Invecchiare fa bene al carattere: over 65 più estroversi e umili; lo studio dell’Università di Milano-Bicocca su Nature
La ricerca mostra come la personalità cambi e si riorganizzi dopo i 65 anni, influenzando il benessere. I risultati al centro dell’evento “Come la marginalità influenza le differenze individuali” in programma lunedì 22 settembre presso l’Ateneo.
Milano, 19 settembre 2025 – L’invecchiamento è un processo complesso che comporta trasformazioni fisiche, cognitive e sociali. Ma cosa accade alla personalità? Secondo le teorie tradizionali, i tratti della personalità rimangono stabili dopo la giovane età adulta. Tuttavia, un nuovo studio condotto da Daniele Romano, professore del dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, mette in discussione questa visione, mostrando come la personalità non solo cambi in alcune dimensioni, ma possa anche riorganizzarsi strutturalmente con l’avanzare degli anni.
La ricerca ha coinvolto 376 adulti in pensione over 65 che hanno completato due questionari di personalità e un questionario sul benessere. I risultati evidenziano che, rispetto ai giovani adulti, gli anziani tendono a percepirsi più umili, estroversi e amichevoli, con una maggiore stabilità emotiva, mentre restano invariati rispetto all’apertura mentale.
Questi tratti risultano fondamentali anche per il benessere: estroversione, amicalità e apertura a nuove esperienze, unite a una minore emotività, sono associate a una migliore qualità della vita in età avanzata.
L’elemento più innovativo riguarda la struttura stessa della personalità. Attraverso una tecnica avanzata, che offre una prospettiva nuova sui cambiamenti associati all’invecchiamento, l’Exploratory Graph Analysis (EGA), i ricercatori hanno osservato che i tratti di onestà-umiltà e amicalità tendono a fondersi, riflettendo una maggiore attenzione agli aspetti positivi del carattere e delle relazioni sociali.
«Lo studio – spiega il professor Daniele Romano – mostra che la personalità in età avanzata non è statica, ma dinamica. Le trasformazioni osservate ci aiutano a capire come gli anziani si percepiscano e come alcuni tratti possano sostenere il benessere durante l’invecchiamento. È una prospettiva nuova che sfida l’idea di stabilità della personalità dopo la giovane età adulta».
Questi risultati offrono un contributo importante per la psicologia dell’invecchiamento, aprendo nuove strade per sviluppare interventi e strategie volti a promuovere una terza età più serena, resiliente e soddisfacente.
I risultati dello studio verranno presentati in occasione dell’evento “Come la marginalità influenza le differenze individuali”, in programma il 22 settembre 2025 presso l’Università di Milano-Bicocca (Edificio Agorà U6, Aula Martini). L’incontro, che vedrà la partecipazione di studiosi da diverse università italiane, sarà un momento di confronto sui cambiamenti della personalità e della cognizione legati all’invecchiamento e a condizioni di marginalità sociale, offrendo al pubblico la possibilità di dialogare direttamente con i ricercatori.
Riferimenti bibliografici:
Gobbo, S., Trapattoni, E. & Romano, D., Structural and dimensional analysis of personality in healthy older adults, Sci Rep15, 23804 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-08607-w
Invecchiare fa bene al carattere: over 65 più estroversi e umili, secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature. Foto di Gerd Altmann
Testo dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca.
Melatonina e bambini: pubblicato su Sleep Medicine Reviews, lo studio di Università di Pisa e IRCCS Fondazione Stella Maris fornisce le prime raccomandazione per un uso efficace a medici e famiglie, indicazioni fondamentali dato che le terapie a disposizione dei bambini sono inferiori rispetto agli adulti. La finestra di somministrazione ideale è circa 3 ore prima di dormire, in anticipo rispetto a quanto scritto nei foglietti illustrativi.
Attenzione! Il presente articolo ha carattere scientifico, illustrativo e divulgativo: le nostre conoscenze scientifiche possono modificarsi nel corso del tempo.
In generale, i risultati di un qualsiasi studio scientifico possono essere confutati, ribaltati, adeguati, completati, aggiornati da ulteriori studi in futuro.
In caso di disturbi del sonno è altamente consigliabile innanzitutto un consulto medico. La somministrazione di melatonina, nei bambini come negli adulti, dovrebbe essere supervisionata da un medico (a partire dal dosaggio).
Nel caso in cui ci si rispecchi nei contenuti di questo articolo, invitiamo quindi a riferirsi innanzitutto al proprio medico di fiducia e a non agire di impulso. ScientifiCult non si assume alcuna responsabilità in relazione ai risultati o conseguenze di un qualsiasi utilizzo delle informazioni pubblicate.
Non esistono ad oggi linee guida condivise e realmente efficaci su come usare la melatonina nei bambini con disturbi del sonno e le indicazioni disponibili sono spesso incomplete o discordanti. Da qui la novità dello studio congiunto dell’Università di Pisa e dell’IRCCS Fondazione Stella Maris, appena pubblicato sulla rivista internazionale Sleep Medicine Reviews, che offre per la prima volta raccomandazioni operative su dose, orario di somministrazione e durata del trattamento per una massima efficacia. Secondo le indicazioni emerse riguardano l’orario di somministrazione della melatonina rispetto all’orario di addormentamento desiderato, e la dose più indicata, oltre alla durata ideale del trattamento.
“La melatonina è una sostanza naturale che il nostro corpo produce in condizioni normali e che tra le tanti funzioni serve a regolare il ciclo sonno-veglia – spiega il professore Ugo Faraguna dell’Università di Pisa e dell’IRCCS Fondazione Stella Maris, co-autore dello studio – in questo lavoro abbiamo dimostrato che l’orario di somministrazione è fondamentale e andrebbe personalizzato, ma in generale, andrebbe anticipato di qualche ora rispetto a quanto spesso indicato dal foglietto illustrativo“.
A livello metodologico, lo studio ha raccolto e analizzato in modo sistematico la letteratura fino al 30 aprile 2024, includendo 21 studi clinici su bambini e bambine in età prepuberale con gruppi ai quali è stata somministrata la melatonina e gruppi di controllo ai quali è stato dato un placebo. Il trattamento somministrato secondo le nuove raccomandazioni ha facilitato il sonno in tutti i pazienti e l’effetto è stato più evidente nei bambini con disturbi del neurosviluppo.
“Quando si assume la melatonina come farmaco o integratore è importante fare particolare attenzione specialmente nei bambini, dove le terapie a disposizione sono inferiori rispetto agli adulti – conclude Faraguna – tuttavia a fronte di un uso sempre più diffuso della melatonina in pediatria, mancavano sinora indicazioni condivise su quanto darne, quando somministrarla rispetto all’ora di sonno e per quanto tempo proseguire la terapia. Le raccomandazioni che proponiamo colmano questo vuoto, offrendo una cornice pratica e verificabile che può orientare medici e famiglie “.
Ugo Faraguna, Professore Associato di Fisiologia presso il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia della Scuola di Medicina dell’Università di Pisa, si dedica da anni allo studio della fisiologia del sonno e dei suoi disturbi. Il suo lavoro di ricerca si concentra in particolare sulla relazione tra sonno e plasticità cerebrale, indagando l’influenza del sonno sui processi di apprendimento e memoria e il ruolo della sua alterazione in diverse patologie. Faraguna collabora strettamente con l’IRCCS Fondazione Stella Maris, un’affiliazione che gli permette di focalizzare la sua ricerca anche sui disturbi del sonno in età evolutiva. Oltre all’attività clinica e di ricerca, ha contribuito allo sviluppo di soluzioni tecnologiche innovative, come l’impiego di algoritmi di intelligenza artificiale per l’analisi e il monitoraggio dei dati relativi al sonno.
Il lavoro è frutto della collaborazione tra il gruppo di ricerca dell’Università di Pisa e del’IRCCS Fondazione Stella Maris, rappresentato da Simone Bruno, Giovanni Cenerini, Letizia Lo Giudice, Francy Cruz-Sanabria, Davide Benedetti, Gabriele Masi e Alessio Crippa del Karolinska Institutet di Stoccolma, Simona Fiori dell’Università di Firenze e Raffaele Ferri dell’IRCCS Associazione Oasi Maria SS. ONLUS e attuale Presidente della World Sleep Society il cui congresso annuale si è appena concluso a Singapore (5-10 settembre 2025).
Riferimenti bibliografici:
Simone Bruno, Giovanni Cenerini, Letizia Lo Giudice, Francy Cruz-Sanabria, Davide Benedetti, Alessio Crippa, Simona Fiori, Raffaele Ferri, Gabriele Masi, Ugo Faraguna, Optimizing timing and dose of exogenous melatonin administration in neuropsychiatric pediatric populations: a meta-analysis on sleep outcomes, Sleep Medicine Reviews, Volume 84, 2025, 102158, ISSN 1087-0792, DOI: https://doi.org/10.1016/j.smrv.2025.102158
2023 CX1, CRONACA INTERNAZIONALE DI UN IMPATTO: PRIMA, DURANTE E DOPO
Per la prima volta un asteroide è stato seguito dall’osservazione nello spazio fino al recupero delle meteoriti al suolo. Lo studio, a cui partecipa anche l’INAF, apre nuove prospettive per la difesa planetaria.
Un asteroide scoperto appena sette ore prima di colpire la Terra è oggi al centro del primo studio che ne ricostruisce in modo completo la traiettoria, la disintegrazione in atmosfera e il recupero delle meteoriti al suolo. Si tratta di 2023 CX1, esploso nei cieli della Normandia nella notte del 13 febbraio 2023. La ricerca, a guida del Fireball Recovery and InterPlanetary Observation Network, Planetario di Montréal e Università dell’Ontario Occidentale (University of Western Ontario), e realizzata da un centinaio di scienziati in tutto il mondo – con la partecipazione anche dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – è stata pubblicata oggi sulla rivista Nature Astronomy.
Fotografia scattata da Gijs de Reijke, ripresa dalla riserva naturale di Kampina nei Paesi Bassi
Scoperto il 12 febbraio 2023 alle 20:18 ora universale (o anche UTC in breve) alla stazione di Piszkéstető del Konkoly Observatory (Ungheria), 2023 CX1 è soltanto il settimo asteroide mai individuato prima di un impatto. Subito dopo la scoperta è stato seguito da una vasta rete di osservatori professionali e amatoriali in tutto il mondo, che hanno contribuito a definirne orbita, forma e moto di rotazione. L’orario e la zona dell’impatto sono stati stimati con uno scarto di meno di 20 metri: un’accuratezza senza precedenti.
Con un diametro appena inferiore al metro e una massa di circa 650 chilogrammi, l’asteroide è entrato nell’atmosfera terrestre sul Canale della Manica a una velocità superiore a 14 chilometri al secondo – oltre 50 mila chilometri l’ora – riscaldandosi e trasformandosi in un bolide, ovvero una meteora estremamente luminosa. Durante questa fase è stato osservato da numerose reti di sorveglianza del cielo (meteor e fireball network), tra cui FRIPON/Vigie-Ciel, alla quale partecipa anche la rete PRISMA (Prima Rete Italiana per la Sorveglianza sistematica di Meteore e Atmosfera), coordinata dall’INAF e secondo partner internazionale del programma.
L’asteroide si è disintegrato il 13 febbraio 2023 alle 02:59 UTC a circa 28 chilometri di quota, liberando il 98% della sua energia cinetica in un’unica esplosione e generando una potente onda d’urto sferica. Il fenomeno ha disperso oltre un centinaio di meteoriti, recuperate nei giorni successivi nell’area di caduta predetta e classificate sotto il nome ufficiale Saint-Pierre-Le-Viger (SPLV), località in cui è stato trovato il primo campione.
Lo studio analizza in dettaglio sia le osservazioni dell’asteroide in orbita sia il bolide atmosferico e, infine, le meteoriti recuperate, rappresentando un caso unico: è infatti la prima volta che il materiale di un asteroide viene studiato lungo l’intero percorso, dallo spazio al laboratorio. Le analisi indicano che 2023 CX1 era un frammento di un asteroide della Fascia Principale interna degli asteroidi, collocata tra Marte e Giove, da cui si è staccato circa 30 milioni di anni fa.
“L’impatto di 2023 CX1 in Normandia non è stato un episodio isolato”, sottolinea Dario Barghini ricercatore INAF, membro del Project Office di PRISMA e tra i co-autori dello studio. “Nei giorni immediatamente successivi si sono verificati altri due eventi che hanno portato al recupero di meteoriti al suolo: il 14 febbraio 2023 la rete PRISMA ha registrato un brillante bolide sopra i cieli di Puglia e Basilicata. L’analisi delle traiettorie da parte del nostro team ha permesso di individuare rapidamente l’area di caduta e, appena tre giorni più tardi, il 17 febbraio, è stata recuperata la meteorite Matera, una condrite ordinaria. Il giorno successivo, il 15 febbraio, un altro bolide è stato osservato sopra il Texas, dove le ricerche sul campo hanno portato al ritrovamento di meteoriti”.
Nonostante abbia resistito a pressioni oltre 40 volte superiori a quelle che sperimentiamo al livello del mare, l’oggetto si è disintegrato improvvisamente, producendo un’onda d’urto sferica e compatta. Le simulazioni condotte nello studio mostrano che una frammentazione di questo tipo può avere effetti al suolo più gravi rispetto a eventi come quello di Čeljabinsk nel 2013, caratterizzati invece da una frammentazione graduale.
Per determinare con precisione l’area di dispersione dei frammenti, tipicamente estesa per alcuni chilometri quadrati, i ricercatori hanno utilizzato sia i dati della rete FRIPON sia le immagini raccolte da camere di sorveglianza e strumenti di cittadini e osservatori non professionisti. La triangolazione della traiettoria atmosferica ha dato il via, il 15 febbraio, alle ricerche sul terreno in Normandia da parte di ricercatori e volontari, inclusi i partecipanti al programma di citizen science Vigie-Ciel.
Questo ha portato al recupero dopo poche ore di ricerca di una prima meteorite di circa 100 grammi a Saint-Pierre-Le-Viger, tra Dieppe e Doudeville, in Francia, nella zona indicata dalle previsioni. Le ricerche sono proseguite nelle settimane successive, portando al recupero di oltre un centinaio di frammenti, per un peso complessivo di diversi chilogrammi.
Le meteoriti SPLV sono state classificate come condriti ordinarie di tipo L6, con struttura petrografica e contenuto ferroso tipici di questa classe. Le abbondanze isotopiche confermano la provenienza da un corpo progenitore di Fascia Principale. Sebbene si tratti della classe più comune di meteoriti terrestri, è la prima volta che una condrite L viene collegata direttamente a un asteroide osservato in orbita prima dell’impatto.
L’analisi di 2023 CX1 rappresenta dunque un’opportunità senza precedenti sia per la scienza sia per la difesa planetaria. Lo studio mostra che, per asteroidi con caratteristiche simili, non basta prevedere tempo e luogo dell’impatto: è cruciale valutare anche il modo in cui esploderanno. Una frammentazione improvvisa e concentrata, come quella osservata in Normandia, può infatti amplificare i danni al suolo e rendere necessarie misure straordinarie di protezione civile, come l’evacuazione preventiva delle aree più a rischio.
Tre eventi ravvicinati che hanno offerto alla comunità scientifica e amatoriale un’occasione senza precedenti per confrontare osservazioni e risultati, e che al tempo stesso hanno evidenziato l’importanza crescente delle reti di sorveglianza e della collaborazione internazionale.
“In questo contesto reti di sorveglianza come PRISMA sono fondamentali non solo per il recupero di meteoriti, ma anche per ricostruire l’orbita del corpo progenitore e modellizzarne le modalità di impatto”, conclude Daniele Gardiol, primo tecnologo INAF e coordinatore del progetto PRISMA.
I ricercatori INAF Dario Barghini e Daniele Gardiol. Crediti: Chiara Lamberti (PRISMA / INAF)
Riferimenti bibliografici:
Egal, A., Vida, D., Colas, F. et al., Catastrophic disruption of asteroid 2023 CX1 and implications for planetary defence, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02659-8
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
IL SAPORE DELLE ORIGINI: Team di ricerca italo-giapponese guidato dall’Università di Padova indaga il legame tra cibo e identità
Il filosofo Ludwig Feuerbach scriveva che “L’uomo è ciò che mangia”. Ancora oggi questa celebre frase descrive bene quanto il cibo sia legato alla nostra identità e non serva solo a nutrirci, ma sia anche un simbolo di tradizioni, valori e cultura. Le nostre abitudini alimentari raccontano chi siamo, da dove veniamo e il modo in cui ci sentiamo parte di una comunità.
Un recente studio pubblicato sulla rivista «British Journal of Psychology» e condotto da un gruppo di ricerca italo-giapponese, coordinato da Mario Dalmaso del dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova in collaborazione con l’Università di Waseda di Tokyo, ha indagato il legame tra cibo e identità personale.
Lo studio ha coinvolto partecipanti italiani e giapponesi, due culture con tradizioni culinarie ricche e molto diverse. Ai volontari sono state mostrate immagini di piatti tipici italiani e giapponesi, chiedendo loro di associarli nel modo più rapido e accurato possibile a un’etichetta verbale rappresentante sé stessi o un’ipotetica persona sconosciuta. I risultati hanno rivelato che, anche se i partecipanti riuscivano ad associare alla propria identità entrambi i tipi di cibo, tendevano a sentirsi più vicini e “identificati” con i piatti tipici della propria cultura.
«Questo dimostra che il cibo non è solo nutrimento ma anche un elemento fondamentale della nostra identità – spiega Mario Dalmaso, primo autore dello studio –. Naturalmente viviamo in un mondo globalizzato e negli ultimi anni i piatti di differenti culture, come il sushi, sono diventati molto popolari anche in Italia e viceversa, visto che la cucina italiana è amatissima all’estero. Ma nonostante questa apertura e la contaminazione tra culture, le persone continuano a sentirsi più legate ai sapori che appartengono alle proprie radici».
Mario Dalmaso
È noto che stimoli legati alla nostra identità, come il volto o il nome, vengono elaborati in modo prioritario dal cervello: un discorso analogo si può fare per il cibo, che è ciò che va fisicamente a costituire il nostro corpo. Ma cosa succederebbe se a confrontarsi fossero cucine più vicine geograficamente (ad esempio italiani e francesi o giapponesi e coreani)? E, ancora, se al posto di Italia e Giappone (che hanno due identità e cucine molto forti) si mettessero a confronto paesi con una cucina meno “identitaria” (per es. Singapore o Stati Uniti), i risultati sarebbero gli stessi? Queste domande aprono scenari interessanti da esplorare in futuro, perché è ipotizzabile pensare che l’effetto osservato potrebbe risultare meno marcato.
Riferimenti bibliografici:
Mario Dalmaso, Michele Vicovaro, Toshiki Saito, Katsumi Watanabe, We are what we eat: Cross-cultural self-prioritization effects for food stimuli – «British Journal of Psychology» – 2025, DOI: https://doi.org/10.1111/bjop.70018
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova
LA NEURORIABILITAZIONE PER UNA MEDICINA PIÙ “UMANA” – Pubblicato su «The Lancet Neurology» lo studio guidato dall’Università di Padova che propone di adottare l’approccio multidimensionale della neuroriabilitazione come nuovo paradigma per la medicina del futuro, considerando il paziente nella complessità delle interazioni tra corpo, psiche, e ambiente
La neuroriabilitazione (o riabilitazione neurologica) è una branca della medicina che si occupa della valutazione e del recupero di deficit e disabilità derivanti da un danno neurologico.
Di recente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha evidenziato la centralità della neuroriabilitazione nei sistemi sanitari, riconoscendone il ruolo chiave nella presa in carico delle persone con condizioni neurologiche e disabilità correlate: due report dell’OMS sottolineano infatti la necessità di servizi di neuroriabilitazione accessibili, con approccio multidimensionale incentrato sul paziente, che consideri i bisogni individuali e il contesto sociale della persona, oltrepassando il tradizionale approccio basato esclusivamente su aspetti biologici.
Uno studio guidato dal Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova e pubblicato sulla prestigiosa rivista «The Lancet Neurology» propone un cambio di paradigma radicale, ponendo la neuroriabilitazione come modello per una medicina “dei sistemi”, più vicina alla complessità reale della persona e del suo contesto, che nell’intero percorso di prevenzione, cura e riabilitazione tenga conto anche di fattori non biologici come comportamenti, ambiente, aspetti psicologici e reti sociali.
«Il riconoscimento internazionale della neuroriabilitazione come precursore di una medicina incentrata sulla persona nella sua totalità è un traguardo importante che ribadisce la necessità della riabilitazione nel processo di cura» afferma Alessandra Del Felice, prima autrice dello studio e docente al Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova.
Alessandra Del Felice, prima autrice dello studio su «The Lancet Neurology» che propone l’approccio multidimensionale della neuroriabilitazione come nuovo paradigma per la medicina
Per i pazienti ricoverati nella Clinica Neurologica e Stroke Unit di Padova, dirette dal prof. Maurizio Corbetta dell’Università di Padova – e presto anche per pazienti ambulatoriali con esiti di traumi cerebrali e ictus – questo modello è già realtà: il paziente è preso in carico con un approccio multidisciplinare e con metodologie innovative, considerando la totalità della persona oltre gli aspetti puramente biologici. Ciò assicura un recupero più completo e soddisfacente per pazienti e famiglie, ottimizzando anche le risorse del sistema sanitario regionale.
Lo studio evidenzia tre elementi distintivi della neuroriabilitazione che stanno influenzando altri campi della medicina e contribuendo a un cambio di paradigma generale:
integrazione tra biologia e fattori esterni (come comportamento, ambiente, reti sociali);
collaborazione tra discipline diverse (medicina, psicologia, ingegneria biomedica…);
adozione di metodologie innovative per valutare interventi complessi e personalizzati.
La neuroriabilitazione può fungere da apripista per la medicina dei sistemi, evolvendo da un modello strettamente biomedico a uno più olistico che riconosca l’importanza dei fattori non biologici come comportamenti, esposizioni ambientali, attitudini psicologiche e reti sociali per rendere più efficaci prevenzione, intervento e riabilitazione.
Nonostante l’efficacia, i servizi di neuroriabilitazione sono spesso trascurati. Proprio per questo «The Lancet Neurology» ha istituito una Commissione per sensibilizzare, identificare priorità di ricerca e promuovere nuovi interventi, incluse innovazioni tecnologiche come interfacce cervello-computer e realtà virtuale. La neuroriabilitazione, con il suo approccio olistico, potrebbe fungere da modello per altri campi medici verso una medicina veramente personalizzata e incentrata sul paziente.
PALMA DI GOETHE: ALL’ORTO BOTANICO DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA È STATO SEQUENZIATO IL SUO GENOMA
È il primo sequenziamento genomico di alta qualità a livello cromosomico della palma nana del Mediterraneo, unica nativa dell’Europa continentale e specie con la distribuzione più a nord tra tutte le palme. Nel suo DNA vi sono molte sequenze ripetute: tracce di antichi adattamenti.
È stato pubblicato su «Scientific Data» con il titolo “Chromosome-level assembly of the 400-year-old Goethe’s Palm (Chamaerops humilis L.)” lo studio, coordinato da Francesco Dal Grande dell’Università di Padova e frutto della collaborazione con il Centro per la Biodiversità Genomica di Francoforte e altri partner internazionali, in cui è stato effettuato il primo sequenziamento genomico di alta qualità a livello cromosomico della palma nana del Mediterraneo ed è stato effettuato sulla “Palma di Goethe” all’Orto Botanico dell’Università di Padova.
Il rapido declino della biodiversità globale mette in luce la necessità di aumentare gli sforzi di conservazione. I giardini botanici di tutto il mondo svolgono un ruolo cruciale nella conservazione ex situ delle piante. In particolare, le piante monumentali hanno un grande valore ecologico e culturale, che deve essere tutelato.
L’esemplare di palma nana o palma di San Pietro (Chamaerops humilis L.), messa a dimora nel 1585, è la pianta più antica dell’Orto botanico di Padova ed è nota come Palma di Goethe. Dopo averla ammirata il 27 settembre 1786, infatti, il poeta tedesco ne trae ispirazione per formulare una intuizione evolutiva nel suo saggio La metamorfosi delle piante del 1790, legando così il suo nome a quello della palma “padovana”, per sempre. Nel tempo, la Palma di Goethe è diventata simbolo del legame profondo tra scienza, cultura e natura. La palma nana cresce spontaneamente lungo le coste del Mediterraneo occidentale in formazioni a macchia degradata, spesso in luoghi inaccessibili per sfuggire allo sfruttamento e sottrarsi così alle azioni invasive messe in atto dall’essere umano. Eredità della flora italiana del Terziario (circa 65 milioni di anni fa), attualmente è l’unica specie di palma autoctona a essere sopravvissuta alle glaciazioni che hanno colpito l’Europa fino a 12.000 anni fa.
Progetto Zambler (1873)
la Palma di Goethe nel 1906
la Palma di Goethe nel 1938
la Palma di Goethe oggi
la Palma di Goethe oggi
«Oggi, quasi 240 anni dopo, siamo ripartiti dalla stessa palma per intraprendere un nuovo viaggio. Lo abbiamo fatto in collaborazione con il Centro di Biodiversità Genomica di Francoforte sul Meno, in Germania. La città natale di Goethe, appunto. E abbiamo ottenuto un genoma di altissima qualità. All’Orto botanico dell’Università di Padova abbiamo sequenziato il genoma della Palma di Goethe, la palma coltivata più antica preservata in un orto botanico», spiega Francesco Dal Grande, docente di Botanica sistematica ed Ecologia applicata al Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova. «Si tratta del primo genoma della palma nana del Mediterraneo, Chamaeropshumilis, l’unica palma nativa dell’Europa continentale e la specie con la distribuzione più a nord tra tutte le palme. Nel nostro studio abbiamo scoperto che nel suo DNA vi sono tantissime sequenze ripetute: tracce di antichi adattamenti che, molto probabilmente, hanno permesso alla specie di adattarsi a climi aridi e caldi, come quelli del Mediterraneo. Il genoma ottenuto ci ha permesso anche di svelare un segreto storico: l’origine di questa pianta», continua Dal Grande. «I dati genomici indicano chiaramente un legame tra questa palma e le popolazioni dell’area occidentale del Mediterraneo, la Penisola Iberica e il Marocco. Questo è un esempio di come il DNA possa nutrire la storia, qualora i documenti da soli non bastassero. In un’epoca di forte declino della biodiversità, conoscere in maniera così approfondita il genoma di una specie diventa un vantaggio, uno strumento in più e molto potente per capirla, proteggerla e conservarla nel tempo».
«Grazie alla ricerca pubblicata oggi sappiamo di più sul nostro simbolo, la Palma di Goethe del 1585, e sulla sua provenienza – dice Tomas Morosinotto, Prefetto dell’Orto Botanico -. Utilizzando i metodi più attuali di analisi possiamo capire come la pianta più antica del nostro Orto botanico si è adattata a un clima che non era il suo: uno studio attuale su una pianta con più di quattro secoli di storia, nell’epoca del cambiamento climatico».
In questo nuovo studio, Dal Grande e colleghi presentano il primo assemblaggio genomico di alta qualità, a livello cromosomico, di Chamaerops humilis L., ottenuto grazie a tecnologie all’avanguardia che consentono di leggere e organizzare il DNA con estrema precisione (PacBio HiFi e Arima Hi-C). Ad oggi, questo genoma è il più contiguo e completo all’interno della famiglia delle Arecaceae, con un contenuto di sequenze ripetute dell’88%, di cui il 63% è attribuito agli elementi Long Terminal Repeat (LTR). Un contenuto così elevato di sequenze ripetute ci dice che il genoma è stato modellato da pressioni evolutive intense, probabilmente legate al clima mediterraneo.
Lo studio presenta anche la prima analisi completa dei microRNA in una palma. I microRNA sono piccole molecole regolatorie che controllano quali geni vengono attivati o disattivati. È stata identificata per la prima volta nelle palme la famiglia miR827, che nelle piante aiuta a regolare l’assorbimento di nutrienti fondamentali come il fosforo e l’azoto. Trovare una famiglia di microRNA finora sconosciuta nelle palme apre nuove strade per capire come le piante rispondano a stress ambientali e carenze nutrizionali.
Infine, grazie all’analisi dei microsatelliti – brevi sequenze ripetute di DNA utilizzate per tracciare le origini genetiche – i ricercatori hanno scoperto che l’esemplare patavino condivide affinità con popolazioni dell’area occidentale del Mediterraneo, in particolare tra Marocco e Penisola Iberica.
Questi risultati rappresentano un significativo progresso nella genomica della conservazione della specie e gettano le basi per nuove strategie di conservazione: in questo scenario i giardini botanici sono e, sempre di più, saranno attori protagonisti nella salvaguardia della biodiversità globale.
Riferimenti bibliografici:
Beltran-Sanz, N., Prost, S., Malavasi, V. et al., Chromosome-level assembly of the 400-year-old Goethe’s Palm (Chamaerops humilis L.), Scientific Data, 12, 1542 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41597-025-05673-7
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova
LVK: a dieci anni dalla scoperta, le onde gravitazionali verificano il teorema dell’area dei buchi neri di Stephen Hawking
LIGO, Virgo e KAGRA celebrano questa settimana l’anniversario della prima rilevazione delle onde gravitazionali e annunciano la verifica del teorema dell’area dei buchi neri di Stephen Hawking
Il 14 settembre 2015 è arrivato sulla Terra un segnale generato da una coppia di buchi neri che, dopo aver spiraleggiato uno attorno all’altro a velocità impressionanti, si erano fusi, liberando una enorme quantità di energia. Per raggiungerci il segnale aveva viaggiato per circa 1,3 miliardi di anni alla velocità della luce, ma non si trattava di un segnale luminoso, era un fremito dello spazio-tempo chiamato onda gravitazionale, teorizzato per la prima volta da Albert Einstein 100 anni prima. Quella prima rivelazione diretta delle onde gravitazionali effettuata dai due rilevatori gemelli LIGO negli Stati Uniti, sarà annunciata al mondo dalle collaborazioni LIGO e Virgo, dopo molti mesi di analisi e verifiche, solo nel febbraio 2016. E porterà l’anno successivo alla assegnazione del premio Nobel per la Fisica, a tre dei fondatori di LIGO: Rainer Weiss, professore emerito di fisica dell’MIT (recentemente scomparso all’età di 92 anni), Barry Barish e Kip Thorne di Caltech.
Oggi i rivelatori gravitazionali statunitensi LIGO negli stati di Washington e Louisiana, Virgo, progetto fondato dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dal francese CNRS in Italia e KAGRA in Giappone opera in modo coordinato e osserva circa una fusione di buchi neri ogni tre giorni. Il network LVK (LIGO, Virgo e KAGRA) ha osservato un totale di circa 300 fusioni di buchi neri, alcune delle quali sono state confermate mentre altre sono in attesa di ulteriori analisi. Nel corso dell’attuale periodo di osservazione scientifico, cominciato a giugno 2023, LVK ha rivelato circa 230 segnali candidati a essere fusioni di buchi neri, più del doppio di quelli rilevati nei primi tre periodi.
Dieci anni di scoperte di LVK Questo grafico illustra le scoperte effettuate dalla rete LIGO-Virgo-KAGRA (LVK) dalla prima rilevazione di LIGO, nel 2015, di onde gravitazionali provenienti da una coppia di buchi neri in collisione. Le rivelazioni consistono principalmente in fusioni di buchi neri, ma una manciata coinvolge stelle di neutroni (collisioni buco nero-stella di neutroni o stella di neutroni-stella di neutroni). Finora, durante l’attuale quarto ciclo scientifico, i rivelatori LVK hanno individuato circa 220 fusioni, più del doppio del numero (90) trovato nei primi tre cicli combinati. L’evento più vicino osservato finora, mostrato nel Run 2 e indicato dalla freccia in basso, è una fusione binaria di stelle di neutroni nota come GW170817, situata a soli 130 milioni di anni luce di distanza. In questo grafico, le masse totali degli oggetti iniziali sono rappresentate dalle dimensioni, mentre l’intensità del segnale è indicata dal colore. Il grafico dimostra che nel corso del tempo gli osservatori di onde gravitazionali stanno trovando un maggior numero di buchi neri e li rivelano con un rapporto segnale/rumore più elevato, grazie ai progressi compiuti dai rivelatori. Si noti che le rivelazioni di buchi neri nell’ultima metà del quarto run sono grigie e appaiono della stessa dimensione, perché questi dati non sono stati rilasciati per intero, a eccezione dell’evento denominato GW250114. Questo evento, il segnale più chiaro mai rilevato da LIGO, appare come un punto luminoso arancione sul grafico del quarto run. Crediti immagine: LIGO/Caltech/MIT/R. Hurt (IPAC)
Il notevole aumento del numero di osservazioni di LVK nell’ultimo decennio è dovuto a diversi miglioramenti apportati ai rivelatori, alcuni dei quali sfruttano l’ingegneria di precisione quantistica di ultima generazione. Questi interferometri per onde gravitazionali sono di gran lunga il più preciso strumento di misurazione mai creato dall’umanità. Le distorsioni spazio-temporali indotte dalle onde gravitazionali sono incredibilmente minuscole. Per osservarle, LIGO,Virgo e KAGRA devono rivelare cambiamenti nello spazio-tempo più piccoli di un decimillesimo della dimensione di un protone. Vale a dire 700.000 miliardi di volte più piccole dello spessore di un capello umano.
Il segnale più chiaro finora
La maggiore sensibilità degli strumenti è esemplificata dalla recente scoperta di una fusione di buchi neri denominata GW250114 (i numeri indicano la data in cui il segnale delle onde gravitazionali è arrivato sulla Terra: 14 gennaio 2025). L’evento non è molto diverso dalla prima rivelazione in assoluto (denominata GW150914): entrambi coinvolgono buchi neri in collisione a circa 1,3 miliardi di anni luce di distanza, con masse da 30 a 40 volte quelle del nostro Sole. Ma grazie a 10 anni di progressi tecnologici che hanno ridotto il rumore strumentale, il segnale di GW250114 è molto più nitido.
“Possiamo sentirlo forte e chiaro, e questo ci permette di testare le leggi fondamentali della fisica”,
dice Katerina Chatziioannou, membro di LIGO e Assistant Professor di fisica a Caltech, tra i principali autori di un nuovo studio su GW250114 pubblicato su Physical Review Letters.
Analizzando le frequenze delle onde gravitazionali emesse dalla fusione, il team di LVK è stato in grado di fornire la migliore prova osservativa finora acquisita di quello che è noto come il teorema dell’area dei buchi neri, un’idea avanzata da Stephen Hawking nel 1971 secondo cui le superfici totali dei buchi neri non possono diminuire. Quando i buchi neri si fondono, le loro masse si uniscono, aumentando la superficie. Ma perdono anche energia sotto forma di onde gravitazionali. Inoltre, la fusione può far sì che il buco nero combinato aumenti il suo spin, il che porterebbe a ridurre la sua area. In realtà Il teorema dell’area del buco nero afferma che, nonostante questi fattori in competizione, la superficie totale del buco nero finale deve comunque crescere In seguito, Hawking e il fisico Jacob Bekenstein conclusero che l’area di un buco nero è proporzionale alla sua entropia, o grado di disordine. Queste scoperte hanno aperto la strada a successivi lavori rivoluzionari nel campo della gravità quantistica, che cerca di unire due pilastri della fisica moderna: la relatività generale e la fisica quantistica.
Credito immagine: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation
In sostanza, la rivelazione ha permesso al team di “ascoltare” i due buchi neri che crescevano mentre si fondevano in uno solo, verificando il teorema di Hawking. I buchi neri iniziali avevano una superficie totale di 240.000 chilometri quadrati (circa la dimensione del Regno Unito), mentre l’area finale era di circa 400.000 chilometri quadrati (quasi la dimensione della Svezia). Questo è il secondo test del teorema dell’area del buco nero; un primo test è stato eseguito nel 2021 utilizzando i dati del primo segnale GW150914, ma poiché quei dati non erano così chiari, i risultati avevano un livello di confidenza del 95% rispetto al 99,999% dei nuovi dati. Kip Thorne ricorda che Hawking gli telefonò per chiedergli se LIGO potesse essere in grado di testare il suo teorema subito dopo aver appreso della rivelazione delle onde gravitazionali nel 2015. “Se Hawking fosse ancora vivo, si avrebbe certamente gioito nel vedere che l’analisi dei dati di GW250114 mostri che l’area dei buchi neri uniti effettivamente aumenta”, dice Thorne. (Hawking è scomparso nel 2018)
Credito immagine: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation
Nello studio pubblicato oggi, infatti, i ricercatori sono riusciti a misurare con precisione i dettagli della cosiddetta fase di ringdown, in cui, dopo la fusione, il buco nero finale vibra come una campana colpita. Ciò ha permesso loro di calcolare la massa e lo spin del buco nero e di determinarne quindi la superficie. In questo studio,in effetti, sono stati individuati per la prima volta, con sicurezza, due distinti “modi” di onde gravitazionali nella fase di ringdown. I modi sono come i suoni caratteristici di una campana, quando viene colpita: hanno frequenze simili ma si estinguono a velocità diverse, il che li rende difficili da identificare. Grazie al miglioramento dei dati relativi a GW250114, il team ha potuto estrarre per la prima volta i modi, dimostrando che il ringdown del buco nero si è verificato esattamente come previsto dai modelli matematici. Infine un altro studio di LIGO – Virgo – KAGRA, presentato oggi a Physical Review Letters, pone dei limiti alla previsione di un terzo tono più acuto nel segnale di GW250114 ed esegue alcuni dei test più rigorosi finora condotti sull’accuratezza della relatività generale nel descrivere la fusione dei buchi neri.
“Analizzare i dati dei rivelatori per individuare segnali astrofisici transitori, inviare alerts per attivare osservazioni di follow-up da parte dei telescopi e pubblicare i risultati raccogliendo informazioni da centinaia di eventi è un processo piuttosto lungo e complesso”, aggiunge Nicolas Arnaud, ricercatore del CNRS in Francia e coordinatore del quarto ciclo di osservazioni di Virgo. “Dietro a tutti questi passaggi ci sono. però, esseri umani, in particolare quelli che sono in turno costantemente a sorvegliare i nostri strumenti, in tutte le regioni del pianeta: letteralmente, il Sole non tramonta mai sulle nostre collaborazioni!”.
Spingersi oltre i limiti
LIGO e Virgo hanno anche osservato stelle di neutroni nell’ultimo decennio. Come i buchi neri, le stelle di neutroni si formano dopo la morte esplosiva delle stelle massicce, ma sono meno pesanti e emettono luce. Nell’agosto 2017, LIGO e Virgo hanno assistito all’epica collisione tra una coppia di stelle di neutroni – una kilonova – che ha disperso nello spazio oro e altri elementi pesanti. Lo stesso fenomeno è stato immediatamente segnalato a decine di telescopi suulla Terra e nello Spazio, che hanno potuto catturare altri segnali generati dallo stesso evento: dai raggi gamma ad alta energia alle onde radio a bassa energia. Questo evento astronomico “multi-messaggero” ha segnato una tappa epocale. La ricerca di altre collisioni di stelle di neutroni resta oggi una delle frontiere più promettenti per la comunità astronomica e il network LVK è al centro di un sistema di alerts, che consente ai telescopi di cercare nei cieli i segni di una nuova potenziale kilonova.
“La rete globale fdi rivelatori gravitazionali è essenziale per l’astronomia delle onde gravitazionali”, afferma Gianluca Gemme, portavoce di Virgo e dirigente di ricerca dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare). “Con tre o più rivelatori che operano all’unisono, possiamo individuare gli eventi cosmici con maggiore precisione, estrarre informazioni astrofisiche più ricche e consentire segnalazioni rapide per il follow-up di più messaggeri. La Collaborazione Virgo è orgogliosa di contribuire a questa impresa scientifica mondiale”.
Guardando al futuro, gli scienziati stanno lavorando a rivelatori ancora più grandi. Il progetto europeo, chiamato Einstein Telescope, prevede di costruire uno o due enormi interferometri sotterranei con bracci di oltre 10 chilometri, mentre quello statunitense, chiamato Cosmic Explorer, sarebbe simile all’attuale LIGO ma con bracci lunghi 40 chilometri. Osservatori di questa portata consentirebbero di ascoltare le prime fusioni di buchi neri nell’universo e, forse, l’eco delle scosse gravitazionali dei primissimi istanti dopo il Big Bang.
“Questo è un momento straordinario per la ricerca sulle onde gravitazionali: grazie a strumenti come Virgo, LIGO e KAGRA, possiamo esplorare un universo oscuro che prima era completamente inaccessibile”, ha dichiarato Massimo Carpinelli, professore all’Università di Milano Bicocca e direttore dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo di Cascina. “Le conquiste scientifiche di questi 10 anni stanno innescando una vera e propria rivoluzione nella nostra visione dell’Universo. Stiamo già preparando una nuova generazione di rivelatori come Einstein Telescope in Europa e Cosmic Explorer negli Stati Uniti, oltre all’ interferometro spaziale LISA, che ci porteranno ancora più lontano nello spazio e nel tempo. Nei prossimi anni, saremo in grado di affrontare queste straordinarie sfide solo grazie a una sempre più ampia e solida collaborazione tra scienziati, Paesi e istituzioni diverse, sia a livello europeo che globale.”
A dieci anni dalla scoperta, le onde gravitazionali verificano il teorema dell’area dei buchi neri di Stephen Hawking. Una sinfonia cosmica rivelata. Quest’opera d’arte ci immerge in GW250114, una potente collisione tra due buchi neri osservata con le onde gravitazionali dal progetto LIGO della National Science Foundation statunitense. Raffigura la vista da uno dei buchi neri mentre si dirige a spirale verso il suo partner cosmico. Dieci anni dopo la storica rilevazione delle onde gravitazionali da parte di LIGO, i rivelatori migliorati hanno permesso di “sentire” questa collisione celeste con una chiarezza senza precedenti. I dati sulle onde gravitazionali hanno permesso agli scienziati di distinguere molteplici toni che risuonano come una campana cosmica attraverso l’universo (immaginato qui come un intreccio di fili musicali che si dirigono a spirale verso il centro). Sebbene solo LIGO fosse online durante l’osservazione di GW250114, ora opera abitualmente come parte di una rete con altri rivelatori di onde gravitazionali, tra cui Virgo in Europa e KAGRA in Giappone. Credit immagine: Aurore Simonnet (SSU/EdEon)/LVK/URI
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa EGO e Virgo
UNA NUOVA TERAPIA A BASE DI ANTICORPI RALLENTA LA PROGRESSIONE DEL GLIOBLASTOMA E RIDUCE L’IPERATTIVITÀ CEREBRALE INDOTTA DAL TUMORE
Lo studio, pubblicato sulla rivista «Cell Communication and Signaling», è stato condotto da un team internazionale di ricerca guidato dall’Università di Padova in collaborazione con il CNR-IBBC
Il glioblastoma è la forma più aggressiva di tumore cerebrale negli adulti, con una sopravvivenza media dopo la diagnosi inferiore ai 15 mesi.
Un team internazionale di ricercatori guidato da Fabio Mammano, docente al Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova e associato con incarico di ricerca all’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IBBC) CNR, ha sviluppato una nuova terapia a base di anticorpi che si è dimostrata efficace nel rallentare la crescita del glioblastoma. Oltre a ostacolare la progressione tumorale, il trattamento riduce anche l’iperattività neuronale causata dal tumore, una condizione spesso associata a crisi epilettiche nei pazienti.
Il glioblastoma è notoriamente difficile da trattare. In questo studio, pubblicato sulla rivista scientifica «Cell Communication and Signaling», i ricercatori hanno mirato a un bersaglio molecolare preciso: i canali emisomici delle connessine (connexin hemichannels), che nei tumori sono iperattivi e rilasciano segnali pro-tumorali come ATP (Adenosin Trifosfato, una molecola energetica essenziale per la crescita e la proliferazione delle cellule) e glutammato.
Utilizzando colture cellulari derivate da pazienti e un modello murino rappresentativo della malattia, i ricercatori hanno testato un anticorpo monoclonale chiamato abEC1.1, in grado di bloccare selettivamente alcune connessine (Cx26, Cx30 e Cx32).
I risultati sono stati:
riduzione della migrazione e dell’invasività delle cellule tumorali
inibizione del rilascio di ATP e glutammato
riduzione significativa del volume tumorale e aumento della sopravvivenza nei topi
normalizzazione dell’attività sinaptica anomala indotta dal tumore
«È la prima volta che un anticorpo terapeutico si dimostra capace di contrastare contemporaneamente la crescita del glioblastoma e l’iperattività neuronale che il tumore induce nei tessuti circostanti – spiega Mammano –. Questo approccio apre la strada a nuove strategie terapeutiche che mirano non solo alle cellule tumorali, ma anche alle loro interazioni patologiche con l’ambiente cerebrale».
Fabio Mammano
«Con questo studio abbiamo chiaramente evidenziato l’importanza di contrastare specificamente i componenti molecolari che attivano e rafforzano la comunicazione tra le cellule tumorali ed il tessuto circostante, alimentando la proliferazione incontrollata del glioblastoma» aggiunge Daniela Marazziti, ricercatrice del CNR-IBBC e coautrice del lavoro.
L’anticorpo è stato somministrato sia come proteina purificata sia tramite terapia genica con vettori virali AAV (virus adeno-associati), una modalità che potrebbe consentire effetti terapeutici duraturi con una sola somministrazione. Lo studio rafforza l’idea che i canali emisomici delle connessine siano un bersaglio farmacologico promettente per il trattamento del glioblastoma. La tecnologia è oggetto di brevetto in contitolarità tra l’Università di Padova, il CNR, l’Università degli Studi di Milano e l’Università ShanghaiTech.
La ricerca è stata condotta in collaborazione con istituzioni accademiche in Italia e Cina ed è stata finanziata da Ministero dell’Università e della Ricerca (PRIN), Fondazione Cariparo, Fondazione Giovanni Celeghin, Università ShanghaiTech e Fondazione Umberto Veronesi.
Viola Donati, Chiara Di Pietro, Luca Persano, Elena Rampazzo, Mariateresa Panarelli, Clara Cambria, Anna Selimi, Lorenzo Manfreda, Ana Gabriela de Oliveira do Rêgo, Gina La Sala, Camilla Sprega, Arianna Calistri, Catalin Dacian Ciubotaru, Guang Yang, Francesco Zonta, Flavia Antonucci, Daniela Marazziti e Fabio Mammano, Connexin hemichannel blockade by abEC1.1 disrupts glioblastoma progression, suppresses invasiveness, and reduces hyperexcitability in preclinical models – «Cell Communication and Signaling» – 2025
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova
NATI PER CONTARE COSÌ: IL CERVELLO, LA LATERALIZZAZIONE CEREBRALE E L’ASSOCIAZIONE TRA NUMERI E SPAZIO
Uno studio condotto dal Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova dimostra che l’associazione tra numeri e spazio dipende dalla lateralizzazione cerebrale ed è influenzata dall’esposizione alla luce
La maggior parte di noi pensa ai numeri come disposti lungo una linea mentale che va da sinistra a destra: i più piccoli a sinistra, i più grandi a destra. Si ritiene comunemente che questa “linea numerica mentale” sia un prodotto dell’esperienza culturale, in particolare della lettura e della scrittura. Tuttavia, evidenze raccolte in bambini e animali mettono in discussione questa idea, suggerendo che l’associazione tra numero e spazio possa avere origini biologiche.
Alla base dello sviluppo di questa linea numerica mentale c’è la lateralizzazione cerebrale, nota anche come specializzazione emisferica, che si riferisce all’idea che i due emisferi del cervello siano funzionalmente diversi e abbiano ruoli specializzati in vari processi cognitivi.
Lo studio pubblicato sulla rivista «eLife» e coordinato dal Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova offre una prova diretta a favore di questa ipotesi basandosi sull’osservazione di pulcini appena nati: i risultati mostrano che la lateralizzazione cerebrale – la specializzazione degli emisferi destro e sinistro per funzioni diverse – è necessaria per lo sviluppo di una linea numerica mentale orientata da sinistra a destra ed è influenzata dalla luce.
«L’esposizione alla luce durante lo sviluppo embrionale induce la lateralizzazione cerebrale nei pulcini domestici, migliorando le loro abilità spazio-numeriche e la loro tendenza a “contare” da sinistra a destra – spiega Rosa Rugani, prima autrice dello studio e docente al Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova –. Diversi modelli teorici hanno ipotizzato che la linea numerica mentale abbia origine nella lateralizzazione cerebrale, ma finora mancavano prove sperimentali dirette. Il nostro studio fornisce queste evidenze».
I ricercatori hanno inoltre osservato che solo gli individui con una lateralizzazione ben sviluppata mostravano la tendenza a organizzare i numeri da sinistra a destra.
«Per la prima volta dimostriamo che la lateralizzazione non è solo associata alla linea numerica mentale, ma è indispensabile per il suo sviluppo – continua Rugani –. Questo suggerisce che la nostra percezione dei numeri nello spazio ha radici biologiche profonde, sebbene venga poi modellata dall’interazione con l’ambiente».
Rosa Rugani
Gli autori ipotizzano che questa tendenza possa avere vantaggi evolutivi; ad esempio, una scansione visiva da sinistra a destra potrebbe aiutare i pulcini a localizzare e quantificare meglio le risorse alimentari durante il foraggiamento.
«Il nostro lavoro dimostra che la lateralizzazione cerebrale gioca un ruolo fondamentale nel modo in cui gli animali – e probabilmente anche gli esseri umani – rappresentano i numeri nello spazio – aggiunge Lucia Regolin, coautrice dello studio e docente nello stesso Dipartimento –. Comprendere le basi biologiche della cognizione numerica può aiutarci a capire perché certe abilità emergono, quando lo fanno, e perché possono risultare alterate in presenza di un’organizzazione cerebrale atipica».
Questa ricerca apre nuove prospettive nello studio delle origini evolutive del pensiero numerico e dell’influenza delle prime esperienze sensoriali sullo sviluppo cognitivo.
Riferimenti bibliografici:
Rosa Rugani, Matteo Macchinizzi, Yujia Zhang, Lucia Regolin, Hatching with Numbers: Pre-natal Light Exposure Affects Number Sense and the Mental Number Line in young domestic chicks – «eLife Sciences» – 2025, link: https://elifesciences.org/articles/106356
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova
CAMPI FLEGREI: Applicata l’Intelligenza Artificiale per sviluppare un catalogo sismico di alta definizione. Un nuovo studio rivela dettagli inediti sull’attività sismica della Caldera
Un team internazionale di scienziati del Dipartimento di Geofisica della Doerr School of Sustainability di Stanford, dell’Osservatorio Vesuviano dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV-OV) e dell’Università degli Studi di Napoli Federico II ha appena pubblicato, sulla rivista scientifica Science, lo studio A clearer view of the current phase of unrest at Campi Flegrei Caldera.
Il lavoro offre una visione più chiara della fase di attività sismica in corso ai Campi Flegrei (unrest). L’area di interesse comprende le zone densamente popolate della periferia occidentale di Napoli e la città di Pozzuoli, dove negli ultimi anni si è registrato un deciso aumento dell’attività sismica, delle emissioni di gas e del sollevamento del suolo.
Localizzazioni dei terremoti contenuti nel nuovo catalogo sismico di alta definizione. Le diverse gradazioni di rosso indicano differenti profondità dei terremoti
I ricercatori hanno utilizzato tecniche di intelligenza artificiale (AI) sviluppate presso l’Università di Stanford e applicate ai sismogrammi registrati dall’INGV nell’area dei Campi Flegrei, identificando oltre 50.000 terremoti nel periodo tra il 2022 e la metà del 2025. Il catalogo sismico di alta definizione ha evidenziato un sistema di faglie attive e ha fornito importanti dettagli sull’origine del fenomeno. In dettaglio, l’AI è stata istruita utilizzando il catalogo sismico compilato dall’INGV-OV dal 2000 e si è avvalsa della densa rete sismica potenziata negli anni dall’Ente anche in risposta all’aumento della sismicità.
I risultati hanno mostrato che la quasi totalità degli eventi sismici ha un’origine tettonica, con profondità inferiori ai 4 km e non si riscontrano evidenze sismiche di una migrazione significativa di magma.
È stato chiaramente identificato un sistema di faglie ad anello, che circonda la zona di sollevamento della caldera, estendendosi sia sulla terraferma sia nel Golfo di Napoli.
“All’interno di tale struttura ad anello la sismicità osservata evidenzia per la prima volta sulla terraferma vicino a Pozzuoli delle faglie specifiche e ben definite, che potrebbero portare a stime più precise della pericolosità e del rischio sismico in questa area”, afferma il Professor Warner Marzocchi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.
L’unica sismicità non puramente tettonica, composta da eventi cosiddetti “ibridi”, è stata osservata a profondità inferiori a un chilometro, vicino al duomo lavico di Accademia.
“Questi eventi provengono dall’interazione tra roccia, fluidi e gas durante una frattura. Analisi più approfondite suggeriscono che i fluidi coinvolti sarebbero di tipo idrotermale”, ha dichiarato la ricercatrice dell’INGV, Anna Tramelli.
Il nuovo sistema di analisi dei segnali sismici, implementato durante la ricerca, è già in funzione.
“Questo sistema, una volta superata la fase di verifica, potrebbe permettere di identificare in tempo quasi reale anche i più piccoli cambiamenti nel comportamento sismico dei Campi Flegrei e, di conseguenza, permettere migliori stime del rischio sismico e vulcanico”, concludono i ricercatori.
Campi Flegrei: applicata l’intelligenza artificiale per sviluppare un catalogo sismico di alta definizione; lo studio è stato pubblicato su Science. Immagine dei Campi Flegrei acquisita da drone. Crediti – Alessandro Fedele, ricercatore INGV
Riferimenti bibliografici:
Xing Tan et al., A clearer view of the current phase of unrest at Campi Flegrei caldera, Science 0, eadw9038, DOI:10.1126/science.adw9038
Roma, 5 settembre 2025
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Rettorato dell’Università degli studi di Napoli Federico II