perché la Luna, pur essendo infinitamente più piccola, ha un effetto mareale circa doppio rispetto al Sole.

La tettonica delle placche e quindi la sismicità esistono però perché il mantello terrestre può convettere, e questo è possibile perché la temperatura e la composizione interna della Terra determinano viscosità che permettono questa mobilità. Tuttavia, la domanda è se i moti convettivi sono l’unico motore attivo oppure se esiste un’altra forza che li mette in movimento.

La componente orizzontale della marea solida ora è il candidato ideale per far scivolare la litosfera sul mantello sottostante, per farla sprofondare nelle zone di subduzione o permettere la risalita per isostasia del mantello al di sotto delle dorsali oceaniche che si formano dove i gradienti di viscosità determinano velocità diverse tra le placche a parità di effetto mareale. In sostanza la convezione mantellica viene polarizzata e attivata dalla componente orizzontale della marea solida; una componente che sposta avanti e indietro il suolo di 10-20 cm a ogni passaggio è la miglior candidata a pompare il sistema tettonico.

Vediamo infatti una certa correlazione con la sismicità in funzione dei periodi in cui la componente orizzontale è maggiore. Tuttavia, la sismicità è la liberazione di gradienti di pressione che si formano nei decenni, se non millenni, e la rottura che provoca il terremoto si attua nel momento in cui le rocce non sono più in grado di accumulare energia; viene dunque raggiunta la soglia critica e si attivano le faglie che producono i terremoti.

La faglia di Sant’Andrea. Foto di Ikluft, CC BY-SA 4.0

In sostanza, la correlazione tra maree e terremoti è più subdola, nel senso che c’è una frequenza maggiore di terremoti quando le placche vanno un po’ più veloci, ma i terremoti avvengono anche quando le placche si muovono più lentamente, qualora lo stato limite o condizione critica siano stati raggiunti. La componente orizzontale fornisce l’energia al sistema, mentre la componente verticale della marea modifica e modula continuamente, ogni secondo, la gravità terrestre, alzando e ribassando la litosfera e quindi anche la superficie terrestre di 30-40 cm, e quindi modificando anche il peso delle rocce: questa oscillazione favorisce o sfavorisce i terremoti in funzione della loro natura.

Per esempio, i terremoti estensionali avvengono più frequentemente durante le fasi di bassa marea (quando cioè la gravità terrestre è massima), mentre i terremoti compressivi avvengono più spesso durante le fasi di alta marea perché con una leggera diminuzione della forza di gravità si facilita lo scorrimento contrazionale.

In sostanza, la componente orizzontale carica il sistema, mentre quella verticale può essere il grilletto che innesca i terremoti, ma questi possono avvenire indipendentemente dalla marea quando la ‘misura è colma’. La Terra esercita delle maree solide che innalzano il suolo lunare di circa 10 metri, e la sismicità lunare ha una ciclicità mensile concentrata nell’emisfero rivolto verso la Terra.

La Luna non ha una tettonica delle placche perché evidentemente non ha temperature interne sufficientemente alte da determinare basse viscosità che permettano la convezione e inoltre si trova in tidal-locking, cioè guarda la Terra sempre con la stessa faccia, quindi manca la rotazione del corpo celeste come per il nostro pianeta. Quindi sì, c’è un controllo gravitazionale fondamentale sulla sismicità, ma questo non significa che ora siamo in grado di prevedere i terremoti.

Sismogramma all’Osservatorio di Weston, Massachussetts. Foto di Z22, CC BY-SA 3.0

Abbiamo però una chiave di lettura che ci permetterà di approfondire quei settori delle geoscienze che ci possono dare informazioni deterministiche sull’evoluzione delle aree a maggiore pericolosità sismica: dalla geodesia alla geochimica dei fluidi, dalla statistica all’intelligenza artificiale, discipline che ci permettono di riconoscere dei transienti o anomalie che preludono l’attivazione delle faglie, o meglio il rilascio dell’energia accumulata nei volumi adiacenti alle faglie stesse che sono dei piani passivi di rilascio e canalizzazione di una parte di questa energia.

Che impatto può avere questa ricerca sullo studio degli hotspot, ad esempio quello delle Hawaii? Può aiutare a definire la profondità di origine del magma che alimenta l’apparato vulcanico? Può aiutare a determinare la dinamica dello spostamento dell’hotspot stesso (se lo spostamento esiste)?

Uno studio relativamente recente – grazie alla tecnica sismologica delle receiver functions – ha permesso di ricostruire la profondità a circa 130 km della camera magmatica sotto le Hawaii: questo significa che sì, gli hotspot pacifici sono alimentati da magma che proviene appunto da quel livello sotto la litosfera che si chiama canale a bassa velocità (low-velocity zone, LVZ) che costituisce la parte alta dell’astenosfera che va da circa 100 a 410 km di profondità.

I magmi delle Hawaii inoltre, sulla base dei dati petrologici sappiamo che si sono formati a una temperatura di circa 1500°C, a conferma del dato sismologico, e sono quindi relativamente superficiali, non provenienti cioè dal limite nucleo-mantello a 2900 km, come alcuni ricercatori avevano ipotizzato. Le Hawaii, come varie altre catene magmatiche, ci documentano che la litosfera si muove rispetto all’astenosfera e questo dato ci permette di calcolare la deriva della litosfera verso ‘ovest’ rispetto al mantello.

Carta batimetrica delle isole Hawaii. Immagine USGS in pubblico dominio; credits per Barry W. Eakins, Joel E. Robinson, Japan Marine Science e Technology Center: Toshiya Kanamatsu, Jiro Naka, University of Hawai’i: John R. Smith, Tokyo Institute of Technology: Eiichi Takahashi, e Monterey Bay Aquarium Research Institute: David A. Clague – Bathymetry image PDF, tratta dalla pubblicazione USGS Geologic Investigations Series Map I-2809: Hawaii’s Volcanoes Revealed

Vi sono anche altri tipi di catene magmatiche che venivano etichettate come hotspot, in particolare posizionate sulle dorsali oceaniche come l’Islanda, le Azzorre, Ascencion, ma è stato dimostrato dalle ricerche di scienziati italiani come Enrico Bonatti e Marco Ligi che in realtà sono zone dove il mantello fonde a una temperatura più bassa per il maggiore contenuto di fluidi, a cominciare dall’acqua stessa. Sono chiamati appunto wetspot o punti bagnati e hanno quindi un’origine e una composizione diversa rispetto agli hotspot come le Hawaii. Lo spostamento degli hotspot e wetspot è documentato, ma ha natura e significato geodinamico diverso. Nessun punto o margine di placca sulla Terra è fisso, tutto si muove, a velocità diverse, rispetto al mantello sottostante.

Quali campi altri di ricerca potranno beneficiare delle conclusioni di questo studio?

Il nostro auspicio (con Davide Zaccagnino e Francesco Vespe, coautori della ricerca, ma anche di numerosi altri colleghi che nel corso degli anni hanno contribuito in modo fondamentale a queste ricerche) è che questa scoperta sia l’inizio di un percorso che ci permetterà di capire sempre meglio non solo la sismicità, ma anche i meccanismi fondamentali di funzionamento della Terra e le sue interazioni con la dinamica planetaria e, perché no, anche dell’origine ed evoluzione della vita.

maree solide Carlo Doglioni
Immagine di malith d karunarathne

 

Riferimenti:

Tidal modulation of plate motions – Davide Zaccagnino, Francesco Vespe, Carlo Doglioni – Earth Science Reviews https://doi.org/10.1016/j.earscirev.2020.103179