Un nuovo oceano nascerà: due studi internazionali riscrivono l’evoluzione geologica dell’Africa orientale
L’Università di Pisa protagonista di una doppia scoperta: nel triangolo dell’Afar (Etiopia), la rottura del continente e la risalita del mantello mostrano come il magma risalga ad impulsi ritmici cadenzati dalla separazione delle placche terrestri
Nella regione dell’Afar, in Africa orientale, tre grandi placche tettoniche si stanno separando e, in prospettiva geologica, nascerà un nuovo oceano. Due ricerche appena pubblicate su riviste del gruppo Nature riscrivono sotto una nuova luce questo fenomeno. In entrambe le ricerche l’Università di Pisa ha svolto un ruolo chiave, con i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra coinvolti nell’analisi dei dati, nella campagna di campionamento e nella conservazione del materiale geologico di riferimento.
“Questi due studi ci permettono di osservare con chiarezza un processo geologico di portata enorme: la formazione di un nuovo oceano, anche se naturalmente si parla di tempi geologici molto lunghi, dell’ordine di decine di milioni di anni – spiega la professoressa Carolina Pagli del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa – I nostri dati mostrano che la risalita di materiale caldo dal mantello è profondamente connessa ai movimenti delle placche che causano l’apertura della crosta terrestre. Questo movimento non solo fa ‘strappare’ la crosta, ma condiziona anche la risalita dei magmi. È un cambio di prospettiva importante, che migliora la nostra comprensione dei grandi processi geologici e dei processi sismici e vulcanici nelle aree soggette al fenomeno.”
Il primo studio, coordinato da un team dell’Università di Pisa e pubblicato su Communications Earth & Environment, ha ricostruito l’evoluzione del rift— ovvero la frattura nella crosta terrestre — dell’Afar negli ultimi 2–2,5 milioni di anni. Attraverso la datazione di sedici colate laviche, i ricercatori hanno dimostrato che la zona attiva del rift si è andata restringendo e spostando in modo asimmetrico, avvicinandosi sempre più a una configurazione simile a quella dei fondali oceanici.
Il secondo studio, guidato dall’Università di Southampton con la partecipazione dell’Università di Pisa, e pubblicato su Nature Geoscience, fa un’analisi di oltre 130 campioni lavici. Attraverso sofisticati modelli statistici, è emerso che il mantello sotto l’Afar si muove e si distribuisce in modo diverso nei tre rami del rift (Mar Rosso, Golfo di Aden, Rift Etiopico) in funzione della velocità di estensione e dello spessore della crosta sovrastante. In altre parole, è la tettonica a plasmare il comportamento del mantello, e non il contrario.
Il primo studio, pubblicato su Communications Earth & Environment, è stato condotto da un team italo-britannico con la partecipazione di Anna Gioncada e Carolina Pagli del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e di Gianmaria Tortelli dell’Università di Pisa e di Firenze. Carolina Pagli ha inoltre partecipato alla ricerca pubblicata su Nature Geoscience e guidata da Emma J. Watts dell’Università di Southampton.
il gruppo di ricerca UniPi che ha partecipato ai due studi internazionali
Testo e foto dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa
Un pipistrello africano tra i vicoli di Lampedusa: scoperta nuova specie per l’Europa, il miniottero del Maghreb
In un articolo pubblicato sulla rivista “Mammalian Biology”, un team di ricerca del CNR e NBFC ha documentato, per la prima volta in Europa, la presenza del “miniottero del Maghreb”, una specie di pipistrello finora considerata esclusiva del Nord Africa
Costa dell’isola di Lampedusa caratterizzata da bunker. Crediti per la foto: Fabrizio Gili
Un team di ricerca che ha riunito due Istituti del Consiglio nazionale delle ricerche – l’Istituto per la ricerca sulle acque di Verbania (CNR-IRSA) e l’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri di Firenze (CNR-IRET) – e il Centro Nazionale per la Biodiversità (NBFC) ha documentato, per la prima volta in Europa, la presenza del miniottero del Maghreb (Miniopterus maghrebensis), una specie di pipistrello finora considerata esclusiva del Nord Africa.
La scoperta è descritta in un articolo pubblicato sulla rivista Mammalian Biology: lo studio è stato condotto sull’isola di Lampedusa, situata nello Stretto di Sicilia tra Europa e Africa, avamposto strategico per lo studio delle dinamiche biogeografiche. Proprio qui, il team ha condotto un’indagine approfondita sulla chirotterofauna locale (pipistrelli), combinando tecniche non invasive come il monitoraggio acustico automatico, l’ispezione di potenziali rifugi sotterranei e l’analisi genetica da campioni di guano. L’obiettivo era quello di chiarire la composizione faunistica di un’area finora poco studiata, ma potenzialmente di grande valore conservazionistico.
“Le piccole isole, per loro natura, ospitano ecosistemi delicatissimi e vulnerabili a perturbazioni ambientali e climatiche anche minime. Inoltre, la crescente scarsità di risorse idriche legata ai cambiamenti climatici può rappresentare un fattore critico per la sopravvivenza dei chirotteri, che necessitano della presenza di fonti d’acqua per l’idratazione e la termoregolazione”, spiega Fabrizio Gili, ricercatore del CNR-IRSA che ha fatto parte del team di ricerca. “Per quanto attiene in particolare ai chirotteri, storicamente Lampedusa aveva restituito segnalazioni frammentarie di diverse specie, suggerendo una comunità potenzialmente ricca ma mai studiata in modo sistematico e approfondito. Tuttavia, l’aumento della pressione antropica, il turismo e i cambiamenti climatici in atto sollevavano dubbi sulla persistenza attuale di molte di queste specie, alcune delle quali oggi riconosciute come parte di complessi criptici o soggette a drastici declini su scala regionale”.
Nell’ottobre 2024, i ricercatori hanno esplorato l’isola, ispezionando cavità naturali e artificiali, tra cui molti bunker della Seconda guerra mondiale, spesso utilizzati dai pipistrelli come rifugi. L’indagine si è concentrata non solo sulla ricerca di animali, ma anche di tracce indirette della loro presenza, come guano e resti alimentari. E proprio da queste tracce è emersa la scoperta più significativa dello studio.
Bunker di Lampedusa. Crediti per la foto: Fabrizio Gili
Le analisi genetiche, condotte nei laboratori del CNR-IRET di Firenze su escrementi raccolti presso il vecchio cimitero dell’isola, hanno confermato, per la prima volta in Europa, la presenza del miniottero del Maghreb (Miniopterus maghrebensis), specie finora nota solo in Marocco, Algeria e Tunisia. Un risultato che amplia i confini geografici della specie e presenta importanti implicazioni di conservazione.
“Non si tratta solamente di aggiungere un nome ad un elenco”, precisa il ricercatore. “L’inclusione del miniottero del Maghreb tra le specie presenti in territorio europeo implica, infatti, l’estensione automatica delle misure di tutela previste, come quelle sancite dal Bat Agreement, trattato internazionale nato sotto la Convenzione di Bonn per promuovere la conservazione dei chirotteri e dei loro habitat. Il riconoscimento ufficiale del miniottero del Maghreb tra le specie europee porterebbe a 56 il numero di specie incluse nell’Accordo”.
Il miniottero del Maghreb (Miniopterus maghrebensis). Crediti per la foto: Jaro Schacht
Oltre al miniottero del Maghreb, lo studio ha documentato almeno altre sette specie sull’isola. Tra queste figurano l’orecchione di Gaisler (Plecotus gaisleri), finora noto in Europa solo per Malta e Pantelleria, e il ferro di cavallo di Mehely (Rhinolophus mehelyi), specie a distribuzione discontinua ristretta alla zona del Mediterraneo. Per entrambe, le sequenze genetiche identificate corrispondono a nuovi aplotipi mitocondriali endemici di Lampedusa, suggerendo un isolamento genetico rispetto ad altre popolazioni insulari o continentali.
“Questo dato sottolinea il valore unico delle popolazioni di pipistrelli delle piccole isole, che rappresentano veri scrigni di diversità genetica e che pertanto necessitano di particolare attenzione conservazionistica. Come spesso accade in questi contesti, alcune delle componenti più preziose della biodiversità rischiano di scomparire prima ancora di essere comprese appieno”, conclude Gili.
Lo studio dimostra quanto siano ancora frammentarie le conoscenze sulla distribuzione della chirotterofauna europea, ed evidenzia la necessità di intensificare le ricerche sulla fauna delle isole minori del Mediterraneo, veri laboratori naturali per lo studio della biodiversità, e oggi più che mai ecosistemi da proteggere
Roma, 12 giugno 2025
La scheda
Chi: Istituto per la ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche di Verbania (Cnr-Irsa), Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze (Cnr-Iret), Centro Nazionale per la Biodiversità (NBFC)
Che cosa: Non-invasive survey techniques uncover the coexistence of African and European bats on the island of Lampedusa (https://doi.org/10.1007/s42991-025-00503-0)
Testo e foto dagli Uffici Stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche – CNR e del Centro Nazionale per la Biodiversità – NBFC, via Delos.
Litigare o fare pace? Le scimmie gelada lo capiscono solo ascoltando
Uno studio coordinato dall’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista PLoS ONE dimostra che queste scimmie hanno una capacità di “ascolto” orientata alla comprensione delle relazioni sociali nel gruppo.
I gelada, primati che vivono sugli altopiani dell’Etiopia, sono capaci di riconoscere e interpretare le interazioni vocali dei propri simili collegando i versi a dinamiche sociali di conflitto o riconciliazione, anche senza vedere la scena, solo dal suono. È questo quanto emerso da una ricerca internazionale pubblicata sulla rivista PLoS ONE, coordinata dall’Università di Pisa in collaborazione con l’Università di Rennes e l’Università di Addis Abeba.
Durante gli esperimenti, condotti sul campo, i ricercatori hanno fatto ascoltare ai gelada vocalizzazioni aggressive seguite da altre consolatorie (sequenza naturale), e poi l’opposto (sequenza anomala). Le scimmie mostravano maggiore attenzione – misurata dalla durata dello sguardo verso la fonte del suono e dall’interruzione di ciò che stavano facendo – nei confronti dello stimolo “anomalo”, ovvero quando le vocalizzazioni consolatorie precedevano l’urlo dell’aggressione.
Secondo i ricercatori, questo comportamento indica che i gelada non percepiscono i segnali acustici come semplici eventi isolati, ma li interpretano come risultato di interazioni sociali legate alla risoluzione dei conflitti e al conforto. In altre parole, la loro capacità di “ascolto” implica un’elaborazione cognitiva, orientata alla comprensione delle relazioni sociali nel gruppo.
“I nostri risultati suggeriscono che i gelada possiedono una forma di intelligenza sociale che si manifesta anche attraverso l’ascolto degli altri – spiega Elisabetta Palagi, professoressa associata al Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e responsabile del progetto – Sono in grado, attraverso la percezione e la decodifica delle sequenze vocali, di comprendere, interpretare e reagire alle dinamiche sociali in modo appropriato anche senza avere davanti la scena di ciò che sta accadendo. Un’abilità che getta luce sulle basi evolutive delle nostre stesse capacità empatiche”.
Litigare o fare pace? Le scimmie gelada lo capiscono solo ascoltando. Gallery
Lo studio, durato 15 mesi, è stato finanziato dalla Leakey Foundation attraverso il progetto “Science for reconciliation” e da numerosi zoo e fondazioni europee nell’ambito del progetto BRIDGES dell’Università di Pisa. In particolare, per l’Università di Pisa, hanno partecipato allo studio Luca Pedruzzi, dottorando in cotutela con l’Università Rennes, che si occupa dei comportamenti a base empatica e alla complessità comunicativa in diverse specie di primati. Martina Francesconi e Alice Galotti, dottorande presso il Dipartimento di Biologia, che studiano il comportamento sociale in diverse specie animali. Infine, Elisabetta Palagi, professoressa associata al Dipartimento di Biologia, da anni impegnata a far luce sul comportamento sociale in varie specie animali, uomo incluso, in particolare la comprensione dell’evoluzione di alcuni comportamenti come il gioco, i meccanismi di risoluzione dei conflitti e le capacità empatiche alla base della vita sociale. Nel 2020, Palagi ha ricevuto il premio dall’Animal Behavior Society per i risultati conseguiti grazie ai suoi studi sul comportamento animale.
Riferimenti bibliografici:
Pedruzzi L, Francesconi M, Galotti A, Bogale BA, Palagi E, Lemasson A, Wild gelada monkeys detect emotional and prosocial cues in vocal exchanges during aggression, PLoS ONE (2025) 20(5): e0323295, DOI: https://doi.org/10.1371/journal.pone.0323295
Testo e immagini dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa
Costa atlantica dell’Africa: le variazioni del livello del mare negli ultimi 30mila (e il recente innalzamento)
L’Università di Pisa ha coordinato lo studio pubblicato su Nature Communications. Il prof. Vacchi:
“Nonostante l’intero continente Africano contribuisca solo per il 4% alle emissioni globali di gas serra, il cambiamento climatico avrà effetti molto significativi in Africa occidentale, dove il 31% della popolazione e le principali infrastrutture sono concentrate nella zona costiera”.
Il livello attuale del mare lungo la costa atlantica dell’Africa è più alto di oltre 100 metri rispetto a 30.000 anni fa. Il dato emerge da uno studio coordinato dal professor Matteo Vacchi del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Nature Communications. La ricerca ha mostrato come il livello dell’Atlantico sia stato fortemente influenzato dai cambiamenti climatici e dalla fusione delle calotte glaciali.
“Studiando le fluttuazioni avvenute negli ultimi 30.000 anni – spiega Vacchi – potremmo affinare i modelli climatici e migliorare le previsioni sulle reazioni del sistema Terra rispetto ai cambiamenti attuali. Molte regioni costiere africane, comprese città densamente popolate e ambienti naturali sensibili, sono direttamente minacciate dall’innalzamento del livello del mare. Studi come questo aiutano a comprendere la vulnerabilità di queste aree e a sviluppare strategie di adattamento e mitigazione. Infatti, la fascia costiera rappresenta circa il 56% del prodotto interno lordo (PIL) dei paesi dell’Africa occidentale, rendendola una risorsa economica e sociale chiave altamente vulnerabile ai cambiamenti del livello del mare causati dal clima”.
La ricerca ha evidenziato tre fasi evolutive principali. Nell’epoca del massimo glaciale (circa 30.000 – 19.000 anni fa) il livello del mare era molto più basso rispetto ad oggi, circa 99-104 metri in meno, principalmente per la grande quantità di acqua intrappolata nelle calotte glaciali. Nella successiva fase di deglaciazione (19.000 – 7.500 anni fa), con il riscaldamento globale e la fusione delle calotte, il mare ha iniziato a risalire sempre più rapidamente sino a raggiungere il livello attuale. Il trend è continuato nel corso dell’Olocene (7.500 anni fa – oggi): il mare ha continuato a salire, ma con un ritmo più moderato, fino a raggiungere un massimo tra 5.000 e 1.700 anni fa con valori anche hanno superato il livello attuale. Dopo questa fase, c’è stata una sostanziale stabilizzazione, fino al nuovo recente innalzamento dovuto al riscaldamento globale che ha riguardato gli ultimi 100 anni.
“Il nostro studio fornisce una ricostruzione dettagliata e senza precedenti delle variazioni del livello del mare lungo la costa atlantica dell’Africa dal massimo glaciale fino all’epoca moderna – dice Matteo Vacchi – si tratta di dati fondamentali per comprendere i trend attuali e prevedere le future variazioni del livello del mare con implicazioni molteplici che toccano diversi ambiti scientifici e applicativi. Nonostante l’intero continente Africano contribuisca solo per il 4% alle emissioni globali di gas serra, il cambiamento climatico avrà effetti molto significativi in Africa occidentale, dove il 31% della popolazione e le principali infrastrutture sono concentrate nella zona costiera”.
Matteo Vacchi
Insieme all’Università di Pisa hanno collaborato alla studio l’Earth Observatory di Singapore, Università Aix Marseille (Francia), L’Università di Bologna e l’INGV.
Riferimenti bibliografici:
Vacchi, M., Shaw, T.A., Anthony, E.J. et al. Sea level since the Last Glacial Maximum from the Atlantic coast of Africa, Nat Commun16, 1486 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-025-56721-0
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.
Scoperti i più antichi antenati del bue domestico: i resti di uro nella valle dell’Indo e in Mesopotamia risalgono a 10mila anni fa
La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, ha coinvolto il paleontologo dell’Università di Pisa, Luca Pandolfi
I più antichi antenati del bue domestico sono stati scoperti nella valle dell’Indo e nella mezzaluna fertile in Mesopotamia: si tratta di resti di uro (Bos primigenius) risalenti a circa 10mila anni fa. La ricerca pubblicata sulla rivista Naturee condotta dal Trinity College di Dublino e dall’Università di Copenaghen, ha coinvolto Luca Pandolfi, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che da tempo si occupa dell’evoluzione e dell’estinzione dei grandi mammiferi continentali anche in relazione ai cambiamenti climatici.
Cranio di uro conservato al Museo di Storia Naturale dell’Università di Breslavia, Polonia (foto Luca Pandolfi)
Gli uri addomesticati erano animali abbastanza simili a quelli selvatici, ma un po’ più piccoli, soprattutto con corna meno sviluppate ad indicare una maggiore mansuetudine. Giulio Cesare nel De Bello Gallico (De Bello Gallico, 6-28) descrive infatti l’uro selvatico come un animale di dimensioni di poco inferiori all’elefante, veloce e di natura particolarmente aggressiva. Dai resti fossili emerge che gli uri selvatici potevano raggiungere un’altezza di poco meno di due metri, i 1000 kg di peso ed avere corna lunghe più di un metro. La loro presenza ha dominato le faune dell’Eurasia e del Nord Africa a partire da circa 650 mila anni fa, per poi subire un forte declino dalla fine del Pleistocene, circa 11mila anni fa, fino alla sua estinzione in età moderna. L’ultimo esemplare di cui si ha notizia fu abbattuto il Polonia nel 1627.
“Lo studio su Nature ha analizzato per la prima volta questa specie per comprenderne la storia evolutiva e genetica attraverso resti fossili rinvenuti in diversi di siti in Eurasia, Italia inclusa, e Nord Africa”, dice Luca Pandolfi.
Dai reperti, che includono scheletri completi e crani ben conservati, sono stati estratti campioni di DNA antico. La loro analisi ha quindi permesso di individuare quattro popolazioni ancestrali distinte che hanno risposto in modo diverso ai cambiamenti climatici e all’interazione con l’uomo. Gli uri europei, in particolare, subirono una diminuzione drastica sia in termini di popolazione che di diversità genetica durante l’ultima era glaciale, circa 20 mila anni fa. La diminuzione delle temperature ridusse infatti il loro habitat spingendoli verso la Penisola Italiana e quella Iberica da cui successivamente ricolonizzarono l’intera Europa.
“Nel corso del Quaternario, epoca che va da 2 milioni e mezzo di anni fa sino ad oggi, l’uro è stato protagonista degli ecosistemi del passato, contraendo ed espandendo il proprio habitat in relazione alle vicissitudine climatiche che hanno caratterizzato questo periodo di tempo – conclude Pandolfi – le ossa di questi maestosi animali raccontano ai paleontologi la storia del successo, adattamento e declino, di una specie di cui noi stessi abbiamo concorso all’estinzione e rivelano la complessità e fragilità delle relazioni che legano gli organismi viventi al clima del nostro Pianeta”.
Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Crediti per l’immagine: Prof. Saxx, CC BY-SA 3.0
Journal reference: The genomic natural history of the aurochs, Nature, 2024; DOI: 10.1038/s41586-024-08112-6
Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa
Un futuro incerto per la biodiversità del bacino del Congo
La prima review dedicata agli impatti dei cambiamenti climatici in una delle foreste pluviali più grandi al mondo ha evidenziato le possibili conseguenze negative sulla biodiversità: dall’estinzione delle specie alla diminuzione delle dimensioni degli organismi. I risultati del lavoro, coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza, sono pubblicati sulla rivista Biological Conservation.
Il bacino del Congo, la seconda foresta pluviale continua più grande al mondo, è un centro chiave della biodiversità del pianeta e svolge un ruolo significativo nella mitigazione dei cambiamenti climatici.
Quest’area si trova ad affrontare minacce multiformi, tra cui il cambiamento di destinazione d’uso del territorio, lo sfruttamento delle risorse naturali e i mutamenti climatici.
Un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha indagato e valutato criticamente lo stato attuale delle conoscenze relative agli impatti dei cambiamenti climatici sulla biodiversità del bacino del Congo, a tutti i suoi livelli organizzativi, utilizzando una metodologia di revisione sistematica della letteratura.
I risultati del lavoro, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, hanno evidenziato una traiettoria futura incerta per la biodiversità dell’area, considerando il suo stato poco studiato, l’entità delle incognite e le risposte negative trovate in letteratura.
I ricercatori si sono concentrati principalmente sul cambiamento climatico in quanto minaccia emergente ma poco studiata, potenzialmente in grado di assumere un ruolo primario nel determinare la perdita di biodiversità nella regione: dall’aumento della vulnerabilità delle specie all’estinzione, allo spostamento dell’areale delle specie, fino alla diminuzione delle dimensioni degli organismi.
“Questa sintesi ci ha permesso di identificare i cluster di conoscenza più importanti nella letteratura scientifica esistente e di delineare un’agenda di ricerca futura– spiega Milena Beekmann della Sapienza, primo nome del lavoro che costituisce una parte della sua tesi di dottorato – A nostra conoscenza, questa è la prima review che si concentra sugli impatti dei cambiamenti climatici nel bacino del Congo”.
“Tuttavia – commenta Carlo Rondinini, tra gli autori dello studio e docente della Sapienza – permangono alti livelli di incertezza, legati ad allarmanti lacune nelle conoscenze, a processi ecologici non documentati e a una mancanza di informazioni”.
il fiume Epulu nella Riserva Faunistica Okapi, Repubblica Democratica del Congo. Foto di J. Doremus, United States Agency for International Development – USAID[1], in pubblico dominio
Riferimenti bibliografici:
Uncertain future for Congo Basin biodiversity: A systematic review of climate change impacts – Milena Beekmann, Sandrine Gallois, Carlo Rondinini – Biological Conservation 2024, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2024.110730
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
COMPRENDERE LO SVILUPPO RITMICO DEGLI UMANI GRAZIE AI LEMURI DEL MADAGASCAR
Un nuovo studio dell’Università di Torino evidenzia come gli elementi fondamentali della musica umana possano essere ricondotti ai primi sistemi di comunicazione dei primati
Un lemure che comunica con i suoi vicini grazie ad un canto ritmico dimostra come gli esseri umani si siano evoluti per creare musica. È quanto emerge dall’articolo Isochrony as ancestral condition to call and song in a primate, pubblicato sulla rivista Annals of the New York Academy of Sciences da un team di ricercatori dell’Università di Torino, in collaborazione con i colleghi delle università di Warwick e Roma La Sapienza.
Gli studiosi hanno analizzato i comportamenti degli Indri, una specie di lemure che vive in piccoli gruppi familiari nella foresta pluviale del Madagascar e comunica utilizzando canti, come fanno gli uccelli e gli esseri umani. Le loro vocalizzazioni ritmiche, registrate in diverse aree forestali dal 2005 al 2020, vengono utilizzate anche come richiami di allarme per avvisare i membri della famiglia riguardo la presenza di predatori.
I ricercatori hanno studiato gli indri grazie al centro di ricerca che l’Università di Torino ha creato nella foresta di Maromizaha, scoprendo che la comunicazione di questa specie è caratterizzata da isocronia, cioè da tempi uguali tra un suono e l’altro o tra una nota e l’altra. Questi suoni creano una successione costante di eventi a intervalli regolari, dando vita a un ritmo costante, proprio come accade nella musica.
La dott.ssa Chiara De Gregorio, già Dottoranda dell’Università di Torino e ora ricercatrice all’Università di Warwick, ha dichiarato:
“Isolando le note e gli intervalli tra le note in 820 canti e richiami di allarme di 51 lemuri, abbiamo calcolato i rapporti ritmici per ogni coppia di intervalli consecutivi. Un rapporto di 0,5 significa isocronia”.
L’analisi ha rivelato che l’isocronia è presente in tutti i canti e i richiami di allarme, stabilendo che è un aspetto fondamentale della comunicazione degli indri. Inoltre, un tipo di canto presentava tre ritmi vocali distinti. La dott.ssa Daria Valente, corresponding author dello studio, ha proseguito:
“Questa scoperta posiziona gli indri come animali con il maggior numero di ritmi vocali condivisi con il repertorio musicale umano, superando gli uccelli canori e altri mammiferi”.
Questi risultati suggeriscono che gli elementi degli attributi musicali umani si sono evoluti precocemente nella stirpe dei primati. Dato che i richiami di allarme probabilmente esistevano prima di vocalizzazioni più complesse come i canti, l’isocronia potrebbe essere un ritmo ancestrale da cui si sono evoluti altri modelli ritmici. La dott.ssa De Gregorio ha aggiunto:
“Il nostro studio amplia il lavoro precedente che ha identificato due ritmi condivisi con la musica umana. In questa nuova ricerca abbiamo identificato un terzo ritmo e abbiamo esteso la nostra analisi al di là dei canti, includendo altri richiami”.
La Professoressa Cristina Giacoma, fondatrice del progetto in Madagascar, ha concluso:
“I risultati evidenziano le radici evolutive del ritmo musicale, dimostrando che gli elementi fondamentali della musica umana possono essere ricondotti ai primi sistemi di comunicazione dei primati”.
Comprendere lo sviluppo ritmico degli umani grazie ai lemuri del Madagascar; lo studio sulla rivista Annals of the New York Academy of Sciences
Link a video: https://www.youtube.com/watch?v=NI5bIYbRgTU
Grazie alla geodesia satellitare, il magma come fonte di energia semi-infinita
Lo studio dell’Università di Pisa pubblicato su Nature Communications.
Il magma può essere utilizzato come fonte di energia semi-infinita, ma per farlo è prima necessario capire dove si trova sotto i nostri piedi e come si muove. Per la prima volta, grazie ad innovative tecniche di geodesia satellitare, scienziati e scienziate dell’Università di Pisa sono riusciti a studiare il magma a profondità sinora mai esplorate per capire come si muove e come risale verso la superficie. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications è stata svolta dal dottore Alessandro La Rosa e dalla professoressa Carolina Pagli del dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano. Hanno inoltre collaborato al lavoro il professore Freysteinn Sigmundsson dell’Università dell’Islanda e altri studiosi da Cina, Francia e Regno Unito.
“La possibilità di ricavare energia dal magma è una opportunità concreta allo studio in Paesi come l’Islanda – racconta Carolina Pagli – per misurare i movimenti millimetrici della superficie terrestre la tecnica principale che abbiamo usato è l’Interferometric Synthetic Aperture Radar (InSAR) che abbiamo combinato con il sistema globale di navigazione satellitare (GNSS) per avere una visione a tre dimensioni dei movimenti della crosta terrestre”.
Il monitoraggio satellitare è durato dal 2014 al 2021 e ha riguardato il rift dell’Afar, una depressione nel Corno d’Africa tra Stato di Gibuti, Eritrea, Somalia ed Etiopia dove si trova il punto più basso del continente africano. I risultati hanno rilevato un sollevamento della crosta terrestre di circa 5 mm/anno rivelando la comune origine di fenomeni in superficie molto distanti fra loro.
“Nel nostro studio abbiamo dimostrato come l’apporto di magma nella crosta avvenga ad impulsi, in luoghi diversi ma contemporaneamente – spiega Alessandro La Rosa – nello specifico l’afflusso di magma è avvenuto simultaneamente in quattro diversi luoghi, distanti decine di km e a profondità comprese tra 9 e 28 km, causando il sollevamento della superficie su una zona larga circa 100 km”.
Carolina Pagli si occupa da sempre di ricerca sui vulcani attivi tramite tecniche di geodesia satellitare. Dopo avere acquisito il PhD all’Università d’Islanda dove ha studiato i vulcani attivi e l’influenza del ritiro dei ghiacciai sulla produzione di magma ha continuato il suo percorso presso l’Università di Leeds nel Regno Unito. Tornata in Italia grazie al programma ministeriale Rita Levi Montalcini è adesso professoressa associata di Geofisica della Terra Solida al dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Pisa.
Alessandro La Rosa è stato dottorando e assegnista di ricerca nel gruppo di ricerca di Carolina Pagli ed è attualmente Research Fellow a GFZ-Potsdam (Germania).
Grazie alla geodesia satellitare, il magma come fonte di energia: in foto, Alessandro La Rosa e Carolina Pagli durante le ricerche ad Afar
Riferimenti bibliografici:
La Rosa, A., Pagli, C., Wang, H. et al. Simultaneous rift-scale inflation of a deep crustal sill network in Afar, East Africa, Nat Commun15, 4287 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-47136-4
Testo e foto dal Polo Comunicazione CIDIC dell’Università di Pisa.
QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA, L’INNOVATIVA SERIE DI STORIA NATURALE TARGATA NATIONAL GEOGRAPHIC E NARRATA DA ANGELA BASSETT
La serie in 7 episodi debutterà il 5 marzo su Disney+ in Italia
21 febbraio 2024 – È disponibile il trailer della docu-serie QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA che debutterà il 5 marzo 2024 su Disney+ in Italia. Sulle note del brano elettropop di Billie Eilish “you should see me in a crown”, il trailer introduce gli spettatori in sei mondi iconici governati dalle fiere matriarche del regno animale, ponendo le basi per una serie innovativa.
Con un team di produzione composto da donne provenienti da tutto il mondo – una novità assoluta nel settore della storia naturale – e narrata, nella versione originale, dalla potente voce della pluripremiata attrice Angela Bassett (Black Panther: Wakanda Forever, The Flood, Good Night Oppy), QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA mette a fuoco per la prima volta il mondo naturale attraverso la lente femminile, raccontando storie di sacrificio e resilienza, ma anche di amicizia e amore. Dalle bonobo amanti della pace del bacino del Congo alle spietate jewel bees della Costa Rica, fino alle potenti elefantesse della Savana: osservando le loro lotte, i successi e i dolori, è possibile capire l’importanza dell’amore e la determinazione con cui una madre lotta per i propri figli, come la sete di potere possa distruggere le famiglie e come, anche di fronte alla tragedia, una madre debba andare avanti.
Realizzata in quattro anni, QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA si avvale di tecnologie all’avanguardia per rivelare come le popolazioni femminili del mondo naturale salgano al potere, spesso affidandosi alla cooperazione e alla saggezza piuttosto che alla forza. Le telecamere hanno catturato per la prima volta molti momenti sbalorditivi, tra cui un infanticidio di iena, la prima ripresa ai bonobo tra le canopie realizzata da una piattaforma tra gli alberi, la documentazione a colori del cratere di Ngorongoro durante la notte e un time-lapse di sviluppo di una covata di api delle orchidee. L’episodio finale della serie celebra le donne che si sono spinte fino ai confini della Terra e hanno dedicato la loro vita a documentare e proteggere le regine animali.
QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA è prodotta da Wildstar Films per National Geographic. Per Wildstar Films, Vanessa Berlowitz è produttrice esecutiva e Chloe Sarosh è showrunner e sceneggiatrice. Sophie Darlington e Justine Evans sono i direttori della fotografia della serie. Per National Geographic, Pamela Caragol è produttrice esecutiva e Janet Han Vissering è senior vice president of Development and Production.
Hashtag
#NatGeoQueens
#DisneyPlus
Testo, video e immagini dagli Uffici Stampa The Walt Disney Company Italia, Opinion Leader, Cristiana Caimmi.
“LE PIANTE UTILIZZATE DALL’UOMO NON SONO SUFFICIENTEMENTE PROTETTE A LIVELLO GLOBALE”
L’allarme in una ricerca condotta dal UN Environment Programme World Conservation Monitoring Centre (UNEP-WCMC) e dai Royal Botanic Gardens, Kew, in collaborazione con l’Università di Torino e altri partner accademici.
Hyphaene petersiana, Botswana
Lippia graveolens, origano messicano
frutti e semi in esposizione nel Mali
In una ricerca pubblicata oggi, venerdì 19 gennaio, sulla rivista Science, gli scienziati del World Conservation Monitoring Centre del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente e dei Royal Botanic Gardens, Kew, in collaborazione con l’Università di Torino e altri partner accademici, hanno quantificato per la prima volta la distribuzione globale delle piante utilizzate dall’uomo. L’analisi ha rivelato che le maggiori concentrazioni di piante si trovano ai tropici, “hotspot bioculturali” che dovrebbero essere aree prioritarie per la conservazione ma, ad oggi, sono in gran parte non protette.
Le piante rendono possibile la vita e hanno permesso all’umanità di svilupparsi e prosperare. Oltre a nutrire gli esseri umani e il bestiame, a fornire medicinali vitali, carburante e materiali per l’abbigliamento e le infrastrutture, la diversità delle piante può fornire soluzioni ai problemi globali attuali e futuri, come la fame, le malattie e i cambiamenti climatici. Il team ha analizzato la distribuzione di 35.687 specie di piante con usi documentati da parte dell’uomo, che coprono 10 categorie, tra cui cibo umano e foraggio per animali, materiali, combustibili e medicinali.
L’analisi ha utilizzato oltre 11 milioni di osservazioni di specie vegetali registrate da botanici di tutto il mondo e algoritmi di apprendimento automatico all’avanguardia per prevedere la distribuzione geografica delle specie vegetali utilizzate e la loro rarità. La ricerca ha identificato l’America centrale, le Ande tropicali, il Golfo di Guinea, l’Africa meridionale, l’Himalaya, il Sud-Est asiatico e la Nuova Guinea come centri eccezionali di specie vegetali rare e con alta diversità di piante utilizzate dall’uomo.
Nonostante la rete globale di aree protette copra il 16% delle terre emerse e delle acque interne della Terra, i modelli mostrano che c’è una maggiore probabilità che le piante utilizzate dall’uomo – in particolare le specie rare – si trovino al di fuori delle aree protette. Ciò è particolarmente evidente in aree ecologiche delle Americhe, dell’Africa meridionale, del Sud-est asiatico e dell’Australia. La ricerca ha anche rilevato che un numero sproporzionato di specie vegetali utilizzate è presente in molti territori indigeni dell’America centrale, del Corno d’Africa, dell’Asia meridionale e sudorientale.
Le aree indigene che contengono una diversità vegetale eccezionalmente elevata dovrebbero essere considerate prioritarie, sia per la conservazione della natura che per la protezione delle conoscenze tradizionali. Sebbene i governi di tutto il mondo si siano impegnati a proteggere il 30% della Terra entro il 2030, rimangono ancora degli interrogativi su come le nuove aree protette possano garantire la conservazione a lungo termine della diversità vegetale e dei suoi contributi alle persone.
I risultati evidenziano la necessità di trovare modi per proteggere la biodiversità preservando al contempo la sussistenza, il benessere e le conoscenze tradizionali delle persone. La pianificazione della conservazione deve considerare meglio la diversità vegetale e il suo contributo alle popolazioni nella futura pianificazione della conservazione basata sulle aree, soprattutto nell’ambito dell’ambizioso obiettivo 3 del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework della COP 15 di aumentare le aree protette e conservate per coprire il 30% della terra, delle acque interne e degli oceani del mondo entro il 2030.
“Il risultato di questo lavoro collaborativo – dichiara Tiziana Ulian, docente del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino e senior research leader del Royal Botanic Gardens, Kew – è un passo importante per comprendere meglio l’enorme diversità delle piante utilizzate dall’uomo, la loro importanza culturale e la distribuzione in tutto il mondo. Proteggendo le aree con un’elevata diversità delle piante possiamo non solo contribuire ad affrontare la crisi globale che affligge la biodiversità, ma anche aiutare a sostenere la transizione verso un futuro sostenibile per l’umanità sul pianeta. Questa alta diversità vegetale può aiutarci a sviluppare Nature-based solutions (NBS) per affrontare sfide globali, come il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare. la salute umana e la gestione del rischio di calamità ambientali”.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino