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INDIVIDUATE NUOVE TRACCE DI SOSTANZE ORGANICHE NEI SOLFATI SU MARTE

Tracce di composti organici associati a solfati sono state individuate sulla superficie di Marte. A riportare la scoperta è un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy, basato su dati raccolti dallo spettrometro Sherloc a bordo del rover Perseverance della NASA, in campioni prelevati nel cratere marziano Jezero. Non è possibile escludere che queste molecole organiche siano residui derivanti dalla degradazione di materia microbica antica, sebbene l’origine più probabile sia considerata abiotica, più specificamente attraverso reazioni di gas magmatici con ossidi di ferro presenti nelle rocce vulcaniche. A guidare il team è Teresa Fornaro, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: "M2020 WATSON -- Pilot Mountain, sol 874" (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)
Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: “M2020 WATSON — Pilot Mountain, sol 874” (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)

La ricerca di molecole organiche su Marte è centrale per capire se il pianeta abbia mai offerto condizioni favorevoli alla vita. Alcuni composti organici possono infatti rappresentare nutrienti, mentre altri, più complessi, potrebbero costituire vere e proprie biofirme. Nonostante in passato siano già state individuate molecole organiche, la loro origine e conservazione restano ancora poco chiare.

Proprio per questo il cratere Jezero, antica area deltizia che un tempo ospitava un lago e che potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità, è oggi uno dei luoghi più interessanti da studiare. Qui, lo strumento Sherloc (Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals) a bordo del rover Perseverance ha rilevato segnali Raman forti e complessi associati a solfati, in particolare nelle aree denominate Quartier e Pilot Mountain, rispettivamente sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio.

“Quando Sherloc ha rivelato forti segnali Raman nella regione spettrale degli organici nel target Quartier, ci siamo entusiasmati. Questi segnali erano associati spazialmente a solfati di magnesio e calcio, che sulla Terra mostrano grandi capacità di preservazione della materia organica”, sottolinea Teresa Fornaro. “L’associazione con i solfati era davvero un enigma affascinante e mi ha spinta a esaminare uno per uno gli 839 spettri acquisiti da Sherloc in cui sono stati rilevati solfati sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio di Jezero, alla ricerca di segnali potenzialmente indicativi di composti organici. In questo modo, ho scoperto che il target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio, mostra segnali Raman simili a quelli osservati in Quartier”.

Per verificare l’ipotesi che i segnali osservati sono effettivamente dovuti a molecole organiche, il team ha condotto esperimenti nel Laboratorio di Astrobiologia dell’INAF a Firenze. Sono stati utilizzati materiali analoghi marziani e strumenti simili a Sherloc, riproducendo processi naturali in condizioni controllate. Il confronto con i dati acquisiti in situ ha permesso di consolidare l’interpretazione organica.

“Il Laboratorio di Astrobiologia di Arcetri, grazie al supporto dell’INAF e dell’Agenzia Spaziale Italiana, ha acquisito nel corso degli anni strumentazioni all’avanguardia che ci hanno permesso di ritagliarci un ruolo di rilievo nel contesto internazionale per quanto riguarda i temi dell’astrobiologia” spiega John Brucato dell’INAF, responsabile del laboratorio e coautore dello studio. “Siamo in grado di caratterizzare i composti organici presenti nei materiali che ci giungono dallo spazio, come le meteoriti o i campioni riportati a terra dalle missioni, e di simulare le condizioni e i processi chimico-fisici che possono verificarsi sulla superficie di Marte. Grazie alla partecipazione alle missioni marziane con i rover Perseverance della NASA e Rosalind Franklin dell’ESA, il nostro ambizioso obiettivo è riuscire a trovare le biofirme di una vita extraterrestre”.

“Nello specifico, abbiamo mescolato minerali solfati con molecole organiche aromatiche facilmente rilevabili da Sherloc, utilizzando metodi che imitano processi naturali potenzialmente avvenuti in passato in un ambiente acquoso a Jezero, seguiti da essiccazione. Successivamente, abbiamo analizzato i campioni preparati con strumenti analoghi a Sherloc”, spiega ancora Fornaro. “Questo metodo ci ha permesso di acquisire un set di dati di riferimento da confrontare direttamente con le osservazioni in situ, essenziali per interpretare correttamente i complessi segnali provenienti da Marte. Sulla base di queste indagini, abbiamo potuto attribuire questi segnali a idrocarburi policiclici aromatici preservati all’interno dei solfati”.

Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin
Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin

Il rilevamento in rocce vulcaniche suggerisce che gli idrocarburi policiclici aromatici possano essersi formati attraverso processi magmatici e, in seguito, essere stati mobilizzati dall’acqua e intrappolati nei solfati. I fluidi circolanti, comprese possibili acque idrotermali, avrebbero favorito il loro accumulo selettivo e la conservazione nelle rocce del cratere Jezero. Questi risultati si aggiungono a precedenti evidenze da meteoriti e dal cratere Gale, rafforzando il ruolo dei solfati nella conservazione della materia organica marziana.

“Sebbene non siano state trovate prove che questa materia organica sia di origine biologica, non è possibile escludere completamente che le sostanze organiche rilevate in queste rocce possano derivare dall’alterazione chimica di antichi composti biotici” conclude Fornaro“In attesa di un possibile futuro ritorno di questi campioni marziani per analisi più dettagliate sulla Terra, stiamo continuando a indagare sulla natura delle altre componenti di questi segnali complessi, la cui origine è ancora da chiarire del tutto”.

Riferimenti bibliografici:
L’articolo Evidence for polycyclic aromatic hydrocarbons detected in sulfates at Jezero crater by the Perseverance rover, di Teresa Fornaro, Sunanda Sharma, Ryan S. Jakubek, Giovanni Poggiali, John Robert Brucato, Rohit Bhartia, Andrew Steele, Ashley E. Murphy, Mike Tice, Mitchell D. Schulte, Kevin P. Hand, Marc D. Fries, William J. Abbey, Andrew Alberini, Daniela Alvarado-Jiménez, Kathleen C. Benison, Eve L. Berger, Sole Biancalani, Adrian J. Brown, Adrian Broz, Wayne P. Buckley, Denise K. Buckner, Aaron S. Burton, Sergei V. Bykov, Emily L. Cardarelli, Edward Cloutis, Stephanie A. Connell, Cristina Garcia-Florentino, Felipe Gómez, Nikole C. Haney, Carina Lee, Valeria Lino, Paola Manini, Francis M. McCubbin, Michelle Minitti, Richard V. Morris, Yu Yu Phua, Nicolas Randazzo, Joseph Razzell Hollis, Francesco Renzi, Sandra Siljeström, Justin I. Simon, Anushree Srivastava, Nicola Tasinato, Kyle Uckert, Roger C. Wiens, Amy J. Williams, è stato pubblicato su Nature Astronomy.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

SCOPERTA A TORINO UNA PROTEINA CHIAVE PER LA MEMORIA E L’APPRENDIMENTO, LA PROTEINA SKT

Un team del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute rivela il ruolo di SKT nelle sinapsi, aprendo nuove prospettive per comprendere i disturbi cognitivi e neurologici

Comprendere come funziona il cervello è una delle sfide più affascinanti e difficili della scienza. Un passo avanti decisivo arriva ora dall’Università di Torino: il gruppo di ricerca guidato dalla Prof.ssa Paola Defilippi, in collaborazione con i gruppi dei colleghi Ilaria Bertocchi e Andrea Marcantoni, ha scoperto il ruolo fondamentale di una proteina, finora poco conosciuta, chiamata SKT.

Lo studio, appena pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Cell Reports, dimostra che SKT è un elemento cruciale per la formazione e la funzione delle sinapsi, i punti di contatto attraverso cui i neuroni comunicano. In sua assenza, la comunicazione nervosa diventa imprecisa e inefficace, con ricadute su funzioni motorie e cognitive.

Le sinapsi non sono statiche: si rimodellano continuamente, permettendo al cervello di adattarsi e immagazzinare nuove informazioni. Questo processo, noto come plasticità cerebrale, si fonda anche sulla presenza di minuscole protuberanze chiamate spine dendritiche. Il team torinese ha dimostrato che SKT agisce come “adattatore molecolare”, indispensabile per far maturare correttamente le spine dendritiche e rendendole capaci di trasmettere i segnali nervosi in modo preciso.

Senza SKT, invece, si formano solo spine immature e disfunzionali, con conseguenze dirette sulla capacità di apprendere e ricordare. Non a caso, nei modelli animali privi di questa proteina sono emersi alcuni comportamenti riconducibili ai disturbi dello spettro autistico.

Studi genetici avevano già suggerito un legame tra il gene di SKT e test neuropsicologici per la memoria a breve termine. Ora il lavoro torinese, grazie anche al prezioso contributo dei giovani ricercatori Dr. Alessandro Morellato, Mario De Gregorio e Costanza Angelini, fornisce una solida spiegazione molecolare, confermando il coinvolgimento di SKT nei processi cognitivi.

La ricerca ha inoltre identificato le interazioni di SKT con altre due proteine già note per il loro ruolo nella plasticità sinaptica, PSD-95 e SHANK3, da tempo associate all’autismo.

“Abbiamo individuato un nuovo tassello essenziale per capire come funzionano le sinapsi e come si alterano in diverse patologie. Questo lavoro getta le basi per esplorare nuove strategie diagnostiche e terapeutiche nei disturbi cognitivi e del neurosviluppo”, dichiara la Prof.ssa Defilippi.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

I GHIACCIAI CHE SVELANO I SEGRETI DEI VULCANI

Una nuova ricerca UniTo approfondisce la complessa relazione tra ghiaccio e magma per prevedere le eruzioni e ridurre i rischi ambientali

 

Un nuovo studio coordinato dal prof. Matteo Spagnolo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, appena pubblicato su Nature Communications, propone una possibile svolta nel monitoraggio dei vulcani ricoperti da ghiacciai: questi ultimi non sarebbero soltanto un ostacolo logistico per le attività di rilevamento, ma i loro cambiamenti potrebbero diventare nuovi e preziosi precursori di eruzioni future.

La ricerca ha analizzato su scala globale 307 vulcani attivi e 40.667 ghiacciai localizzati sulle loro sommità o nelle immediate vicinanze, confrontando le differenze di quota tra ghiacciai “vulcanici” e ghiacciai circostanti. I risultati mostrano che, nell’80% dei casi, i ghiacciai situati direttamente sopra i vulcani sono mediamente collocati a quote più elevate rispetto a quelli limitrofi.

Questa anomalia sarebbe legata al calore emesso dal sistema vulcanico: la presenza di camere magmatiche e gas ad alta temperatura, inclusi vapor d’acqua e anidride carbonica, provoca infatti un riscaldamento della superficie e un maggiore scioglimento del ghiaccio, che viene confinato a quote più alte rispetto ai ghiacciai circostanti che non risentono dell’effetto vulcanico.

“Poiché la temperatura dei vulcani tende ad aumentare man mano che ci si avvicina a un’eruzione”, spiega il prof. Spagnolo, “è plausibile che anche i ghiacciai reagiscano con un ritiro ancora più marcato. Monitorare la loro quota media potrebbe quindi diventare un nuovo strumento per migliorare le previsioni eruttive”.

Il monitoraggio dei vulcani si basa già sull’analisi di diversi precursori – dalle deformazioni del suolo ai cambiamenti delle emissioni di gas in superficie – nessuno dei quali, preso singolarmente, è sufficiente per predire con certezza un’eruzione. L’aggiunta del comportamento dei ghiacciai come ulteriore indicatore potrebbe rivelarsi strategica, soprattutto in quelle aree del mondo dove vulcani e ghiacciai convivono e dove spesso monitoraggi diretti sul posto non sono possibili per motivi economici o logistici.

Nel mondo circa il 20% dei vulcani è ricoperto da ghiacciai e le loro eruzioni sono particolarmente pericolose.

“La storia ci ricorda quanto questa combinazione possa essere devastante: nel 1985, il vulcano Nevado del Ruiz in Colombia causò una colata di fango e rocce, innescata dallo scioglimento improvviso dei ghiacci sommitali, che travolse intere comunità e uccise oltre 25.000 persone”, prosegue Spagnolo.

Matteo Spagnolo
Matteo Spagnolo

Grazie a un approccio comparativo basato su banche dati internazionali e tecniche avanzate di analisi, il team di ricerca ha potuto isolare l’effetto del vulcano da quello del clima circostante, limitando lo studio a un raggio di 40 km attorno a ciascun edificio vulcanico. Questo ha permesso di dimostrare che le anomalie osservate nei ghiacciai sono legate direttamente all’attività vulcanica e non a fattori climatici.

Il lavoro del gruppo guidato dal prof. Spagnolo apre la strada a un nuovo capitolo della ricerca sui precursori vulcanici. Integrare i ghiacciai tra gli strumenti di monitoraggio significa non solo comprendere meglio la complessa relazione tra ghiaccio e magma, ma anche offrire un contributo concreto alla riduzione dei rischi naturali per milioni di persone che vivono nelle regioni vulcaniche del pianeta.

 

Riferimenti bibliografici:

Unnsteinsson, T., Spagnolo, M., Rea, B.R. et al., Volcanoes stunt nearby glaciers, Nat Commun 16, 8099 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-025-63332-2

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

UNA “STELE DI ROSETTA”, IL PROGETTO ROSETTA STONE PER STUDIARE LA FORMAZIONE STELLARE

Coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e sostenuto dall’European Research Council, il progetto Rosetta Stone propone un confronto senza precedenti tra simulazioni numeriche e osservazioni astronomiche nello studio della formazione stellare. I primi tre articoli, pubblicati su Astronomy & Astrophysics, mostrano come le simulazioni possano essere trattate come vere osservazioni per analizzare con maggiore precisione i processi che portano alla nascita delle stelle.

Il progetto Rosetta Stone, coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e finanziato dall’European Research Council nell’ambito del Synergy Grant ECOGAL, rivoluziona lo studio della formazione stellare con un approccio innovativo e senza precedenti. Per la prima volta in questo campo, simulazioni numeriche sofisticate e osservazioni astronomiche vengono trattate con gli stessi metodi e algoritmi, creando un linguaggio comune che consente un confronto diretto e preciso tra teoria e realtà.

Link al progetto: https://www.the-rosetta-stone-project.eu/

La nascita delle stelle, un processo complesso e ancora poco compreso, viene così analizzata grazie a tre articoli appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che illustrano come le simulazioni possano essere “post-processate” per replicare fedelmente le immagini e le osservazioni reali ottenute con strumenti di punta come l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA).

Il primo articolo (guidato da Ugo Lebreuilly dell’Università di Parigi-Saclay) presenta una vasta gamma di simulazioni magneto-idrodinamiche (RMHD) di regioni di formazione stellare massiva, in cui sono stati variati parametri chiave come massa, raggio, livello di turbolenza e intensità del campo magnetico. Il secondo studio (con prima firma Ngo-Duy Tung dell’Università di Parigi-Saclay) si concentra sulla generazione di immagini artificiali e “ideali” nella banda delle onde millimetriche e sub-millimetriche, simili a quelle ottenute da ALMA e dal satellite Herschel. Nel terzo lavoro (questa volta a prima firma Alice Nucara di INAF), un codice ad hoc sviluppato all’interno del software CASA ha permesso di creare simulazioni di osservazioni ALMA estremamente realistiche, basate sui dati della survey SQUALO (Star formation in QUiescent And Luminous Objects).

Alessio Traficante, ricercatore INAF e coordinatore del progetto, afferma: “Per la prima volta, grazie al progetto Rosetta Stone, è possibile estrarre informazioni dalle simulazioni trattate con le stesse tecniche e gli stessi algoritmi usati per le osservazioni, permettendo di verificare se le informazioni che deduciamo dalle osservazioni hanno un riscontro nelle simulazioni e viceversa, con un’accuratezza nel confronto mai ottenuta prima nel campo della formazione stellare. È possibile infatti dedurre se effettivamente i parametri chiave osservativi, come il rapporto tra la luminosità e la massa, riflettano caratteristiche chiave degli addensamenti di gas e polveri come età ed efficienza di formazione stellare, e misurare l’effetto di fattori non osservabili direttamente, come l’intensità del campo magnetico”.

La prima versione del progetto, chiamata Rosetta Stone 1.0, è solo il punto di partenza. Sono già in preparazione le successive due nuove fasi: RS2.0, che includerà simulazioni di dati ALMA relativi alla survey ALMAGAL che includono una fisica più ampia e complessa, e RS3.0, focalizzata sullo studio della chimica delle regioni di formazione stellare e sull’analisi delle righe spettrali necessarie per tracciare la dinamica e l’evoluzione chimica di queste zone.

“Il progetto è il culmine di tre anni di lavoro, milioni di ore di calcolo su supercomputer, la produzione di centinaia di mappe e una stretta collaborazione tra gruppi teorici e osservativi. Con questo approccio innovativo, il progetto Rosetta Stone inaugura un nuovo modo di studiare la nascita delle stelle, rendendo possibile per la prima volta un confronto realmente diretto tra simulazione e osservazione”, conclude Traficante.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The Rosetta Stone Project. I. A suite of radiative magnetohydrodynamics simulations of high-mass star-forming clumps”, di Ugo Lebreuilly, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Rosetta Stone Project. II. The correlation between star formation efficiency and L/M indicator for the evolutionary stages of star-forming clumps in post-processed radiative magnetohydrodynamics simulations”, di Ngo-Duy Tung, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Rosetta Stone project. III. ALMA synthetic observations of fragmentation in high-mass star-forming clumps”, di Alice Nucara, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

CALVERA È ESPLOSA DOVE NON DOVEVA: UNA PULSAR “IN FUGA” SFIDA LE REGOLE DELLA VIA LATTEA

Un’esplosione stellare, una pulsar in fuga e un resto di supernova: è la storia di Calvera, un sistema scoperto a oltre 6500 anni luce sopra il piano galattico, che sta mettendo in discussione ciò che sappiamo sull’evoluzione delle stelle. A raccontarla è un team di ricerca dell’INAF in uno studio pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall'ellisse bianca. Il materiale responsabile dell'emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF
Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall’ellisse bianca. Il materiale responsabile dell’emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF

Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli Studi di Palermo ha approfondito lo studio di un sistema unico nel suo genere: una pulsar e un resto di supernova situati a oltre 6500 anni luce sopra il piano della nostra galassia, la Via Lattea, in una zona finora considerata estremamente rarefatta e quasi priva di oggetti di questo tipo. Grazie a nuove osservazioni e analisi, pubblicate sulla rivista Astronomy & Astrophysics, la ricerca sfida l’idea che queste regioni periferiche della galassia siano poco attive dal punto di vista energetico, offrendo nuovi importanti spunti sull’origine e l’evoluzione delle stelle massicce.

A oltre 6500 anni luce sopra il piano della Via Lattea, dove la densità di stelle si dirada e il vuoto interstellare domina, un sistema estremo sfida le regole dell’evoluzione stellare. È lì che è stato identificato un raro resto di supernova associato a una pulsar in fuga, nota con il nome di Calvera, un omaggio all’antagonista del film “I Magnifici 7”, film western del 1960 diretto da John Sturges. Come il suo omonimo cinematografico, Calvera si muove ai margini, fuori dalle regole, e sta riscrivendo ciò che sappiamo sulla vita e la morte delle stelle massicce nelle regioni più estreme della nostra galassia.

La storia del resto di supernova di Calvera inizia nel 2022, quando grazie allo strumento LOFAR – un network europeo di radiotelescopi progettato per osservare il cielo a basse frequenze – viene individuata una struttura estesa e quasi perfettamente circolare, interpretabile come un resto di supernova. Si trova a circa 37 gradi di latitudine galattica, molto lontano dal piano della galassia, dove solitamente si concentrano le esplosioni stellari. A pochi arcominuti di distanza, una pulsar già nota agli astronomi per la sua intensa emissione nei raggi X e battezzata anch’essa Calvera, si presenta come potenziale compagna del resto di supernova. Tuttavia, la sua traiettoria mostra un moto proprio molto marcato, circa 78 milliarcosecondi all’anno, che suggerisce che si stia allontanando dal centro dell’esplosione. Il quadro che emerge è quello di un legame fisico tra i due oggetti: una stella massiccia esplosa migliaia di anni fa, che ha lasciato dietro di sé un guscio di gas in espansione e una stella di neutroni in fuga.

Per ricostruire questa storia cosmica, un team guidato da Emanuele Greco dell’INAF ha analizzato osservazioni dettagliate nella banda dei raggi X ottenute con il satellite XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea. Le proprietà del gas caldo all’interno del resto di supernova, combinate con il moto della pulsar e le informazioni multi-banda raccolte da diversi strumenti, hanno permesso di stimare età e distanza del sistema. Le analisi indicano che il resto di supernova si trova a una distanza compresa tra 13.000 e 16.500 anni luce, e che ha un’età tra i 10.000 e i 20.000 anni. Dati perfettamente compatibili con quelli della pulsar, che rafforzano l’ipotesi di un’origine comune.

“Le stelle massicce – cioè almeno otto volte più grandi del Sole – si formano quasi esclusivamente sul piano galattico, dove la densità del gas è più alta e favorisce la nascita stellare”, spiega Greco. “Trovarne i resti a simili distanze dal piano è estremamente raro. La nostra analisi ha permesso di stimare con maggiore precisione la distanza, l’età e perfino le caratteristiche della possibile stella progenitrice che ha originato sia la pulsar Calvera che il suo resto di supernova”.

A rendere il quadro ancora più interessante è il fatto che il sistema si trovi in un ambiente molto diverso da quello tipico del piano galattico. L’emissione di raggi gamma rilevata nel sistema proviene, infatti, da un ambiente estremamente rarefatto, lontano dalle regioni dense del piano galattico. Tradizionalmente si pensa che per attivare uno dei principali meccanismi di produzione della radiazione gamma siano necessarie elevate densità di particelle, soprattutto di protoni. Questo risultato, invece, mostra che anche nelle “periferie” della galassia, considerate per lo più “vuote”,  possono esistere le condizioni sufficienti ad attivare meccanismi energetici intensi, capaci di produrre emissione gamma in modo efficiente.

“Grazie ai telescopi spaziali come XMM-Newton e Fermi/LAT, e a strumenti terrestri come il Telescopio Nazionale Galileo, possiamo analizzare i resti di supernova e le pulsar in diverse bande dello spettro elettromagnetico”, prosegue Greco. “Nel caso di Calvera, abbiamo mostrato che anche in ambienti rarefatti può esserci emissione di plasma a milioni di gradi, se l’onda d’urto dell’esplosione incontra addensamenti locali. Questi addensamenti, a loro volta, raccontano qualcosa sulla storia evolutiva della stella che è esplosa”.

Il lavoro nasce dalla collaborazione tra le sedi INAF di Palermo e Milano, che hanno unito competenze complementari: da un lato lo studio degli oggetti compatti come le pulsar, dall’altro l’analisi delle strutture diffuse associate ai resti di supernova. Le osservazioni effettuate con il Telescopio Nazionale Galileo mostrano la presenza di filamenti di idrogeno ionizzato, mentre nei raggi X si evidenzia una struttura estesa ma compatta, coerente con l’impatto dell’onda d’urto sui materiali presenti nell’ambiente e rilasciati dalla stella progenitrice di Calvera. Questo indica che la zona, seppur remota, può presentare localmente degli addensamenti di materia, al contrario di quanto si assume per le regioni ad alta latitudine galattica.

La scoperta – e il legame tra la pulsar Calvera e il suo resto di supernova – dimostrano che anche lontano dal piano galattico possono trovarsi, in modo del tutto inatteso, stelle massicce. Alcune di queste riescono a sfuggire al loro luogo di origine e a esplodere come supernovae in regioni remote della Galassia, lasciando dietro di sé una nube di gas in espansione e un oggetto compatto come una stella di neutroni.

“Il nostro studio mostra che anche le zone più tranquille e apparentemente vuote della galassia possono nascondere processi estremi”, conclude Greco. “Non solo abbiamo vincolato le proprietà fisiche del sistema Calvera con precisione, ma abbiamo anche dimostrato che, localmente, è possibile trovare densità sufficienti a generare emissioni X e gamma anche molto lontano dal piano galattico. Una scoperta che ci invita a guardare con occhi nuovi alle periferie della Via Lattea”.

Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo
Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo

Riferimenti bibliografici: 

L’articolo “Multi-wavelength study of the high Galactic latitude supernova remnant candidate G118.4+37.0 associated with the Calvera pulsar”, di Emanuele Greco et al., è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

TOI-5800 b, TOI-5817 b E TOI-5795 b: TRE ESOPIANETI NETTUNIANI CALDI RIVELANO NUOVI INDIZI SULLA FORMAZIONE DEI SISTEMI PLANETARI

Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Roma Tor Vergata ha confermato e caratterizzato tre nuovi esopianeti della categoria “Nettuniani caldi” — pianeti extrasolari con dimensioni e masse simili a quelle di Urano e Nettuno ma che si muovono intorno alle loro stelle su orbite molto più strette (pochi giorni invece di un centinaio di anni). Le scoperte sono state rese possibili grazie al programma Hot Neptune Initiative (HONEI) e alle misure di alta precisione effettuate con gli spettrografi HARPS all’Osservatorio La Silla dell’ESO in Cile e HARPS-N installato sul Telescopio Nazionale Galileo dell’INAF nelle Canarie, in Spagna, integrando i dati raccolti dal telescopio spaziale TESS della NASA.

Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF
Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF

Tra i tre pianeti spicca TOI-5800 b, il nettuniano più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi” — una regione dello spazio dove si riscontra una marcata scarsità di pianeti di dimensioni simili a quelle di Nettuno ma su orbite molto vicine alle proprie stelle, scarsità che può essere causata da diversi fenomeni, come la “migrazione planetaria”, in cui l’orbita dei pianeti viene modificata, l’evaporazione atmosferica che porta a una diminuzione delle loro dimensioni o l’interazione gravitazionale con altri corpi relativamente vicini. In particolare, questa “zona desertica” comprende pianeti con raggi da circa 3 a 7 volte quelli terrestri e periodi orbitali inferiori a pochi giorni.

Nato da una collaborazione tra ricercatori italiani e statunitensi, il programma HONEI ha come obiettivo quello di scoprire e misurare con grande precisione le masse e le altre proprietà fisiche e orbitali dei candidati “Nettuniani caldi” identificati dal satellite TESS. Tali misure permettono di selezionare i migliori target da puntare con i telescopi di nuova generazione come il James Webb Space Telescope, per determinare la composizione chimica delle atmosfere di questi pianeti. La capacità di misurare le masse con strumenti di alta precisione consente di confermare la natura planetaria di questi corpi e di valutare la loro evoluzione dinamica e strutturale. I primi risultati del programma HONEI sono stati presentati per la prima volta in due articoli scientifici appena accettati per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF
Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF

Come spiega Luca Naponiello, primo autore del primo articolo, ex studente di dottorato all’università di Roma Tor Vergata, ora post-doc INAF e fondatore del programma HONEI,

“TOI-5800 b è un sub-Nettuno molto vicino alla propria stella, con un periodo orbitale di soli 2,6 giorni. Ha un raggio di circa 2,5 volte quello terrestre e una massa di circa 9,5 volte quella terrestre. Ciò che ne testimonia l’unicità è l’elevata eccentricità orbitale, inusuale per pianeti con orbite così strette che, per effetto delle forze mareali, di norma si ‘circolarizzano’ rapidamente. Questa eccentricità lascia ipotizzare che il pianeta sia ancora in fase di migrazione orbitale o influenzato gravitazionalmente da un altro corpo celeste nel sistema, ancora da individuare. Inoltre, TOI-5800 b si sta progressivamente avvicinando alla sua stella, perdendo momento angolare, e in futuro potrebbe stabilizzarsi in una regione ancora più interna del deserto dei Nettuniani caldi”.

Rappresentazione artistica di un nettuniano caldo e della sua stella realizzata con software d’intelligenza artificiale. Crediti: INAF
TOI-5800 b, TOI-5817 b e TOI-5795 b: tre esopianeti nettuniani caldi rivelano nuovi indizi sulla formazione dei sistemi planetari. Rappresentazione artistica di un nettuniano caldo e della sua stella realizzata con software d’intelligenza artificiale. Crediti: INAF

Il secondo pianeta, classificato come TOI-5817 b, ha un’orbita più ampia di circa 15,6 giorni ed è ideale per studi atmosferici grazie alla luminosità della sua stella ospite.

In un secondo articolo del programma HONEI, con prima autrice Francesca Manni, dottoranda presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata sotto la supervisione del professor Luigi Mancini, viene presentata la scoperta di TOI-5795 b, un “super-Nettuno caldo” in orbita con un periodo di 6,14 giorni attorno a una stella povera di metalli (ovvero di elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio).

Francesca Manni spiega: “L’esopianeta è stato scoperto dal satellite TESS intorno alla stella TOI-5795, a circa 162 parsec (ossia circa 528 anni luce) dalla Terra. È stato poi osservato anche con lo spettrografo HARPS, per misurare le variazioni di velocità radiale e quindi stimare la massa del pianeta. La stella è un po’ più grande del Sole ma più povera di metalli. Il pianeta ha un’orbita molto stretta e circolare, e caratteristiche da ‘super-Nettuno caldo’, ovvero massa e raggio superiori a quelli di Nettuno, ma temperature elevate”.

E aggiunge: “Questo pianeta si inserisce al confine del deserto dei Nettuniani caldi e la sua orbita quasi circolare e la composizione stellare pongono sfide ai modelli di formazione planetaria attuali, suggerendo che dinamiche successive alla formazione abbiano modellato la sua configurazione attuale”.

Naponiello sottolinea: “Dopo la scoperta del pianeta ultra-denso TOI-1853 b, confermiamo l’interesse cruciale della comunità scientifica per il deserto dei Nettuniani caldi. Questi risultati gettano nuova luce sui processi di migrazione e perdita atmosferica, fondamentali per capire la formazione di questo tipo di mondi”.

Tali risultati, ottenuti mediante l’impiego di spettrografi di eccellenza gestiti con il coinvolgimento rilevante di INAF, pongono solide basi per il futuro studio delle atmosfere planetarie con il telescopio spaziale James Webb e con telescopi terrestri di nuova generazione come l’Extremely Large Telescope (ELT), e saranno fondamentali per comprendere la diversità dei sistemi planetari e la storia evolutiva del nostro stesso Sistema solare.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The Hot-Neptune Initiative (HONEI). I. Two hot sub-Neptunes on a close-in eccentric orbit (TOI-5800b) and a farther-out circular orbit (TOI-5817b)”, di L. Naponiello et al., è stato accettato per la pubblicazione online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Hot Neptune Initiative (HONEI) II. TOI-5795 b: A hot super-Neptune orbiting a metal-poor star”, di F. Manni et al., è stato accettato per la pubblicazione online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testi e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata  e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

LA VERA ETÀ DI GIOVE RIVELATA DA GOCCE DI ROCCIA FUSA – Uno studio INAF e Università di Nagoya svela come la nascita del gigante gassoso abbia innescato la formazione delle condrule nei meteoriti, permettendo di datare con precisione la nascita di Giove, avvenuta 1,8 milioni di anni dopo l’inizio del Sistema solare.

Un nuovo studio guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Nagoya ha dimostrato che la nascita del pianeta Giove ha innescato la formazione delle condrule nei meteoriti, permettendo di stabilire che il corpo celeste si è formato 1,8 milioni di anni dopo l’inizio del Sistema solare.

Schema che mostra come la gravità di Giove ha causato collisioni tra planetesimi che hanno poi fuso la roccia in goccioline, disperse dal vapore acqueo in espansione. Crediti: Diego Turrini e Sin-iti Sirono
Uno studio chiarisce in dettaglio il processo di formazione delle condrule e, grazie a ciò, riusce a datare con precisione la nascita di Giove: lo studio è pubblicato su Scientific Reports. Schema che mostra come la gravità di Giove ha causato collisioni tra planetesimi che hanno poi fuso la roccia in goccioline, disperse dal vapore acqueo in espansione. Crediti: Diego Turrini e Sin-iti Sirono

Quattro miliardi e mezzo di anni fa, Giove crebbe rapidamente fino a raggiungere la sua enorme massa, quella che oggi gli conferisce il primato di pianeta più grande del Sistema solare. La sua potente forza di attrazione gravitazionale sconvolse le orbite di piccoli corpi rocciosi e ghiacciati, simili agli odierni asteroidi e comete e noti come planetesimi. Queste perturbazioni provocarono collisioni a velocità dell’ordine di diversi chilometri al secondo, capaci di fondere le rocce e le polveri contenute in questi “piccoli” oggetti celesti. Il materiale fuso si frammentò in goccioline incandescenti di silicato – le condrule (o condri) – che oggi troviamo conservate nei meteoriti e chiamate, appunto, condriti.

Ora, due ricercatori hanno per la prima volta chiarito in dettaglio il processo di formazione di queste goccioline e, grazie a ciò, sono riusciti a datare con precisione la nascita di Giove. Lo studio, pubblicato oggi su Scientific Reports, mostra che le caratteristiche delle condrule – in particolare le loro dimensioni e le velocità di raffreddamento – sono spiegabili grazie all’acqua contenuta nei planetesimi impattanti. Questo risultato risolve un enigma di lunga data e dimostra che la formazione delle condrule è stata una conseguenza diretta della nascita dei pianeti.

“Il legame genetico tra la formazione di Giove e delle condrule determina che il pianeta si sia formato 1,8 milioni di anni dopo l’epoca delle cosiddette inclusioni ricche di calcio e alluminio (ossia l’inizio della storia del nostro sistema planetario, ndr), anticipando di 1-3 milioni di anni la formazione del pianeta gigante rispetto alle datazioni precedenti”, afferma Diego Turrini, coautore dell’articolo e primo ricercatore INAF.

Le condrule sono piccole sfere, di dimensioni tra 0,1 e 2 millimetri, che si sono formate durante le prime fasi del Sistema solare e sono state incorporate negli asteroidi in formazione. Nel corso del tempo, frammenti di questi asteroidi sono caduti sulla Terra come meteoriti. La loro forma tondeggiante ha costituito un mistero per decenni.

“Una delle principali teorie per la loro formazione è la fusione di rocce durante impatti e la successiva solidificazione di gocce di materiale fuso nella nebulosa solare”, spiega Turrini. “I modelli precedenti o non erano in grado di spiegare caratteristiche delle condrule come il rapido raffreddamento o le piccole dimensioni, oppure richiedevano condizioni molto particolari durante la formazione del Sistema solare”.

“Quando questi antichi planetesimi si scontravano, l’acqua contenuta al loro interno vaporizzava istantaneamente generando espansioni di vapore simili a piccole esplosioni. Questo processo frantumava e raffreddava la roccia silicatica fusa in gocce molto piccole, dando origine alle condrule che oggi osserviamo nei meteoriti”, spiega Sin-iti Sirono, coautore dello studio e docente presso la Graduate School of Earth and Environmental Sciences dell’Università di Nagoya in Giappone. “ll modello descritto nel nostro lavoro riesce a spiegare l’esistenza e le caratteristiche delle condrule grazie a un processo naturale, ossia l’evaporazione ed espansione dei ghiacci cometari, in risposta a fenomeni altrettanto naturali avvenuti in concomitanza con la formazione di Giove nella nebulosa solare, senza richiedere condizioni speciali”.

I due ricercatori sono arrivati a queste conclusioni grazie alla combinazione di simulazioni dinamiche e collisionali dettagliate, studiando come la rapida crescita della forza di gravità di Giove durante la sua formazione abbia causato impatti ad alta velocità tra planetesimi rocciosi e ricchi d’acqua e come l’interazione tra il materiale roccioso fuso e il ghiaccio evaporato formatisi in seguito a questi impatti abbia generato le condrule.

“I risultati sono sorprendenti”, commenta ancora Turrini. “Le caratteristiche e la quantità di condrule generate in queste simulazioni sono in accordo con i dati provenienti dai meteoriti. Inoltre, la produzione massima di condrule coincide con la fase di rapida acquisizione di gas da parte di Giove, che ha portato alla sua enorme massa. Poiché i dati dei meteoriti indicano che la formazione di condrule ebbe il picco 1,8 milioni di anni dopo l’inizio del Sistema solare, possiamo affermare di aver riconosciuto con precisione anche il momento della nascita di Giove”.

Lo studio getta luce sul processo di formazione del nostro sistema planetario, ma la durata limitata della produzione di condrule causata da Giove spiega anche perché nei meteoriti si trovano condrule di età diverse. Probabilmente pianeti giganti come Saturno hanno innescato eventi simili alla loro nascita. Analizzando i condriti di differenti epoche si potrà dunque ricostruire la sequenza di nascita dei pianeti e la storia evolutiva del Sistema solare.

Riferimenti bibliografici:

Sirono, Si., Turrini, D. Chondrule formation by collisions of planetesimals containing volatiles triggered by Jupiter’s formation, Sci Rep 15, 30919 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-12643-x

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Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

Le più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili, provenienti dalla Cina, riscrivono la storia dell’oceano moderno

I ricercatori dell’Università Statale di Milano, analizzando campioni fossili provenienti dalla Cina, hanno identificato le più antiche tracce di alghe coccolitoforidi (un tipo di fitoplancton) finora note, risalenti a circa 250 milioni di anni fa. La scoperta anticipa di 40 milioni di anni le stime sulla nascita dell’oceano come lo conosciamo oggi. Le coccolitoforidi, infatti, contribuiscono alla rimozione della CO₂ e sono parte dei produttori primari che influiscono tutta la biosfera marina. Questo suggerisce che già all’alba del Mesozoico ha avuto inizio la transizione ecologica che ha portato alla nascita di una fauna marina moderna segnando l’inizio dell’oceano attuale. Lo studio è stato pubblicato sulla Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia.

più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili

Milano, 18 agosto 2025 – L’oceano, l’ecosistema più antico e vasto del nostro pianeta, nel corso del tempo ha subito profonde trasformazioni. Ma quando ha assunto l’aspetto che conosciamo oggi?

Una nuova ricerca condotta dall’Università Statale di Milano in collaborazione con l’Università di Pechino, l’Università della California e del Centro di Geoscienze Marine (GEOMAR) di Kiel (Germania), suggerisce che la risposta vada cercata molto più indietro nel tempo di quanto si pensasse finora.

I ricercatori, analizzando campioni fossili provenienti dalla Cina meridionale, archiviati nel Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano (raccolti e studiati in precedenza per i vertebrati marini), hanno identificato tracce di coccolitoforidi scoprendo che queste alghe unicellulari marine (fitoplancton calcareo) di dimensioni comprese tra 3 e 40 micron (1 micron = 1/1000 mm) risalgono a circa 250 milioni di anni. Si tratta delle più antiche coccolitoforidi finora note, che anticipano di circa 40 milioni di anni le precedenti stime sull’origine di questi organismi.

Questa scoperta, pubblicata sulla Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia, è significativa perché identificare quando comparvero le prime coccolitoforidi ci aiuta a datare la nascita dell’oceano moderno.

Infatti, questi organismi, attraverso un processo chiamato coccolitogenesi, producono minuscole piastre di calcite (i coccoliti) che formano un guscio protettivo attorno alla cellula detto coccosfera. Alla morte dell’alga, coccoliti e coccosfere cadono attraverso la colonna d’acqua e si depositano come sedimenti marini sui fondali oceanici (diventando nannofossili calcarei). Questo meccanismo contribuisce all’assorbimento della CO₂ sia tramite la fotosintesi sia attraverso la produzione di calcite e (nell’arco di centinaia di milioni di anni) ha avuto un ruolo chiave nel creare un ambiente favorevole alla comparsa della fauna marina moderna e di conseguenza dell’oceano attuale.

più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili
Le più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili, provenienti dalla Cina, riscrivono la storia dell’oceano moderno

L’origine della calcificazione da parte delle coccolitoforidi è stata studiata da un punto di vista biologico e molecolare, ma le analisi geologico-micropaleontologiche dei sedimenti marini rimangono l’unico modo diretto per datare l’origine e lo sviluppo della coccolitogenesi cioè l’inizio della produzione di calcite da parte di un gruppo di fitoplancton.

Fino ad oggi, i nannofossili calcarei più antichi conosciuti, rinvenuti in sedimenti della Tetide (Alpi austriache e lombarde) e della Pantalassa (Australia, Canada occidentale, Argentina, Perù) erano datati al Triassico Superiore (~210 milioni di anni fa).

Ora però le nuove ricerche indicano la comparsa dei coccoliti più antichi poco dopo l’estinzione di massa di fine Permiano, all’Inizio del Triassico. In un contesto oceanico estremo (acido e povero di ossigeno) causato dalle imponenti eruzioni vulcaniche che alterarono il clima globale e le condizioni chimico-fisiche oceaniche, l’aumento di temperatura e CO₂ atmosferica ebbe tra le sue conseguenze l’accelerazione del dilavamento delle terre emerse riversando grandi quantità di nutrienti nei mari e innalzando così la fertilità degli oceani. Questo aumento di nutrienti favorì l’evoluzione del fitoplancton calcificato con la comparsa di coccolitoforidi primitivi di piccole dimensioni.

La scoperta di coccoliti e coccosfere risalenti a circa 249 milioni di anni fa, in sedimenti marini del Triassico Inferiore della Cina meridionale, rappresenta un punto di svolta per la paleontologia e la storia degli oceani. Questi coccoliti primitivi, piccoli (2–2,5 micron) e semplici, suggeriscono che la calcificazione sia emersa subito dopo l’estinzione di massa di fine Permiano, favorita da nuove condizioni ambientali e da nicchie ecologiche libere che hanno spinto le alghe coccolitoforidi verso innovazioni adattive. Si tratta quindi di un indizio cruciale per comprendere come, già all’alba del Mesozoico, si stessero gettando le basi degli ecosistemi marini dell’oceano attuale

spiega Elisabetta Erba, professoressa di Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano e prima autrice dello studio.

Infatti, i nannofossili calcarei del Triassico Inferiore (249 – 245 milioni di anni fa circa) sono correlati con la comparsa di molti altri nuovi gruppi marini, indicando l’instaurarsi di un’importante diversificazione della biosfera dalla base al vertice della catena alimentare.

Poi, durante il Triassico Medio (245 e 228 milioni di anni fa), le associazioni di nannofossili calcarei diventano sempre più abbondanti e diversificate, parallelamente all’espansione di pesci e rettili marini verso ambienti pelagici. Questo rafforza l’idea di un legame tra le coccolitoforidi calcificanti (o fitoplancton calcareo) e la ristrutturazione degli ecosistemi dopo l’estinzione di massa del Permiano e l’affermarsi di una fauna marina moderna.

“In sintesi, le nostre scoperte datano la nascita dell’oceano moderno all’alba del Mesozoico e sottolineano le profonde interconnessioni tra processi geologici, chimica oceanica e innovazione biologica. L’emergere della coccolitogenesi subito dopo l’estinzione di massa di fine Permiano è uno spettacolare esempio di stretta correlazione tra processi geologici ed evoluzione della vita

conclude Cinzia Bottini professoressa di Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano.

Riferimenti bibliografici:

ERBA, E. et al. 2025, EARLY TRIASSIC ORIGIN OF COCCOLITHOGENESIS. RIVISTA ITALIANA DI PALEONTOLOGIA E STRATIGRAFIA, 131, 2 (Jul. 2025), DOI: https://doi.org/10.54103/2039-4942/29160

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

metodo RESOLVE: un nuovo approccio per svelare le origini delle mutazioni nel cancro, conferma la sinergia tra Informatica e Medicina 

Un gruppo di ricerca multidisciplinare e interateneo ha sviluppato un nuovo metodo per affinare prognosi, diagnosi e terapie delle diverse tipologie di cancro. Lo studio computazionale apre a una medicina oncologica sempre più personalizzata ed efficace.

Milano, 7 agosto 2025 – Affinare la nostra comprensione sui meccanismi evolutivi dei diversi tipi di cancro, per raggiungere diagnosi e terapie sempre più mirate. Un importante passo avanti, è costituito dal nuovo metodo RESOLVE, basato sullo studio delle “firme mutazionali”, cioè schemi ricorrenti di mutazioni nel DNA che raccontano la storia dei danni subiti dalle cellule tumorali e aiutano a identificarne l’origine e i meccanismi di sviluppo.

L’analisi delle firme mutazionali è una pratica consolidata nella genomica del cancro ma presenta diverse sfide. Rispetto ai metodi esistenti, RESOLVE (Robust EStimation Of mutationaL signatures Via rEgularization) permette: una rilevazione più precisa delle firme mutazionali, una stima più affidabile della loro rilevanza nei singoli pazienti e la possibilità di distinguere i tumori in sottotipi molecolari, con ricadute promettenti per la medicina personalizzata.

figura esplicativa del metodo RESOLVE
metodo RESOLVE: un nuovo approccio per svelare le origini delle mutazioni nel cancro, conferma la sinergia tra Informatica e Medicina – figura esplicativa

Questo metodo innovativo, illustrato nell’articolo “Comprehensive analysis of mutational processes across 20 000 adult and pediatric tumors ” pubblicato sulla rivista Nucleic Acids Research, è stato sviluppato da un gruppo multidisciplinare dell’Università di Milano-Bicocca, coordinato da Daniele Ramazzotti (Dipartimento di Medicina e Chirurgia e Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori). Al progetto hanno partecipato anche i ricercatori del Dipartimento di Informatica Marco Antoniotti e Alex Graudenzi, del Dipartimento di Medicina Rocco Piazza e Luca Mologni, e Giulio Caravagna dell’Università di Trieste. Il team comprende inoltre Matteo Villa, Federica Malighetti, Luca De Sano, Alberto Maria Villa, Nicoletta Cordani e Andrea Aroldi.

Lo studio presenta un nuovo strumento computazionale per analizzare i meccanismi mutazionali alla base del cancro. Applicando questo metodo a circa 20.000 genomi tumorali adulti e pediatrici, i ricercatori sono riusciti a identificare in modo accurato un numero ristretto di firme mutazionali dominanti, associate sia a meccanismi biologici noti (come invecchiamento, esposizione al fumo o difetti nella riparazione del DNA) sia a prognosi cliniche differenti.

«Il nostro studio dimostra che, nonostante l’elevata eterogeneità del cancro, è un numero relativamente ristretto di processi mutazionali a generare la maggior parte delle mutazioni osservate.  – dice Daniele Ramazzotti, coordinatore dello studio – Questa scoperta apre nuove prospettive per la diagnosi, la prognosi e lo sviluppo di terapie sempre più mirate in ambito oncologico.»

Foto di gruppo di Medicina: professori Federica Malighetti, Nicoletta Cordani, Daniele Ramazzotti, Luca Mologni, Alberto Maria Villa
Foto di gruppo di Medicina: professori Federica Malighetti, Nicoletta Cordani, Daniele Ramazzotti, Luca Mologni, Alberto Maria Villa

Riferimenti bibliografici:

Matteo Villa, Federica Malighetti, Luca De Sano, Alberto Maria Villa, Nicoletta Cordani, Andrea Aroldi, Marco Antoniotti, Giulio Caravagna, Alex Graudenzi, Rocco Piazza, Luca Mologni, Daniele Ramazzotti, Comprehensive analysis of mutational processes across 20 000 adult and pediatric tumors, Nucleic Acids Research, Volume 53, Issue 13, 22 July 2025, gkaf648, https://doi.org/10.1093/nar/gkaf648

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca.

 TIP60, la centralina multiproteica che “viaggia” all’interno delle cellule per garantirne la corretta replicazione

La review, pubblicata sulla rivista Epigenetics & Chromatin dai ricercatori della Sapienza, fa il punto sulle conoscenze riguardanti il complesso multiproteico TIP60, in particolare sulle sue funzioni “non canoniche” relative alla mitosi. Lo studio apre nuove prospettive nella comprensione delle malattie legate a difetti della divisione cellulare e nell’individuazione di strategie terapeutiche

Il complesso multiproteico TIP60 è una sorta di “centralina” cellulare che controlla il rimodellamento della cromatina. La cromatina è la sostanza che compone il nucleo delle cellule ed è costituita da DNA avvolto a mo’ di gomitolo attorno alle proteine.
TIP60 svolge un ruolo cruciale per il corretto funzionamento delle cellule, regolando, tra l’altro, l’espressione dei geni e le sue alterazioni possono contribuire all’insorgenza di patologie umane, tra cui il cancro e disturbi dello sviluppo neurologico.

Da anni il Laboratorio di Epigenetics and cell division della Sapienza (Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin), coordinato da Patrizio Dimitri, studia le funzioni “non canoniche” svolte da TIP60.

“In particolare – spiega Dimitri – siamo stati incuriositi dall’osservazione che proteine note per svolgere funzioni cromatiniche si spostassero dal nucleo ai siti dell’apparato mitotico che controlla varie fasi divisione cellulare”.

Tali osservazioni, condotte su diversi organismi dall’uomo a Drosophila melanogaster (il moscerino della frutta), fino alle piante, indicano che questo fenomeno è conservato nel corso dell’evoluzione. Da questa esigenza è nata la recente review, con l’obiettivo di fare il punto sulle conoscenze attuali e stimolare nuove direzioni di ricerca in un campo tanto promettente quanto ancora poco esplorato.

L’articolo, pubblicato sulla rivista Epigenetics & Chromatin, si focalizza in particolare su quello che Dimitri ha chiamato il viaggio mitotico delle proteine rimodellatrici, un fenomeno che rivela le funzioni moonlighting del complesso TIP60, capace di svolgere compiti differenti in compartimenti cellulari distinti, mostrando una sorprendente versatilità.

Si tratta di un fenomeno di grande interesse, perché suggerisce l’esistenza di meccanismi genetico-molecolari ancora da chiarire, che svolgono un ruolo fondamentale nel controllo della divisione cellulare e nella stabilità del genoma. Approfondire questi meccanismi potrebbe aprire nuove prospettive nella comprensione delle malattie legate a difetti nei processi di divisione e regolazione genica. Non a caso, il TIP60 rappresenta un potenziale bersaglio per lo sviluppo di future strategie terapeutiche.

“Lo studio tocca anche aspetti centrali dell’evoluzione biologica – osserva Paolo Dimitri –Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’evoluzione non crea necessariamente geni o proteine del tutto nuovi. Molto più spesso riutilizza e modifica molecole già esistenti, adattandole a nuovi compiti senza far loro perdere del tutto le funzioni originarie”.

Le ricerche sono state condotte grazie a finanziamenti ottenuti dal Ministero dell’Università e della Ricerca (Progetto PRIN 2022: Integrating genetic models to mechanistically dissect cytokinesis failure in neurodevelopmental disorders).

Localizzazione della proteina TIP60 sul midbody in cellule umane in coltura
Localizzazione della proteina TIP60 sul midbody in cellule umane in coltura

La fotografia mostra il risultato di un esperimento di immunofluorescenza condotto da Maria Virginia Santopietro, presso l’Advanced Imaging Core Facility di Trento, utilizzando la Expansion Microscopy, una raffinata tecnica di imaging a super-risoluzione.  La freccia indica la presenza sul midbody della proteina TIP60 (che dà il nome al complesso). Il midbody è l’organello che definisce l’evento finale della divisione cellulare (final cut), che dà luogo alla formazione di due cellule figlie (il segnale di TIP60 è in arancione, mentre i fasci di microtubuli del fuso mitotico sono in verde).

 

Riferimenti bibliografici:

Santopietro, M.V., Ferreri, D., Prozzillo, Y. et al., The multitalented TIP60 chromatin remodeling complex: wearing many hats in epigenetic regulation, cell division and diseases, Epigenetics & Chromatin 18, 40 (2025), DOI: https://doi.org/10.1186/s13072-025-00603-8

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma