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LIGO, Virgo e KAGRA osservano per la prima volta buchi neri di “seconda generazione”, GW241011 e GW241110

Due fusioni di buchi neri speciali, rivelate a un mese di distanza l’una dall’altra alla fine del 2024, aggiungono un nuovo importante tassello alla nostra comprensione dei fenomeni più violenti del nostro universo. Alcune caratteristiche di queste fusioni suggeriscono infatti che si tratti di buchi neri di “seconda generazione”, cioè di buchi neri generati a loro volta da precedenti fusioni, avvenute in ambienti cosmici molto densi e affollati, come gli ammassi stellari, dove è più probabile che i buchi neri si scontrino e si fondano ripetutamente.

In un nuovo articolo pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters, la Collaborazione Internazionale LIGO-Virgo-KAGRA ha annunciato la rilevazione di due segnali di onde gravitazionali avvenuta nell’ottobre e nel novembre dello scorso anno, in cui i buchi neri presentano degli spin, ovvero caratteristiche di rotazione, insoliti. Un’osservazione che aggiunge un nuovo importante tassello alla nostra comprensione dei fenomeni più elusivi dell’universo. Le onde gravitazionali sono “increspature” nello spazio-tempo che derivano da cataclismi dello spazio profondo: i segnali più intensi di questa natura sono spesso generati dalla collisione di buchi neri. Utilizzando algoritmi e modelli matematici estremamente sofisticati, è possibile ricostruire dall’analisi di questi segnali molte caratteristiche fisiche dei buchi neri che li hanno generati: la loro massa, la distanza dalla Terra e persino la velocità e la direzione della loro rotazione attorno al proprio asse, chiamata spin.

La prima fusione rivelata, GW241011 (11 ottobre 2024), si è verificata a circa 700 milioni di anni luce di distanza dalla Terra ed è stata causata dalla collisione di due buchi neri con una massa pari a circa 17 e 7 volte quella del nostro sole. Il più grande dei due buchi neri in GW241011 è uno dei buchi neri che ruota più rapidamente tra quelli osservati fino ad oggi. Quasi un mese dopo, il 10 Novembre 2024, è stato rilevato GW24111010, un segnale proveniente da circa 2,4 miliardi di anni luce dalla Terra, proveniente dalla fusione di buchi neri con una massa pari a circa 16 e 8 volte quella del nostro sole. Mentre la maggior parte dei buchi neri osservati ruotano nella stessa direzione della loro orbita, il buco nero primario di GW241110 ruota invece in direzione opposta e rappresenta il primo caso del genere osservato fino ad oggi.

“Ogni nuova rivelazione fornisce importanti indicazioni sull’universo, poiché ogni fusione osservata è sia una scoperta astrofisica che un laboratorio eccezionale per sondare le leggi fondamentali della fisica”, afferma il coautore del lavoro Carl-Johan Haster, assistant professor di astrofisica presso l’Università del Nevada, Las Vegas (UNLV). “Binarie come queste erano state previste, ma questa è la prima prova diretta della loro esistenza”.

Entrambe le rivelazioni, inoltre, indicano la possibilità di buchi neri di “seconda generazione”.

“GW241011 e GW241110 sono tra gli ultimi eventi delle diverse centinaia osservati dalla rete LIGO-Virgo-KAGRA”, afferma Stephen Fairhurst, professore all’Università di Cardiff e portavoce della collaborazione scientifica LIGO. “Entrambi gli eventi hanno un buco nero significativamente più massiccio dell’altro e in rapida rotazione, e forniscono indicazioni interessanti che questi buchi neri si siano formati da precedenti fusioni di buchi neri”.

In particolare gli indizi evidenziati dai ricercatori sono la differenza di dimensioni tra i buchi neri in ciascuna fusione (il più grande era quasi il doppio del più piccolo) e l’orientamento di rotazione dei buchi neri più grandi in ciascun evento. Una spiegazione naturale di queste peculiarità è che i buchi neri siano il risultato di precedenti fusioni. Fenomeni di questo tipo, chiamati fusioni gerarchiche, avvengono solitamente in regioni cosmiche estremamente ‘affollate’, come gli ammassi stellari, dove i buchi neri sono più propensi a scontrarsi e quindi a fondersi ripetutamente.

“Queste rivelazioni evidenziano le straordinarie capacità dei nostri osservatori di onde gravitazionali”, afferma Gianluca Gemme, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e portavoce della Collaborazione Virgo. “Le insolite configurazioni di spin osservate in GW241011 e GW241110 non solo sfidano la nostra comprensione della formazione dei buchi neri, ma offrono anche prove convincenti di fusioni gerarchiche in alcuni ambienti cosmici: ci insegnano che alcuni buchi neri non esistono solo come partner isolati, ma probabilmente come membri di una folla densa e dinamica. Queste scoperte evidenziano, ancora una volta, il ruolo cruciale della rete internazionale di interferometri gravitazionali per svelare i fenomeni più elusivi dell’universo”.

Alla scoperta delle proprietà nascoste delle fusioni di buchi neri

Le onde gravitazionali furono previste per la prima volta da Albert Einstein nel 1916 come parte della sua teoria della relatività generale, ma sebbene la loro esistenza fu dimostrata negli anni ’70, la loro prima osservazione diretta risale a soli 10 anni fa, quando le collaborazioni scientifiche LIGO e Virgo annunciarono di avere rivelato onde gravitazionali risultanti dalla fusione di due buchi neri. Oggi, LIGO, Virgo e KAGRA costituiscono una rete mondiale di rivelatori avanzati di onde gravitazionali e stanno per concludere il loro quarto ciclo di osservazioni, O4. La campagna attuale è iniziata alla fine di maggio 2023 e dovrebbe continuare fino a metà novembre di quest’anno. Ad oggi, sono state osservate circa 300 fusioni di buchi neri attraverso le onde gravitazionali, compresi i candidati identificati nella campagna O4 in corso che sono in attesa di validazione finale.

Inoltre, nel caso dell’osservazione annunciata oggi, la precisione con cui è stato misurato GW241011 ha permesso di testare in condizioni estreme alcune delle previsioni chiave della teoria della relatività generale di Einstein.

Infatti questo evento può essere confrontato con le previsioni della teoria di Einstein e con la soluzione del matematico Roy Kerr per i buchi neri in rotazione. La rapida rotazione del buco nero lo deforma leggermente, lasciando un’impronta caratteristica nelle onde gravitazionali che emette. Analizzando GW241011, il team di ricerca ha trovato un eccellente accordo con la soluzione di Kerr e ha verificato, ancora una volta, la previsione di Einstein, ma con una precisione senza precedenti. 

Inoltre, poiché le masse dei singoli buchi neri differiscono in modo significativo, il segnale delle onde gravitazionali contiene il “ronzio” di un’armonica superiore, simile agli armonici degli strumenti musicali, ‘ascoltato’ solo in tre diversi segnali gravitazionali fino ad oggi. Una di queste armoniche è stata osservata con estrema chiarezza e conferma un’altra previsione della teoria di Einstein.

“Questa scoperta significa anche che siamo più sensibili che mai a qualsiasi nuova fisica che possa andare oltre la teoria di Einstein”, afferma Haster.

Ricerca avanzata di particelle elementari

I buchi neri in rapida rotazione come quelli osservati in questo studio hanno un’altra applicazione: la fisica delle particelle. Scienziate e scienziati possono utilizzarli per verificare l’esistenza di alcune particelle elementari leggere e ipotizzare la loro massa.

Queste particelle, chiamate bosoni ultraleggeri, sono previste da alcune teorie che vanno oltre il Modello Standard della fisica delle particelle, che descrive e classifica tutte le particelle elementari conosciute. Se i bosoni ultraleggeri esistono, possono essere generati dall’energia rotazionale dei buchi neri. Quanta energia si disperda in queste particelle e quanto la rotazione dei buchi neri rallenti nel tempo dipende dalla massa, che non conosciamo, degli ipotetici bosoni. L’osservazione che il buco nero massiccio nel sistema binario che ha emesso GW241011 continua a ruotare rapidamente anche milioni o miliardi di anni dopo la sua formazione è un’idicazione che ci permette di escludere un’ampia gamma di masse di bosoni ultraleggeri.

“La rivelazione e lo studio di questi due eventi dimostrano quanto sia importante far funzionare i nostri rivelatori in sinergia e sforzarsi di migliorarne la sensibilità”, afferma Francesco Pannarale, professore alla Sapienza – Università di Roma e ricercatore della Collaborazione Virgo – “Gli strumenti LIGO e Virgo ci hanno insegnato nuovamente qualcosa su come si formano le binarie di buchi neri nel nostro Universo”, aggiunge, “e sulla fisica fondamentale che le regola nella loro essenza. Con il potenziamento dei nostri strumenti, saremo in grado di approfondire questi e altri aspetti grazie alla maggiore precisione delle nostre osservazioni”.

 

Riferimenti bibliografici: 

“GW241011 and GW241110: Exploring Binary Formation and Fundamental Physics with Asymmetric, High-Spin Black Hole Coalescences” è stato pubblicato il 28 ottobre su The Astrophysical Journal Letters,  DOI: http://dx.doi.org/10.3847/2041-8213/ae0d54

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa EGO e Virgo.

Un nuovo studio rivela le origini della zanzara urbana Culex pipiens form molestus, capace di trasmettere all’uomo con la sua puntura il virus della febbre del Nilo Occidentale (West Nile)

Nel 2025 l’Italia ha registrato un aumento significativo di casi di virus trasmessi all’uomo da zanzare. In particolare la zanzara Culex pipiens ha infettato oltre 700 persone, metà delle quali ha manifestato la forma neuroinvasiva più preoccupante che in 69 casi ha avuto un esito infausto.

Nel nostro paese tale zanzara è presente in due forme differenti: la Culex pipiens form molestus, che punge prevalentemente gli esseri umani nelle ore serali e in quelle notturne, e la Culex pipiens form pipiens, che ha una predilezione per gli uccelli.

Per decenni i biologi evoluzionisti hanno creduto che la forma molestus fosse evoluta negli ultimi 200 anni dalla forma pipiens all’interno di sotterranei e cantine nell’Europa settentrionale, tanto da attribuirgli il nome di “zanzara della metropolitana di Londra”. Questo caso è infatti stato spesso citato come esempio della capacità di una specie di adattarsi rapidamente a nuovi ambienti e all’urbanizzazione. Ora però un nuovo studio guidato da ricercatori dell’Università di Princeton negli Stati Uniti – con il contributo di ricercatori di università di tutto il mondo, inclusa SAPIENZA – smentisce tale teoria.

Lo studio – pubblicato il 23 ottobre sulla rivista Science – grazie all’analisi del DNA di migliaia di esemplari di Culex pipiens rappresentativi della diversità geografica e genetica della specie, dimostra che molestus si è evoluta e adattata all’uomo tra 1.000 e 10.000 anni fa in una società agricola antica, molto probabilmente nell’Antico Egitto, dove ha sviluppato l’adattamento ad ambienti antropizzati che in tempi più recenti ha consentito la colonizzazione di ambienti ipogei dell’Europe centro-settentrionale.

“Oltre a rivedere uno dei “casi da manuale” sull’evoluzione e l’adattamento urbano, la ricerca ha anche importanti implicazioni per la salute pubblica” – spiega Alessandra della Torre del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, coautrice dello studio – e fornisce nuove informazioni sulla variabilità genetica di questa zanzara che potranno essere utili per comprendere meglio il ruolo della specie nella trasmissione del virus del virus del West Nile dagli uccelli all’uomo.  I risultati aprono la strada a ricerche più approfondite sui legami potenziali tra urbanizzazione, ibridazione e trasmissione del virus dagli uccelli all’uomo”.

zanzara Culex pipiens. Foto di Aleksandrs Balodis, CC BY-SA 4.0
in uno studio su Science, ricercate le origini della zanzara urbana Culex pipiens form molestus, capace di trasmettere all’uomo con la sua puntura il virus del Nilo Occidentale (West Nile). In foto, Culex pipiens. Foto di Aleksandrs Balodis, CC BY-SA 4.0

Riferimenti bibliografici:

Yuki Haba, PipPop Consortium, Petra Korlević, Erica McAlister, Mara K. N. Lawniczak, Molly Schumer, Noah H. Rose, e Carolyn S. McBride, Ancient origin of an urban underground mosquito, Science 390, eady4515(2025), DOI:10.1126/science.ady4515

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Più chilometri con una ricarica: la rivoluzione delle auto elettriche arriva con batterie al litio più potenti, le potenzialità di un nuovo elettrodo al silicio 
Ingegnerizzato un nuovo elettrodo che aumenta le prestazioni e la durata delle batterie al litio. Nello studio, pubblicato su Nature Nanotechnology, anche l’Università di Pisa
Auto elettriche con più autonomia e batterie che durano di più: è questa la potenzialità di un nuovo elettrodo al silicio per nuove batterie al litio più potenti, stabili e sostenibili. La novità arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Nanotechnology guidato dal Dott. Xuekun Lu dell’Università Regina Maria di Londra (Queen Mary University of London) al quale ha partecipato anche l’Università di Pisa con il professore Antonio Bertei del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale.
“Questo risultato – spiega Bertei – apre la strada ad un utilizzo massiccio ed economicamente fattibile del silicio nelle batterie al litio, molto di più di quanto si faccia attualmente. In altre parole, si può aumentare la percentuale di silicio nelle batterie andando così ad aumentare significativamente l’autonomia dei veicoli elettrici, senza compromettere la durata della batteria stessa. La soluzione da noi proposta è affidabile ma è necessario portarla ad una scala industriale, con test di durata più estesi, prima di poter essere commercializzata”.
Il cuore dell’innovazione è un anodo a doppio strato con un alto contenuto di silicio, capace di immagazzinare molta più energia rispetto agli anodi tradizionali in grafite. Finora, infatti, l’uso del silicio nelle batterie era stato limitato perché il materiale tende a espandersi durante la ricarica, causando rapida degradazione. Il nuovo design consente invece di contenere queste deformazioni, mantenendo intatta la struttura interna e garantendo stabilità anche dopo numerosi cicli di carica e scarica.
“Il silicio può accumulare fino a dieci volte più energia della grafite, ma finora non era stato possibile utilizzarlo in modo stabile – continua il Bertei – Con questa architettura a doppio strato siamo riusciti a superare il limite principale, realizzando un elettrodo ad alte prestazioni e compatibile con i processi industriali”.
Lo studio, durato oltre due anni e mezzo, è stato finanziato da enti britannici come l’Engineering and Physical Sciences Research Council, la Faraday Institution e la Royal Academy of Engineering. L’Ateneo è l’unico partner italiano insieme ad altri centri di eccellenza internazionali fra cui University College London, Università di Oxford, Manchester University, Imperial College London e la Beijing University of Technology.
Il contributo dell’ateneo pisano ha riguardato l’analisi dei dati elettrochimici e alla modellazione dei meccanismi di degradazione, fornendo la base teorica per la comprensione del comportamento del materiale durante la ricarica.
La scoperta prosegue un percorso di ricerca già avviato da Bertei con il collega Marco Lagnoni, che due anni fa avevano pubblicato su Nature Communications uno studio dedicato alla ricarica rapida delle batterie al litio.
“I due risultati – conclude Bertei – affrontano da prospettive complementari i principali limiti delle auto elettriche: l’autonomia e i tempi di ricarica. Insieme, rappresentano un passo decisivo verso batterie più efficienti, durature e sostenibili”.
Antonio Bertei, autore dello studio che permetterà batterie al litio più potenti, grazie alle potenzialità di un nuovo elettrodo al silicio 
Antonio Bertei
Riferimenti bibliografici:

Lu, X., Owen, R.E., Du, W. et al., Unravelling electro-chemo-mechanical processes in graphite/silicon composites for designing nanoporous and microstructured battery electrodes, Nat. Nanotechnol. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41565-025-02027-7

Testo dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa.

ANDRENA CULUCCIAE: SCOPERTA UNA NUOVA SPECIE DI APE IN SARDEGNA DAGLI ENTOMOLOGI DI ROMA TRE

Un team di entomologi dell’Università degli Studi Roma Tre, guidato dal prof. Andrea Di Giulio, ha scoperto Andrena culucciae nella penisola di Culuccia (nord-est Sardegna). L’individuazione della nuova specie di ape rappresenta un risultato di grande rilievo scientifico e naturalistico: un avanzamento negli studi sulla fauna sarda di api selvatiche e, più in generale, sulla biodiversità dell’Italia e del Mediterraneo. Lo studio, nell’ambito della tesi magistrale di Matteo Annessi, è stato pubblicato sul “Journal of Hymenoptera Research”.

Roma, 27 ottobre 2025 – Nel corso di ricerche su insetti impollinatori della penisola di Culuccia, Sardegna nordorientale, un gruppo di entomologi dell’Università degli Studi Roma Tre ha scoperto una nuova specie di ape selvatica, Andrena culucciae, il cui nome è dedicato al luogo dove è stata trovata. Lo studio, pubblicato sul “Journal of Hymenoptera Research”, è stato condotto nell’ambito della tesi magistrale di Matteo Annessi, ex studente del corso di laurea in Biodiversità e Gestione degli Ecosistemi e attualmente dottorando sempre presso il Dipartimento di Scienze, Dipartimento di Eccellenza italiano, dell’Università degli Studi Roma Tre.

Le raccolte sul campo e le analisi morfologiche e genetiche in laboratorio sono state svolte sotto la supervisione del prof. Andrea Di Giulio, entomologo, e della dott.ssa Alessandra Riccieri, ricercatrice. La studio si inserisce in una convenzione, iniziata nel 2022, tra il Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre (responsabile il prof. Andrea Di Giulio) e l’Osservatorio Naturalistico dell’Isola di Culuccia (responsabile la dott.ssa Sabrina Rossi, BIRU Srl Agricola).

“Quando ho raccolto nel maggio 2022 i primi e pochi individui di ape, ho notato alcune differenze rispetto alle specie affini” racconta Matteo Annessi, dottorando “così, speranzoso ed emozionato per una possibile nuova scoperta, sono tornato l’anno successivo per raccoglierne altri e capire, grazie a diverse analisi in laboratorio, se si trattasse davvero di una specie mai descritta prima”.

Il risultato è stato ottenuto grazie all’uso combinato di tecniche tassonomiche tradizionali e moderne, tra cui microscopia ottica, microscopia elettronica a scansione e analisi genetiche.

“L’integrazione di più tecniche è oggi fondamentale per la descrizione della biodiversità e combinare analisi molecolari e morfologiche è importantissimo” spiega Alessandra Riccieri, ricercatrice presso l’Università Roma Tre.

Andrena culucciae è un’ape solitaria, di dimensioni medio-grandi, caratterizzata da una colorazione nera in entrambi i sessi e appartenente alla famiglia delle Andrenidae (Apoidea: Anthophila). Ciò che la distingue dalle specie affini sono alcuni caratteri morfologici specifici, in particolare la struttura degli organi genitali maschili e la colorazione delle zampe nelle femmine. Andrena culucciae è stata osservata principalmente nel periodo tardo-primaverile (maggio-giugno), sui fiori di Armeria pungens nella vegetazione dunale della penisola di Culuccia, ma è stata rinvenuta anche su piante di altre famiglie ad indicare che si tratta di una specie in grado di nutrirsi su diverse specie vegetali. Ancora non sono note le strategie di nidificazione, ma è probabile che, come le altre specie dello stesso genere, A. culucciae faccia il nido nel suolo, da cui i primi ad uscire sono i maschi in tarda primavera aspettando le femmine con cui accoppiarsi. L’approfondimento di aspetti ecologici e biologici della specie è un prossimo passo della ricerca.

“La descrizione di una nuova specie è un risultato di grande rilievo scientifico e naturalistico” afferma Andrea Di Giulio, entomologo dell’Università degli Studi Roma Tre “nel caso specifico, rappresenta un avanzamento nella conoscenza della fauna della Sardegna e più in generale della biodiversità animale del Mediterraneo. Inoltre, la scoperta di un insetto così importante dal punto di vista ecologico rappresenta un’ottima notizia, in controtendenza rispetto al forte declino generale degli insetti impollinatori a causa delle attività antropiche e del cambiamento climatico”.

Andrena culucciae è una specie legata agli habitat costieri dunali, ecosistemi particolarmente vulnerabili. La sua conservazione potrebbe quindi dipendere dalla protezione di questi ambienti, fortemente minacciati dalle attività antropiche. Per questo motivo, le aree protette come la penisola di Culuccia, dove gli ambienti dunali risultano essere maggiormente conservati e non impattati dal turismo di massa, possono rappresentare dei rifugi per queste specie.

Andrena culucciae
l’ape Andrena culucciae

Riferimenti bibliografici:

Annessi M, Riccieri A, Di Giulio A, A new species of Andrena (Hymenoptera, Andrenidae) from northern Sardinia (Italy), Journal of Hymenoptera Research (2025) 98: 795-816, DOI: https://doi.org/10.3897/jhr.98.161702

 

Testo e foto dall’Ufficio Comunicazione Università Roma Tre

Scoperta acqua pesante (acqua doppiamente deuterata) nel disco protoplanetario della stella V883 Ori (nella costellazione di Orione): una svolta per comprendere l’origine dell’acqua nel Sistema solare

Un team internazionale di ricercatori, guidato dall’Università Statale di Milano, ha rilevato per la prima volta acqua doppiamente deuterata (D₂O, nota anche come “acqua pesante”) in un disco protoplanetario, il luogo in cui nascono i pianeti. Il team ha dimostrato che l’acqua presente in tale disco è più antica della sua stella V883 Ori (nella costellazione di Orione). Un indizio che potrebbe suggerire che anche l’acqua presente sulla Terra e nei corpi celesti del nostro Sistema solare abbia origini più antiche del Sole stesso. Lo studio è stato pubblicato su Nature Astronomy.

Milano, 15 ottobre 2025 – L’acqua è un elemento presente nell’Universo e fondamentale per la vita. Ma da dove provenga e quando si sia formata è ancora uno dei grandi misteri dell’astronomia.

Un passo importante verso la comprensione di questo enigma arriva da un nuovo studio condotto dall’Università Statale di Milano in collaborazione con i ricercatori di Purdue University, Harvard & Smithsonian Center for Astrophysics, Universidad de Chile, University of Tokyo, RIKEN institute e National Radio Astronomy Observatory e pubblicato su Nature Astronomy.

Grazie alle osservazioni effettuate con il telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter Array) in Cile, gli astronomi hanno rilevato acqua doppiamente deuterata (D₂O) nel disco protoplanetario (il luogo in cui si formano i pianeti) che circonda la giovane stella V883 Ori (nella costellazione di Orione).

La presenza di acqua deuterata dimostra indiscutibilmente che l’acqua presente nel disco protoplanetario è più antica della stella centrale e che si è formata nelle primissime fasi della nascita della stella e dei suoi pianeti” spiega Margot Leemker, prima autrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Milano.

Prima di questa scoperta, infatti, gli scienziati ipotizzavano due possibili scenari sull’origine dell’acqua che si trova nelle comete e nei pianeti: l’ereditarietà o il reset chimico. Nel primo caso si riteneva che l’acqua provenisse direttamente dalla nube molecolare primordiale, cioè dalla fase iniziale della formazione di stelle e pianeti. Nel secondo, che la maggior parte dell’acqua originaria venisse distrutta durante il collasso della nube molecolare — a causa di riscaldamento, radiazioni e shock — per poi riformarsi nel disco protoplanetario, ma con una composizione chimica diversa (il processo di distruzione e ricombinazione è noto come reset chimico). La distinzione tra i due scenari si basa sull’analisi dei rapporti isotopologici dell’acqua.

Ora l’individuazione di acqua pesante già nel disco di formazione del pianeta attorno a V883 Ori, dimostra che la maggior parte della riserva d’acqua sopravvive al passaggio da nube molecolare al disco protoplanetario, avvalorando così lo scenario dell’ereditarietà. L’acqua pesante è una forma specifica di acqua in cui entrambi gli atomi di idrogeno sono sostituiti da deuterio, un isotopo dell’idrogeno. Questa molecola si forma solo in condizioni molto fredde e non si riforma facilmente se viene distrutta. È quindi un tracciante sensibile per capire se l’acqua è “antica” o “riformata”.

Misurando il rapporto isotopico D₂O/H₂O, gli scienziati hanno rilevato un rapporto pienamente coerente con il valore atteso per l’ereditarietà. Questo indica che l’acqua nel disco si è generata nella nube molecolare prima della nascita della stella e dei pianeti.

Si tratta di un’importante svolta per comprendere anche l’origine dell’acqua nel nostro Sistema Solare e, in ultima analisi, sulla Terra” conclude Margot Leemker.

acqua pesante disco protoplanetario V883 Ori

Riferimenti bibliografici:

Leemker, M., Tobin, J.J., Facchini, S. et al., Pristine ices in a planet-forming disk revealed by heavy water, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02663-y

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

Dalla Sapienza una nuova metodologia per tracciare le sorgenti degli “inquinanti eterni”, i PFAS

Uno studio del Dipartimento di Scienze della Terra ha sviluppato il primo metodo analitico per l’analisi isotopica dei principali PFAS presenti nell’ambiente. I risultati pubblicati sulla rivista Science of The Total Environment.

I PFAS sono sostanze chimiche create dall’uomo, presenti in molti prodotti grazie alla loro resistenza al calore e all’acqua. Si trovano ad esempio come composti nelle pentole antiaderenti, negli indumenti impermeabili, nelle schiume antincendio oppure negli imballaggi alimentari o nei cosmetici. Esse non si degradano nell’ambiente e si accumulano negli organismi viventi, compreso l’uomo con effetti cancerogeni. Per la loro persistenza vengono anche chiamati “inquinanti eterni”.

In questo contesto critico, un importante passo avanti arriva dalla Sapienza di Roma. Eduardo Di Marcantonio, dottorando presso il Dipartimento di Scienze della Terra, sotto la supervisione dei professori Luigi Dallai e Massimo Marchesi, ha sviluppato il primo metodo analitico per l’analisi isotopica dei principali PFAS presenti nell’ambiente.

Le analisi isotopiche rispetto a quelle chimiche non si limitano a rivelare la presenza e la quantità di un composto, ma restituiscono un valore che per lo stesso composto può essere diverso in base al processo chimico, fisico o biologico che lo ha originato. Questo tipo di analisi permette quindi, in condizioni di inquinamento diffuso, di differenziare le diverse sorgenti  nonché la dispersione nell’ambiente.

Dopo oltre 300 tentativi sperimentali, il team di ricerca ha messo a punto un protocollo che permette di ottenere “firme isotopiche” specifiche per PFAS provenienti da diversi produttori industriali. Questa caratterizzazione rende possibile distinguere le origini dei composti, persino in scenari di inquinamento diffuso – cioè con sorgenti molteplici e non identificabili puntualmente.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Science of The Total Environment, ha anche mostrato significative differenze isotopiche tra PFAS di origine diversa, aprendo la strada all’identificazione delle fonti di questi “contaminanti eterni” nell’ambiente.

Il metodo è stato messo a punto presso il Dipartimento di Scienze della Terra che negli ultimi anni, ha investito molto nella creazione di uno dei laboratori di isotopi stabili più avanzati d’Europa, con l’obiettivo di mettere la ricerca al servizio del monitoraggio ambientale e della tutela della salute pubblica.

Questa nuova metodologia, che restituisce il primo tracciante di sorgente per contaminanti così pericolosi per la salute e allo stesso tempo troppo poco monitorati fa parte di un progetto pilota che è stato avviato, in collaborazione con il CNR, per analizzare campioni  provenienti dalla zona rossa di contaminazione da PFAS in provincia di Vicenza.

Riferimenti bibliografici:

 Eduardo Di Marcantonio, Orfan Shouakar-Stash, Massimo Marchesi, Luigi Dallai, “Compound-specific carbon isotope analysis of perfluorocarboxylic acids (PFCAs) by gas chromatography-isotope ratio mass spectrometry”, Science of The Total Environment (2025) – DOI: https://doi.org/10.1016/j.scitotenv.2025.180564

un microscopioUna nuova metodologia per tracciare le sorgenti degli “inquinanti eterni”, i PFAS; lo studio pubblicato su Science of The Total Environment
Una nuova metodologia per tracciare le sorgenti degli “inquinanti eterni”, i PFAS; lo studio pubblicato su Science of The Total Environment. Foto PublicDomainPictures

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Dislessia: ecco il test che personalizza i parametri di lettura e di sintesi vocale
Validato da uno studio pubblicato su MTI, è gratuito e disponibile per scuole, famiglie e professionisti del settore. L’idea dei ricercatori dell’IRCCS Eugenio Medea in partnership con i Lions italiani.

Per gli studenti con dislessia, le caratteristiche visive dei caratteri di stampa e il tipo di voce utilizzata per la sintesi vocale possono avere un’influenza notevole sulla capacità di leggere e comprendere i testi.

Le ricerche hanno infatti dimostrato l’importanza del tipo di carattere, della dimensione e della spaziatura per facilitare la lettura: ma come scegliere questi parametri? C’è un font migliore degli altri? Quale tipo di voce utilizzare per la sintesi vocale?

Per rispondere a queste domande, i ricercatori dell’IRCCS Eugenio Medea – La Nostra Famiglia in partnership con i Lions italiani hanno ideato SeleggoTestuna speciale procedura automatizzata per selezionare i parametri visivi e uditivi adatti ad ogni singolo studente con difficoltà di lettura. L’applicazione è stata validata scientificamente e i risultati dello studio sono stati pubblicati su Multimodal Technologies and Interactions.

Il test è fruibile sulla piattaforma Seleggo.org tramite web e app: totalmente gratuito, fornisce agli utenti con disturbi di lettura i parametri più favorevoli sia per la visualizzazione del testo (font, grandezza ideale del carattere e spaziatura) sia per la conversione da testo a voce (velocità e timbro ottimali per la sintesi vocale). Sulla piattaforma sono presenti anche i tutorial specificamente predisposti.

Il test è accessibile a chiunque, indipendentemente dalla lingua parlata: infatti utilizza parole e frasi che non hanno un significato, riducendo l’effetto di familiarità delle parole, della conoscenza della lingua e dell’esperienza linguistica. La maggiore o minore facilità di lettura rifletterà unicamente le caratteristiche visive della parola, così come la chiarezza con cui le frasi verranno comprese dipenderà solo dalle caratteristiche uditive della sintesi vocale. Oltre a rivolgersi ai singoli studenti con dislessia certificati, il test risulta quindi utile anche agli studenti non madrelingua che non hanno una completa padronanza dell’Italiano. Ma non solo: anche le scuole, gli studi professionali e le UONPIA lo possono utilizzare per individuare i ragazzi che, al di là della diagnosi specifica, necessitano più di altri di strumenti compensativi come Seleggo per supportare il percorso scolastico.

8.300 studenti iscritti, 15 editori convenzionati, approvato dai MIUR
Una volta concluso il test, l’utilizzatore visualizza una schermata stampabile con i suoi specifici parametri per la lettura e la sintesi vocale, immediatamente fruibili per personalizzare il reader della piattaforma Seleggo, che offre libri di testo scolastici digitalizzati e tecnologia TTS (text-to-speech) e una serie di funzioni per aiutare la comprensione del testo (immagini e definizioni semplici) e lo studio (appunti di testo e immagini, riassunti, mappe concettuali, verifica dell’apprendimento supportata dall’IA).

Con 15 editori convenzionati, 1.100 libri scolastici, 8.300 studenti iscritti, oltre 300 Istituti Comprensivi registrati, Seleggo è stato presentato ai MIUR regionali e provinciali che hanno segnalato agli Istituti comprensivi del loro territorio le grandi opportunità offerte dal service.

Il ruolo della scuola per l’individuazione precoce

“La dislessia è un disturbo sfaccettato, caratterizzato da difficoltà nell’imparare a leggere. Comporta principalmente difficoltà nel mettere in relazione suoni e segni scritti, che si riflettono sulla correttezza e sulla rapidità della lettura, ma può includere difficoltà nella comprensione, nella capacità di ricordare di ciò che viene letto (soprattutto in presenza di parole meno frequenti o frasi lunghe e complesse”,

spiega Maria Luisa Lorusso, responsabile del Laboratorio di Neuropsicologia dei disturbi del neurosviluppo dell’IRCCS Medea: “si evidenzia durante i primi anni di scuola, ma è cruciale l’identificazione precoce per poter intervenire in modo più efficace”.

Gli insegnanti svolgono un ruolo fondamentale nell’osservare e sostenere gli studenti con dislessia”, spiega Lorusso: “rilevano i segnali specifici, come errori ricorrenti nella scrittura o difficoltà nella lettura, predispongono attività di recupero e, se le difficoltà persistono, valutano insieme alle famiglie il modo migliore per dare risposte mirate ai bisogni dei bambini”.

Il tandem Seleggo Test e Seleggo Reader in azione

“Seleggo offre alla scuola e alle famiglie un supporto scientificamente validato e accessibile, che riunisce in una sola piattaforma un pannello di strumenti utili per aiutare i bambini e le bambine con dislessia”,

afferma Paolo Colombo, cofondatore dell’Associazione Seleggo, i Lions Italiani per la Dislessia ODV:

“Seleggo Test si configura come uno strumento prezioso e innovativo nel panorama degli interventi per la dislessia per la sua capacità di fornire parametri di lettura personalizzati e di agire come un potenziale indicatore precoce di difficoltà. Seleggo Reader è il suo valido alleato: supporta gli studenti con difficoltà di lettura, ne migliora le competenze, aumenta la loro motivazione favorendo così il loro benessere emotivo. Il connubio tra i due strumenti consente di creare un ambiente educativo sempre più inclusivo e di garantire a ogni bambino il supporto necessario per raggiungere il proprio potenziale”.

Il Direttore Sanitario del Medea: con i Lions un approccio partecipativo e virtuoso: 

“Seleggo rappresenta un esempio virtuoso non solo sul piano tecnologico e scientifico, ma anche sociale”, dichiara Massimo Molteni, Direttore Sanitario e Responsabile della ricerca in psicopatologia dello sviluppo dell’IRCCS Medea La Nostra Famiglia: “la società civile – i Lions – può utilmente concorrere, in collaborazione con ricercatori e istituti scientifici dedicati, a sviluppare soluzioni innovative e soprattutto pensate a misura di bambini, ragazzi, famiglie e docenti, per far evolvere positivamente un problema che affligge migliaia di ragazzi, con conseguenze dannose sul loro sviluppo psicologico. È un esempio di approccio partecipativo virtuoso in una logica One Health, in grado di unire tutti i vari attori in gioco, superando la frammentazione di competenze e interventi. La salute e il benessere non si acquisiscono attraverso il merchandising, che porta a sviluppare principalmente prodotti e a scatenare conflitti di interesse tra i diversi attori in gioco, ma tramite una consapevolezza diffusa che veda ciascuno agire secondo il proprio ruolo con competenza e passione: i ricercatori, i docenti e la scuola, le famiglie e i ragazzi. Una tecnologia amica e rispettosa della persona non esime mai dall’impegno personale diretto”.

impulsiDislessia: ecco il test che personalizza i parametri di lettura e di sintesi vocale, la speciale procedura automatizzata chiamata Seleggotest
Immagine di Gerd Altmann

 

Riferimenti bibliografici:

Lorusso ML, Borasio F, Panetto P, Curioni M, Brotto G, Pons G, Carsetti A, Molteni M., Validation of a Web App Enabling Children with Dyslexia to Identify Personalized Visual and Auditory Parameters Facilitating Online Text Reading. Multimodal Technologies and Interaction. 2024; 8(1):5, DOI: https://doi.org/10.3390/mti8010005

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Associazione La Nostra Famiglia – IRCCS E. Medea

WIDER THAN THE SKY – Più grande del cielo

L’intelligenza artificiale tra scienza, arte e mistero umano

Presentato alla prossima Festa del Cinema di Roma – RoFF 2025, nella sezione Special Screening

IN SALA PROSSIMAMENTE CON WANTED CINEMA

Una produzione Aura Film, in coproduzione con RSI Radiotelevisione Svizzera, Ameuropa International, con RAI Cinema

la locandina di Wider Than The Sky – Più grande del cielo, film documentario di Valerio Jalongo
la locandina di Wider Than The Sky – Più grande del cielo, film documentario di Valerio Jalongo

Che cos’è davvero l’intelligenza artificiale? Una straordinaria opportunità, un rischio globale, o forse una grande illusione? Wider Than The Sky – Più grande del cielo è il nuovo film documentario di Valerio Jalongo, presentato in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma 2025 nella sezione Special Screening, che cerca una risposta a queste domande con gli strumenti della scienza, della poesia e dell’arte.

Girato in oltre dieci città tra Europa, Stati Uniti e Giappone, il film mette in dialogo neuroscienziati, filosofi, artisti e robot umanoidi per interrogarsi sul futuro dell’umanità di fronte a una tecnologia che sta ridefinendo le nostre vite.

Wider Than The Sky – Più grande del cielo è una produzione internazionale, un’indagine senza confini politici e geografici realizzato in collaborazione con la comunità scientifica europea dell’Human Brain Project e la compagnia di danza Sasha Waltz & Guests.  Protagonisti del film sono pensatori e innovatori di fama mondiale, tra cui Antonio Damasio, Andrea Moro, Rob Reich, Refik Anadol, Hany Farid, Rainer Goebel, Sasha Waltz, Sougwen Chung, e i robot Anymal e Ameca che mostrano i punti di contatto tra ricerca neuroscientifica, arti performative e robotica avanzata.

“Non dovremmo chiamarla intelligenza artificiale – afferma Jalongo – ma intelligenza collettiva, perché nulla esisterebbe senza la conoscenza condivisa dell’umanità. La vera sfida è decidere se questa rivoluzione sarà usata per concentrare il potere o per costruire un futuro aperto e democratico” dichiara Jalongo che, dopo Il senso della bellezza L’acqua l’insegna la sete, torna al cinema quale mezzo di riflessione necessaria sul nostro presente, tra emozione e profonda inquietudine.

Con immagini sorprendenti e momenti di grande intensità visiva – dalle coreografie di Sasha Waltz ai droni da competizione, fino ai laboratori di robotica di Zurigo – Wider Than The Sky – Più grande del cielo svela un’IA non solo come sfida tecnologica, ma come mistero profondamente umano, destinato a cambiare radicalmente il nostro rapporto con la conoscenza, la creatività e la libertà.

Wider Than The Sky – Più grande del cielo è una produzione Aura Film, RSI Radiotelevisione Svizzera, Ameuropa International, con RAI Cinema e sarà disponibile da subito per le programmazioni nei cinema con matineé dedicate e rivolte alle scuole, e nelle sale italiane prossimamente con Wanted.


NOTE DI REGIA

Abbiamo mappe della Terra dettagliate fino al centimetro. Mappe dell’universo risalenti a un miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. Abbiamo mappe precise di tutto… tranne che dei nostri cervelli.

Ora, per la prima volta, ci stiamo avvicinando alla creazione di una mappa 3D di quello che viene definito l’oggetto più complesso dell’universo: il cervello umano. Per anni, un’ampia comunità internazionale di neuroscienziati, l’Human Brain Project, ha collaborato a questo compito gigantesco.

Ma tracciare territori sconosciuti è rischioso: le mappe possono servire anche a scatenare guerre di conquista, ad affermare proprietà e sfruttamenti. Lo sviluppo dell’IA deve molto a ciò che stiamo scoprendo sul cervello umano. E se invece trovassimo che questa tecnologia perfeziona strumenti di controllo politico e sociale, dando a pochi privilegiati una sorta di “sguardo divino” su tutto? E se aiutasse a concentrare la ricchezza nelle mani di pochi? E se rendesse la guerra ancora più letale?

L’intelligenza artificiale è già utilizzata per creare un divario di potere senza precedenti nella storia. Il suo uso indiscriminato potrebbe generare un mondo disumanizzato di topi e uomini, dove chi si oppone al potere dominante è costretto a vivere sottoterra, privato di tutto per sfuggire al controllo.

Non si tratta di una profezia fantascientifica lontana: è la cronaca recente.
A Gaza, i sistemi di IA sono stati utilizzati per incrociare miliardi di dati, localizzare combattenti di Hamas e stimare il numero di civili “ammessi” come perdite collaterali, senza necessità di valutazioni umane caso per caso.

H.G. Wells scrisse che la nostra civiltà è impegnata in una corsa tra conoscenza e catastrofe. Una società a scatola nera, dove algoritmi oscuri governano le nostre vite, potrebbe far pendere l’ago della bilancia verso il disastro.

Wider Than the Sky” mi ha reso consapevole della vera natura dell’intelligenza artificiale: presentarla solo come miracolo tecnologico fa parte della menzogna che ne legittima la privatizzazione.

La verità sta invece dove nessuno guarda, in una dimensione opposta: l’IA sarebbe nulla senza tutta la conoscenza che l’umanità ha creato nella sua storia. Per questo, essa appartiene all’intera umanità, per la sua origine profondamente spirituale.

Dovremmo smettere di definirla “artificiale” e forse chiamarla “intelligenza collettiva”.

Abbiamo già un grande modello da seguire: gli scienziati e gli artisti che collaborano in squadre internazionali, scambiando esperienze e conoscenze liberamente, senza altra affiliazione che quella della razza umana, senza altro scopo che il bene dell’umanità.
Questa è la base di una IA “affidabile” e probabilmente anche il miglior antidoto contro i rischi di una società a scatola nera.


UNA PRODUZIONE AURA FILM

IN COPRODUZIONE CON RSI RADIOTELEVISIONE SVIZZERA

E AMEUROPA INTERNATIONAL CON RAI CINEMA

CON SASHA WALTZ, ANTONIO DAMASIO, REFIK ANADOL, KATRIN AMUNTS, ADAM RUSSELL, RAINER GOEBEL, ROB REICH, DAVID YOUNG, HANNA DAMASIO, JONAS T. KAPLAN, KINGSON MAN, HANY FARID, ANDREA MORO, MARVIN SCHÄPPER, THOMAS BITMATTA, ALEX VANOVER, NIKITA RUDIN, WILL JACKSON, e AMECA

REGIA E SCENEGGIATURA VALERIO JALONGO MONTAGGIO

MICHELANGELO GARRONE

DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA IAN OGGENFUSS

INGEGNERE DEL SUONO BALTHASAR JUCKER

SOUND DESIGNER LILIO ROSATO

MUSICHE DANIELA PES, KETY FUSCO

AIUTO REGIA ATTILIO DI TURI

GRADING ROGER SOMMER

FONICO DI MIX SANDRO ROSSI

GRAFICHE E TITOLI ELISA MACCELLI

MONTAGGIO DIALOGHI OMAR ABOUZAID

DELEGATI DI PRODUZIONE PER RSI RADIOTELEVISIONE SVIZZERA/ SSR SRG SILVANA BEZZOLA RIGOLINI, GIULIA FAZIOLI, ALESSANDRO MARCIONNI

LINE PRODUCER TINA BOILLAT, MARTINA LATINI

PRODOTTO DA PASCAL TRÄCHSLIN, VALERIO JALONGO

CON IL SUPPORTO DI UFFICIO FEDERALE DELLA CULTURA, REPUBBLICA E CANTONE TICINO, FILMPLUS DELLA SVIZZERA ITALIANA, SUISSIMAGE, MEDIA DESK SUISSE, ERNST GÖHNER STIFTUNG, TICINO FILM COMMISSION, MINISTERO DELLA CULTURA – DIREZIONE GENERALE CINEMA E AUDIOVISIVO, REGIONE LAZIO

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Echo Group, Wanted Cinema.

La fisica del biliardo per guidare i microrganismi a esplorare l’ambiente

Lo studio, coordinato dalla Sapienza, ha messo a punto un metodo ispirato alla dinamica del tavolo da biliardo, per orientare il movimento di microrganismi all’interno di un ambiente delimitato. Tra le possibili applicazioni, la progettazione di algoritmi di navigazione per robot in grado di esplorare ambienti complessi e sconosciuti.

Lo studio è pubblicato su PNAS.

Particelle inanimate, come le molecole di un gas, raggiungono l’equilibrio termico, uno stato stabile in cui si distribuiscono uniformemente all’interno di un contenitore, indipendentemente dalla sua forma o dal materiale di cui è composto.

Oggetti che si muovono autonomamente invece quali microrganismi o robot, sono molto sensibili a quello che succede sulle pareti dell’ambiente che li contiene. Comprendere la relazione tra gli effetti al bordo e le distribuzioni spaziali potrebbe permettere di progettare contenitori con forme ottimizzate per il controllo geometrico della cosiddetta materia attiva.

In uno studio pubblicato su PNAS, Roberto Di Leonardo del dipartimento di Fisica della Sapienza insieme a ricercatori del Centro di Ricerca Biologica (Biological Research Center) in Ungheria hanno introdotto un nuovo metodo che consente di guidare il movimento di particelle attive in base alle regole con cui rimbalzano sui bordi dell’ambiente in cui si muovono.

Il metodo è stato testato con la microalga unicellulare Euglena gracilis che, come una palla su un tavolo da biliardo, si muove in linea retta rimbalzando sul confine tra luce e ombra di una zona illuminata. A differenza delle molecole di un gas che si distribuiscono uniformemente all’interno di un contenitore, le microalghe possono ricoprire una “macchia” di luce con distribuzioni altamente sensibili alle condizioni al contorno. In particolare, attraverso la progettazione di una sorta di “microbiliardo” multistadio, è stato possibile guidare le microalghe in regioni di accumulazione definite soltanto dalla forma di questo “biliardo di luce”.

In generale, questo metodo rende possibile progettare la forma di contenitori in modo che i oggetti attivi al loro interno si accumulino spontaneamente o evitino determinate regioni.

Le applicazioni potrebbero essere numerose: dal controllo spaziale e all’isolamento dei microrganismi fino alla progettazione di algoritmi di navigazione per robot microscopici e macroscopici in grado di esplorare in modo più efficiente ambienti complessi e sconosciuti.

“È sempre entusiasmante vedere – dichiara Roberto Di Leonardo – come concetti della fisica classica, sviluppati originariamente per la materia inanimata, possono essere generalizzati a oggetti che si muovono autonomamente, ciò che oggi chiamiamo materia attiva. Ogni volta che questo accade, emergono nuove idee che non solo approfondiscono la nostra comprensione di ciò che pensavamo di sapere già, ma aprono anche la strada a nuove applicazioni per sistemi viventi o robotici”.

Riferimenti bibliografici:

R. Di Leonardo, A. Búzás, L. Kelemen, D. Tóth, S.Z. Tóth, P. Ormos, & G. Vizsnyiczai, Active billiards: Engineering boundaries for the spatial control of confined active particles, Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. (2025) 122 (38) e2426715122, DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2426715122 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

JVAS B1938+666: UN SOTTILISSIMO ARCO GRAVITAZIONALE RIVELA UN ELUSIVO CORPO CELESTE A MILIARDI DI ANNI LUCE

Grazie alla rete mondiale di radiotelescopi VLBI – tra cui la parabola INAF di Medicina – e alla tecnica delle cosiddette lenti gravitazionali è stata ottenuta l’immagine più nitida mai realizzata di un arco gravitazionale. Dalle osservazioni è emersa la presenza del più piccolo oggetto celeste mai individuato a distanze cosmologiche grazie al solo effetto della forza di gravità.

Immagine in falsi colori dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666 osservato alla frequenza radio di 1,7 GHz con la tecnica VLBI. Crediti: J. P. McKean et al. / MNRAS 2025
Immagine in falsi colori dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666 osservato alla frequenza radio di 1,7 GHz con la tecnica VLBI. Crediti: J. P. McKean et al. / MNRAS 2025

Grazie a una rete mondiale di radiotelescopi, con la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), un team internazionale ha ottenuto l’immagine radio più definita mai realizzata di un arco gravitazionale prodotto dalla deformazione delle onde radio provenienti da una galassia a 11 miliardi di anni luce, riuscendo a ricostruirne la struttura reale. Dalla stessa serie di osservazioni è emersa anche la presenza del più piccolo oggetto celeste mai individuato a distanze cosmologiche grazie al solo effetto della forza di gravità. I due risultati, pubblicati oggi rispettivamente su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e su Nature Astronomy, aprono nuove prospettive nello studio delle galassie lontane e della materia oscura.

Il primo studio presenta osservazioni ad altissima risoluzione della lente gravitazionale JVAS B1938+666, già nota da tempo: una galassia ellittica massiccia in “primo piano”, a circa 6,5 miliardi di anni luce, agisce come lente gravitazionale e deforma la radiazione ottica e radio di una sorgente ancora più distante, a oltre 11 miliardi di anni luce, creando immagini multiple e un anello di Einstein quasi completo nel vicino infrarosso.

Il fenomeno della lente gravitazionale, previsto dalla relatività generale di Einstein, si verifica quando una massa molto grande curva lo spazio-tempo circostante. La luce proveniente da un oggetto posto dietro a questa massa viene deviata, come se passasse attraverso una lente ottica, producendo immagini multiple, archi o persino anelli. Lo studio di queste immagini distorte è oggi uno degli strumenti più potenti per indagare la materia oscura, che non possiamo osservare direttamente, ma che rivela la sua presenza solo attraverso gli effetti della forza di gravità.

In questo caso la lente gravitazionale è stata osservata con la tecnica del VLBI (Very Long Baseline Interferometry), collegando 22 radiotelescopi sparsi in tutto il mondo: l’European VLBI Network, il Very Long Baseline Array americano e il Green Bank Telescope negli Stati Uniti. Tra gli strumenti utilizzati c’è anche la parabola da 32 metri “Gavril Grueff” di Medicina (vicino a Bologna), gestita dall’INAF. La correlazione delle osservazioni di tutti questi radiotelescopi è stata effettuata presso JIVE (il Joint Institute for VLBI-ERIC nei Paesi Bassi), di cui INAF è membro. Questa tecnica consente di simulare un’unica gigantesca antenna virtuale con diametro pari alla distanza tra le parabole più distanti e, di conseguenza, di raggiungere un dettaglio estremo nelle osservazioni, pari a un millesimo di secondo d’arco. Alla distanza della radiosorgente osservata, questo equivale a distinguere strutture grandi appena una trentina di anni luce, cioè una decina di volte la distanza che separa il Sole dalla sua stella più vicina.

Le osservazioni di JVAS B1938+666 condotte alla frequenza radio di 1,7 GHz, per un totale di 14 ore, hanno rivelato un arco gravitazionale sottilissimo e quasi completo, il più definito mai osservato con questa tecnica. Il team è poi riuscito a ricostruire la morfologia reale della radiosorgente di sfondo, modellando con grande precisione la distribuzione di massa della galassia-lente.

I risultati indicano che la sorgente, situata a 11 miliardi di anni luce, è una radiosorgente molto compatta e simmetrica, considerata una fase giovanile dell’attività di un buco nero supermassiccio. La struttura ricostruita appare estesa per circa 2000 anni luce, con due regioni di emissione radio poste ai lati della galassia ospite, prive di un nucleo centrale evidente e caratterizzate da zone brillanti ai bordi.

“Questo articolo è il primo di una serie e presenta le osservazioni VLBI, che sono state particolarmente complesse – afferma Cristiana Spingola, ricercatrice INAF e co-autrice dello studio. “Si tratta di un aspetto cruciale di questo lavoro: abbiamo utilizzato 22 antenne – tra cui la parabola di Medicina – il che ha richiesto un notevole impegno sia nella correlazione dei dati sia nella calibrazione”.

“Fin dalla prima immagine ad alta risoluzione, abbiamo immediatamente notato una certa anomalia nell’arco gravitazionale, segno rivelatore che eravamo sulla buona strada. Solo la presenza di un altro piccolo accumulo di massa tra noi e la radiogalassia lontana avrebbe potuto causare questo effetto” – aggiunge John McKean, ricercatore all’Università di Groningen e all’Università di Pretoria che ha coordinato le osservazioni ed è primo autore di questo articolo.

Il secondo studio, pubblicato su Nature Astronomy e basato sullo stesso gruppo di osservazioni VLBI delle sottili distorsioni dell’arco gravitazionale, ha portato all’identificazione del più piccolo oggetto mai individuato nell’Universo lontano grazie al solo effetto della forza di gravità.

Sovrapposizione dell'emissione infrarossa (in bianco e nero) con l'emissione radio (a colori) dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666. L'oggetto oscuro e di piccola massa si trova nel vuoto nella parte luminosa dell'arco sul lato destro. Crediti: Keck/EVN/GBT/VLBA/John McKean
Sovrapposizione dell’emissione infrarossa (in bianco e nero) con l’emissione radio (a colori) dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666. L’oggetto oscuro e di piccola massa si trova nel vuoto nella parte luminosa dell’arco sul lato destro. Crediti: Keck/EVN/GBT/VLBA/John McKean

Per analizzare l’enorme e complesso set di dati, il team ha dovuto sviluppare nuovi algoritmi avanzati che potessero essere eseguiti su supercomputer, confrontando modelli di massa per l’oggetto che agisce da lente gravitazionale con le osservazioni reali. La piccola anomalia riscontrata nell’arco gravitazionale rappresenta la firma inequivocabile della presenza di massa addizionale lungo la linea di vista, troppo debole e compatta per essere osservata direttamente.

“I dati sono così grandi e complessi che abbiamo dovuto sviluppare nuovi approcci numerici per modellarli. Non è stato semplice, perché non era mai stato fatto prima”, dice Simona Vegetti dell’Istituto Max Planck per l’astrofisica. “Ci aspettiamo che ogni galassia, compresa la nostra Via Lattea, sia piena di ammassi di materia oscura, ma trovarli e convincere la comunità scientifica della loro esistenza richiede un’enorme quantità di calcoli”.

Immagine in falsi colori della sorgente compatta con massa pari a 1 milione di soli, identificata nello studio pubblicato su Nature Astronomy. Crediti: D. M. Powell, et al. / Nature Astronomy
Immagine in falsi colori della sorgente compatta con massa pari a 1 milione di soli, identificata nello studio pubblicato su Nature Astronomy. Crediti: D. M. Powell, et al. / Nature Astronomy

Si tratta di una concentrazione di massa probabilmente situata alla stessa distanza della galassia massiccia che agisce da lente gravitazionale, ossia circa 6,5 miliardi di anni luce dalla Terra. La sua massa è di circa un milione di Soli, un valore di gran lunga inferiore ai mille miliardi tipici di una galassia. La scoperta è rivoluzionaria: mai prima d’ora era stato possibile identificare un oggetto di massa così ridotta a una distanza cosmologica così grande.

“È la prima volta che un oggetto di massa così ridotta viene rilevato a una distanza cosmologica basandosi unicamente sul suo effetto gravitazionale”, aggiunge Spingola, coinvolta anche in questo lavoro. “La possibilità di individuare corpi oscuri di questa scala rappresenta un test cruciale per comprendere la natura della materia oscura. “Infatti, ci si aspetta la presenza di oggetti di questa massa in scenari con materia oscura fredda, cioè coerenti con il modello cosmologico standard”.

Cristiana Spingola, co-autrice dello studio e ricercatrice INAF presso l’Istituto di Radioastronomia, Bologna. Crediti: INAF
Cristiana Spingola, co-autrice dello studio e ricercatrice INAF presso l’Istituto di Radioastronomia, Bologna. Crediti: INAF

Ulteriori osservazioni e analisi sono in corso per chiarire la natura di questo oggetto celeste: potrebbe trattarsi di un alone di materia oscura, di un ammasso stellare molto compatto o di una piccola galassia nana spenta. Il team sta anche cercando altri casi di questo tipo in altre parti dell’universo utilizzando la stessa tecnica e, se verranno trovati, alcune teorie sulla materia oscura potrebbero essere definitivamente escluse.


 

L’articolo “An extended and extremely thin gravitational arc from a lensed compact symmetric object at redshift 2.059”, di J. P. McKean, C. Spingola, D. M. Powell and S. Vegetti è pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society
L’articolo “A million-solar-mass object detected at cosmological distance using gravitational imaging”, di D. M. Powell, J. P. McKean, S. Vegetti, C. Spingola, S. D. M. White, C. D. Fassnacht è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy

Per altre informazioni:
Il Joint Institute for VLBI ERIC (JIVE) ha come missione primaria quella di gestire e sviluppare il correlatore dei dati dell’European VLBI Network, un potente supercomputer che combina i segnali dei radiotelescopi dislocati in tutto il pianeta. Fondato nel 1993, JIVE è diventato nel 2015 un Consorzio Europeo per le Infrastrutture di Ricerca (ERIC), con sette paesi membri: Francia, Italia, Lettonia, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna e Svezia. Ulteriore supporto è fornito da istituti partner in Cina, Germania e Sudafrica. La sede del JIVE si trova negli uffici dell’Istituto Olandese per la Radioastronomia (ASTRON) nei Paesi Bassi. L’European VLBI Network (EVN) è una rete interferometrica di radiotelescopi distribuiti in Europa, Asia, Sudafrica e Americhe, che svolge osservazioni radioastronomiche uniche e ad alta risoluzione di sorgenti radio cosmiche. Fondato nel 1980, l’EVN è cresciuto fino a diventare la rete VLBI più sensibile al mondo, includendo oltre 20 telescopi individuali, tra cui alcuni dei radiotelescopi più grandi e sensibili a livello globale. L’EVN è composto da 13 Istituti Membri Effettivi e 5 Istituti Membri Associati.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF