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Cha 1107-7626, un pianeta vagabondo cresce a ritmo record

Situato a circa 620 anni luce di distanza, il pianeta vagabondo Cha 1107-7626, circa 5-10 volte più massiccio di Giove, non orbita attorno a una stella. E sta divorando il materiale da un disco che lo circonda a una velocità di sei miliardi di tonnellate al secondo: la più alta mai rilevata per qualsiasi tipo di pianeta. A guidare la scoperta, pubblicata oggi su ApJL, è stato Víctor Almendros-Abad dell’INAF di Palermo.

Rappresentazione artistica di Cha 1107-7626. Situato a circa 620 anni luce di distanza, questo pianeta vagabondo è circa 5-10 volte più massiccio di Giove e non orbita attorno a una stella. Sta divorando il materiale da un disco che lo circonda e, utilizzando il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, gli astronomi hanno scoperto che lo sta facendo a una velocità di sei miliardi di tonnellate al secondo, la più alta mai rilevata per qualsiasi tipo di pianeta. Il team sospetta che forti campi magnetici potrebbero incanalare il materiale verso il pianeta, un fenomeno osservato solo nelle stelle. Crediti: ESO/L. Calçada/M. Kornmesser
Rappresentazione artistica di Cha 1107-7626. Situato a circa 620 anni luce di distanza, questo pianeta vagabondo è circa 5-10 volte più massiccio di Giove e non orbita attorno a una stella. Sta divorando il materiale da un disco che lo circonda e, utilizzando il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, gli astronomi hanno scoperto che lo sta facendo a una velocità di sei miliardi di tonnellate al secondo, la più alta mai rilevata per qualsiasi tipo di pianeta. Il team sospetta che forti campi magnetici potrebbero incanalare il materiale verso il pianeta, un fenomeno osservato solo nelle stelle. Crediti: ESO/L. Calçada/M. Kornmesser

Gli astronomi hanno identificato un enorme “scatto di crescita” in un cosiddetto pianeta erratico. A differenza dei pianeti del Sistema solare, questi oggetti non orbitano intorno a una stella, ma fluttuano liberamente, isolati. Le nuove osservazioni, effettuate con il Very Large Telescope dell’Osservatorio europeo australe (VLT dell’ESO), rivelano che il pianeta vagabondo sta divorando gas e polvere dai dintorni a un ritmo di sei miliardi di tonnellate al secondo. Si tratta del tasso di crescita più elevato mai registrato per un pianeta erratico, ma anche per un pianeta di qualsiasi tipo, e fornisce preziose informazioni su come i pianeti si formano e crescono.

«Molti pensano ai pianeti come a mondi tranquilli e stabili, ma con questa scoperta vediamo che oggetti di massa planetaria che fluttuano liberamente nello spazio possono essere luoghi avvincenti»,

dice Víctor Almendros-Abad, astronomo dell’INAF – Osservatorio astronomico di Palermo e autore principale del nuovo studio.

L’oggetto appena studiato, con una massa da cinque a dieci volte quella di Giove, si trova a circa 620 anni luce di distanza da noi nella costellazione del Camaleonte. Chiamato ufficialmente Cha 1107-7626, questo pianeta vagabondo è ancora in formazione ed è alimentato da un disco di gas e polvere che lo circonda. Questo materiale ricade costantemente sul pianeta isolato, un processo noto come accrescimento. Tuttavia, il gruppo guidato da Almendros-Abad ha ora scoperto che il tasso di accrescimento del giovane pianeta non è costante.

Nell’agosto del 2025, l’accrescimento sul pianeta aveva un tasso circa otto volte superiore rispetto a quello di pochi mesi prima, pari a sei miliardi di tonnellate al secondo!

«Questo è l’episodio di accrescimento più intenso mai registrato per un oggetto di massa planetaria»,

aggiunge Almendros-Abad. La scoperta, pubblicata oggi su The Astrophysical Journal Letters, è stata realizzata con lo spettrografo X-shooter installato sul VLT dell’Eso, situato nel deserto di Atacama, in Cile. Il gruppo ha utilizzato anche i dati del telescopio spaziale James Webb, gestito dalle agenzie spaziali di Usa, Europa e Canada, e i dati d’archivio dello spettrografo Sinfoni installato sul VLT dell’ESO.

«L’origine dei pianeti erratici rimane una questione non risolta: sono gli oggetti di formazione stellare con la minima massa possibile o pianeti giganti espulsi dai propri sistemi di origine?»

Questo si chiede il coautore Aleks Scholz, astronomo presso l’Università di St Andrews, Regno Unito. I risultati indicano che almeno alcuni pianeti vagabondi potrebbero condividere un percorso di formazione simile a quello delle stelle, poiché simili aumenti rapidi del tasso di accrescimento sono stati osservati in precedenza in stelle giovani. Come spiega la coautrice Belinda Damian, astronoma presso l’Università di St Andrews,

«questa scoperta sfuma il confine tra stelle e pianeti e ci offre un’anteprima dei primi periodi di formazione dei pianeti vagabondi».

Confrontando la luce emessa prima e durante l’aumento, gli astronomi hanno raccolto indizi sulla natura del processo di accrescimento. Sorprendentemente, l’attività magnetica sembra aver giocato un ruolo nel guidare la drastica caduta di massa, un fenomeno osservato finora solo nelle stelle. Ciò suggerisce che anche oggetti di piccola massa possano possedere forti campi magnetici in grado di alimentare questi eventi di accrescimento. Il gruppo ha anche scoperto che la chimica del disco intorno al pianeta è cambiata durante l’episodio di accrescimento, con la presenza di vapore acqueo durante l’evento ma non prima. Questo fenomeno era stato osservato nelle stelle, ma mai in un pianeta di alcun tipo.

I pianeti liberi sono difficili da rivelare, poiché sono molto deboli, ma il futuro ELT (Extremely Large Telescope) dell’ESO potrebbe cambiare la situazione. I suoi potenti strumenti e il gigantesco specchio principale consentiranno agli astronomi di scoprire e studiare un numero maggiore di questi pianeti solitari, aiutando a comprendere meglio quanto siano simili a stelle. Come afferma la coautrice e astronoma dell’ESO Amelia Bayo,

«l’idea che un oggetto planetario possa comportarsi come una stella è suggestivo e ci invita a chiederci come potrebbero essere i mondi oltre il nostro durante le fasi iniziali».

 

DICHIARAZIONE DI VÍCTOR ALMENDROS-ABAD, ASTRONOMO INAF E PRIMO AUTORE DELLO STUDIO:

“Ciò che rende questa scoperta davvero speciale non è solo il fatto di aver misurato il più alto tasso di crescita mai osservato in un oggetto di massa planetaria, ma anche che si tratta della prima eruzione documentata in un oggetto di questo tipo. Fino ad ora, eventi di questo tipo erano stati osservati soltanto in giovani stelle, dove si ritiene giochino un ruolo fondamentale nell’accumulo di massa durante le prime fasi dell’evoluzione. Trovarne uno in un oggetto di appena cinque-dieci volte la massa di Giove dimostra che i meccanismi che guidano la formazione stellare possono operare sulla scala planetaria. Questo apre una finestra del tutto nuova su come evolvono i pianeti e i loro dischi.”

“Per me, la scoperta è stata emozionante anche a livello personale. Tutto è iniziato come un semplice controllo tecnico, per verificare che un problema strumentale fosse stato risolto. Ma nei nuovi dati ho visto subito che la riga di emissione dell’idrogeno appariva completamente diversa, molto più intensa e con una nuova forma. Ho capito immediatamente che stava accadendo qualcosa di straordinario e ho avvisato subito il team. Da quel momento abbiamo seguito l’oggetto passo dopo passo, e con l’arrivo di nuovi dati è diventato sempre più chiaro che si trattava di un’eruzione lunga e complessa. È stata un’esperienza unica, e un promemoria che in astronomia le scoperte avvengono spesso quando meno te lo aspetti.”

Riferimenti bibliografici:

Victor Almendros-Abad et al., 2025 ApJL 992 L2, DOI: 10.3847/2041-8213/ae09a8

Testi, video e immagini dall’Ufficio Stampa INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica, ESO.

PSR J1023+0038, TRA GLI ALTI E BASSI DI UNA PULSAR: IL SEGRETO È NELLA SUA POLARIZZAZIONE

Un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica ha misurato per la prima volta la polarizzazione della luce emessa da una pulsar al millisecondo transizionale in tre diverse bande dello spettro elettromagnetico. Lo studio, pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, indica che l’emissione è dominata dal vento di particelle prodotto della pulsar e non dalla materia che la pulsar stessa sta risucchiando alla sua stella compagna.

Rappresentazione artistica delle regioni centrali del sistema PSR J1023+0038, che mostra la pulsar, il disco di accrescimento interno e il vento della pulsar. Crediti: Marco Maria Messa (Università di Milano e INAF) e Maria Cristina Baglio (INAF)
Rappresentazione artistica delle regioni centrali del sistema PSR J1023+0038, che mostra la pulsar, il disco di accrescimento interno e il vento della pulsar. Crediti: Marco Maria Messa (Università di Milano e INAF) e Maria Cristina Baglio (INAF)

Un team internazionale, guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha individuato nuove prove su come le pulsar al millisecondo transizionali, una particolare classe di resti stellari, interagiscono con la materia circostante. Il risultato, pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, è stato ottenuto grazie a osservazioni effettuate con l’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE) della NASA, il Very Large Telescope (VLT) dell’European Southern Observatory (ESO) in Cile e il Karl G. Jansky Very Large Array (VLA) nel New Mexico: si tratta di una delle prime campagne osservative di polarimetria multi-banda mai realizzate su una sorgente binaria a raggi X, coprendo simultaneamente le bande X, ottica e radio.

La missione spaziale IXPE in preparazione prima del lancio. Crediti: NASA
La missione spaziale IXPE in preparazione prima del lancio. Crediti: NASA

La sorgente analizzata è PSR J1023+0038, una cosiddetta pulsar al millisecondo transizionale. Questi oggetti sono particolarmente interessanti perché alternano fasi in cui si comportano come pulsar “canoniche” – ovvero stelle di neutroni isolate che ruotano su sé stesse centinaia di volte in un secondo, emettendo fasci di luce pulsata – a fasi in cui attraggono e accumulano materia da una stella compagna vicina, formando un disco di accrescimento visibile nei raggi X.

“Le pulsar al millisecondo transizionali sono laboratori cosmici che ci aiutano a capire come le stelle di neutroni evolvono nei sistemi binari”, spiega Maria Cristina Baglio, ricercatrice INAF e prima autrice dello studio. “J1023 è una sorgente particolarmente preziosa di dati perché transita chiaramente tra il suo stato attivo, in cui si nutre della stella compagna, e uno stato più dormiente, in cui si comporta come una pulsar standard emettendo onde radio rilevabili. Durante le osservazioni, la pulsar era in una fase attiva a bassa luminosità, caratterizzata da rapidi cambiamenti tra diversi livelli di luminosità in raggi X”.

Maria Cristina Baglio
Maria Cristina Baglio

In questo studio, per la prima volta, si è misurata simultaneamente la polarizzazione della luce emessa da questa sorgente in tre bande dello spettro elettromagnetico: raggi X (con IXPE), luce visibile (con il VLT) e onde radio (con il VLA). In particolare, IXPE ha rilevato un livello di polarizzazione nei raggi X di circa il 12%, il più elevato mai osservato finora in un sistema binario come quello di J1023. Nella banda ottica, la sorgente mostra una polarizzazione più bassa (circa 1%), ma con un angolo perfettamente allineato a quello della radiazione X, suggerendo una comune origine fisica. Nelle onde radio, invece, è stato fissato un limite massimo di polarizzazione di circa il 2%.

“Questa osservazione, data la bassa intensità del flusso X, è stata estremamente impegnativa, ma la sensibilità di IXPE ci ha permesso di rilevare e misurare con sicurezza questo notevole allineamento tra la polarizzazione ottica e quella nei raggi X”, afferma Alessandro Di Marco, ricercatore INAF e co-autore del lavoro. “Questo studio rappresenta un modo ingegnoso per testare scenari teorici grazie a osservazioni polarimetriche su più lunghezze d’onda”.

I risultati confermano una previsione teorica pubblicata nel 2023 da Maria Cristina Baglio e Francesco Coti Zelati, ricercatore presso l’Istituto di scienze spaziali di Barcellona, Spagna e co-autore dello studio, secondo cui l’emissione polarizzata osservata sarebbe generata dall’interazione tra il vento della pulsar e la materia del disco di accrescimento. La forte polarizzazione nei raggi X prevista, tra il 10 e il 15%, è stata effettivamente rilevata, confermando il modello teorico. Si tratta di un’indicazione chiara che le pulsar al millisecondo transizionali sono alimentate principalmente dalla rotazione e dal vento relativistico della pulsar, piuttosto che dal solo accrescimento di materia dalla stella compagna.

Capire cosa alimenta davvero queste stelle ultra-compatte, che alternano due nature profondamente diverse, rappresenta un passo fondamentale per decifrare il comportamento della materia e dell’energia in condizioni estreme. Questo studio porta la comunità scientifica un passo più vicino a comprendere meccanismi universali che regolano fenomeni come i getti dei buchi neri e le nebulose da vento di pulsar.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Polarized multiwavelength emission from pulsar wind – accretion disk interaction in a transitional millisecond pulsar”, di M. C. Baglio, F. C. Zelati, A. Di Marco, F. La Monaca, A. Papitto, A. K. Hughes, S. Campana, D. M. Russell, D. F. Torres, F. Carotenuto, S. Covino, D. De Martino, S. Giarratana, S. E. Motta, K. Alabarta, P. D’Avanzo, G. Illiano, M. M. Messa, A. M. Zanon e N. Rea, è stato pubblicato online sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

Grazie ai venti da loro generati, che accelerano improvvisamente a grandi distanze, i buchi neri non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie

Ricerca internazionale su Nature Astronomy guidata dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri

Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate
Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate

buchi neri che si trovano al centro delle galassie non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici.

È la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricercatori internazionali guidati dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri, protagonisti di un lavoro pubblicato su Nature Astronomy (“Evidence of the Fast Acceleration of AGN-Driven Winds at Kiloparsec Scales” https://www.nature.com/articles/s41550-025-02518-6). Lo studio ha dimostrato per la prima volta che i venti generati dai buchi neri subiscono un’improvvisa accelerazione quando si allontanano dal centro galattico, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie.

“Ogni galassia ospita al centro un buco nero supermassiccio”, spiegano i primi firmatari dell’articolo Cosimo Marconcini e Alessandro Marconi, rispettivamente dottorando e docente di Astrofisica del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Firenze. “Questi nuclei galattici attivi (AGN) mentre «mangiano» materia, generano forti venti di gas che si diffondono nello spazio circostante”.

Gli scienziati hanno scoperto un comportamento sorprendente: nei primi 3.000 anni luce (1 kiloparsec) dalla sorgente, i venti si muovono a velocità costante o addirittura rallentano un po’; in seguito, subiscono una drastica espansione, si riscaldano e accelerano, raggiungendo velocità tali da espellere dalla galassia tutto il gas che incontrano lungo la strada. A questo risultato i ricercatori sono arrivati analizzando i venti di 10 galassie osservate con il Very Large Telescope (VLT – European Southern Observatory) in Cile – la più importante struttura al mondo per l’astronomia – e con un nuovo strumento per la modellizzazione 3D dei dati, chiamato MOKA3D e da loro sviluppato.

Perché questa acquisizione è così importante? Perché i buchi neri supermassivi possono spingere il gas fuori dalle galassie, fermando la formazione stellare e influenzando la loro evoluzione.

“Infatti – spiegano i due ricercatori – i venti generati dagli AGN regolano la nascita delle stelle, perché se il vento spazza via troppo gas, la galassia avrà meno «carburante» per formarne di nuove. Possono, quindi, influenzare la distribuzione del gas e degli elementi chimici e addirittura fermare la crescita della galassia: se il vento è abbastanza forte da espellere il gas nello spazio intergalattico, la galassia stessa potrebbe smettere di crescere”.

La prossima frontiera consisterà nello studiare altre galassie, anche molto lontane, per capire se nell’universo è comune questo fenomeno, che fa dei buchi neri i modellatori delle galassie in cui vivono.

Immagine RGB della galassia Circinus
Immagine RGB della galassia Circinus (un’immagine RGB è anche detta immagine a falsi colori, in cui si evidenzia l’emissione di componenti diversi della galassia con colori diversi: blu=gas ionizzato che traccia i venti emessi dai buchi neri; rosso=emissione da parte di stelle giovani e parzialmente anche i venti provenienti dai buchi neri; verde=emissione diffusa delle stelle nella galassia)

Riferimenti bibliografici:

Marconcini, C., Marconi, A., Cresci, G. et al., Evidence of the fast acceleration of AGN-driven winds at kiloparsec scales, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02518-6

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Unità funzionale comunicazione esterna dell’Università degli studi di Firenze

Big Wheel” (Ruota Panoramica), scoperta una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale

In un articolo su “Nature Astronomy”, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang, professore e post-doc del gruppo di ricerca “Cosmic Web” dell’Università di Milano-Bicocca, descrivono la rapida e inaspettata crescita di un enorme disco galattico nelle prime fasi di sviluppo dell’universo. Uno studio condotto grazie ai dati ricevuti dal James Webb Space Telescope e che apre una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie.

La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico
La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico. La galassia è un gigantesco disco rotante a redshift z = 3,25, con chiari bracci a spirale. È finora unica per le sue grandi dimensioni del disco, che si estende per più di 30 kpc, più grande di qualsiasi altro disco di galassia confermato in questa epoca dell’universo

Milano, 17 marzo 2025 – Una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale, ovvero in un periodo cosmico iniziale – circa due miliardi di anni dopo il Big Bang – e che presenta quindi dimensioni più tipiche dei dischi galattici giganti dell’Universo attuale. È la scoperta del gruppo di ricerca “Cosmic Web”, nato all’interno dell’Unità di Astrofisica del dipartimento di Fisica dell’Università di Milano-Bicocca, riportata in un articolo pubblicato oggi su “Nature Astronomy” (“A giant disk galaxy two bilion years after the Big Bang”, DOI: 10.1038/s41550-025-02500-2), a firma di Weichen Wang e Sebastiano Cantalupo, rispettivamente assegnista di ricerca (post-doc) e professore ordinario dell’ateneo, oltre agli altri membri del gruppo “Cosmic Web” e collaboratori internazionali. Una scoperta basata sui dati ottenuti dai ricercatori di Milano-Bicocca dal James Webb Space Telescope (JWST), l’osservatorio spaziale più grande e potente mai costruito finora, erede di Hubble, frutto di una partnership tra la NASA, l’ESA e l’Agenzia spaziale canadese (Canadian Space Agency).

«Quando e come si formano i dischi galattici è ancora un enigma nell’astronomia moderna – afferma Sebastiano Cantalupo – I primi anni di osservazioni del James Webb Space Telescope hanno rivelato una pletora di dischi galattici nell’Universo primordiale, che corrisponde a un’epoca cosmica di undici miliardi di anni fa, o due miliardi di anni dopo il Big Bang. Prima della nostra osservazione, erano tuttavia stati scoperti da JWST solo dischi galattici molto più piccoli di quelli che vediamo nell’universo locale. Per questo motivo, si pensava fino ad ora che la formazione dei dischi più grandi avesse richiesto la maggior parte dell’età dell’universo. Per poter fare nuova luce sulla questione, abbiamo rivolto la nostra attenzione all’Universo primordiale e, in particolare, ad uno speciale ambiente cosmico».

Gli studiosi del Cosmic Web Group, hanno condotto il loro studio utilizzando nuove osservazioni dal JWST, integrate da dati provenienti da altre strutture come il telescopio spaziale Hubble, il Very Large Telescope (VLT) e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA). Queste osservazioni erano mirate verso una specifica regione del cielo, che si trova a 11-12 miliardi di anni luce di distanza da noi e che è incorporata in una struttura su larga scala che probabilmente evolverà in un ammasso di galassie, una regione quasi unica nell’universo, eccezionalmente densa, con un’alta concentrazione di galassie, gas e buchi neri. «Un laboratorio nel quale si possono studiare i meccanismi di formazione delle galassie. Infatti, grazie alla velocità finita della luce, osservazioni e immagini del telescopio sono una foto di quella regione di cielo quando l’universo aveva “solo” 2 miliardi di anni».

«Utilizzando i dati di due strumenti – prosegue Weichen Wang – la Near-Infrared Camera e il Near-Infrared Spectrograph, a bordo del JWST, abbiamo identificato le galassie all’interno di questa regione iperdensa e abbiamo analizzato i loro redshift, la loro morfologia e la loro cinematica, tutti necessari per l’identificazione dei dischi galattici. Le osservazioni ci hanno portato alla scoperta di un disco sorprendentemente grande nella struttura su larga scala. Questa galassia, che abbiamo chiamato “Big Wheel”, o “Ruota Panoramica” in italiano date le sue enormi dimensioni (Figura 1), ha un raggio effettivo (cioè il raggio che contiene metà della luce totale) di circa 10 kiloparsec. “Big Wheel” è circa tre volte più grande delle galassie scoperte in precedenza con masse stellari e tempi cosmici simili, ed è anche almeno tre volte più grande di quanto previsto dalle attuali simulazioni cosmologiche. È invece paragonabile alle dimensioni della maggior parte dei dischi massicci visti nell’attuale Universo».

Ulteriori analisi spettroscopiche hanno confermato che “Big Wheel” è un disco che ruota come una galassia a spirale, ovvero come la Via Lattea, la nostra galassia».

La crescita precoce e rapida di questo disco potrebbe essere correlata al suo ambiente altamente sovradenso, che, a differenza di quanto dicano i modelli di formazione galattica più diffusi, potrebbe offrire condizioni fisiche favorevoli a questa formazione precoce.

«Ambienti eccezionalmente densi come quello che ospita la Big Wheel rimangono un territorio relativamente inesplorato – conclude Sebastiano Cantalupo –. Sono necessarie ulteriori osservazioni mirate per costruire un campione statistico di dischi giganti nell’Universo primordiale e aprire così una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie».

Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang
Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang

Sebastiano Cantalupo, Weichen Wang e il Cosmic Web Group

Classe 1980, Sebastiano Cantalupo è professore ordinario di Astrofisica all’Università di Milano-Bicocca. Vincitore di un finanziamento ERC (European Research Council) nel 2020, rientra in Italia dopo 17 anni all’estero (Politecnico di Zurigo,Università di CambridgeUniversità della California a Santa Cruz), scegliendo l’Università di Milano-Bicocca per proseguire le sue linee di ricerca. Cantalupo guida un team chiamato “Cosmic Web”, dal nome del suo progetto di ricerca, formato da otto ricercatori e, oltre all’ERC, ha ricevuto nel 2020 un finanziamento da Fondazione Cariplo (bando “Attrattività e competitività su strumenti dell’European Research Council”) e un ulteriore supporto, nel 2021, dal bando Fare, il programma MUR (Ministero Università e Ricerca) per la ricerca di eccellenza.

Weichen Wang è nato nel 1994. Si è laureato (bachelor degree) in Fisica nel 2016 alla Tsinghua University di Pechino e ha conseguito nel 2022 un dottorato in Astrofisica alla Johns Hopkins University di Baltimora. Dal 2022 è assegnista di ricerca (post-doc) all’Università di Milano-Bicocca.

Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang
Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

EPPUR SI MUOVONO, RUOTANDO: IL PROGETTO LEWIS MOSTRA INASPETTATE PROPRIETÀ SULLE GALASSIE ULTRA DIFFUSE: MOTI DI ROTAZIONE DELLE STELLE INTORNO AL CENTRO DELLE STESSE UDG

Il progetto LEWIS a guida INAF ha permesso per la prima volta di mappare i moti delle stelle che compongono 30 galassie ultra diffuse, scoprendo che esse ruotano attorno al loro centro: un risultato inatteso che mette in crisi le attuali teorie riguardanti questa particolare classe di galassie. I risultati presentati nei due articoli appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics potrebbero cambiare la nostra comprensione dell’evoluzione delle UDG e del loro legame con la materia oscura.

Immagine delle galassie NGC3314 e UDG32 acquisite con la OmegaCAM installata al telescopio VST. Crediti: ESO/INAF - E. Iodice
Immagine delle galassie NGC3314 e UDG32 acquisite con la OmegaCAM installata al telescopio VST. Crediti: ESO/INAF – E. Iodice

Nuovi dettagli sulle galassie ultra diffuse, le cosiddette Ultra-Diffuse Galaxies (UDG), sono stati svelati grazie a due studi recentemente pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics. I lavori, realizzati con un contributo fondamentale di ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, hanno mappato per la prima volta la cinematica stellare di circa 30 UDG nell’ammasso galattico dell’Idra, distante oltre 160 milioni di anni luce da noi.

La scoperta inattesa di moti di rotazione delle stelle intorno al centro di queste elusive e deboli galassie potrebbe cambiare radicalmente la nostra comprensione della loro storia di formazione ed evoluzione. Questo studio è stato reso possibile grazie al progetto internazionale “Looking into the faintEst WIth MUSE” (LEWIS), guidato dalla ricercatrice INAF Enrichetta Iodice, che ha utilizzato il potente spettrografo a campo integrale MUSE, installato al Very Large Telescope (VLT) dell’ESO in Cile.

Le galassie ultra diffuse, scoperte di recente grazie ai progressi tecnologici in astronomia, sono galassie poco luminose ma molto estese e di bassa luminosità. Identificate per la prima volta in grandi quantità nel 2015, la loro natura e il loro processo di formazione sono ancora oggetto di intensa ricerca. Le nuove analisi spettroscopiche con il progetto LEWIS hanno rivelato che queste galassie si trovano in ambienti estremamente variabili, mostrando una sorprendente varietà nelle loro proprietà fisiche, come la cinematica delle stelle che le compongono e la quantità di materia oscura presente.

Rappresentazione artistica di una galassia ultra diffusa in fase di rotazione. Crediti: C. Butitta/INAF
Progetto LEWIS: scoperta inattesa di moti di rotazione delle stelle intorno al centro di queste elusive e deboli galassie ultra diffuse. Rappresentazione artistica di una galassia ultra diffusa in fase di rotazione. Crediti: C. Butitta/INAF

Uno dei risultati più significativi ed inaspettati del progetto LEWIS è l’identificazione di diverse classi cinematiche di UDG nell’ammasso dell’Idra. Quasi la metà delle galassie esaminate mostra segni evidenti di rotazione nelle stelle che le compongono. Una scoperta che contrasta con una convinzione precedente, secondo cui queste galassie non dovrebbero mostrare questo tipo di moti. Questo risultato potrebbe essere fondamentale per comprendere meglio la struttura di queste galassie e il loro legame con la materia oscura.

“I risultati che abbiamo ottenuto hanno avuto una duplice soddisfazione”, dice Chiara Buttitta, ricercatrice postdoc  INAF e prima autrice di uno dei due articoli pubblicati su Astronomy & Astrophysics. “Non solo siamo stati in grado di ricavare i moti stellari in queste galassie estremamente deboli, ma abbiamo trovato qualcosa che non ci aspettavamo di osservare”.

Le osservazioni hanno permesso in particolare di realizzare un’analisi dettagliata di UDG32, una galassia ultra diffusa che è stata scoperta all’estremità dei filamenti della galassia a spirale NGC3314A. La UDG32 è appena visibile, ed appare come una debole macchia giallastra nelle immagini. Una delle possibili origini proposte per le UDG è la formazione da nubi di gas nei filamenti di galassie come la NGC3314A. Questa è rimasta solo un’ipotesi fino a quando è stata scoperta la UDG32. In particolare, una nube di gas presente nei filamenti, se raggiunge la densità critica, sotto l’azione della forza gravitazionale può collassare e formare stelle, diventando un nuovo sistema originatosi dal materiale rilasciato dalla galassia madre. L’analisi dei dati LEWIS ha confermato che la UDG32 è associata alla coda di filamenti della galassia NGC3314A: quindi non è solo un effetto di proiezione che localizza casualmente la UDG32 nella coda di NGC3314A. Inoltre, i nuovi dati hanno mostrato che la UDG32 è caratterizzata da una popolazione stellare ricca di metalli e di età intermedia, più giovane delle altre UDG osservate nell’ammasso dell’Idra, consistente con l’ipotesi che questa galassia potrebbe essersi formata da materiale pre-arricchito nel gruppo sud-est dell’ammasso dell’Idra e quindi liberato da una galassia più massiccia.

LEWIS è il primo grande progetto dell’ESO, guidato da INAF, interamente dedicato allo studio delle UDG. Questo programma ha raddoppiato il numero di galassie ultra diffuse analizzate spettroscopicamente, fornendo per la prima volta una visione globale delle loro proprietà all’interno di un ammasso di galassie ancora in fase di formazione.

“Il progetto LEWIS è stata una sfida. Quando questo programma è stato accettato dall’ESO abbiamo realizzato che fosse una miniera di dati da esplorare. E tale si è rivelato” afferma Enrichetta Iodice, ricercatrice INAF e responsabile scientifica del progetto. “La ‘forza’ di LEWIS, grazie alla spettroscopia integrale dello strumento usato, risiede nel poter studiare contemporaneamente, per ogni singola galassia, non solo i moti delle stelle, ma anche la popolazione stellare media e, quindi, avere indicazioni sull’età di formazione e le proprietà degli ammassi globulari, traccianti fondamentali anche per il contenuto di materia oscura. Mettendo insieme i singoli risultati, come in un puzzle, si ricostruisce la storia di formazione di questi sistemi”.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Looking into the faintEst WIth MUSE (LEWIS): Exploring the nature of ultra-diffuse galaxies in the Hydra-I cluster”, di Buttita C. Iodice E. et al. è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “Looking into the faintEst WIth MUSE (LEWIS): Exploring the nature of ultra-diffuse galaxies in the Hydra I cluster”, di Hartke J., Iodice E., et al. è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

La pagina web del progetto LEWIS: https://sites.google.com/inaf.it/lewis/home

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

La “ragnatela cosmica” della materia oscura che forma l’Universo fotografata da ricercatori di Milano-Bicocca

Grazie a uno studio dell’Università di Milano-Bicocca, ottenute le prime immagini del filamento cosmico che unisce due galassie in formazione, risalente a quando l’Universo aveva solo 2 miliardi di anni

Milano, 30 gennaio 2025 – Le prime immagini ad alta definizione della “ragnatela cosmica” che struttura l’Universo sono state ottenute grazie a uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Grazie a MUSE (Multi-Unit Spectroscopic Explorer), innovativo spettrografo installato presso il Very Large Telescope dell’European Southern Observatory, in Cile, il team ha catturato una struttura cosmica risalente a un Universo molto giovane. La scoperta è stata recentemente pubblicata su Nature Astronomy nell’articolo “High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z=3” e apre una nuova prospettiva per comprendere l’essenza della materia oscura.

Sfruttando le capacità offerte dal sofisticato strumento, il gruppo di ricerca coordinato da Michele Fumagalli e Matteo Fossati, professori nell’unità di Astrofisica dell’Università di Milano-Bicocca, ha condotto una delle più ambiziose campagne di osservazione con MUSE mai completata in una singola regione di cielo, acquisendo dati per centinaia di ore. 

Un solido pilastro della cosmologia moderna è l’esistenza della materia oscura che, costituendo circa il 90% di tutta la materia presente nell’Universo, determina la formazione e l’evoluzione di tutte le strutture che osserviamo su grandi scale nel Cosmo.

«Sotto l’effetto della forza di gravità, la materia oscura disegna un’intricata trama cosmica composta da filamenti, alle cui intersezioni si formano le galassie più brillanti», ha spiegato Michele Fumagalli. «Questa ragnatela cosmica è l’impalcatura su cui si creano tutte le strutture visibili nell’Universo: all’interno dei filamenti il gas scorre per raggiungere e alimentare la formazione di stelle nelle galassie».

«Per molti anni, le osservazioni di questa ragnatela cosmica sono state impossibili: il gas presente in questi filamenti è infatti così diffuso da emettere solo un tenue bagliore, indistinguibile dagli strumenti allora disponibili», commenta Matteo Fossati.

MUSE, grazie alla sua elevata sensibilità alla luce, ha consentito agli scienziati di ottenere immagini dettagliate di questa ragnatela cosmica. Lo studio – guidato da Davide Tornotti, dottorando dell’Università di Milano-Bicocca, e collaboratori – ha utilizzato questi dati ultrasensibili per produrre l’immagine più nitida mai ottenuta di un filamento cosmico che si estende su una distanza di 3 milioni di anni luce attraverso due galassie che ospitano ciascuna un buco nero supermassiccio.

«Catturando la debole luce proveniente da questo filamento, che ha viaggiato per poco meno di 12 miliardi di anni prima di giungere a Terra, siamo riusciti a caratterizzarne con precisione la forma e abbiamo tracciato, per la prima volta con misure dirette, il confine tra il gas che risiede nelle galassie e il materiale contenuto nella ragnatela cosmica», spiega Davide Tornotti. «Attraverso alcune simulazioni dell’Universo con i supercomputer, abbiamo inoltre confrontato le previsioni del modello cosmologico attuale con i nuovi dati, trovando un sostanziale accordo tra la teoria corrente e le osservazioni».

«Quando quasi 10 anni fa Michele Fumagalli mi ha proposto di partecipare a queste osservazioni ultra-profonde con lo strumento MUSE ho accettato con grande entusiasmo perché le potenzialità dello studio erano veramente moltissime», commenta Valentina D’Odorico, ricercatrice INAF e co-autrice del lavoro. «Abbiamo già pubblicato vari lavori basati su questi dati, ma il risultato ottenuto nell’articolo guidato da Tornotti può essere considerato il coronamento del progetto. Infatti, non solo vengono identificate le sovradensità occupate dai nuclei galattici attivi presenti nel campo e il filamento che li unisce, ma tali strutture confrontate in modo quantitativo con le predizioni di simulazioni numeriche sono in accordo con un modello di formazione delle strutture cosmiche che adotta materia oscura fredda».

La ricerca è stata supportata da Fondazione Cariplo e dal Ministero dell’Università e Ricerca attraverso il Progetto Dipartimenti di Eccellenza 2023-2027 (BiCoQ, Bicocca Centre for Quantitative Cosmology).

Riferimenti bibliografici:

Tornotti, D., Fumagalli, M., Fossati, M. et al. High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z = 3, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-024-02463-w

Testo e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica

Scienziati scoprono Barnard b, un pianeta in orbita intorno alla stella di Barnard, la stella singola più vicina al Sole

This artist’s impression shows Barnard b, a sub-Earth-mass planet that was discovered orbiting Barnard’s star. Its signal was detected with the ESPRESSO instrument on ESO’s Very Large Telescope (VLT), and astronomers were able to confirm it with data from other instruments. An earlier promising detection in 2018 around the same star could not be confirmed by these data. On this newly discovered exoplanet, which has at least half the mass of Venus but is too hot to support liquid water, a year lasts just over three Earth days.Crediti: ESO/M. Kornmesser
Impressione artistica del pianeta Barnard b.
Crediti: ESO/M. Kornmesser

Utilizzando il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO (Osservatorio Europeo Australe), alcuni astronomi hanno scoperto un esopianeta in orbita intorno alla stella di Barnard, la stella singola più vicina al Sole. Su questo esopianeta appena scoperto, che ha una massa pari ad almeno la metà di quella di Venere, un anno dura poco più di tre giorni terrestri. Le osservazioni dell’équipe suggeriscono anche l’esistenza di altri tre candidati esopianeti, in orbite diverse intorno alla stella.

Situata a soli sei anni luce di distanza, la stella di Barnard è il secondo sistema stellare, dopo il gruppo di tre stelle di Alpha Centauri, e la stella singola più vicina a noi. Grazie alla sua vicinanza, è un obiettivo primario nella ricerca di esopianeti simili alla Terra. Nonostante una promettente riveazione nel 2018, finora nessun pianeta era stato confermato in orbita intorno alla stella di Barnard.

Rappresentazione grafica delle distanze relative tra le stelle più vicine e il Sole.
Crediti: IEEC/Science-Wave – Guillem Ramisa
Il grafico mostra la costellazione di Ofiuco (o Serpentario), a cavallo dell'equatore celeste. È indicata la posizione della stella di Barnard, così come l'ubicazione della maggior parte delle stelle visibili a occhio nudo in una notte buia e serena. Crediti: ESO, IAU and Sky & Telescope
Il grafico mostra la costellazione di Ofiuco (o Serpentario), a cavallo dell’equatore celeste. È indicata la posizione della stella di Barnard, così come l’ubicazione della maggior parte delle stelle visibili a occhio nudo in una notte buia e serena.
Crediti: ESO, IAU and Sky & Telescope

La scoperta di questo nuovo esopianeta, annunciata in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics, è il risultato di osservazioni effettuate negli ultimi cinque anni con il VLT dell’ESO, situato presso l’Osservatorio del Paranal in Cile.

Anche se ci è voluto molto tempo, siamo sempre stati fiduciosi di poter trovare qualcosa“,

afferma Jonay González Hernández, ricercatore presso l’Instituto de Astrofísica de Canarias in Spagna e autore principale dell’articolo. L’équipe stava cercando segnali da possibili esopianeti all’interno della zona abitabile o temperata della stella di Barnard, l’intervallo in cui l’acqua può essere liquida sulla superficie del pianeta. Le nane rosse come la stella di Barnard sono spesso considerate dagli astronomi poiché lì i pianeti rocciosi di piccola massa sono più facili da rilevare che intorno a stelle più grandi, simili al Sole. [1]

Barnard b [2], come viene chiamato l’esopianeta appena scoperto, è venti volte più vicino alla stella di Barnard di quanto Mercurio lo sia al Sole. Orbita intorno alla stella in 3,15 giorni terrestri e ha una temperatura superficiale di circa 125 °C.

Barnard b è uno degli esopianeti di massa più piccola trovati finora e uno dei pochi noti con una massa inferiore a quella della Terra. Ma il pianeta è troppo vicino alla stella ospite, più vicino rispetto alla zona abitabile“, spiega González Hernández. “Anche se la stella è circa 2500 gradi più fredda del Sole, in quella posizione fa troppo caldo perchè si possa mantenere acqua liquida sulla superficie“.

Per le osservazioni, il gruppo di lavoro ha utilizzato ESPRESSO, uno strumento molto preciso progettato per misurare l’oscillazione di una stella causata dall’attrazione gravitazionale di uno o più pianeti in orbita intorno ad essa. I risultati ottenuti da queste osservazioni sono stati confermati dai dati di altri strumenti specializzati nella caccia agli esopianeti: HARPS presso l’Osservatorio di La Silla dell’ESO, HARPS-N e CARMENES. I nuovi dati, tuttavia, non supportano l’esistenza dell’esopianeta segnalato nel 2018.

Oltre al pianeta confermato, l’équipe internazionale ha anche trovato indizi di altri tre candidati esopianeti in orbita intorno alla stessa stella. Serviranno ulteriori osservazioni con ESPRESSO per la conferma.

Ora dobbiamo continuare a osservare questa stella per confermare gli altri segnali candidati“, afferma Alejandro Suárez Mascareño, anch’egli ricercatore presso l’Instituto de Astrofísica de Canarias e coautore dello studio. “Ma la scoperta di questo pianeta, insieme con altre scoperte precedenti come Proxima b e d, dimostra che il nostro angolino cosmico è pieno di pianeti di piccola massa“.

L’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO, attualmente in costruzione, è destinato a trasformare il campo della ricerca sugli esopianeti. Lo strumento ANDES dell’ELT consentirà di rivelare un numero sempre maggiore di questi piccoli pianeti rocciosi nella zona temperata intorno a stelle vicine, oltre la portata degli attuali telescopi, e di studiarne la composizione dell’atmosfera.

La panoramica mostra i dintorni della nana rossa nota come stella di Barnard, nella costellazione dell'Ofiuco. L'immagine è stata prodotta a partire dai dati della DSS2 (Digitized Sky Survey 2). Nel centro dell'immagine si trova la stella di Barnard, catturata in tre diverse esposizioni. La stella è la più veloce nel cielo notturno e il suo grande moto proprio - lo spostamento apparente sulla volta celeste - viene evidenziato dal fatto che la posizione cambi tra osservazioni successive - mostrate in rosso, giallo e blu. Crediti: ESO/Digitized Sky Survey 2 Acknowledgement: Davide De Martin E — Red Dots
La panoramica mostra i dintorni della nana rossa nota come stella di Barnard, nella costellazione dell’Ofiuco. L’immagine è stata prodotta a partire dai dati della DSS2 (Digitized Sky Survey 2). Nel centro dell’immagine si trova la stella di Barnard, catturata in tre diverse esposizioni. La stella è la più veloce nel cielo notturno e il suo grande moto proprio – lo spostamento apparente sulla volta celeste – viene evidenziato dal fatto che la posizione cambi tra osservazioni successive – mostrate in rosso, giallo e blu.
Crediti:
ESO/Digitized Sky Survey 2 Acknowledgement: Davide De Martin
E — Red Dots

Note

[1] Gli astronomi osservano preferenzialmente le stelle fredde, come le nane rosse, perché la loro zona temperata è molto più vicina alla stella rispetto alle stelle più calde, come il Sole. Ciò significa che i pianeti che orbitano all’interno della zona temperata hanno periodi orbitali più brevi, consentendo agli astronomi di monitorarli per diversi giorni o settimane, anziché anni. Inoltre, le nane rosse sono molto meno massicce del Sole, quindi sono più facilmente disturbate dall’attrazione gravitazionale dei loro pianeti  e quindi oscillano maggiormente.
[2] È pratica comune nella scienza dare agli esopianeti il nome della stella ospite seguito da una lettera minuscola: “b” indica il primo pianeta identificato, “c” il successivo e così via. Il nome Barnard b è stato quindi dato anche a un candidato pianeta precedentemente identificato, ma non confermato, intorno alla stella di Barnard.

Ulteriori Informazioni

Questo risultato è stato presentato nell’articolo “A sub-Earth-mass planet orbiting Barnard’s star” pubblicato su Astronomy & Astrophysics. (https://www.aanda.org/10.1051/0004-6361/202451311)

L’équipe è composta da J. I. González Hernández (Instituto de Astrofísica de Canarias, Spagna [IAC] e Departamento de Astrofísica, Universidad de La Laguna, Spagna [IAC-ULL]), A. Suárez Mascareño (IAC e IAC-ULL), A. M. Silva (Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço, Universidade do Porto, Portogallo [IA-CAUP] e Departamento de Física e Astronomia Faculdade de Ciências, Universidade do Porto, Portogallo [FCUP]), A. K. Stefanov (IAC e IAC-ULL), J. P. Faria (Observatoire de Genève, Université de Genève, Svizzera [UNIGE]; IA-CAUP e FCUP), H. M. Tabernero (Departamento de Física de la Tierra y Astrofísica & Instituto de Física de Partículas y del Cosmos, Universidad Complutense de Madrid, Spagna), A. Sozzetti (INAF – Osservatorio Astrofisico di Torino, Italia [INAF-OATo]), R. Rebolo (IAC; IAC-ULL e Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Spagna [CSIC]), F. Pepe (UNIGE), N. C. Santos (IA-CAUP; FCUP), S. Cristiani (INAF – Osservatorio Astronomico di Trieste, Italia [INAF-OAT] e Institute for Fundamental Physics of the Universe, Trieste, Italia [IFPU]), C. Lovis (UNIGE), X. Dumusque (UNIGE), P. Figueira (UNIGE e IA-CAUP), J. Lillo-Box (Centro de Astrobiología, CSIC-INTA, Madrid, Spagna [CAB]), N. Nari (IAC; Light Bridges S. L., Canarias, Spagna e IAC-ULL), S. Benatti (INAF – Osservatorio Astronomico di Palermo, Italia [INAF-OAPa]), M. J. Hobson (UNIGE), A. Castro-González (CAB), R. Allart (Institut Trottier de Recherche sur les Exoplanètes, Université de Montréal, Canada e UNIGE), V. M. Passegger (National Astronomical Observatory of Japan, Hilo, USA; IAC; IAC-ULL e Hamburger Sternwarte, Hamburg, Germania), M.-R. Zapatero Osorio (CAB), V. Adibekyan (IA-CAUP e FCUP), Y. Alibert (Center for Space and Habitability, University of Bern, Svizzera e Weltraumforschung und Planetologie, Physikalisches Institut, University of Bern, Svizzera), C. Allende Prieto (IAC e IAC-ULL), F. Bouchy (UNIGE), M. Damasso (INAF-OATo), V. D’Odorico (INAF-OAT e IFPU), P. Di Marcantonio (INAF-OAT), D. Ehrenreich (UNIGE), G. Lo Curto (European Southern Observatory, Santiago, Cile [ESO Chile]), R. Génova Santos (IAC e IAC-ULL), C. J. A. P. Martins (IA-CAUP e Centro de Astrofísica da Universidade do Porto, Portogallo), A. Mehner (ESO Chile), G. Micela (INAF-OAPa), P. Molaro (INAF-OAT), N. Nunes (Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço, Universidade de Lisboa, Portogallo), E. Palle (IAC e IAC-ULL), S. G. Sousa (IA-CAUP e FCUP), e S. Udry (UNIGE).

L’ESO (European Southern Observatory o Osservatorio Europeo Australe) consente agli scienziati di tutto il mondo di scoprire i segreti dell’Universo a beneficio di tutti. Progettiamo, costruiamo e gestiamo da terra osservatori di livello mondiale – che gli astronomi utilizzano per affrontare temi interessanti e diffondere il fascino dell’astronomia – e promuoviamo la collaborazione internazionale per l’astronomia. Fondato come organizzazione intergovernativa nel 1962, oggi l’ESO è sostenuto da 16 Stati membri (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna, Svezia e Svizzera), insime con il paese che ospita l’ESO, il Cile, e l’Australia come partner strategico. Il quartier generale dell’ESO e il Planetario e Centro Visite Supernova dell’ESO si trovano vicino a Monaco, in Germania, mentre il deserto cileno di Atacama, un luogo meraviglioso con condizioni uniche per osservare il cielo, ospita i nostri telescopi. L’ESO gestisce tre siti osservativi: La Silla, Paranal e Chajnantor. Sul Paranal, l’ESO gestisce il VLT (Very Large Telescope) e il VLTI (Very Large Telescope Interferometer), così come due telescopi per survey, VISTA, che lavora nell’infrarosso, e VST (VLT Survey Telescope) in luce visibile. Sempre a Paranal l’ESO ospiterà e gestirà la schiera meridionale di telescopi di CTA, il Cherenkov Telescope Array Sud, il più grande e sensibile osservatorio di raggi gamma del mondo. Insieme con partner internazionali, l’ESO gestisce APEX e ALMA a Chajnantor, due strutture che osservano il cielo nella banda millimetrica e submillimetrica. A Cerro Armazones, vicino a Paranal, stiamo costruendo “il più grande occhio del mondo rivolto al cielo” – l’ELT (Extremely Large Telescope, che significa Telescopio Estremamente Grande) dell’ESO. Dai nostri uffici di Santiago, in Cile, sosteniamo le operazioni nel paese e collaboriamo con i nostri partner e la società cileni.

La traduzione dall’inglese dei comunicati stampa dell’ESO è un servizio dalla Rete di Divulgazione Scientifica dell’ESO (ESON: ESO Science Outreach Network) composta da ricercatori e divulgatori scientifici da tutti gli Stati Membri dell’ESO e altri paesi. Il nodo italiano della rete ESON è gestito da Anna Wolter.

Testo, video e immagini dall’Osservatorio Europeo Australe – ESO.

VLT E ALMA CATTURANO RAFFICHE DI VENTO RELATIVISTICO DAL QUASAR DELLA GALASSIA J0923+0402, IN PIENA ATTIVITÀ

Un team di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dall’Università degli studi di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar lontano ma decisamente attivo (uno dei più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’Universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli esperti hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.

alone quasar della galassia J0923+0402 Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti
Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti

La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi, per la precisione a redshift z = 6.632 (ossia la sua radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni) con al centro un quasar. La luce dei quasar (o quasi-stellar radio source) viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.

“L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso rilevato in epoche remote (circa 50 mila anni luce)”, spiega Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’INAF e l’Università degli studi di Trieste.

I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, ha captato raffiche di materia, in gergo BAL winds (dall’inglese venti con righe di assorbimento larghe o broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array sempre dell’ESO), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del Cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti BAL e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.

La ricercatrice sottolinea: “I BAL sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, osserviamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso. Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il BAL di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento BAL è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di ALMA ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia”.

La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (HSC), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dall’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone (National Astronomical Observatory of Japan – NAOJ), e – con una misura molto più accurata – dalla NIRCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (JWST delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA).

“Questo quasar verrà osservato nuovamente dal JWST in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone”, annuncia Bischetti.

La ricercatrice prosegue spiegando il perché di questa survey: “Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia”. Le misure effettuate “sono di routine nell’Universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z>6”, aggiunge.

“Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’Universo che vediamo oggi”, conclude Bischetti.


 

Per altre informazioni:

L’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin, Yongda Zhu, è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

PROGETTO FATE: PREVISIONI DELLA TURBOLENZA OTTICA PER SPINGERE IL VERY LARGE TELESCOPE AL MASSIMO DELLE SUE POTENZIALITÀ

Per ottenere immagini astronomiche sempre più accurate non basta solo aumentare le dimensioni dei nuovi telescopi o dotarli di strumentazione allo stato dell’arte. Le prestazioni della maggior parte degli strumenti che osservano il cielo, soprattutto nella luce visibile e nell’infrarosso, dipendono fortemente dalle condizioni meteorologiche in atto durante le operazioni, e in particolare dalla turbolenza dell’atmosfera sopra di essi.  Conoscere con sufficiente anticipo tali condizioni diventa quindi sempre più importante e decisivo per ottimizzare l’utilizzo dei migliori telescopi al mondo, come l’attuale Very Large Telescope (VLT) e il futuro Extremely Large Telescope (ELT), sulle Ande cilene, entrambi dell’European Southern Observatory (ESO). È cruciale poter sfruttare al massimo le capacità di questi gioielli della tecnologia compatibilmente con le condizioni atmosferiche massimizzando il ritorno scientifico prodotto.  Il costo tipico di una notte di osservazioni con il VLT si aggira infatti attorno ai 100mila euro: una cifra che spiega da sé quanto sia critico sfruttare al meglio le condizioni ideali dell’atmosfera. Con questi obiettivi l’Istituto Nazionale di Astrofisica ha vinto un bando internazionale di ESO finalizzato a produrre previsioni della turbolenza ottica (TO) e dei principali parametri atmosferici per ottimizzare le osservazioni astronomiche del VLT e di tutti gli strumenti di cui è equipaggiato. Il progetto selezionato, denominato FATE (Forecasting Atmosphere and Turbulence for ESO sites) vede la collaborazione del consorzio CNR/Regione Toscana LaMMA (Laboratorio di Monitoraggio e Modellistica Ambientale per lo sviluppo sostenibile), che fornisce servizi meteo anche per la Protezione Civile italiana.

Il progetto FATE è iniziato nel novembre 2022 e nel periodo settembre – dicembre 2023 è entrato in fase di ‘commissioning’, con i test di verifica delle specifiche tecniche e di funzionamento. Una volta terminato, si entrerà nella fase operativa in cui ESO potrà ottimizzare strategie osservative per il VLT e iniziare a pianificare quelle di ELT, la cui entrata in funzione è attualmente prevista per il 2028.

“Il commissioning è durato 4 mesi e aveva come scopo quello di verificare la robustezza del sistema di previsione e il rispetto delle specifiche tecniche richieste da ESO, ovvero dell’accuratezza delle previsioni dei distinti parametri a scale temporali differenti” dice Elena Masciadri, ricercatrice INAF e responsabile scientifica del progetto FATE. “Le fluttuazioni spazio-temporali della turbolenza ottica hanno scale tipiche molto più piccole di quelle dei classici parametri atmosferici e pertanto la previsione della turbolenza ottica è un obiettivo molto più difficile da raggiungere. Le specifiche tecniche di ESO sono inoltre abbastanza stringenti come è naturale aspettarsi, considerando che il VLT è senza dubbio uno dei telescopi di maggior prestigio al mondo ma anche uno dei più complessi, essendo costituito da ben quattro telescopi da 8,2 m di diametro più quattro telescopi ausiliari da 1.8 metri, dotati di una grande varietà di strumentazione e quindi di possibilità osservative. Possiamo dire di essere soddisfatti del commissioning – prosegue Masciadri – in quanto ci ha permesso di dimostrare la robustezza e l’affidabilità del sistema e allo stesso tempo di meglio definire i margini di miglioramento dell’accuratezza delle previsioni dove ci concentreremo nella seconda fase del progetto”.

I moderni telescopi sono ormai dotati di strumentazione intercambiabile che ha specifiche condizioni di utilizzo, che dipende anche dalle condizioni atmosferiche in essere durante le osservazioni. Alcuni di questi strumenti sono poco sensibili, ad esempio, ad una elevata concentrazione di umidità nell’aria, altri invece ne vengono quasi completamente “accecati”. Per alcune tipologie di programmi scientifici è molto importante raccogliere dati in presenza di poca turbolenza atmosferica, ad esempio in tutte le osservazioni che necessitano un elevato livello di dettaglio in piccole porzioni di cielo che sfruttano i benefici dell’ottica adattiva, come nella ricerca di esopianeti. In generale la conoscenza della turbolenza ottica è fondamentale in tutte le osservazioni supportate da ottica adattiva (OA).  L’ELT sarà una facility supportata al 100% dall’OA quindi la previsione della TO è certamente cruciale per l’astronomia del prossimo futuro.

Oltre a prevedere una serie di parametri atmosferici sopra il sito osservativo del VLT come temperatura, intensità e direzione del vento, umidità relativa, vapore acqueo e copertura nuvolosa, il progetto FATE si occuperà nelle ore notturne anche della previsione di parametri cosiddetti astroclimatici, tra cui il cosiddetto seeing, un parametro che indica il livello di perturbazione dell’atmosfera nella qualità delle immagini astronomiche. Ma cosa è la turbolenza ottica? Le fluttuazioni di temperatura nell’aria generano fluttuazioni dell’indice di rifrazione che a sua volta perturba il fronte d’onda della luce proveniente dagli oggetti celesti osservati. Tale fronte d’onda risulta così ‘imperfetto’ e l’immagine raccolta dal telescopio perde l’accuratezza dei dettagli, limitando così le potenzialità della strumentazione impiegata. Le tecniche di ottica adattiva hanno l’obiettivo di correggere queste perturbazioni, ma le loro prestazioni dipendono dallo stato della turbolenza: per questo è fondamentale poter disporre di una previsione accurata della turbolenza ottica.

Un sistema di previsione come quello previsto nel progetto FATE si basa su modelli idrodinamici che si definiscono a “mesoscala”: il modello viene applicato su una regione limitata della Terra, raggiungendo una più alta risoluzione rispetto a quello che potrebbe fornire una previsione su scala globale. Si tratta di una previsione che viene realizzata usando come dati di inizializzazione quelli prodotti da modelli a circolazione generale, ovvero applicati all’intero globo terrestre dallo European Centre for Medium Range Weather Forecast (ECMWF), il centro che agisce per conto dell’intera comunità europea.

L’esperienza di INAF nel campo delle previsioni di turbolenza ottica per l’astronomia acquisita negli anni è stata fondamentale per arrivare al progetto FATE:

“Abbiamo sviluppato un modello per la previsione della turbolenza ottica, denominato Astro-Meso-NH negli anni ’90 e da allora il sistema si è evoluto, è stato applicato a diversi tra i maggiori osservatori al mondo e più recentemente è stato automatizzato rendendo il modello utilizzabile in modalità operativa e non solo di ricerca” ricorda Elena Masciadri. “lo sviluppo delle moderne tecniche di ‘assimilation data’ e più in generale le tecniche statistiche di filtraggio spaziale ci hanno garantito livelli di accuratezza inimmaginabili solo una decina di anni fa. INAF – conclude Masciadri – ha la responsabilità scientifica del progetto FATE, curando lo sviluppo del sistema automatico di previsione operativa, dello studio e sviluppo degli algoritmi necessari per ottenere le specifiche tecniche del sistema di previsione e di tutte le attività necessarie al miglioramento delle prestazioni che verrà attuato nel corso dei primi anni della fase operativa. Il LaMMA ha la responsabilità operativa di gestire e monitorare il sistema di previsione, sia a livello giornaliero che su intervalli temporali più lunghi e di garantire quindi una copertura ottimale del sistema.” “Il software per la produzione delle previsioni della turbolenza ottica è operativo presso il LaMMA e sfrutta risorse computazionali dei sistemi HPC (High Performance Computing) dedicate esclusivamente a FATE e acquisite anche grazie ad un contributo di Regione Toscana. La collaborazione del LaMMA in questo progetto poggia in primis sul suo Centro di Calcolo che da oltre venti anni, ha mostrato la propria affidabilità in termini di robustezza e resilienza nell’ambito del servizio meteo svolto per la Regione Toscana” dice Alberto Ortolani, ricercatore del LaMMA e responsabile delle attività LaMMA in FATE. “Le notevoli competenze scientifiche sviluppate presso INAF nel campo della previsione della turbolenza ottica e la pluriennale esperienza del Consorzio LaMMA nel gestire servizi operativi ha fatto sì che la proposta risultasse vincitrice nella call internazionale aperta da ESO. Aver vinto con una proposta toscana ci rende particolarmente orgogliosi”.

Progetto FATE Very Large Telescope VLT La Via Lattea si staglia sopra ai telescopi che costituiscono il Very Large Telescope, all'Osservatorio del Paranal, in Cile. Crediti: P. Horálek/ESO
La Via Lattea si staglia sopra ai telescopi che costituiscono il Very Large Telescope, all’Osservatorio del Paranal, in Cile. Crediti: P. Horálek/ESO

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

GRB 230307A: JWST RIVELA ELEMENTI PESANTI NELL’ESPLOSIONE DI UNA KILONOVA

Il James Webb Space Telescope (JWST) ha svelato che il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, osservato il 7 marzo 2023, ha avuto origine dalla fusione esplosiva di due stelle di neutroni. Il potente evento ha prodotto ed espulso nelle zone circostanti diversi elementi pesanti, tra cui il tellurio. Allo studio, pubblicato su Nature, hanno partecipato diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e di altri istituti di ricerca e atenei italiani.

Un team internazionale di scienziati ha identificato l’origine di un potente lampo di raggi gamma (gamma-ray burst, o GRB) osservato lo scorso marzo: a generarlo è stata una kilonova, ovvero l’esplosione causata dalla fusione tra due stelle di neutroni. La ricerca è basata su osservazioni realizzate con il James Webb Space Telescope (JWST), che ha anche permesso di rilevare l’elemento chimico tellurio nel materiale espulso dalla potente esplosione. Il lampo, denominato GRB 230307A, è il secondo più luminoso mai scoperto in oltre 50 anni di osservazioni. È stato individuato il 7 marzo 2023 dal telescopio spaziale per raggi gamma Fermi, a cui ha fatto seguito il Neil Gehrels Swift Observatory, entrambi della NASA. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

“Il materiale in queste esplosioni è lanciato nello spazio a velocità molto elevate, causando una rapida evoluzione della luminosità e della temperatura del plasma in espansione”, afferma Om Sharan Salafia, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Milano, tra gli autori dello studio. “Con l’espansione, il materiale si raffredda e il picco della sua luce si sposta sempre più verso il rosso, per poi passare all’infrarosso su scale temporali che vanno da giorni a settimane”.

Le kilonove sono esplosioni estremamente rare, il che ne rende difficile l’osservazione. Per molto tempo, si è ritenuto che i GRB brevi, dalla durata inferiore a due secondi, derivassero da questi eventi, mentre i GRB più lunghi fossero associati alla morte esplosiva di una stella massiccia, o supernova. Il caso di GRB 230307A è peculiare: il lampo è durato 200 secondi, come i GRB di lunga durata, eppure le osservazioni di JWST indicano chiaramente che proviene dalla fusione di due stelle di neutroni. Oltre al tellurio, è probabile che nel materiale espulso nella kilonova  siano presenti anche altri elementi pesanti, vicini ad esso sulla tavola periodica, come ad esempio lo iodio, necessario per gran parte della vita sulla Terra.

Bright galaxies and other light sources in various sizes and shapes are scattered across a black swath of space: small points, hazy elliptical-like smudges with halos, and spiral-shaped blobs. The objects vary in colour: white, blue-white, yellow-white, and orange-red. Toward the centre right is a blue-white spiral galaxy seen face-on that is larger than the other light sources in the image. The galaxy is labelled “former home galaxy.” Toward the upper left is a small red point, which has a white circle around it and is labelled “GRB 230307A kilonova.
GRB 230307A è il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, generato da una kilonova: elementi pesanti rilevati nell’esplosione. Immagine del lampo di raggi gamma GRB 230307A e la relativa kilonova (in alto a sinistra) realizzata con la fotocamera NIRCam a bordo del telescopio spaziale Webb. La galassia di colore bluastro in basso a destra è il luogo d’origine delle due stelle di neutroni che, dopo aver viaggiato per circa 120mila anni luce, hanno dato luogo all’esplosione. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI, A. Levan (IMAPP, Warw), A. Pagan (STScI)

La collaborazione di molti telescopi, sia a terra che nello spazio, ha permesso al team di raccogliere una gran quantità di informazioni su questo evento subito dopo il primo rilevamento, aiutando loro a individuare la sorgente nel cielo e a monitorare la sua luminosità nel tempo. Le osservazioni nei raggi gamma, nei raggi X, nell’ottico, nell’infrarosso e in banda radio hanno mostrato che la controparte ottica/infrarossa era debole, evolvendosi rapidamente e passando dal blu al rosso: i tratti distintivi di una kilonova. In particolare, la sensibilità di JWST nell’infrarosso ha aiutato gli scienziati a identificare l’origine delle due stelle di neutroni che hanno prodotto la kilonova: una galassia a spirale a circa 120mila anni luce dal luogo della fusione. I progenitori del poderoso evento erano due stelle massicce che formavano un sistema binario in questa galassia: le esplosioni che le hanno trasformate in stelle di neutroni, tuttavia, hanno espulso il sistema binario dalla galassia. Prima di fondersi e dare luogo alla kilonova, diverse centinaia di milioni di anni più tardi, hanno percorso un tragitto pari al diametro della Via Lattea.

Alla campagna osservativa ha partecipato anche il VST (VLT Survey Telescope), telescopio dell’INAF presso l’Osservatorio di Paranal, in Cile.

“Quando il GRB fu scoperto, non si conosceva ancora la sua controparte ottica, in quanto Swift non lo aveva osservato e quindi non si aveva idea della posizione esatta con precisione di arcosecondi, in modo da attivare il follow-up classico”

spiega il co-autore Luca Izzo, ricercatore presso l’INAF a Napoli e presso il Dark Cosmology Center, Niels Bohr Institute, Università di Copenhagen, in Danimarca.

“Avendo del tempo di osservazione al VST per un mio programma sulle galassie vicine, decisi di pianificare delle osservazioni per la ricerca della controparte nella notte a me riservata, due giorni dopo la scoperta del GRB. Queste osservazioni hanno identificato correttamente la controparte ottica poche ore dopo la prima conferma, ottenuta dalla ULTRACAM sul New Technology Telescope. Questo dimostra il contributo del VST nell’identificazione ottica di sorgenti ad alta energia e nel successivo follow-up e caratterizzazione. Una cosa che faremo sicuramente nel futuro immediato”.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Heavy element production in a compact object merger observed by JWST”, di Andrew Levan, Benjamin P. Gompertz, Om Sharan Salafia, Mattia Bulla, Eric Burns, Kenta Hotokezaka, Luca Izzo, Gavin P. Lamb, Daniele B. Malesani, Samantha R. Oates, Maria Edvige Ravasio, Alicia Rouco Escorial, Benjamin Schneider, Nikhil Sarin, Steve Schulze, Nial R. Tanvir, Kendall Ackley, Gemma Anderson, Gabriel B. Brammer, Lise Christensen, Vikram S. Dhillon, Phil A. Evans, Michael Fausnaugh, Wen-fai Fong, Andrew S. Fruchter, Chris Fryer, Johan P. U. Fynbo, Nicola Gaspari, Kasper E. Heintz, Jens Hjorth, Jamie A. Kennea, Mark R. Kennedy, Tanmoy Laskar, Giorgos Leloudas, Ilya Mandel, Antonio Martin-Carrillo, Brian D. Metzger, Matt Nicholl, Anya Nugent, Jesse T. Palmerio, Giovanna Pugliese, Jillian Rastinejad, Lauren Rhodes, Andrea Rossi, Andrea Saccardi, Stephen J. Smartt, Heloise F. Stevance, Aaron Tohuvavohu, Alexander van der Horst, Susanna D. Vergani, Darach Watson, Thomas Barclay, Kornpob Bhirombhakdi, Elm e Breedt, Alice A. Breeveld, Alexander J. Brown, Sergio Campana, Ashley A. Chrimes, Paolo D’Avanzo, Valerio D’Elia, Massimiliano De Pasquale, Martin J. Dyer, Duncan K. Galloway, James A. Garbutt, Matthew J. Green, Dieter H. Hartmann, Páll Jakobsson, Paul Kerry, Chryssa Kouveliotou, Danial Langeroodi, Emeric Le Floc’h, James K. Leung, Stuart P. Littlefair, James Munday, Paul O’Brien, Steven G. Parsons, Ingrid Pelisoli, David I. Sahman, Ruben Salvaterra, Boris Sbarufatti, Danny Steeghs, Gianpiero Tagliaferri, Christina C. Th one, Antonio de Ugarte Postigo, David Alexander Kann, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)