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PISTE DA SCI E BIODIVERSITÀ: UNA RISORSA INATTESA PER GLI UCCELLI ALPINI

Uno studio del Bird Lab Torino scopre che, in primavera, le aree innevate artificialmente offrono occasioni di foraggiamento per alcune specie. Ma gli impatti ambientali restano una minaccia

Le piste da sci delle Alpi italiane, spesso al centro del dibattito per il loro impatto ambientale, potrebbero offrire un’insolita risorsa ecologica in primavera: aree di alimentazione per diverse specie di uccelli. È quanto emerge dallo studio “Spring snowmelt and mountain birds: foraging opportunities along ski-pistes”, appena pubblicato sulla rivista Bird Conservation International, condotto dal Bird Lab Torino e guidato dal dott. Riccardo Alba.

La ricerca, svolta nel comprensorio sciistico della Via Lattea, nei pressi di Sestriere (Alpi Cozie), ha documentato la presenza attiva di 17 specie di avifauna lungo le piste innevate. Gli uccelli sembrano prediligere i margini delle piste dove la neve si alterna al fango, creando microhabitat ricchi di invertebrati, proprio in un periodo critico dell’anno in cui le specie devono recuperare energie in vista della stagione riproduttiva.

Alpi Cozie

Il fenomeno è legato allo scioglimento ritardato della neve sulle piste rispetto agli habitat circostanti, dovuto sia al compattamento del manto nevoso sia all’utilizzo di neve artificiale. Una dinamica simile a quella delle chiazze di neve residua in natura, che offre opportunità alimentari in ambienti altrimenti ancora inospitali a fine inverno.

Ma lo studio mette anche in guardia: il bilancio ecologico complessivo dell’attività sciistica resta negativo. La costruzione e la gestione delle piste comportano alterazioni significative dell’ambiente alpino, dalla rimozione della vegetazione alla compattazione del suolo, fino all’impiego sempre più massiccio di neve artificiale, con impatti idrici e biologici ancora poco noti.

Alla luce dei cambiamenti climatici e del previsto calo delle nevicate naturali, gli autori sottolineano l’urgenza di integrare le dinamiche ecologiche legate alla neve e alla fauna nelle strategie di gestione del territorio montano. Promuovere un turismo più sostenibile e una pianificazione attenta agli equilibri ecologici diventa fondamentale per tutelare la biodiversità alpina, oggi sempre più sotto pressione.

uno spioncello (Anthus spinoletta)
Piste da sci e biodiversità: in primavera, le aree innevate artificialmente offrono occasioni di foraggiamento per alcune specie di uccelli sulle Alpi Cozie; lo studio pubblicato sulla rivista Bird Conservation International. In foto, uno spioncello (Anthus spinoletta)

Riferimenti bibliografici:

Alba R, Fragomeni A, Rosselli D, Chamberlain D, Spring snowmelt and mountain birds: foraging opportunities along ski-pistes, Bird Conservation International 2025;35:e23. doi:10.1017/S0959270925100130

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

ALPI: CON DUE GRADI IN PIÙ PROBABILE RADDOPPIO DI TEMPORALI ESTIVI DI TIPO ESTREMO

Pubblicato su «npj Climate and Atmospheric Science» la ricerca di un team di scienziati dell’Università di Padova e dell’Università di Losanna che ha analizzato i dati di quasi 300 stazioni meteorologiche sulle Alpi. La pubblicazione rivela come un aumento di 2°C della temperatura della regione potrebbe far raddoppiare la frequenza di eventi estremi estivi

Le precipitazioni estreme di breve durata, ovvero quelle molto intense che sviluppano enormi quantità di pioggia nell’arco di pochi minuti o poche ore, possono causare gravi danni alle proprietà e mettere a rischio vite umane. Nel settembre 2022 un evento meteorologico estremo ha colpito la regione Marche: più di 100 mm di pioggia in un’ora hanno generato inondazioni e dissesti che hanno provocato la morte di 13 persone e danni per 2 miliardi di euro.

Con il riscaldamento globale questi eventi rischiano di diventare sempre più frequenti, soprattutto nella regione alpina dove le temperature stanno aumentando più rapidamente rispetto alla media globale. L’aria calda trattiene maggiore umidità (circa il 7% in più per grado) e, in aggiunta, l’attività temporalesca si intensifica con l’aumentare della temperatura. Quantificare il possibile impatto del cambiamento climatico su questi eventi è fondamentale.

Nello studio dal titolo “A 2°C warming can double the frequency of extreme summer downpours in the Alps” pubblicato su «npj Climate and Atmospheric Science» del gruppo Nature, il team di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Università di Losanna ha dimostrato che un aumento medio della temperatura di 2°C potrebbe raddoppiare la frequenza dei temporali estivi di breve durata nella regione alpina: ciò che oggi accade ogni mezzo secolo potrebbe verificarsi in futuro ogni 25 anni.

La ricerca

I ricercatori hanno esaminato i dati di quasi 300 stazioni meteorologiche sulle Alpi europee, distribuite tra Svizzera, Germania, Austria, Francia e Italia. Si sono concentrati sugli eventi di pioggia record (della durata da 10 minuti a un’ora) tra il 1991 e il 2020, nonché sulle temperature associate a queste tempeste.

Sulla base di queste osservazioni è stato sviluppato un modello statistico che incorpora principi fisici per stabilire un legame tra temperatura e frequenza delle piogge, e poi per simulare la futura frequenza delle precipitazioni estreme utilizzando proiezioni climatiche regionali.

Secondo quanto emerso dalla ricerca, i problemi per le aree montane potrebbero intensificarsi anche con un incremento medio di 1°C delle temperature locali.

«Un aumento di 1°C non è ipotetico, è probabile che si verifichi nei prossimi decenni», dice Francesco Marra, ricercatore al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e uno degli autori principali dello studio. «Stiamo già assistendo a una tendenza all’intensificazione dei temporali estivi e ci si aspetta che questa tendenza peggiori ulteriormente negli anni a venire».

Francesco Marra
Francesco Marra

«L’arrivo improvviso e massiccio di grandi volumi d’acqua impedisce al suolo di assorbire l’eccesso», sottolinea Nadav Peleg, ricercatore all’Università di Losanna e primo autore dello studio. «Questo può innescare inondazioni improvvise e colate detritiche, portando danni alle infrastrutture e, in alcuni casi, vittime».

Nadav Peleg
Nadav Peleg

Gli autori concludono ricordando quanto sia cruciale capire come questi eventi possano evolversi con il cambiamento climatico al fine di pianificare appropriate strategie di adattamento, anche in termini di adeguamento delle infrastrutture. L’analisi dell’intensificazione prevista per le precipitazioni estreme di 10 minuti da 1 a 3 gradi di riscaldamento regionale conferma un’intensificazione generale nell’area alpina, con un rafforzamento maggiore alle quote più elevate. Con un aumento di 2°C della temperatura media regionale, le statistiche sulle precipitazioni estreme nelle Alpi subiranno probabilmente cambiamenti significativi, determinando un raddoppio della probabilità di occorrenza dei livelli di pioggia estrema. Solo attraverso una comprensione approfondita di questi fenomeni e un’azione tempestiva possiamo sperare di proteggere le comunità montane e preservare l’ecosistema unico delle Alpi per le generazioni future.

nell'immagine, pioggia sulle Alpi

Riferimenti bibliografici: 

Nadav Peleg, Marika Koukoula e Francesco Marra, A 2°C warming can double the frequency of extreme summer downpours in the Alps, npj Climate and Atmospheric Science (2025), DOI: 10.1038/s41612-025-01081-1

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

AREE PROTETTE SOTTO PRESSIONE: IL CAMBIAMENTO CLIMATICO SPINGE GLI UCCELLI PIÙ IN ALTO, MA LA CONSERVAZIONE NON TIENE IL PASSO

Uno studio condotto dai ricercatori di UniTo nelle Alpi Cozie e Graie rivela che le specie adattate al freddo stanno scomparendo anche dove la natura è tutelata

Le montagne sono hotspot di biodiversità a livello globale, ma sono anche tra gli ambienti più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Nelle Alpi europee, il riscaldamento globale e le trasformazioni del paesaggio stanno rapidamente modificando la vegetazione, con effetti diretti sulle comunità di uccelli, in particolare su quelle di alta quota. Le aree protette rappresentano strumenti fondamentali per salvaguardare queste specie adattate al freddo, ma quanto sono realmente efficaci in un mondo che si riscalda?

A questa domanda hanno cercato di rispondere il dott. Riccardo Alba e il prof. Dan Chamberlain del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino nello studio Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, recentemente pubblicato sulla rivista Biological Conservation. Coprendo un periodo temporale di 13 anni di dati raccolti lungo un ampio gradiente altitudinale nelle Alpi Cozie e Graie, i ricercatori hanno utilizzato il Community Temperature Index (CTI) – un indicatore della tolleranza termica delle comunità – per valutare l’evoluzione delle comunità ornitiche all’interno e all’esterno delle aree protette.

I risultati mostrano un dato sorprendente: mentre al di fuori delle aree protette il CTI è rimasto stabile, all’interno delle stesse è aumentato rapidamente, riflettendo un incremento delle temperature medie annuali di oltre 1,19 °C nel periodo di tempo coperto. Questo indica che qualcosa sta avvenendo all’interno delle aree protette alpine, dove le comunità ornitiche stanno diventando sempre più simili a quelle presenti in zone non tutelate, probabilmente a causa del declino delle specie di alta quota ma anche per la colonizzazione di specie più comuni dalle quote più basse, come ad esempio la capinera e lo scricciolo.

Le variazioni più marcate si osservano in prossimità del limite del bosco, una fascia sensibile dove la vegetazione arbustiva e forestale sta avanzando verso le alte quote a causa dell’abbandono delle attività pastorali e del cambiamento climatico. Gli autori individuano proprio il cambiamento della copertura vegetale come principale motore di trasformazione delle comunità, sottolineando come la semplice esistenza di aree protette dai confini stabili potrebbe non bastare più a garantire la sopravvivenza degli uccelli più specializzati alle quote estreme.

Per contrastare questi effetti, lo studio suggerisce misure gestionali adattive come il pascolo mirato e la conservazione della connettività altitudinale, oltre a un monitoraggio continuo delle comunità ornitiche negli anni a venire. Solo espandendo la protezione formale e integrando azioni concrete sul campo sarà possibile mantenere habitat eterogenei e resilienti, in grado di ospitare anche in futuro le specie simbolo delle Alpi evitando la loro scomparsa.

Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0
Aree protette sotto pressione: il cambiamento climatico spinge gli uccelli più in alto, ma la conservazione non tiene il passo. Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0

Riferimenti bibliografici:

Riccardo Alba, Dan Chamberlain, Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, Biological Conservation Volume 309 2025, 111267, ISSN 0006-3207, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2025.111267

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

IN MARCIA COI LUPI (Marche avec les loups), film documentario per la regia di Jean-Michel Bertrand

Documentario, Francia, 2020 (88’)

AL CINEMA IL 16, 17 E 18 GIUGNO CON WANTED

In marcia coi lupi (Marche avec les loups), film documentario di Jean-Michel Bertrand poster
il poster

«Dopo essere scomparsi per quasi 80 anni e nonostante molti ostacoli, i lupi stanno riconquistando i loro antichi territori.»

Wanted Cinema è lieta di annunciare l’arrivo nei cinema italiani il 16, 17 e 18 giugno 2025 del documentario IN MARCIA COI LUPI (Marche avec les loups), un avventuroso racconto alla scoperta di una delle specie più affascinanti del pianeta. Dopo il successo de La vallée des loups (2017), il registra Jean-Michel Bertrand torna a girare a stretto contatto con i lupi, nel loro habitat naturale, per svelarci ancora una volta i loro più misteriosi segreti.

Con immagini mozzafiato – frutto di tre anni di riprese nel magnifico scenario delle Alpi Francesi fino ai confini della catena del Giura – che tracciano un profilo inedito di un animale sorprendente, IN MARCIA COI LUPI racconta di come, dopo essersi dispersi da quasi ottanta anni e nonostante gli ostacoli, i lupi siano in procinto di ritrovare i loro vecchi territori e indaga il grande mistero della dispersione dei lupi e il fenomeno per cui i giovani lupi lasciano il territorio in cui sono nati e come avventurieri vanno alla conquista di nuovi territori.

Per tre anni Jean-Michel Bertrand ha condotto un’indagine per cercare di capire il funzionamento complesso ed irregolare di questi giovani lupi nomadi e documentare dal vivo come riescano ad attraversare territori ostili già occupati dai loro simili e in cui non sono i benvenuti, o altri, più numerosi, ormai colonizzati dagli umani.

Durante gli anni trascorsi nella valle selvaggia, a contatto con il branco, ho potuto osservare come funzionano i grandi equilibri primordiali a cui sono soggetti gli animali selvatici, in particolare i grandi predatori. È urgente preservare questo mondo selvaggio nelle nostre società sempre più urbanizzate. Questa è una delle mie ossessioni – afferma il regista Jean-Michel Bertrand. Ho notato che il numero di lupi presenti in Francia è rimasto più o meno lo stesso di anno in anno. Questa regolazione è essenziale per la conservazione delle risorse alimentari, cioè delle prede da cui i lupi dipendono. È infatti la quantità di prede disponibili che regola il numero di predatori presenti in un territorio. Il lupo è territoriale, il che significa che il branco formato difende il suo territorio dagli intrusi e non può tollerare troppi individui nel suo territorio. Così i giovani lupi devono partire alla conquista di nuove aree. Sono loro che mi hanno dato l’opportunità di lasciare la valle selvaggia e, al loro seguito, di vivere una nuova avventura. Una nuova sfida, un’indagine complessa e affascinante tra natura selvaggia e civiltà devastante – conclude Bertrand.

IN MARCIA COI LUPI di Jean-Michel Bertrand offre una profonda riflessione sul rapporto dell’uomo contemporaneo con la natura selvaggia e sarà nei cinema il 16, 17 e 18 giugno 2025, distribuito da Wanted.

SINOSSI: IN MARCIA COI LUPI è un road movie che si svolge tra le valli selvagge e le aree urbanizzate delle Alpi Francesi, fino ad arrivare nel cuore della foresta del Giura. Per tre anni il regista Jean-Michel Bertrand ha condotto una vera e propria indagine per osservare il complesso e imprevedibile comportamento dei lupi nomadi. Sulle tracce dei lupi nomadi, IN MARCIA COI LUPI traccia il profilo inedito di un animale sorprendente e indaga il grande mistero della dispersione dei lupi e il fenomeno per cui i giovani lupi lasciano il territorio in cui sono nati e come avventurieri vanno alla conquista di nuovi territori, costretti ad attraversare territori ostili, già occupati da altri lupi che non li accolgono, o spazi ancor più antropizzati dominati dagli esseri umani mettendo a rischio la loro vita. Un viaggio accanto ai giovani lupi in libertà che offre un’immersione primitiva e filosofica nel cuore di una natura magica, sempre più fragile.


NOTE DI REGIA

Lasciare la valle…

Ho trascorso tre anni cercando di avvicinarmi a un branco di lupi selvatici in una valle remota delle Alpi. Questa avventura mi ha portato ben oltre quello che avevo immaginato… L’immersione nella natura e un modo molto rituale di operare nel territorio dove i lupi mi hanno permesso di penetrare. Dopo lunghi mesi di domande e dubbi, di preparazione e pazienza, sono riurscito ad essere tollerato dal branco. Ho potuto finalmente incontrare gli occhi del mitico predatore e persino vedere i cuccioli crescere. Ma alla fine di questo magnifico viaggio, è sorta la domanda sui limiti di questa intimità… Il lupo non ha solo ammiratori. Io sono un essere umano e l’animale braccato sa che non deve mai abbassare la guardia. Così, alla fine di questi tre anni straordinari, ho deciso di lasciare il territorio e di lasciarli stare…

Oggi, anche se penso di aver preso una decisione sensata, faccio molta fatica ad abbandonare questa ricerca di comprensione e di meraviglia, perché mi pongo ancora e mi vengono poste tante domande. I lupi mi hanno fatto crescere e ora mi rendo conto che l’incredibile avventura che ho potuto vivere al loro fianco non è affatto un culmine o una fine, ma al contrario, un inizio… L’inizio di un percorso, di un interrogarsi, di una ricerca naturalistica e filosofica che mi porterà ancora più vicino ai misteri del mondo selvaggio.

Quindi sì, devo lasciare la valle, ma ora so che mi aspetta un nuovo viaggio. Un viaggio che mi darà molte risposte a quelle domande. Questa opportunità mi è stata data dai lupi stessi.

I complessi meccanismi che regolano la vita sociale dei lupi e l’organizzazione del branco hanno suscitato la mia curiosità e mi hanno portato a ripartire al loro fianco, senza sapere dove e per quanto tempo. Una nuova immersione, una nuova ossessione e un nuovo respiro di libertà…

Oggi sono un po’ più preparato. Durante gli anni trascorsi nella valle selvaggia, a contatto con il branco, ho potuto osservare con i miei occhi come funzionano i grandi equilibri primordiali a cui sono soggetti gli animali selvatici, in particolare i grandi predatori. È urgente preservare questo mondo selvaggio nelle nostre società sempre più urbanizzate. Questa è una delle mie ossessioni.

So che il numero di lupi presenti in Francia è rimasto più o meno lo stesso di anno in anno. Questa regolazione è essenziale per la conservazione delle risorse alimentari, cioè delle prede da cui i lupi dipendono. È infatti la quantità di prede disponibili che regola il numero di predatori presenti in un territorio.

Il lupo è territoriale, il che significa che il branco formato difende il suo territorio dagli intrusi e non può tollerare troppi individui estranei. I giovani lupi dovranno partire alla conquista di nuove aree. Questi giovani lupi erranti sono conosciuti come lupi dispersi… Sono loro che mi daranno l’opportunità di lasciare la valle selvaggia e, al loro seguito, di vivere una nuova avventura. Una nuova sfida, un’indagine complessa e affascinante tra natura selvaggia e civiltà devastante.

Jean-Michel Bertrand

 

Testi, video e immagini dall’Ufficio Stampa Echo Group. Aggiornato il 5 giugno 2025.

L’oro verde delle Alpi: il progetto NETTLE (ri)scopre le piante alpine e i loro benefici

Il progetto transfrontaliero NETTLE, coordinato dalla Libera Università di Bolzano, mira a valorizzare le piante alpine caratterizzando le proprietà funzionali dei loro estratti. Un futuro promettente con applicazioni in campo farmaceutico ed alimentare.

progetto NETTLE alcune delle piante analizzate
alcune delle piante analizzate

Le piante officinali sono note ed utilizzate sin dall’antichità per le loro proprietà aromatiche e curative. La saggezza del detto di Ippocrate “Fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo” rappresenta bene il rinato interesse verso le piante medicinali che è alla base di un sempre maggiore numero di studi che si occupano delle loro funzioni curative. A questa filosofia si è ispirato anche il progetto NETTLE, finanziato dal programma europeo Interreg Italia-Austria, che mira a scoprire e far riscoprire il valore delle piante alpine ai cittadini, alle imprese e agli istituti di ricerca.

NETTLE nasce da una collaborazione tra la Libera Università di Bolzano, l’Università di Udine e l’Università di Salisburgo. I tre atenei collaborano, condividendo competenze ed esperienze già a partire dal campo dove vengono raccolte le piante di interesse. La meta è rappresentata dalla creazione di un database accessibile al pubblico che permetta a tutte le persone o istituzioni pubbliche e private interessate di conoscere le proprietà delle piante alpine. Un esempio è l’achillea millefoglie, una tra le specie più presenti nei prati delle nostre montagne che però non è molto conosciuta. Questa pianta presenta una lunghissima lista di proprietà medicinali: nelle valli è infatti usata non solo come calmante e antidepressivo, ma anche per disintossicare il corpo, per alleviare i dolori e come condimento nelle pietanze. Più conosciuta è invece l’ortica, ricca di ferro e potente diuretico, utilizzata per rafforzare il sistema immunitario, ma ottima soprattutto in piatti tipici dell’Alto Adige e dell’Austria come canederli e spätzle.

“L’intento del progetto NETTLE è quello di trasferire al tessuto produttivo, alla cittadinanza e agli enti di ricerca della regioni coinvolte le competenze necessarie per immettere sul mercato ed utilizzare gli estratti naturali ottenuti dalle piante alpine”,

afferma Giovanna Ferrentino, professoressa di Scienze e tecnologie alimentari alla Facoltà di Scienze agrarie, ambientali e alimentari di unibz e responsabile del progetto.

Giovanna Ferrentino
Giovanna Ferrentino

Le fasi del progetto

NETTLE, iniziato a febbraio di quest’anno, si divide in più fasi. I ricercatori e le ricercatrici delle Università di Bolzano e di Salisburgo si occuperanno della raccolta di oltre 30 piante alpine della regione transfrontaliera coordinati dal prof. Stefan Zerbe, botanico della Facoltà di Scienze agrarie, ambientali e alimentari di unibz. La raccolta in Alto Adige si svolgerà sui prati del maso “Il Castellino delle Erbe” a Coldrano, che da anni si impegna nella coltivazione biologica di erbe officinali ed aromatiche. Una volta ottenute ed essiccate le piante, si procederà all’estrazione dei composti di interesse. In questa fase i ricercatori confronteranno l’efficacia delle tecniche tradizionali, quali l’estrazione con solventi organici, con quella di metodi più innovativi e sostenibili dal punto di vista ambientale, come l’uso di anidride carbonica supercritica, ultrasuoni e campi elettrici pulsati. Gli estratti ottenuti verranno poi testati su linee cellulari umane per valutare le loro proprietà antiossidanti, antimicrobiche, antiinfiammatorie e cicatrizzanti. Oltre alle proprietà farmaceutiche, verrà valutata anche l’attività antiossidante degli estratti negli alimenti.

“Questi estratti potrebbero fungere da conservanti naturali in quanto il loro utilizzo in oli vegetali, come ad esempio quelli di girasole e lino, o la loro applicazione in grassi di origine animale quali lo speck potrebbe favorire un rallentamento della loro ossidazione, evitandone quindi l’irrancidimento”, conclude Ferrentino.

Il progetto NETTLE rappresenta quindi un’importante punto di incontro tra la crescita delle aziende locali e la conservazione della biodiversità dell’area transalpina e sottolinea l’importante ruolo della natura nell’economia e nella società.

Il Castellino delle Erbe
Il Castellino delle Erbe

Testo e foto dall’Ufficio Stampa e organizzazione eventi Libera Università di Bolzano

Pericolosamente vicini, un documentario di Andreas Pichler

AL CINEMA CON WANTED IL 26, 27 E 28 AGOSTO 2024

Pericolosamente vicini, un documentario di Andreas Pichler
il poster del documentario

LE SALE: https://www.wantedcinema.eu/it/article/pericolosamente-vicini

Wanted Cinema è lieta di presentare Pericolosamente vicini, in arrivo nelle sale italiane come uscita evento il 26, 27 e 28 agosto 2024. Diretto da Andreas Pichler (The Milk SystemTeorema Venezia), Pericolosamente vicini è un documentario che tratta il rapporto tra l’uomo e la popolazione di orsi che vive in Trentino e nelle Alpi.

La notizia della morte di Andrea Papi, il runner ucciso dall’orsa JJ4 nei boschi del Trentino nella primavera del 2023, è immediatamente circolata non solo in Italia, ma in tutti i paesi dell’arco alpino e oltre. L’episodio ha scatenato un certo clamore mediatico, tornando a mettere tragicamente in luce il complesso rapporto degli abitanti delle zone alpine con gli orsi. Reintrodotti in Trentino nel 1999 grazie al progetto Life Ursus, gli esemplari ora presenti sul territorio sono un centinaio; alcuni di essi, definiti “problematici”, sono inclini anche a contatti ravvicinati con i centri abitati e le persone, arrivando a danneggiare greggi e mandrie e, in alcuni casi, ad attaccare gli uomini.

Pericolosamente vicini parte proprio dalla tragica scomparsa di Andrea Papi per ricostruire ciò che i trentini pensano della presenza degli orsi nei boschi: la rabbia per una tragedia che poteva essere evitata si mescola alla paura e alla diffidenza. Non tutti, però, la pensano allo stesso modo: le associazioni animaliste si battono da anni per una convivenza pacifica tra l’animale e l’uomo, mentre si sta facendo sempre più strada la convinzione che sia necessaria una maggiore informazione sul comportamento da tenere in caso di incontro con gli orsi.

Il problema della convivenza dell’essere umano con gli orsi assume così anche rilevanza politica, diventando di interesse nazionale ed europeo, e si amplia toccando il tema universale del rapporto tra la natura e l’uomo.

Pericolosamente vicini arriva nelle sale italiane il 26, 27 e 28 agosto 2024 come uscita evento con Wanted Cinema.

SINOSSI: In nessun altro luogo al mondo orsi e uomini vivono così vicini come in Trentino. Ma con l’aumento degli orsi, aumentano anche gli incontri pericolosi tra umani e animali. Un team di 20 persone, tra forestali e veterinari, è incaricato di proteggere sia gli esseri umani che gli orsi, un compito cruciale e delicato.

Durante la Pasqua del 2023 il corpo senza vita del ventiseienne Andrea Papi viene ritrovato nella foresta. Subito si fa strada un triste sospetto: Papi è stato ucciso dall’orso JJ4. È la prima morte causata da un animale selvatico in Europa Centrale nella storia recente. Mentre i forestali cercano di catturare l’orso “problematico” JJ4, il conflitto tra attivisti per i diritti degli animali e oppositori degli orsi esplode. Questo evento drammatico solleva domande cruciali: JJ4 dovrebbe essere abbattuto? Come gestire il ritorno dei grandi predatori nelle nostre foreste? Quando un orso diventa un animale problematico”? E, infine, a chi appartengono realmente la foresta e la natura?

NOTE DI REGIA

Vivo vicino al Trentino e passo spesso del tempo in montagna. Mi sono occupato degli orsi e della loro situazione prima della morte di Andrea Papi, ed ero già in contatto con molti dei protagonisti quando è avvenuta.

Data la natura emotiva e conflittuale di questo tema, è stato fondamentale per me ascoltare le diverse prospettive delle varie persone e gruppi coinvolti, navigando tra i punti di vista contrastanti con una mente aperta. Il film presenta persone che sono al centro della storia, il che è stato molto importante per me. L’obiettivo del film è trasmettere le intense emozioni di coloro che sono coinvolti e creare uno spazio cinematografico che provochi una riflessione. L’obiettivo è far capire che le risposte non sono semplici e che trovare una soluzione al rapporto tra uomini e orsi in Europa centrale è complesso.

Per me, il fulcro del film era e continua a essere i ranger, profondamente coinvolti nella re-introduzione degli orsi sul territorio e con nobili obiettivi. Lavorano con grande professionalità e ora si trovano tragicamente in mezzo a tutte le fazioni. Sono gli eroi non celebrati di questa storia, una storia che alla fine non ha eroi.

Testo, video e immagini dagli Uffici Stampa del Film, Echo Group, e Wanted Cinema. Aggiornato il 19 luglio e il 23 agosto 2024.

MARMOLADA. MADRE ROCCIA, in anteprima assoluta in concorso al 72° Trento Film Festival

Uno straordinario documentario Sky Original racconta l’apertura di una nuova via sulla parete sud della Marmolada, mostrando gli effetti dirompenti del cambiamento climatico e dell’emergenza climatica

 

Il 16 settembre in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW

Milano, 8 aprile 2024. Sarà presentato martedì 30 aprile 2024 in anteprima assoluta in Concorso Internazionale alla 72° edizione del Trento Film Festival, MARMOLADA. MADRE ROCCIA, suggestivo documentario Sky Original, realizzato da Coldfocus di Matteo Maggi e Cristiana Pecci.

12 settembre 2024. Arriva il suggestivo documentario Sky Original in esclusiva il 16 settembre alle 21.15 su Sky Nature e in streaming solo su NOW.

Sulle maestose vette delle Dolomiti, più precisamente sulla parete sud della Marmolada, la leggendaria Regina delle Dolomiti, inizia uno straordinario viaggio alpinistico. Con spettacolari riprese all’avanguardia tecnologica, tre audaci scalatori, coadiuvati da una giovane aspirante alpinista, si preparano a intraprendere un’impresa epica: aprire una nuova via sulla parete sud.

Alla guida della cordata c’è Matteo della Bordella, alpinista professionista noto per il suo spirito d’avventura e la sua passione per l’esplorazione. Con il suo coraggio e la sua determinazione, Matteo è un vero pioniere in cerca di nuovi traguardi. Secondo di cordata Maurizio Giordani, alpinista locale e grande conoscitore di ogni centimetro della Marmolada. In 40 anni di carriera alpinistica ha aperto oltre 50 delle 198 vie presenti sulla parete sud. Maurizio è una fonte inesauribile di conoscenze sulle sfide che questo maestoso massiccio montuoso può offrire. Chiude la cordata Massimo Faletti, guida alpina trentina che ha deciso di mettere la sua abilità al servizio di progetti sociali. Massimo è un uomo che si preoccupa profondamente dell’ambiente naturale che lo circonda e si dedica a sensibilizzare le persone sulle conseguenze del cambiamento climatico. Insieme a loro Iris Bielli, aspirante climber, che li seguirà in questa incredibile impresa sulla Marmolada.

Nel documentario trova spazio anche il racconto della famiglia Del Bon che gestisce da oltre 60 anni il Rifugio Falier, un’importante struttura alpina situata a 2074 metri di altitudine nella splendida valle di Ombretta, ai piedi della famosa “Parete d’argento” nella parte sud della Marmolada. Il rifugio è di proprietà del Club Alpino Italiano (CAI) – sezione di Venezia – e oltre a essere una meta popolare per piacevoli e tranquille escursioni, il rifugio è anche una base di partenza per alpinisti esperti che desiderano affrontare una delle oltre 200 vie presenti sulla parete sud che, nel corso degli anni, ha attirato i migliori arrampicatori del mondo, offrendo sfide emozionanti e stimolanti. In questo luogo speciale, Franca e Dante Dal Bon, ricevono generazioni di escursionisti e intrepidi scalatori dispensando preziosi consigli. Memoria storica e testimonianza diretta di chi veramente la montagna la vive ogni anno.

Questa montagna iconica ha recentemente catturato l’attenzione a seguito della tragedia del 3 luglio 2022, quando un grosso seracco si è staccato dal versante nord causando la morte di 11 persone. L’incidente ha suscitato un ulteriore dibattito sulle conseguenze del cambiamento climatico e sulla sicurezza degli scalatori in montagna. I ghiacciai sono da tempo monitorati da esperti come Alessandro Fellin, ingegnere ambientale che collabora, da anni, con la commissione glaciologica della sezione trentina del Club Alpino Italiano.

Attraverso l’obiettivo della telecamera, saranno testimoniate le sfide e i pericoli che gli alpinisti affrontano mentre cercano di superare i loro limiti. Insieme a loro, saranno mostrati i segreti nascosti di questa montagna imponente e imparando a rispettarla, sarà possibile comprendere la sua importanza nell’ecosistema.

MARMOLADA. MADRE ROCCIA è una produzione Sky realizzata da Coldfocus. Il documentario Sky Original sarà in autunno in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Sky. Aggiornato il 12 settembre 2024

Un fiore mai visto prima è sbocciato in montagna: scoperta una nuova specie di Campanula nelle Prealpi bergamasche, la Campanula bergomensis

Un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano, dell’Università di Siena e del gruppo Flora Alpina Bergamasca (FAB) ha scoperto una nuova specie di pianta, che cresce in un territorio ristretto delle Prealpi lombarde. La specie appartiene al genere Campanula ed è stata denominata Campanula bergomensis, ovvero di Bergamo, dal nome della provincia di cui è esclusiva. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Phytotaxa.

Campanula bergomensis

Milano, 28 febbraio 2024 – Una nuova campanula, mai scoperta prima, è stata identificata nelle Prealpi Bergamasche da un gruppo di ricerca coordinato dall’Università degli Studi di Milano, assieme all’Università di Siena e al gruppo Flora Alpina Bergamasca – FAB.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista internazionale Phytotaxa.

Si tratta di Campanula bergomensis, la cui caratteristica è che cresce in ambienti molto particolari: su conoidi detritici carbonatici di bassa quota e si trova solo in poche valli nei pressi della città di Clusone (BG).

Gli studiosi hanno trovato delle affinità con Campanula cespitosa, che fiorisce sulle Alpi orientali in Italia, Austria e Slovenia. Ma attraverso analisi genetiche, morfologiche e palinologiche, hanno visto che le due specie sono in realtà ben distinte e che Campanula bergomensis rappresenta un’entità autonoma rispetto alle campanule conosciute. Alcuni esemplari della nuova specie sono stati cresciuti da seme e ora sono in coltivazione all’Orto Botanico Città Studi della Statale di Milano.

Secondo i ricercatori, la distribuzione ristretta della nuova specie, che solo in minima parte ricade all’interno di aree protette, rende necessarie appropriate iniziative di tutela.

“La specie”, spiega Barbara Valle, ricercatrice dell’Università di Siena e prima firmataria dell’articolo “ha un areale limitato ed è gravemente minacciata dalle attività umane. È quindi urgente adottare delle misure di protezione e conservazione”.

Questa scoperta dimostra come la biodiversità italiana riservi ancora molte sorprese e che le conoscenze sulla nostra flora e fauna siano tutt’altro che complete, oltre a confermare la straordinaria ricchezza floristica delle zone prealpine. Per affrontare la perdita di biodiversità attualmente in corso è necessario innanzitutto conoscerla a fondo, indagando anche territori apparentemente ben conosciuti” conclude Marco Caccianiga, docente di Botanica del Dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale di Milano e coordinatore della ricerca.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

MARMOLADA: UN GHIACCIAIO DIMEZZATO NEGLI ULTIMI 25 ANNI

Confermata la situazione drammatica rilevata dall’ultima campagna glaciologica partecipata organizzata dal Museo di Geografia dell’Università di Padova in collaborazione con il comitato glaciologico italiano e ARPAV

La superficie e il volume del Ghiacciaio della Marmolada continuano a ridursi a ritmo accelerato. Lo confermano le misurazioni annuali condotte da geografi e glaciologi dell’Università di Padova, che tratteggiano di anno in anno un quadro sempre più fosco sullo stato di salute del più importante ghiacciaio delle Dolomiti.

Grazie alla Campagna glaciologica partecipata organizzata dal Museo di Geografia dell’Università di Padova in collaborazione con il Comitato Glaciologico Italiano e ARPAV anche quest’anno una ventina di escursionisti esperti provenienti dal Veneto, l’Emilia-Romagna e la Lombardia hanno potuto seguire da vicino le misurazioni.

«Il ghiacciaio è in una situazione drammatica oltre all’assottigliamento generalizzato delle fronti abbiamo registrato ritiri importanti, che nel punto di maggior regressione sfiorano i 90 metri su base annua, con una media di arretramento negli otto segnali frontali di circa 20 metri in un anno – afferma Mauro Varotto, responsabile delle misurazioni frontali del Ghiacciaio –. Questo trend di fusione porterà presto la superficie totale del Ghiacciaio principale, calcolata in 112 ettari dal collega Francesco Ferrarese nel 2022, a scendere, nei prossimi anni, al di sotto del chilometro quadrato: una soglia statisticamente importante, la metà della superficie presente nel 2000 e meno di un quarto rispetto al 1900».

«Quest’estate – aggiunge Mauro Valt, tecnico ricercatore ARPAV – i ghiacciai lungo tutto l’arco alpino sono in forte fusione a causa del combinato disposto di deboli nevicate negli ultimi due periodi invernali e delle alte temperature estive. Nella seconda decade di agosto, in particolare, si è registrata in area dolomitica la temperatura media più alta dal 1990, coincidente con una dozzina di giorni in cui le temperature hanno superato il novantesimo percentile: la serie più lunga degli ultimi trentacinque anni».

«Dalle nostre elaborazioni dei dati forniti da ARPAV si evidenzia un innalzamento di 220 metri della quota sciabile per ogni grado di aumento della temperatura in quota – commenta Alberto Lanzavecchia, docente di Finanza Aziendale all’Università di Padova – e si disegna un quadro di insostenibilità dell’industria dello sci, già resa evidente dai bilanci di gestione degli impianti di risalita e dalle necessarie sovvenzioni pubbliche per gli investimenti in impianti a fune e bacini di accumulo dell’acqua. Ciò nonostante, in questi giorni si discute sull’opportunità di investire ulteriori risorse per praticare lo snow farming invece di iniziare ad investire su un’economia diversa e più sostenibile».

«Il valore aggiunto di questa iniziativa giunta ormai alla V edizione è quello di avvicinare la cittadinanza alle pratiche di ricerca attraverso un’esperienza culturale a tutto tondo, in cui grazie alla guida di docenti ed esperti è possibile osservare, comprendere e problematizzare situazioni e processi complessi, attraverso un approccio multidisciplinare capace di far entrare in relazione profonda con il territorio. Il coinvolgimento diretto – conclude Giovanni Donadelli, curatore del Museo di Geografia Unipd – rappresenta una strategia vincente, capace di appassionare ed emozionare i partecipanti ed efficace nel promuovere conoscenza e consapevolezza dei cambiamenti climatici in atto nel contesto alpino».

Testo, video e foto dagli Uffici Stampa dell’Università di Padova e ARPAV.

Rilevato gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nel mezzo interstellare della galassia che ospita il quasar Pōniuā‘ena

Osservato per la prima volta gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nella galassia che ospita un buco nero supermassiccio in un’epoca remota della storia del cosmo, quando l’Universo aveva solo settecento milioni di anni. La scoperta, realizzata da un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è stata possibile grazie all’osservatorio NOEMA sulle Alpi francesi.

Le 12 antenne dell’osservatorio NOEMA, sulle Alpi francesi.
Crediti: IRAM, J.Boissier

Come si influenzano a vicenda la crescita di un buco nero supermassiccio e quella della galassia che lo ospita? Che impatto hanno questi buchi neri sulle primissime fasi evolutive delle galassie? Un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) si è posto questi quesiti, tra i più spinosi dell’astrofisica contemporanea, e per affrontarli ha osservato uno dei tre quasar luminosi più distanti noti, la cui luce è partita circa tredici miliardi di anni fa, quando l’universo aveva un’età di appena settecento milioni di anni.

Illustrazione del quasar Pōniuāʻena.
Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/P. Marenfeld

I quasar sono nuclei estremamente brillanti di galassie attive, la cui enorme luminosità deriva dall’intensa attività del buco nero supermassiccio nascosto nel cuore della galassia. Il quasar scelto dal team si chiama Pōniuā‘ena, che in lingua hawaiana “evoca l’invisibile fonte rotante della creazione, circondata da brillantezza”, ed è alimentato da un buco nero la cui massa è pari a un miliardo e mezzo di volte quella del Sole. La galassia che lo ospita si trova nel mezzo dell’epoca della reionizzazione, quel periodo della storia cosmica, verificatosi alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, durante il quale l’Universo è diventato trasparente alla radiazione emessa da stelle e galassie, così che la loro luce può raggiungerci oggi. Quasar come questo si sono formati molto presto nella sequenza temporale del cosmo, trovandosi in ambienti estremi caratterizzati dall’accumulo di enormi quantità di gas e polvere, ma le ragioni di una comparsa così rapida sono ancora uno dei misteri più grandi nell’astrofisica extragalattica.

gas molecolare freddo quasar Pōniuā‘ena
Mappa dell’emissione di gas molecolare (monossido di carbonio) da parte del quasar Poniua‘ena, realizzata dall’osservatorio NOEMA.
Crediti: IRAM/NOEMA/C. Feruglio (INAF)

Osservando il quasar Pōniuā‘ena con il Northern Extended Millimeter Array (NOEMA), il più potente radiotelescopio del suo genere nell’emisfero nord, il team ha rilevato gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nel mezzo interstellare della galassia che ospita il quasar. Si tratta di un rilevamento da record: non era mai stato osservato gas molecolare freddo a epoche così antiche nella storia dell’Universo. I risultati sono stati pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.

gas molecolare freddo quasar Pōniuā‘ena
Mappa dell’emissione di gas molecolare (monossido di carbonio) da parte del quasar Poniua‘ena, realizzata dall’osservatorio NOEMA.
Crediti: IRAM/NOEMA/C. Feruglio (INAF)

Si ritiene che il gas molecolare freddo sia uno degli ingredienti chiave per una efficiente formazione stellare. Per questo, gli astronomi ritengono che il gas molecolare fosse presente già nell’Universo primordiale, anche prima che le stelle si formassero in grandi quantità. Di conseguenza, la scoperta del monossido di carbonio nel quasar Pōniuā’ena rappresenta una nuova pietra miliare per comprendere la formazione delle primissime molecole nell’Universo.

“È la prima volta che misuriamo la riserva di gas molecolare freddo e polvere nell’Universo primordiale, appena qualche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang”, spiega Chiara Feruglio, ricercatrice INAF a Trieste e prima autrice dello studio. “Troviamo che le galassie ospiti di quasar nell’Universo antico hanno già la capacità di accumulare una massa di gas e polvere molto elevata: circa venti miliardi di masse solari, comparabile con quanto osservato in epoche cosmiche successive. È interessante notare che, nonostante il breve tempo cosmico intercorso dal Big Bang all’epoca in cui osserviamo il quasar Pōniuā‘ena, le quantità relative di gas freddo e polvere fredda è già molto simile al valore misurato nella nostra galassia, la Via Lattea, e altre galassie che popolano l’Universo odierno”.

“Sappiamo che questo quasar ospita un buco nero molto massiccio, che deve essersi formato o da una marcata concentrazione primordiale di massa oppure tramite accrescimento di gas a un tasso molto elevato su concentrazioni di massa più piccole” nota la co-autrice Francesca Civano, Chief Scientist presso il Physics of the Cosmos Program Office del NASA Goddard Space Flight Center a Greenland nel Maryland, Stati Uniti. “Le osservazioni erano state programmate per studiare solamente la componente della polvere, non ci aspettavamo di rilevare anche una grande riserva di gas freddo, anche perché, per gli altri due quasar noti a distanze così elevate, il gas freddo non è stato ancora individuato. Invece con sorpresa abbiamo trovato due righe molto forti, che indicano una massiccia riserva di gas freddo e denso”.

“Solo la notevole sensibilità recentemente raggiunta da NOEMA, unita alla sua ampia larghezza di banda di frequenza, ha consentito la scoperta del monossido di carbonio a Pōniuā’ena” aggiunge Jan Martin Winters, astronomo dell’Institut de radioastronomie millimétrique (IRAM) in Francia e co-autore dello studio. “La potenza recentemente acquisita da NOEMA mantiene ora la promessa di rilevare il gas molecolare freddo in molte più sorgenti che ospitano quasar in queste epoche cosmiche primordiali. Tali rilevazioni permetterebbero di far luce anche sulla produzione di elementi pesanti nelle primissime fasi dell’Universo”.

L’idrogeno molecolare è di fondamentale importanza in quanto è il costituente base da cui nascono le stelle, e spesso viene invocato come il “serbatoio” della formazione stellare. Sfortunatamente, l’idrogeno molecolare non può essere osservato di per sé, ma si può utilizzare una relazione empirica tra la massa del monossido di carbonio e la massa dell’idrogeno molecolare per ricavare la quantità di idrogeno molecolare dalla quantità misurata di monossido di carbonio. L’osservazione del monossido di carbonio nel quasar Pōniuā’ena ha quindi permesso al team di ottenere una prima stima della densità cosmica di idrogeno molecolare. La stima di questo parametro fornisce importanti informazioni sulla chimica primordiale, svelando nuovi dettagli su come si sono formate le prime e più semplici molecole dell’Universo. Queste stime erano finora limitate a epoche cosmiche molto successive, a partire da circa un miliardo di anni dopo il Big Bang. “La densità cosmica di idrogeno molecolare stimata grazie alle osservazioni del quasar Pōniuā‘ena concorda con quanto predetto dai più recenti modelli di formazione ed evoluzione di gas freddo nelle prime fasi dell’Universo e dalle simulazioni cosmologiche”, ricorda il ricercatore INAF Umberto Maio, co-autore dello studio. Questo risultato indica che i modelli teorici sono sulla buona strada per spiegare le proprietà fondamentali dell’Universo primordiale.

Conclude Luca Zappacosta dell’INAF, co-autore della ricerca e a capo della collaborazione scientifica HYPERION: “Pōniuā‘ena fa parte di HYPERION, un campione dei quasar primordiali luminosi, specificamente selezionati per le ‘abitudini alimentari’ estreme dei loro buchi neri massicci. Studiando i quasar di HYPERION miriamo a comprendere la natura della comparsa così precoce di questi oggetti sorprendenti e a caratterizzare l’evoluzione simultanea di un buco nero e della sua galassia ospite. In questo contesto, questo rilevamento da record è cruciale in quanto pone le basi per scoprire il ruolo del gas molecolare freddo accumulato nei primi quasar in formazione e le avide abitudini alimentari dei buchi neri”.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo HYPERION: First constraints on dense molecular gas at z=7.5149 from the quasar Pōniuā‘ena, di Chiara Feruglio, Umberto Maio, Roberta Tripodi, Jan Martin Winters, Luca Zappacosta, Manuela Bischetti, Francesca Civano, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Fabrizio Fiore, Simona Gallerani, Michele Ginolfi, Roberto Maiolino, Enrico Piconcelli, Rosa Valiante, Maria Vittoria Zanchettin, è stato pubblicato online sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)