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L’ESOPIANETA TOI-1853b, IL NETTUNIANO SUPER-MASSICIO, UNA SCOPERTA CHE PORTA PIÙ DOMANDE CHE RISPOSTE

Scoperto da un team di scienziati internazionale guidato dall’Università di Roma Tor Vergata e da INAF un esopianeta dalle caratteristiche straordinarie – individuato grazie al satellite TESS della NASA e caratterizzato con il Telescopio Nazionale Galileo – le cui proprietà fisiche mettono in crisi le teorie convenzionali di formazione ed evoluzione planetarie. La ricerca pubblicata oggi su Nature.

Roma, 30 agosto 2023 – Si chiama TOI-1853b ed è estremamente peculiare: ogni 30 ore compie un giro completo intorno alla sua stella (la Terra impiega un anno per compiere un giro completo intorno al Sole), ha un raggio comparabile con quello di Nettuno (3,5 raggi terrestri, da cui il nome) ma una massa di circa quattro volte più grande (73 masse terrestri). Ciò gli conferisce il primato della densità più elevata fra gli esopianeti nettuniani noti ad oggi (circa 10 g/cm3, il doppio della densità della Terra). Distante 545 anni luce da noi, TOI-1853b si trova nella costellazione di Boote e la sua scoperta, pubblicata oggi su Nature, è stata realizzata da un team internazionale di ricercatori, guidato da Luca Naponiello, 31 anni, dottorando in Astrofisica all’università di Roma Tor Vergata e primo autore del lavoro. Diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) hanno dato un contributo di fondamentale importanza allo studio.

Illustrazione artistica dell'esopianeta TOI-1853b. Crediti: L. Naponiello
Illustrazione artistica dell’esopianeta TOI-1853b. Crediti: Luca Naponiello

TOI-1853b si trova nel cosiddetto ‘deserto dei Nettuniani’, una regione vicina alle stelle in cui non si trovano pianeti delle dimensioni di Nettuno: ricevendo una forte irradiazione dalla stella, questi  pianeti non possono trattenere le loro atmosfere gassose che evaporano, lasciando così esposto un nucleo solido di dimensioni molto inferiori a quelle di Nettuno.

“In base alle teorie di formazione ed evoluzione planetaria, non ci si aspettava che potesse esistere un pianeta simile e così vicino alla sua stella”, commenta Naponiello. “È un pianeta con densità troppo elevata per essere un classico pianeta di tipo nettuniano e, di conseguenza, deve essere estremamente ricco di elementi pesanti”. La sua presenza nel ‘deserto dei Nettuniani’ è, dunque, un ulteriore mistero da chiarire.

Non si conosce esattamente la sua composizione. Naponiello aggiunge:

“Ci aspettiamo che TOI-1853b sia prevalentemente roccioso e circondato da un piccolo inviluppo gassoso di idrogeno ed elio che costituisce al più l’1% della massa del pianeta. Oppure, un’altra ipotesi molto affascinante è che possa essere composto per metà da rocce e per metà da ghiaccio di acqua. Data l’elevata temperatura del pianeta (circa 1500 gradi Kelvin), in questo secondo caso TOI-1853b potrebbe avere un’atmosfera ricca di vapore acqueo”.

“Anche la sua origine è un mistero dal momento che nessuno dei modelli teorici di formazione planetaria prevede che possa esistere un pianeta con tali caratteristiche”, dice Luigi Mancini, professore presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e secondo autore del lavoro. “Tuttavia, simulazioni numeriche che abbiamo condotto in scenari estremi ci suggeriscono che la sua origine possa essere dovuta a scontri fra protopianeti massicci nel disco proto-stellare originario”. “Tali scontri”, continua Naponiello, “potrebbero aver rimosso quasi tutta l’atmosfera del pianeta, il che ne spiegherebbe le dimensioni ridotte e la grande densità, come se fosse rimasto solo il nucleo nudo del pianeta”.

In alternativa allo scenario delle collisioni planetarie, secondo i ricercatori il pianeta potrebbe essere stato inizialmente un gigante gassoso come Giove o più massiccio, e avrebbe assunto un’orbita molto ellittica in seguito a instabilità dinamiche dovute ad interazioni gravitazionali con altri pianeti. Questo lo avrebbe portato a compiere dei passaggi molto ravvicinati alla sua stella, che gli avrebbero fatto perdere i suoi strati atmosferici esterni e avrebbero, allo stesso tempo, circolarizzato e stabilizzato la sua orbita alla distanza attuale dalla sua stella.

“Al momento, non riusciamo a distinguere quale dei due scenari di formazione sia quello più plausibile, ma continueremo ad osservare questo pianeta per capirlo. Non possiamo neanche escludere che studi teorici successivi, a partire da questa eccezionale scoperta, possano portare a nuovi modelli di formazione per i pianeti nettuniani molto massicci”, commenta Aldo Bonomo, ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo.

TOI-1853b è stato inizialmente identificato nel 2020 come candidato planetario dal satellite della NASA TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) con il metodo dei transiti, ovvero osservando le diminuzioni di luce periodiche della sua stella prodotte dal passaggio del pianeta davanti ad essa. La conferma della natura planetaria di TOI-1853b e la misura della sua massa e densità sono state possibili grazie ad osservazioni spettroscopiche di velocità radiale ottenute dal team con lo spettrografo HARPS-N (High Accuracy Radial Velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere) al Telescopio Nazionale Galileo (TNG), che si trova sull’isola di La Palma nelle Canarie. Tali osservazioni hanno permesso di rivelare e caratterizzare con elevata precisione il segnale gravitazionale del pianeta sul moto della sua stella.

“HARPS-N è ormai operativo al TNG da più di 10 anni (ha ottenuto la prima luce a marzo del 2012). È uno dei pochi strumenti di punta a disposizione della comunità astronomica per misurare con alta precisione le masse e le densità dei pianeti extrasolari, in certi casi anche con dimensioni della Terra”, conclude Alessandro Sozzetti, primo ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo. “Come in questo caso, nuove scoperte e misure portano spesso più domande che risposte”.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “A super-massive Neptune-sized planet”, di Luca Naponiello, Luigi Mancini, Alessandro Sozzetti, Aldo S. Bonomo, Alessandro Morbidelli, Jingyao Dou, Li Zeng, Zoe M. Leinhardt, Katia Biazzo, Patricio E. Cubillos, Matteo Pinamonti, Daniele Locci, Antonio Maggio, Mario Damasso, Antonino F. Lanza, Jack J. Lissauer, Karen A. Collins, Philip J. Carter, Eric L. N. Jensen, Andrea Bignamini, Walter Boschin, Luke G. Bouma, David R. Ciardi, Rosario Cosentino, Silvano Desidera, Xavier Dumusque, Aldo F. M. Fiorenzano, Akihiko Fukui, Paolo Giacobbe, Crystal L. Gnilka, Adriano Ghedina, Gloria Guilluy, Avet Harutyunyan, Steve B. Howell, Jon M. Jenkins, Michael B. Lund, John F. Kielkopf, Katie V. Lester, Luca Malavolta, Andrew W. Mann, Rachel A. Matson, Elisabeth C. Matthews, Domenico Nardiello, Norio Narita, Emanuele Pace, Isabella Pagano, Enric Palle, Marco Pedani, Sara Seager, Joshua E. Schlieder, Richard P. Schwarz, Avi Shporer, Joseph D. Twicken, Joshua N. Winn, Carl Ziegler e Tiziano Zingales, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa di Ateneo Università di Roma Tor Vergata e dall’Ufficio Stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

UNIVERSI. MAI PIÙ SENZA

 L’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF presenta la nuova rivista scientifica Universi

Universi INAF
la copertina della rivista

Si affaccia oggi sul panorama editoriale italiano Universi, la nuova rivista dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), in distribuzione in questi giorni nelle varie sedi dell’ente e presso altri istituti di ricerca e università. Voluto dal Presidente Marco TavaniUniversi è un periodico di divulgazione scientifica, un vero e proprio house organ che presenta, con cadenza semestrale, le attività e i risultati scientifici dell’INAF.

“L’Istituto Nazionale di Astrofisica comincia così una nuova avventura, per la quale abbiamo scelto un nome plurale: Universi, perché la pluralità è una caratteristica centrale del nostro istituto”, spiega Tavani. “Con la sua vitale comunità di ricercatrici e ricercatori, INAF è leader nello studio di questo universo “dalle molte facce”, dal Sistema solare alle migliaia di esopianeti in orbita attorno ad altre stelle, dalla Via Lattea fino alle innumerevoli galassie che popolano le immense vastità cosmiche. Una realtà oggi in grande espansione, in crescita – non solo scientifica ma anche di comunità, di progettualità – di cui il primo numero della rivista presenta una panoramica”.

Universi vuole portare la ricerca scientifica condotta all’interno dell’ente oltre le porte degli osservatori e degli istituti che ne fanno parte, usando un linguaggio comprensibile e coinvolgente”, aggiunge Maura Sandri, direttrice responsabile della rivista. “Per fare questo, si propone di coinvolgere ricercatori e ricercatrici nella preparazione di approfondimenti per un ampio pubblico relativi alle loro più recenti scoperte. Per mantenere un respiro più ampio, accanto a questi approfondimenti verranno pubblicate interviste a personaggi, non necessariamente dell’ente, che hanno ottenuto risultati rilevanti in campo internazionale nell’ultimo periodo, oltre che un vasto numero di rubriche che interessano diversi aspetti della società”.

Per chiunque fosse interessato a leggere il contenuto della rivista, è disponibile il sito web di Universi, nel quale si trovano tutti gli articoli, gli approfondimenti, le rubriche e i servizi fotografici riportati nel cartaceo. Nel sito, alla voce sfoglia, è possibile “sfogliare” la rivista e nella sezione archivio si può scaricare il pdf.

“Vi racconteremo anche quello che facciamo per il grande pubblico: dai contenuti e le attività che portiamo a festival ed eventi nazionali e internazionali, all’offerta innovativa di risorse didattiche che i ricercatori INAF portano direttamente nelle scuole, ma anche i tanti progetti nel campo dell’intercultura e dell’inclusione. Vogliamo parlarvi di tutto questo e di molto ancora, per portarvi con noi a scoprire tutta la straordinaria bellezza che c’è nel nostro universo. Un universo plurale”, conclude Tavani.

Per ulteriori informazioni:

Il sito web di Universi è disponibile al seguente URL: https://universi.inaf.it

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

LE PULSAR CI SVELANO IL RESPIRO DELLO SPAZIO-TEMPO: SI APRE UNA NUOVA FINESTRA NELL’OSSERVAZIONE DELLE ONDE GRAVITAZIONALI

Una collaborazione internazionale di astronomi europei, fra cui ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Milano-Bicocca, coadiuvata da colleghi indiani e giapponesi, ha pubblicato i risultati di oltre 25 anni di osservazioni effettuate da sei dei radiotelescopi più sensibili del mondo. Dall’analisi di questi dati e di quelli di altre collaborazioni in nord America, Australia e Cina, emergono i segni distintivi della presenza nel cosmo di onde gravitazionali di bassissima frequenza. Questi risultati rappresentano una pietra miliare per l’astrofisica contemporanea: da un lato aprono una nuova finestra osservativa nella scienza delle onde gravitazionali e dall’altro confermano l’esistenza di onde gravitazionali ultra lunghe che, secondo le teorie correnti, dovrebbero essere generate da coppie di buchi neri super-massicci formatisi nel corso del processo di fusione fra le galassie.

Le pulsar ci svelano il lento respiro dello spazio-tempo: si apre una nuova finestra nell’osservazione delle onde gravitazionali. Crediti: Danielle Futselaar / MPIfR

In una serie di articoli pubblicati oggi sulla rivista Astronomy and Astrophysics, gli scienziati dell’European Pulsar Timing Array (EPTA), in collaborazione con i colleghi indiani e giapponesi dell’Indian Pulsar Timing Array (InPTA), riportano i risultati ottenuti analizzando dati raccolti in oltre 25 anni, che promettono di condurre a scoperte senza precedenti nello studio della formazione e dell’evoluzione del nostro Universo e delle galassie che lo popolano.

“I risultati presentati oggi dalla collaborazione EPTA sono straordinari per la loro importanza scientifica e per le prospettive future di ulteriore consolidamento dei risultati” commenta Marco Tavani, presidente dell’INAF. “L’Astrofisica italiana e l’INAF sono leader mondiali in una grande impresa finalizzata a esplorare il Cosmo con le onde gravitazionali, un filone di ricerca che vedrà l’Italia protagonista nei prossimi anni”.

Le pulsar ci svelano il lento respiro dello spazio-tempo: si apre una nuova finestra nell’osservazione delle onde gravitazionali. Crediti: Danielle Futselaar / MPIfR

L’EPTA è una collaborazione di scienziati di undici istituzioni in tutta Europa, fra cui due in Italia (l’INAF con la sua sede di Cagliari e l’Università di Milano-Bicocca), e riunisce astronomi e fisici teorici, al fine di utilizzare le osservazioni degli impulsi ultra regolari provenienti da stelle di neutroni chiamate “pulsar” per costruire un rilevatore di onde gravitazionali delle dimensioni della nostra Galassia.

«Le pulsar sono eccellenti orologi naturali e possiamo usare l’incredibile regolarità dei loro segnali per cercare minuscoli cambiamenti nel loro ticchettio causati da sottili dilatazioni e compressioni dello spazio-tempo provocati da onde gravitazionali provenienti dall’Universo lontano»,

spiega Golam Shaifullah, ricercatore presso l’Università di Milano-Bicocca nel gruppo di ricerca ‘B Massive’ diretto da Alberto Sesana, professore ordinario dell’Ateneo, e finanziato dall’European Research Council.

Infatti le pulsar si comportano come orologi naturali di alta precisione e dalla misura ripetuta di piccolissime variazioni (inferiori ad un milionesimo di secondo e correlate fra loro) nei tempi di arrivo dei loro impulsi è possibile misurare le minute dilatazioni e compressioni dello spazio-tempo provocate dal passaggio di onde gravitazionali provenienti dall’Universo lontano.

Questo gigantesco rivelatore di onde gravitazionali – che dalla Terra si estende in direzione di 25 pulsar, selezionate all’interno della nostra Via Lattea e distanti migliaia di anni luce da noi – rende possibile sondare un tipo di onde gravitazionali aventi un ritmo lentissimo, corrispondente a lunghezze d’onda enormemente più lunghe di quelle osservate, a partire dal 2015, dai cosiddetti interferometri per onde gravitazionali, tra cui spiccano Virgo a Cascina (vicino a Pisa) e LIGO negli USA.

All’INAF di Cagliari, l’entusiasmo è palpabile:

“Grazie alle osservazioni di EPTA, stiamo aprendo una nuova finestra nell’universo delle onde gravitazionali ultra lunghe (corrispondenti a frequenze di oscillazione del miliardesimo di Hertz) che sono associate a sorgenti e fenomeni unici”,

afferma la ricercatrice Caterina Tiburzi. La collega Marta Burgay precisa

Queste onde gravitazionali ci permettono di studiare alcuni dei misteri finora irrisolti nell’evoluzione dell’Universo, fra cui, ad esempio, le proprietà della elusiva popolazione cosmica dei sistemi binari formati da due buchi neri supermassici, aventi masse miliardi di volte maggiori di quella del Sole”. 

Questi buchi neri si trovano ad orbitare al centro di galassie che stanno fondendosi l’una con l’altra, e durante il loro orbitare, la teoria della relatività generale di Albert Einstein prevede che emettano onde gravitazionali ultra lunghe.

Gli strumenti utilizzati per raccogliere i dati sono l’Effelsberg Radio Telescope in Germania, il Lovell Telescope dell’Osservatorio Jodrell Bank nel Regno Unito, il Nancay Radio Telescope in Francia, il Westerbork Radio Synthesis Telescope nei Paesi Bassi, e il Sardinia Radio Telescope (SRT) in Italia.

“Questi risultati – aggiunge l’astronoma Delphine Perrodin, sempre dell’INAF di Cagliari – si basano su decenni di certosine e instancabili campagne di osservazione effettuate utilizzando i cinque più grandi radiotelescopi in Europa. Inoltre, una volta al mese i dati di questi telescopi vengono anche sommati fra loro, aumentando ulteriormente la sensibilità dell’esperimento”.

Queste osservazioni sono poi state ulteriormente integrate dai dati forniti dal Giant Metrewave Radio Telescope in India, con ciò rendendo l’insieme di dati ancora più accurato.

“È una grande soddisfazione per tutta l’astrofisica italiana che SRT, il grande radiotelescopio gestito da INAF, sia fra i  testimoni dell’emergere nei dati di questo lento respiro dello spazio-tempo”, spiega Andrea Possenti, Primo Ricercatore dell’INAF di Cagliari e fra i fondatori di EPTA, assieme all’ex presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica Nichi D’Amico: “Si tratta di nuovo grande risultato scientifico, che conferma, a livello mondiale, il ruolo centrale dell’Italia, e vieppiù della Sardegna (con SRT e speriamo presto anche con l’Einstein Telescope), nello studio delle onde gravitazionali per molti decenni a venire “.

I risultati dell’EPTA si confrontano con una serie di pubblicazioni indipendenti oggi annunciate in parallelo da altre collaborazioni in tutto il mondo, facenti capo agli esperimenti di tipo PTA (pulsar timing array) australiano, cinese e nordamericano, noti rispettivamente come PPTA, CPTA e NANOGrav. I vari risultati sono consistenti fra tutte le collaborazioni, ciò che corrobora ulteriormente la presenza nei dati di un segnale dovuto ad onde gravitazionali. Il lavoro però non termina qui, in quanto la natura stessa del segnale osservato prevede che esso si manifesti in maniera progressivamente più chiara.

“Ho cominciato il mio dottorato al momento giusto – ricorda Francesco Iraci, dottorando dell’Università di Cagliari che da circa un anno svolge le sue ricerche presso l’INAF di Cagliari proprio nel contesto di EPTA – e non vedo l’ora di contribuire all’ulteriore affinamento dei dati!”

Spiegando l’importanza di questo risultato, il professor Alberto Sesana afferma: «L’insieme di dati dell’EPTA è straordinariamente lungo e denso ed ha permesso di ampliare la finestra di frequenza in cui possiamo osservare queste onde, permettendo una migliore comprensione della fisica delle galassie che si fondono e dei buchi neri supermassicci che esse ospitano».

La lunghezza del set di dati consente infatti di sondare onde gravitazionali che oscillano in maniera incredibilmente lenta consentendo di esplorare sistemi binari di buchi neri con periodi orbitali di decine di anni. D’altra parte, la cadenza dei dati consente anche di studiare onde che compiono molte oscillazioni al mese, dando accesso a sistemi di buchi neri con periodi orbitali molto più brevi, dell’ordine di pochi giorni.

I risultati dell’analisi dei dati EPTA presentati oggi sono in linea con quanto atteso dalle predizioni degli astrofisici. Nataliya Porayko, ‘visiting researcher’ all’Università di Milano-Bicocca tuttavia sottolinea che

«una regola d’oro in fisica per conclamare la scoperta di un nuovo fenomeno è che il risultato dell’esperimento abbia una probabilità di verificarsi casualmente meno di una volta su un milione».

Il risultato riportato da EPTA – così come dalle altre collaborazioni internazionali – non soddisfa ancora questo criterio, infatti c’è ancora circa una probabilità su mille che fonti di rumore casuali cospirino per generare il segnale.

«Ma i lavori sono già in corso –  come spiega Aurelien Chalumeau, assegnista del gruppo B Massive – gli scienziati delle quattro collaborazioni – EPTA, InPTA, PPTA e NANOGrav – stanno combinando i loro dati con il coordinamento dell’International Pulsar Timing Array».

L’obiettivo è quello di ampliare gli attuali insiemi di dati, sfruttando misure effettuate su oltre 100 pulsar, osservate con tredici radiotelescopi in tutto il mondo. L’accresciuta quantità e qualità dei dati dovrebbe consentire agli astronomi di raggiungere l’obiettivo nel prossimo futuro, fornendo la prova inconfutabile che una nuova era nell’esplorazione dell’Universo è iniziata.

Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

Una magnetar appena formata e rapidamente rotante può spiegare in modo dettagliato le diverse fasi dell’emissione dei lampi di raggi gamma

Un team italiano di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e della Stony Brook University (USA) ha dimostrato per la prima volta che una magnetar appena formata e rapidamente rotante, cioè una stella di neutroni con un campo magnetico elevatissimo che ruota su se stessa molte centinaia di volte al secondo, può spiegare in modo dettagliato le diverse fasi dell’emissione dei lampi di raggi gamma, dalla loro violenta accensione fino allo spegnimento definitivo. Questo risultato è stato ottenuto confrontando le previsioni teoriche con un ricco insieme di dati nella banda dei raggi X e gamma. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

magnetar stella di neutroni lampi di raggi gamma
Resa artistica di una magnetar. Immagine di Robert S. Mallozzi, Università dell’Alabama, Huntsville, e NASA Marshall Space Flight Center”, in pubblico dominio

I lampi di raggi gamma (in inglese Gamma-Ray Burst, o GRB) sono brevi eventi esplosivi tra i più violenti dell’universo, a distanza di miliardi di anni luce da noi. La loro energia viene trasferita in potentissimi getti collimati che emettono la radiazione che osserviamo. Si ritiene che i GRB siano originati nel processo di formazione di un buco nero di massa stellare, in seguito al collasso gravitazionale di una stella alla fine del suo ciclo evolutivo, o alla collisione e fusione di due stelle di neutroni. Negli ultimi anni è stata sviluppata un’altra ipotesi: i GRB, o almeno una frazione rilevante di essi, potrebbero essere prodotti dalla formazione di una magnetar che ruota su sé stessa molte centinaia di volte al secondo. Le magnetar, come le altre stelle di neutroni, hanno una massa simile a quelle del Sole concentrata in un volume dalle dimensioni comparabili con quelle di una grande città, ma posseggono campi magnetici elevatissimi. Scoperte nella nostra Galassia negli anni ‘90 del secolo scorso, sono caratterizzate da un’intensa emissione di origine magnetica in raggi X e gamma, punteggiata da ricorrenti episodi parossistici di breve durata ed enorme luminosità. La loro origine è ad oggi un mistero tra i più studiati nell’astrofisica degli oggetti compatti.

Il nuovo lavoro combina conoscenze acquisite nello studio delle magnetar e delle stelle di neutroni che catturano materia con le principali caratteristiche dei GRB, dimostrando come una magnetar appena formata e rapidamente rotante possa spiegare le proprietà di alcuni tra i GRB più studiati meglio di un buco nero.

Simone Dall’Osso, ricercatore presso l’INFN, associato INAF e primo autore dell’articolo, commenta: “Il nostro studio spiega in modo quantitativo le diverse fasi dell’emissione di un lampo gamma e del suo graduale spegnimento. I processi fisici coinvolti sono gli stessi che operano in altri sistemi contenenti stelle magnetiche in rotazione quali nane bianche, stelle di neutroni ordinarie (non magnetar) ed anche stelle ordinarie in fase di formazione. Applicati ad una magnetar appena formata e rapidamente rotante questi stessi processi portano al rilascio di enormi quantità di energia in tempi brevissimi, con segni distintivi identificabili”.

Giulia Stratta, ricercatrice INAF, associata INFN e membro del cluster di ricerca ELEMENTS presso la Goethe University di Francoforte, aggiunge “Per poter fornire una spiegazione organica delle diverse fasi dei lampi gamma, è stato necessario basarsi sui GRB per i quali abbiamo le informazioni più complete da osservazioni in banda ottica, X e gamma. Si tratta di una dozzina di casi in tutto, frutto di un lungo lavoro di ricerca tra molte centinaia”.

Lo scenario teorizzato nel lavoro del team italiano suggeriscew che, in una prima fase, la magnetar cattura parte della materia che ancora sta cadendo a seguito del collasso gravitazionale o della collisione tra stelle di neutroni. Questo genera la parte iniziale e più brillante del GRB, liberando un’enorme quantità di energia gravitazionale in poche decine di secondi. Quando l’afflusso di materia diminuisce, la rotazione del campo magnetico della magnetar inizia a respingere la materia stessa fiondandola via – un po’ come un’elica che gira – e una quantità via via più piccola di energia gravitazionale viene rilasciata, causando un graduale calo della luminosità. Infine, quando non vi è più materia che cade, la magnetar si comporta come una stella di neutroni isolata e dissipa progressivamente la sua energia rotazionale.

Secondo Rosalba Perna, professore ordinario presso la Stony Brook University e co-autore dello studio, “questo risultato getta una nuova luce su due misteri cosmici, suggerendo un probabile legame tra di essi: ‘che cos’è che produce un lampo gamma?’ e ‘dove si formano le magnetar e in quali speciali condizioni, tali da differenziarle dalle altre stelle di neutroni?’“.

Luigi Stella, dirigente di ricerca presso l’INAF di Roma e autore anch’egli dello studio, sottolinea che: “appena formate le magnetar, come anche i buchi neri di massa stellare, possono essere motori astrofisici di eccezionale potenza, capaci di alimentare l’emissione dei lampi gamma, ma anche di generare forti onde gravitazionali, come abbiamo dimostrato in alcuni studi precedenti”.

“Nel prossimo futuro” conclude Dall’Osso “un’ulteriore e definitiva conferma della formazione di una magnetar potrà venire proprio  dalla rivelazione di un segnale in onde gravitazionali”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Magnetar central engines in gamma-ray bursts follow the universal relation of accreting magnetic stars”, di Simone Dall’Osso, Giulia Stratta, Rosalba Perna, Giovanni De Cesare e Luigi Stella, è stato pubblicato su pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

DA RIVEDERE L’EQUAZIONE DELLA “LEGGE DI REDDENING” SULLA MATERIA INTERSTELLARE 

 Pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society lo studio di un team di ricercatori dell’Università di Padova in cui è emerso che “legge di reddening”, l’equazione matematica in grado di predire come la materia interstellare modifichi la luminosità e il colore dei corpi celesti, sia molto diversa da quella che fino ad oggi era ritenuta valida.

Sulla base della nuova ricerca, un gran numero di studi basati sull’equazione tradizionale dovrebbe essere rivisto.

Equazione legge di reddening materia interstellare
Forma della materia interstellare

Prima del XX secolo l’umanità riteneva che lo spazio che separa gli astri celesti fosse vuoto. Il famoso astronomo americano Edward Emerson Barnard (1857-1923) fu il primo a comprendere che le regioni di cielo apparentemente vuote di materia non lo erano affatto. Lo spazio tra le stelle, detto interstellare, è permeato da una miriade di particelle che interagiscono con la luce delle stelle situate al di là di esse.

La materia interstellare si trova ovunque nella Via Lattea, persino in quei remoti pezzetti di cielo che, pur osservati con i più grandi telescopi, ci appaiono completamente oscuri. Queste microscopiche particelle di polveri e gas rarefatti che permeano le galassie danno origine a nubi oscure e informi. Sebbene intangibile, la materia interstellare interagisce con la luce emessa dai corpi celesti e ne cambia drammaticamente le proprietà: li rende meno luminosi e ne altera i colori. Di conseguenza queste nubi interstellari influenzano la nostra comprensione di una vasta gamma di fenomeni astrofisici che va dallo studio dei pianeti extrasolari, alle reazioni termonucleari che avvengono nelle stelle, fino alle proprietà dell’Universo su larga scala e al suo destino finale.

È essenziale, infatti, capire quanta luce sia stata assorbita dalle nubi interstellari per poter studiare qualsiasi corpo celeste. Tracciare con precisione la distribuzione della materia interstellare nella via Lattea e comprenderne le proprietà rappresenta, quindi, una delle sfide più avvincenti dell’astrofisica. Ma anche tra le più impegnative, proprio per il fatto che le nubi sono invisibili all’occhio dell’uomo e ai suoi telescopi.

Recentemente, una ricerca pubblicata sulla rivista «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» dal titolo “Differential reddening in the direction of 56 Galactic globular clusters” ha permesso di compiere un grosso balzo in avanti in questo settore. Si tratta del lavoro condotto da oltre due anni da un gruppo di ricerca guidato da Maria Vittoria Legnardi, una giovane dottoranda al dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova. Il team di Legnardi ha messo a punto una tecnica innovativa che sfrutta le straordinarie capacità del telescopio spaziale Hubble per ricavare delle mappe ad altissima risoluzione delle nubi interstellari.

Maria Vittoria Legnardi e Sohee Jang
Maria Vittoria Legnardi e Sohee Jang

«Le immagini di Hubble che usiamo – dice Maria Vittoria Legnardi – riprendono un gran numero di ammassi stellari, ovvero agglomerati di decine di migliaia di stelle gemelle, che si trovano oltre le nubi. Le nubi interstellari non sono affatto visibili nelle immagini, ma siamo riusciti a ricostruirle grazie a una lunga e laboriosa analisi della luce proveniente dalle stelle che le attraversa».

«La materia interstellare può assumere delle forme molto bizzarre – continua Sohee Jang, astronoma dell’Università di Seoul che ha trascorso gli ultimi due anni a Padova per studiare gli ammassi stellari e la materia interstellare –.  È un po’ come sdraiarsi su un prato a sognare e guardare le nuvole: animali, volti di persone, o persino un grande cuore che batte possono apparire ai nostri occhi».

«Il risultato più sorprendente – commenta Emanuele Dondoglio, coautore dell’articolo e anche lui dottorando a Padova – riguarda però la cosiddetta “legge di reddening”, ovvero l’equazione matematica in grado di predire come la materia interstellare modifichi la luminosità e il colore dei corpi celesti».

Un risultato emozionante riguarda questa legge matematica. Infatti dallo studio del gruppo di Legnardi è emerso che tale legge, ricavata dalle loro mappe ad alta risoluzione, sia molto diversa dall’equazione che fino ad oggi era ritenuta valida.

«Alla luce di questa nuova scoperta – conclude Maria Vittoria Legnardi – un gran numero di studi basati sull’equazione tradizionale dovrà essere rivisto. È possibile dunque che alcune nozioni sull’Universo locale e a larga scala potrebbero subire importanti cambiamenti nei prossimi mesi o anni».

Link alla ricerca: https://academic.oup.com/mnras/article/522/1/367/7111343

Titolo: “Differential reddening in the direction of 56 Galactic globular clusters” – «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» 2023

Autori: M. V. Legnardi, A. P. Milone, G. Cordoni, E. P. Lagioia, E. Dondoglio, A. F. Marino, S. Jang, A. Mohandasan, T. Ziliotto.

 

Testo e immagini (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

GRB 221009A, IL LAMPO GAMMA PIÙ LUMINOSO DI TUTTI I TEMPI

Il potente lampo di raggi gamma scoperto il 9 ottobre 2022 è un evento estremamente raro, che si verifica una volta ogni 10mila anni. Le osservazioni, realizzate da telescopi nello spazio e a terra con forte coinvolgimento italiano, saranno determinanti per comprendere le colossali esplosioni da cui hanno origine i lampi gamma. L’annuncio oggi durante una conferenza stampa presso il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society, alle Hawaii, in occasione della pubblicazione dei primi risultati, che vedono la partecipazione di numerosi team di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e Agenzia Spaziale Italiana.

I raggi X del lampo gamma GRB 221009A sono stati rilevati per settimane come luce diffusa dalla polvere nella nostra galassia, portando alla comparsa di una serie di anelli in espansione. Questa animazione mostra le immagini catturate nel corso di 12 giorni dal telescopio a raggi X a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory della NASA.
Crediti: NASA/Swift/A. Beardmore (University of Leicester)

Il 9 ottobre 2022, numerosi telescopi spaziali in orbita attorno alla Terra e sonde operanti in diverse aree del Sistema solare hanno rivelato un forte impulso di radiazione ad altissima energia, seguita da un’emissione prolungata su tutto lo spettro elettromagnetico. La sorgente era un lampo di raggi gamma (gamma ray burst, GRB), una delle esplosioni più potenti dell’universo, così eccezionale da guadagnarsi subito il soprannome di “BOAT” dall’inglese “Brightest Of All Time”, ovvero “il più luminoso di tutti i tempi”.

GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi
GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi. Il telescopio spaziale XMM-Newton dell’ESA ha registrato 20 anelli di polvere, 19 dei quali sono mostrati in questa immagine, che combina le osservazioni effettuate due e cinque giorni dopo la scoperta del GRB 221009A. Le strisce scure indicano gli spazi tra i rilevatori del telescopio. L’anello più grande visibile in questa immagine è paragonabile alle dimensioni apparenti della luna piena in cielo.
Crediti: ESA/XMM-Newton/M. Rigoselli (INAF)

Chiamato correntemente GRB 221009A, il lampo è stato rivelato per la prima volta dal Fermi Gamma-Ray Space Telescope della NASA, che vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Agenzia spaziale italiana (ASI), l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), mentre il primo a dare l’annuncio è stato il satellite Neil Gehrels Swift Observatory, sempre della NASA, anch’esso con una forte partecipazione italiana attraverso ASI e INAF. Inizialmente si riteneva che la sua sorgente potesse trovarsi nella nostra galassia, la Via Lattea, ma ulteriori dati raccolti da Swift e Fermi e dal satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno indicato un’origine molto più lontana. Grazie alle osservazioni realizzate poche ore dopo con lo strumento X-Shooter sul Very Large Telescope dell’ESO, in Cile, si è potuta finalmente identificare la sorgente del GRB: una galassia a circa 2 miliardi di anni-luce da noi. Si tratta di una distanza ragguardevole dalla Via Lattea ma relativamente vicina se si considerano le immense scale cosmiche. È il GRB più intenso di cui sia mai stata misurata la luminosità, e il più luminoso mai visto dalla Terra nei 55 anni da quando i primi satelliti per lo studio dei raggi gamma sono stati messi in orbita. È inoltre uno dei più vicini mai osservati tra i GRB lunghi, quelli la cui emissione iniziale dura più di 2 secondi.

Marco Tavani, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dichiara: “Il lampo gamma cosmico GRB 221009A è un evento a dir poco eccezionale per vari motivi. Prima di tutto, per la sua intrinseca potenza, durata e straordinaria intensità; ma anche per il fatto che si sia verificato, in termini cosmici, relativamente vicino alla Terra. Una combinazione rara, che non ha eguali tra i lampi gamma cosmici osservati negli ultimi decenni. La radiazione X e gamma delle prime fasi di GRB 221009A, e di seguito quella radio, ottica e X nella fase di emissione ritardata, è stata rivelata da diversi telescopi da terra e dallo spazio in cui l’Istituto Nazionale di Astrofisica è fortemente coinvolto se non primo attore. I telescopi utilizzati nello studio di questo GRB sono equipaggiati con strumenti all’avanguardia per poter catturare la radiazione dalla sorgente associata a GRB 221009A, analizzarla e comprendere i dettagli della poderosa esplosione da cui ha avuto origine. Il lavoro delle nostre ricercatrici e dei nostri ricercatori, che hanno guidato diversi studi sin dalle prime fasi di GRB 221009A, è stato fondamentale per caratterizzare questo peculiare lampo gamma cosmico e coglierne a pieno le sue potenzialità per la comprensione dei fenomeni più energetici dell’Universo che portano alla formazione delle stelle di neutroni e dei buchi neri”.

L’analisi dei dati, confrontati con quelli di circa 7mila GRB osservati nei decenni passati con il telescopio spaziale Fermi e lo strumento russo Konus a bordo del satellite NASA Wind, ha permesso di stimare la frequenza con cui si verifica un evento così luminoso e relativamente vicino: una volta ogni 10mila anni. Il lampo era così luminoso che ha letteralmente accecato la maggior parte degli osservatori spaziali a raggi gamma, che non hanno potuto misurare la reale intensità dell’emissione. Dopo aver ricostruito i dati mancanti di Fermi e grazie al confronto con i risultati del team russo che lavora sui dati Konus e con i team cinesi che analizzano le osservazioni del rivelatore GECAM-C a bordo del satellite SATech-01 e degli strumenti a bordo dell’osservatorio Insight-HXMT, si è dimostrato che l’esplosione è stata 70 volte più luminosa di qualsiasi altra mai vista.

L’evento è stato così brillante che la sua radiazione residua, il cosiddetto afterglow, è ancora visibile e rimarrà tale per molto tempo. I risultati sono stati presentati oggi durante il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society a Waikoloa, Hawaii. Gli articoli che presentano i risultati sono stati pubblicati in un numero speciale della rivista The Astrophysical Journal Letters e su Astronomy & Astrophysics.

Hanno osservato il GRB anche lo strumento NICER a bordo della Stazione spaziale internazionale, il telescopio spaziale NuSTAR della NASA, la sonda Voyager 1 che esplora lo spazio interstellare, il satellite italiano AGILE, realizzato dall’ASI con il contributo di INAF e INFN, e diversi satelliti dell’ESA, tutti con importanti contributi italiani: dai telescopi spaziali XMM-Newton e INTEGRAL alle sonde Solar Orbiter e BepiColombo fino al satellite Gaia. INTEGRAL, trovandosi in posizione ottimale, ne ha registrato sia l’emissione immediata sia l’afterglow con un’accuratezza senza precedenti. Gli scienziati ritengono che i GRB lunghi, come questo, derivino dal collasso del nucleo di una stella massiccia e la conseguente nascita di un buco nero, che emette getti di particelle ad altissima energia in direzioni opposte mentre ingurgita la materia circostante. Osservare l’afterglow del GRB, causato proprio da questi getti bipolari, ha permesso di testare i diversi modelli teorici che descrivono i processi fisici in atto nelle fasi iniziali dell’esplosione.

“Si tratta di una scoperta importante – commenta il presidente dell’ASI Giorgio Saccoccia – resa possibile anche grazie al contribuito di tutte le sonde come Fermi, Swift, INTEGRAL, AGILE, NuSTAR, IXPE, XMM, Solar Orbiter, Bepi Colombo, Gaia e CSES. Satelliti in orbita a cui ASI ha dato il suo contributo. Il merito va anche al nostro Space Science Data Center (SSDC) che mette da diverso tempo a fattor comune i dati scientifici provenienti da tutte queste missioni che hanno a bordo strumentazioni fornite da ASI. Questa visione multidisciplinare della scienza spaziale rappresenta il percorso vincente per aumentare le competenze italiane nello studio dell’Universo. Si tratta di una forte capacità dell’ASI che, da sempre, lavora insieme all’intera comunità scientifica, per lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, che consentono di avere una visione dell’Universo più completa”.

Dopo aver viaggiato attraverso lo spazio intergalattico, la radiazione proveniente dal GRB 221009A si è imbattuta nelle nubi di polvere presenti nel mezzo interstellare che permea la nostra galassia, la Via Lattea. Quando i raggi X incontrano la polvere, una parte di essi viene dispersa, creando anelli concentrici che sembrano espandersi verso l’esterno: una sorta di eco luminosa del lampo mentre attraversa la galassia. Il telescopio spaziale XMM-Newton ha fornito un’immagine profonda e dettagliata di 20 anelli, osservando in diversi giorni dopo la scoperta del GRB, mentre il satellite Swift ne ha monitorato l’evoluzione nel tempo. L’anello più distante è sorto dall’impatto con una nube di polvere situata a 61mila anni luce di distanza, dall’altro lato della Via Lattea, mentre il più vicino, visto solo da Swift, si è formato a circa 700 anni luce da noi. Il modo in cui una nube di polvere diffonde i raggi X dipende dalla sua distanza, dalle dimensioni dei granelli di polvere e dall’energia dei raggi X: l’analisi degli anelli creati dal GRB ha permesso di ricostruire parte della sua emissione iniziale a raggi X ma anche la distribuzione e composizione delle nubi di polvere nella nostra galassia. I dati indicano che i granelli di polvere sono composti principalmente da grafite, una forma cristallina del carbonio.

Gli anelli di polvere sono stati rivelati anche dall’osservatorio spaziale IXPE, una collaborazione tra NASA e ASI con un importante contributo di INAF e INFN, che osserva la polarizzazione dei raggi X. Il piccolo grado di polarizzazione misurato da IXPE nella fase di afterglow conferma che uno dei due getti è stato osservato in direzione quasi frontale. Da questo tipo di GRB, gli scienziati si aspettano di osservare anche una supernova poche settimane dopo, che però non è stata rivelata. Uno dei possibili motivi della mancata osservazione potrebbe essere l’attenuazione da parte di spesse nubi di polvere nel piano della Via Lattea. Tuttavia, non ha sortito successo nemmeno la ricerca nell’infrarosso effettuata con il telescopio spaziale James Webb, che ha osservato l’afterglow in contemporanea con il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF. Può darsi che la stella fosse così massiccia che, dopo l’esplosione iniziale, abbia immediatamente formato un buco nero che ha inghiottito tutto il materiale circostante, impedendo la formazione di una nube di gas, il cosiddetto resto di supernova.

“Un evento davvero unico per la sua intensità e vicinanza cosmica – spiega Marco Pallavicini, vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – che conferma il potere diagnostico delle misure di polarizzazione offerte da IXPE e dallo strumento innovativo che INFN ha sviluppato e messo a disposizione della missione, il quale si innesta in una ormai consolidata tradizione di successi ottenuti nell’ambito della realizzazione di rivelatori spaziali di sempre maggiore efficacia e capacità risolutive. Risultati certificati anche dai contributi forniti a molti degli osservatori spaziali, tra cui Fermi e AGILE, protagonisti della caratterizzazione di questo GRB senza precedenti.”

Anche sulla Terra il GRB 221009A ha fatto sentire i suoi effetti, rilasciando nei pochi minuti della sua durata circa un gigawatt di potenza nella porzione superiore della nostra atmosfera, ionizzando fortemente la parte alta della ionosfera su una larga regione geografica centrata sull’India e che ha interessato anche Europa e Asia. L’aumento del flusso di elettroni correlato con il GRB è stato misurato dal rivelatore di particelle cariche HEPP-L a bordo del China Seismo-Electromagnetic Satellite (CSES-01), che vede la partecipazione di ASI e INFN, il quale stava orbitando sopra l’Europa al momento dell’arrivo del GRB.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO

Un team internazionale di ricercatrici e ricercatori guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha studiato 29 galassie ai primordi dell’universo, stimando per la prima volta la frazione di luce da esse rilasciata in grado di ionizzare il gas circostante. Questo lavoro è stato reso possibile grazie al telescopio spaziale JWST e l’aiuto di un massiccio ammasso di galassie che, come una lente, ha amplificato la luce proveniente dalle galassie ancora più distanti.

Le prime stelle e galassie nella storia dell’universo, nate oltre tredici miliardi di anni fa, quando il cosmo aveva solo poche centinaia di milioni di anni d’età, si sono formate a partire da una miscela di gas neutro, costituito principalmente da atomi di idrogeno. La radiazione energetica proveniente da queste prime stelle e galassie ha poi contribuito, nelle centinaia di milioni di anni seguenti, a trasformare questo gas e ionizzarlo, cioè scinderlo in elettroni e protoni. Gli astronomi la chiamano “reionizzazione” poiché durante questa fase il mezzo intergalattico che pervade l’universo, da neutro, torna a essere ionizzato come lo era nel cosmo primordiale. Non è però ancora chiaro quali galassie abbiano contribuito maggiormente a reionizzare il mezzo intergalattico nei primi stadi di questo processo, né quale percentuale di fotoni – le particelle di luce – con energie sufficienti a ionizzare il gas circostante sia fuoriuscita dai diversi tipi di galassie presenti all’epoca.

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO
JWST cattura le galassie che hanno reionizzato l’universo. JWST-Abell-2744: L’ammasso di galassie Abell 2744, chiamato anche Ammasso di Pandora, osservato con il telescopio spaziale Webb. L’ammasso agisce da lente gravitazionale, amplificando la luce proveniente da sorgenti più distanti e permettendo di rilevare galassie tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Crediti: NASA, ESA, CSA, I. Labbe (Swinburne University of Technology), R. Bezanson (University of Pittsburgh), A. Pagan (STScI)

Con il suo specchio dal diametro di 6,5 metri e la sensibilità osservativa nella banda infrarossa, il James Webb Space Telescope (JWST), osservatorio spaziale della NASA in collaborazione con ESA e CSA, può spingersi indietro nel tempo fino alle galassie più distanti, tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Il progetto GLASS, una collaborazione internazionale di ricercatrici e ricercatori in 24 istituti di ricerca e università tra Italia, Stati Uniti, Giappone, Danimarca, Australia, Cina e Slovenia, che utilizza JWST per cercare risposta ai quesiti ancora aperti sulla reionizzazione cosmica, ha recentemente pubblicato un nuovo articolo a guida italiana sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

“Abbiamo studiato, tramite osservazioni spettroscopiche e fotometriche ottenute con JWST, 29 galassie lontane e siamo riuscite a misurare in maniera indiretta le loro capacità ionizzanti, dato che a distanze così elevate non è possibile osservare direttamente i fotoni di così alta energia che sono quelli che hanno portato alla reionizzazione del mezzo intergalattico”, spiega la prima autrice del nuovo articolo Sara Mascia, dottoranda in Astronomy, Astrophysics and Space Science all’Università di Roma Tor Vergata, che porta avanti la sua ricerca presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). “Questo studio dimostra la capacità di JWST non solo di trovare le galassie più distanti ma anche di svelarne le proprietà fisiche.”

La luce proveniente da queste galassie, catturata con gli strumenti NIRCam e NIRSPec a bordo di JWST, è stata emessa quando l’universo aveva un’età compresa tra circa 650 milioni e 1,3 miliardi di anni. Prima di queste osservazioni, le proprietà ionizzanti di queste lontanissime galassie erano ignote, soprattutto per quanto riguarda le galassie di piccola massa, molto difficili da studiare.

“Abbiamo stimato per la prima volta la capacità ionizzante delle galassie nell’epoca della reionizzazione: in particolare, siamo riusciti a stimare quanti fotoni ionizzanti fuoriescono dalle galassie di piccola massa grazie all’effetto di lente gravitazionale da parte di Abell 2744, un ammasso di galassie che si trova tra noi e le galassie distanti e amplifica il loro segnale”,

aggiunge Laura Pentericci, ricercatrice INAF a Roma e co-autrice del nuovo lavoro.

“I nostri risultati indicano che oltre l’80 percento delle galassie osservate contribuisce in maniera significativa alla reionizzazione.”

Nuove osservazioni che saranno realizzate prossimamente con JWST estenderanno questa analisi a campioni più grandi di galassie, includendo quelle con masse più elevate o più distanti. Lo scopo è di determinare se la maggior parte dei fotoni che hanno contribuito a reionizzare l’universo sia stata fornita da galassie più massicce e luminose di quelle osservate oppure se, come ritenuto dai principali modelli attuali, il contributo maggiore sia dovuto alle galassie più deboli, molto più numerose.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Closing in on the sources of cosmic reionization: first results from the GLASS-JWST program”, di S. Mascia, L. Pentericci, A. Calabrò, T. Treu, P. Santini, L. Yang, L. Napolitano, G. Roberts-Borsani, P. Bergamini, C. Grillo, P. Rosati, B. Vulcani, M. Castellano, K. Boyett, A. Fontana, K. Glazebrook, A. Henry, C. Mason, E. Merlin, T. Morishita, T. Nanayakkara, D. Paris, N. Roy, H. Williams, X. Wang, G. Brammer, M. Bradac, W. Chen, P. L. Kelly, A. M. Koekemoer, M. Trenti, R. A. Windhorst, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Allo studio hanno partecipato anche ricercatori delle università di Ferrara e Statale di Milano.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

LA PIÙ ACCURATA MAPPA VULCANICA DEL SATELLITE GIOVIANO IO

Grazie ai dati raccolti dallo stumento JIRAM a bordo della missione NASA Juno, un team di ricerca a guida INAF ha identificato 242 “hot spot”, ovvero zone calde che indicano la presenza di vulcani, di cui 23 non osservati precedentemente sul satellite più interno di Giove. I dati indicano una maggiore concentrazione di punti vulcanici caldi nelle regioni polari rispetto alle latitudini intermedie. Si tratta della mappatura migliore mai ottenuta da remoto.

La più accurata mappa vulcanica del satellite gioviano Io
La più accurata mappa vulcanica del satellite gioviano Io, grazie allo strumento JIRAM. Insieme di figure chiamate “super immagini”, ottenute calcolando la media di più osservazioni JIRAM acquisite in un lasso di tempo di pochi minuti. Questo approccio riduce la possibilità di falsi positivi. Le immagini ritraggono gli hot spot di Io nel corso degli anni. Crediti: F. Zambon et al. / Geophysical Research Letters

L’infernale luna Io (la più interna fra quelle regolari del sistema gioviano) è il corpo vulcanicamente più attivo dell’intero Sistema solare. Un recente articolo pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters (GRL) fa nuova luce sulle proprietà vulcaniche di questo satellite, in particolare grazie a nuovi dati raccolti da JIRAM (Jovian InfraRed Auroral Mapper), uno degli otto strumenti a bordo della sonda NASA Juno. Finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e realizzato da Leonardo, lo strumento vede la responsabilità scientifica dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’articolo delinea la mappa più recente della distribuzione degli hot spot (punti vulcanici caldi) di Io prodotta con dati JIRAM da remoto alla migliore scala spaziale attualmente disponibile. I ricercatori, guidati dall’INAF, sono riusciti a ottenere, inoltre, una migliore copertura delle regioni di Io prossime ai poli rispetto al passato.

Francesca Zambon, membro del gruppo JIRAM, ricercatrice dell’INAF di Roma e prima autrice dell’articolo pubblicato su GRL, spiega:

“La mappa degli hot spot presentata nel nostro lavoro è la più aggiornata tra quelle basate su dati di telerilevamento spaziale. Analizzando le immagini infrarosse acquisite da JIRAM, abbiamo individuato 242 punti vulcanici caldi, di cui 23 non presenti in altri cataloghi e localizzati nella maggior parte dei casi nelle regioni polari, grazie alla peculiare orbita della sonda Juno”.

La ricercatrice sottolinea: “Il confronto tra il nostro studio e il catalogo più recente rivela che JIRAM ha osservato l’82% degli hot spot più potenti precedentemente individuati, e la metà degli hot spot di potenza intermedia, dimostrando quindi che questi sono ancora attivi. Tuttavia, JIRAM ha rilevato solo circa la metà degli hot spot più deboli precedentemente segnalati. Le spiegazioni sono due: o la risoluzione di JIRAM non è sufficiente per rilevare questi deboli punti caldi, oppure l’attività di questi centri effusivi potrebbe essersi sbiadita o interrotta”.

Quando la sonda spaziale NASA Voyager 1 avvicinò Io, il più interno dei satelliti galileiani di Giove, nel marzo 1979, le immagini inviate alla Terra rivelarono che la sua superficie appariva punteggiata da una moltitudine di centri vulcanici caldi, con imponenti colate laviche e pennacchi alti fino a qualche centinaio chilometri. In seguito, l’esplorazione condotta soprattutto dalla missione NASA Galileo chiarì che questi punti caldi sono moltissimi: alcune centinaia, molti dei quali con attività pressoché costante.

 

La luna Io mostra molti centri vulcanici, innescati principalmente dalle potenti forze mareali esercitate da Giove. Lo studio dell’attività vulcanica di questo satellite gioviano è la chiave per comprendere la natura dei suoi processi geologici e la sua evoluzione interna. La distribuzione degli hot spot e la loro variabilità spaziale e temporale sono importanti per definire le caratteristiche del riscaldamento delle maree e i meccanismi attraverso i quali il calore fuoriesce dall’interno.

 

Alessandro Mura, leader del gruppo JIRAM e ricercatore dell’INAF di Roma, prosegue:

“Uno dei maggiori punti aperti nella comprensione della struttura interna di Io è se l’attività vulcanica osservabile in superficie sia dovuta a un oceano di magma globale presente nel mantello, oppure a camere magmatiche che si insinuano nella crosta a minori profondità. Le osservazioni di JIRAM sono tuttora in corso, e le future immagini a maggiore definizione saranno fondamentali per meglio evidenziare i punti caldi deboli e per chiarire la struttura interna di Io”.

Giuseppe Sindoni, responsabile del progetto JIRAM per l’ASI, aggiunge:

“La superficie della luna gioviana Io è molto dinamica, con vulcani ed emissioni laviche in continua evoluzione, come dimostrato da questo importante risultato ottenuto dal nostro strumento JIRAM e dall’ottimo lavoro svolto dal team. L’estensione della missione Juno fino al 2025 ci permetterà di monitorare questa evoluzione e di comprendere meglio i processi fisici che guidano un corpo così complesso e dalle fattezze simili alla nostra Terra primordiale, anche in previsione di future missioni dedicate.”

La sonda Juno è stata lanciata ad agosto 2011 dalla base di Cape Canaveral ed è in orbita attorno a Giove dal luglio del 2016. Da allora ha percorso 235 milioni di chilometri. Juno è tuttora la sonda in orbita planetaria più distante della NASA, e continuerà le sue indagini sul pianeta più grande del Sistema solare fino a settembre 2025.

Alla fine dell’anno, il 30 dicembre 2023, durante la 57ma orbita attorno a Giove, la sonda Juno effettuerà il suo passaggio più ravvicinato in assoluto a Io, a una distanza minima di circa 4800 chilometri. Le missioni Europa Clipper della NASA e JUICE di ESA, che opereranno nel sistema di Giove negli anni 2030, non potranno mai avvicinarsi a simili distanze. Sarà quindi cruciale che Juno possa condurre osservazioni anche con JIRAM durante tutte le prossime opportunità previste nel 2023.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Io hot spot distribution detected by Juno/JIRAM”, di F. Zambon, A. Mura, R. M. C. Lopes, J. Rathbun, F. Tosi, R. Sordini, R. Noschese, M. Ciarniello, A. Cicchetti, A. Adriani, L. Agostini, G. Filacchione, D. Grassi, G. Piccioni, C. Plainaki, G. Sindoni, D. Turrini, S. Brooks, C. Hansen-Koharcheck, S. Bolton, è stato pubblicato su Geophysical Research Letters.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF sulla mappa vulcanica di Io prodotta dallo strumento JIRAM

NELLA VIA LATTEA, NATALITÀ STELLARE NELLA MEDIA, MA SI POTREBBE FARE DI PIÙ

Una nuova analisi dei dati raccolti dal satellite Herschel dell’Agenzia Spaziale Europea ha stimato il tasso di formazione stellare della nostra galassia, la Via Lattea, stabilendo che in media produce nuove stelle per un ammontare pari a due volte la massa del Sole ogni anno. Questo fa della Via Lattea una galassia “mediamente attiva”. Lo studio, guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, getta un ponte tra l’astrofisica galattica e quella extragalattica.

Mappa della densità del tasso di formazione stellare nella Via Lattea. I valori più alti sono rappresentati in bianco e giallo, mentre valori più moderati sono indicati in arancione, rosso, viola, blu e nero. Il centro galattico è riportato al centro dell’immagine, mentre la X in grigio nella parte inferiore indica la posizione del Sole. Sono indicati (in quattro diversi toni di verde) quattro bracci della spirale galattica.
Crediti: D. Elia et al. (2022)

Hanno contato tutti i clump, grumi di gas e polvere dispersi nel mezzo interstellare che pervade la Via Lattea, identificando quali tra essi ospitano formazione stellare e misurando la loro massa. Così, un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha stimato il tasso di formazione stellare della nostra galassia, ovvero quanto rapidamente produce nuove stelle: con una natalità stellare pari a circa due masse solari l’anno, la Via Lattea risulta essere una galassia “mediamente attiva”.

Il risultato si basa sulle osservazioni del piano galattico – dove risiede la maggior parte delle stelle della Via Lattea – condotte tra il 2009 e il 2013 dal telescopio spaziale Herschel dell’Agenzia Spaziale Europea nell’ambito della survey a guida italiana Hi-GAL ed è in accordo con le poche stime precedenti di questa grandezza, che facevano uso di tecniche completamente diverse. Questo lavoro permette di consolidare quanto noto finora sulla capacità della Via Lattea di convertire il gas freddo in stelle ed è stato pubblicato oggi su The Astrophysical Journal.

“In primo luogo, stimare il tasso di formazione stellare della Via Lattea ci consente di operare confronti tra essa e le altre galassie”, spiega Davide Elia, ricercatore INAF a Roma e primo autore del nuovo studio. “In secondo luogo, consente di affrontare un annoso dilemma nell’astrofisica galattica, ossia il fatto che il tasso di formazione stellare osservato, di poche masse solari per anno, risulta piuttosto esiguo rispetto alla quantità di materia disponibile. Produrre una stima aggiornata di questa quantità fornisce dunque un dato di riferimento ai colleghi che cercano di spiegare per via teorica questo inatteso comportamento”.

NELLA VIA LATTEA, NATALITÀ STELLARE NELLA MEDIA
La regione di formazione stellare Westerhout 43, a circa 20mila anni luce da noi, nella costellazione dell’Aquila, in un’immagine realizzata dal telescopio spaziale Herschel. Questa regione ospita oltre 20 “culle” di formazione stellare, evidenti in blu all’interno delle nubi di gas e polvere che pervadono l’immagine. Si stima che la regione coperta da questa immagine ospiti circa il 3,5 per cento del tasso di formazione stellare dell’intera Via Lattea.
Crediti: ESA/Herschel/PACS, SPIRE/Hi-GAL Project. Acknowledgement: UNIMAP / L. Piazzo, La Sapienza – Università di Roma; E. Schisano / G. Li Causi, IAPS/INAF, Italy

La velocità con cui una galassia produce nuove stelle, che dipende dalla massa di gas freddo disponibile e quantifica il suo grado di attività in termini di formazione stellare, non è un parametro facile da misurare: negli ultimi 45 anni sono state pubblicate solo una quindicina di stime di questa grandezza. Il team è riuscito nell’impresa partendo da un’idea di Sergio Molinari, dirigente di ricerca INAF a Roma, principal investigator di Hi-GAL e secondo autore dell’articolo. Dopo aver selezionato dal catalogo della survey, pubblicato lo scorso anno, gli oltre 150mila clump all’interno dei quali stanno nascendo nuove stelle, è stato possibile, a partire dalla loro massa e per confronto con i modelli teorici, stimare la frazione di massa che verrà convertita in stelle e il tempo necessario affinché ciò accada. Il valore trovato, ottenuto per la prima volta a partire dai dati di Herschel, rappresenta uno dei prodotti finali attesi da una importante survey del piano galattico come Hi-GAL.

“Stime di questo genere sono molto “attese” dalla comunità e quindi riteniamo di aver fissato una nuova pietra miliare nella storia delle misurazioni di questa grandezza”, chiarisce Elia.

Questo metodo ha permesso anche di mappare, come mai prima d’ora, il tasso di formazione stellare nel piano galattico, delineando il suo comportamento dal centro alla periferia della Via Lattea e il suo legame con il ruolo dei bracci di spirale. Si è stimato che l’84% del tasso di formazione stellare della Via Lattea è contenuto entro l’orbita del Sole attorno al centro galattico, e solo il 16% al di fuori di essa.

“Per le galassie esterne alla nostra, e in particolare quelle molto lontane e non osservabili in dettaglio con gli strumenti a disposizione, il tasso di formazione stellare è spesso una delle poche quantità globalmente misurabili”, aggiunge Elia. “Calcolarlo anche per la galassia in cui viviamo, la Via Lattea, ci consente di operare un confronto tra essa e le altre galassie, per capire se la nostra abbia un comportamento “usuale” o in qualche modo peculiare. La tecnica usata, oltretutto, ci consente non solo di stimare il tasso di formazione stellare globale, ma anche di mapparlo zona per zona. Naturalmente esistono varie difficoltà dovute al fatto che possiamo osservare la Via Lattea solo dal di dentro e, oltretutto, da una posizione relativamente defilata”.


 

Per ulteriori informazioni: L’articolo “The Star Formation Rate of the Milky Way as seen by Herschel” di D. Elia, S. Molinari, E. Schisano, J. D. Soler, M. Merello, D. Russeil, M. Veneziani, A. Zavagno, A. Noriega-Crespo, L. Olmi, M. Benedettini, P. Hennebelle, R. S. Klessen, S. Leurini, R. Paladini, S. Pezzuto, A. Traficante, D. J. Eden, P. G. Martin, M. Sormani, A. Coletta, T. Colman, R. Plume, Y. Maruccia, C. Mininni, S. J. Liu, è stato pubblicato online su The Astrophysical Journal.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

ZOONIVERSE: IMMERSI IN UN MARE DI GALASSIE A “PESCARE MEDUSE”

Il nuovo progetto di citizen science di Zooniverse promosso dall’Istituto Nazionale di Astrofisica è alla ricerca di utenti che vogliano scoprire le “galassie medusa”, una classe particolare di galassie caratterizzate da lunghe code di materiale strappato dal plasma caldo dell’ammasso di galassie in cui cadono.

 Pescare, meduse, galassie. Difficile pensare a come dare un senso a una frase che contenga queste tre parole. Eppure, un gruppo di ricercatori ha appena lanciato un nuovo progetto che si chiama “Fishing for jellyfish galaxies”, letteralmente “A pesca di galassie medusa”, con l’obiettivo di coinvolgere quante più persone possibili nella classificazione di queste particolari e bellissime galassie, che somigliano a delle meduse perché stanno cadendo all’interno di un ammasso di galassie. Un programma di scienza partecipata, dunque, che si troverà nella piattaforma Zooniverse.com.

Esempio di una galassia medusa. Crediti: ESO/GASP collaboration

Galassie medusa

 Quando una galassia cade ad alta velocità nell’ambiente denso di un ammasso di galassie, il plasma caldo che invade l’ambiente dell’ammasso genera una forza di trascinamento che la può spogliare della sua componente gassosa, che verrà persa lungo il tragitto formando una coda di materiale. Questo processo fisico si chiama ram-pressure stripping e si può facilmente vedere perché crea, appunto, delle spettacolari code luminose che danno alla galassia proprio l’aspetto di una medusa. Ogni nuova galassia di questo tipo identificata si trova in un momento chiave della propria evoluzione e fornisce l’istantanea di uno specifico istante del suo viaggio di caduta. Man mano che si trovano sempre più galassie che stanno subendo la stessa sorte, si può tracciare una linea temporale del processo, dal momento dell’ingresso in un ammasso fino al punto in cui sono completamente spogliate del loro gas. Anche perché questo fenomeno le priva di una componente fondamentale per la propria sopravvivenza, in quanto il gas è il combustibile che consente alla galassia di formare nuove stelle.

Zooniverse galassie medusa meduse
Zooniverse: immersi in un mare di galassie a “pescare meduse”: una schermata dal sito web del progetto “Fishing for jellyfish galaxies”

Call for action

 Fra i milioni di galassie a spirale ed ellittiche che popolano l’Universo, si trovano occasionalmente galassie particolari, rare e intriganti. Fra queste ci sono le galassie medusa, delle quali si contano finora relativamente pochi esemplari. Molte di esse però potrebbero essere già state osservate nel contesto di grandi indagini astronomiche e aspettano solo di essere identificate.

“Queste galassie sono una miniera d’oro per lo studio dell’evoluzione galattica, poiché rappresentano il momento in cui le galassie iniziano a ‘morire’, perdendo le loro riserve di gas da cui possono formare nuove stelle”, dice Callum Bellhouse, ricercatore postdoc all’INAF di Padova e responsabile del programma di Citizen science per l’identificazione delle galassie medusa. Bellhouse lavora al progetto GASP (GAs Stripping Phenomena in galaxies, responsabile scientifico Bianca Poggianti dell’INAF di Padova), il primo programma osservativo che ha cercato sistematicamente le galassie medusa in molti ammassi di galassie in modo da poterle caratterizzare come popolazione, e sul quale si fonda il nuovo progetto di scienza partecipata. “Sebbene queste galassie siano rare e difficili da trovare con tecniche automatizzate e computazionali, sono molto più facilmente riconoscibili dall’occhio umano. L’occhio (e il cervello) delle persone, infatti, ha una maggior capacità di identificare forme strane e peculiari, anche non codificate in precedenza, rispetto a un algoritmo automatico”.

 

Sì, ma nella pratica?

 Il nuovo progetto “Fishing for Jellyfish Galaxies” è ora disponibile sulla piattaforma di Citizen science Zooniverse.org. Ognuno potrà visualizzare e classificare le galassie, in cerca di meduse, pescandole nel mare delle immagini astronomiche scattate da DECaLS, la Dark Energy Camera Legacy Survey. DECaLS è la survey ideale per questo: copre una grande frazione di cielo e ha una sensibilità sufficiente a mostrare indizi chiave, riuscendo a scorgere anche le code più deboli formate dal materiale strappato alle galassie. Grazie all’aiuto del pubblico, gli scienziati saranno in grado di incrementare il numero di galassie medusa conosciute (attualmente sono centinaia) cercandole tra migliaia di immagini, aumentando le possibilità di trovare questi oggetti spettacolari e sfuggenti. E facendolo in modo sostenibile, sfruttando dati astronomici di archivio il cui potenziale, altrimenti, rimarrebbe inesplorato.

Immaginate quindi di essere il prossimo utente di questo nuovo progetto di Zooniverse. Dovrete capire se la forma delle galassie che vedete lascia intravedere la presenza di materiale “perso” dalla galassia stessa, e selezionare le galassie “con la coda”. Non serve nessun prerequisito: si parte con una sessione tutorial che vi guida nella scoperta dell’attività. Una volta selezionato, il campione di galassie sarà studiato dai ricercatori di GASP.

“L’occhio umano è uno strumento fantastico per distinguere i segni di disturbo e il materiale di scia”, dice Anna Wolter, ricercatrice dell’INAF di Milano e membro del programma osservativo GASP. “Con il vostro aiuto, speriamo di incrementare significativamente il campione conosciuto e di assemblare un catalogo ampio e variegato di queste galassie per aiutarci a comprendere i complessi processi che producono e modellano questi affascinanti oggetti. La nostra collaborazione GASP ha membri provenienti da diverse parti del mondo; quindi, siamo entusiasti di offrire questo progetto di Zooniverse in 7 lingue diverse, per dare la possibilità a molte altre persone di essere coinvolte e aiutarci a trovare queste galassie spettacolari”.

Per ulteriori informazioni:

Il sito web del progetto progetto GASP (GAs Stripping Phenomena in galaxies):

https://web.oapd.inaf.it/gasp/

La pagina web dell’iniziativa “Fishing for jellyfish galaxies” sulla piattaforma Zooniverse.org:

www.zooniverse.org/projects/cbellhouse/fishing-for-jellyfish-galaxies

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)