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ALLA BASE DEL COVID-19 GRAVE UN DIFETTO DELLE CELLULE STAMINALI 

Pubblicato su «Diabetes» lo studio effettuato dal Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e coordinato dal prof. Gian Paolo Fadini che dimostra un difetto di cellule staminali circolanti nei pazienti ricoverati per COVID-19 che hanno sviluppato un decorso sfavorevole della malattia. L’iperglicemia durante COVID-19 rappresenta una delle cause di riduzione delle cellule staminali circolanti. 

Gian Paolo Fadini COVID-19 grave cellule staminali
Gian Paolo Fadini, coordinatore dello studio pubblicato su Diabetes, che indaga la relazione tra cellule staminali e COVID-19 grave

Fin dall’inizio della pandemia, è emersa una stretta relazione tra diabete mellito e forme severe di COVID-19. Nel 2020 uno studio coordinato dal prof. Gian Paolo Fadini del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova aveva dimostrato che i pazienti affetti da diabete presentavano una probabilità raddoppiata di trasferimento in terapia intensiva o decesso. Come in altre ricerche simili in tutto il mondo, era stato osservato un rischio elevato di andamento sfavorevole anche per i pazienti ricoverati per COVID-19 con elevati valori di glicemia in assenza di diabete.

A far luce su questo tema, un nuovo studio, pubblicato su «Diabetes», la prestigiosa rivista ufficiale della Società Americana di Diabetologia e condotto dai docenti del Dipartimento di Medicina dell’Università, coordinati da Gian Paolo Fadini, Professore Associato di Endocrinologia e Principal Investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare.

Lo studio dimostra che i pazienti ricoverati per COVID-19 presentano un livello molto basso di cellule staminali nel sangue rispetto a soggetti senza infezione da SARS-CoV-2. Inoltre, tra i pazienti con COVID-19 coloro che presentavano livelli più bassi di cellule staminali avevano una probabilità aumentata più di 3 volte di ricovero in terapia intensiva o morte.

Un’altra novità principale dello studio consiste nel dimostrare una strettissima associazione tra iperglicemia al momento del ricovero, difetto di cellule staminali, ed andamento sfavorevole di COVID-19.

«I nostri precedenti studi sui pazienti diabetici – spiega il prof. Gian Paolo Fadini – ci hanno insegnato che le alte concentrazioni di glucosio riducono il livello di cellule staminali ematopoietiche circolanti. Il rilascio di queste cellule nel sangue – continua il professore – è necessario all’organismo per mantenere un’adeguata capacità dei tessuti di ripararsi e di rispondere agli insulti».

«Ora abbiamo osservato che anche nei pazienti senza una storia di diabete, lo stato iper-infiammatorio durante COVID-19 può causare iperglicemia e che questo rialzo glicemico riduce le cellule staminali – sottolinea Benedetta Bonora, ricercatrice del Dipartimento di Medicina dell’Università e prima autrice dello studio –. A sua volta, il difetto di cellule staminali conduce ad un peggioramento del decorso clinico della malattia e spiega perché i pazienti con iperglicemia al momento dell’ingresso in ospedale rischiano di soccombere al COVID-19».

Il lavoro emerge da una collaborazione congiunta con l’Unità di Malattie Infettive, diretta dalla dottoressa Annamaria Cattelan, dove i pazienti sono stati ricoverati, e della Medicina di Laboratorio, diretta dalla prof.ssa Daniela Basso. Come spiega proprio la prof.ssa Basso:

«Raramente osserviamo livelli così bassi di cellule staminali circolanti in individui senza malattie del sangue – conferma Daniela Basso –. Si tratta molto probabilmente di una delle conseguenze dell’abnorme immuno-attivazione indotta dal virus, ma non possiamo escludere che il virus infetti le cellule staminali e le uccida».

«Nelle nostre precedenti ricerche – puntualizza Gian Paolo Fadini – abbiamo scoperto che uno dei meccanismi con cui l’iperglicemia riduce le cellule staminali passa attraverso una molecola chiamata Oncostatina M che stimola la produzione di cellule infiammatorie e trattiene le cellule staminali nel midollo, creando un circolo vizioso. Ora intendiamo verificare se Oncostatin M può essere un target terapeutico per la cura dei pazienti con COVID-19».

«L’iperglicemia all’ingresso in ospedale era presente in quasi la metà dei pazienti ricoverati per COVID-19 – conclude il prof. Angelo Avogaro, direttore della Diabetologia dell’Azienda Ospedale-Università di Padova, facendo comprendere l’enorme rilevanza di questo problema nell’attuale fase pandemica –. Ampliando le conoscenze sulle interazioni tra iperglicemia, cellule staminali e COVID-19 questo studio aiuta a identificare un nuovo potenziale bersaglio terapeutico per spegnere l’eccessiva risposta immuno-infiammatoria che conduce i pazienti con infezione da SARS-CoV-2 a sviluppare complicanze gravi ed a soccombere al virus».

Link alla ricerca:

https://diabetesjournals.org/diabetes/article/doi/10.2337/db21-0965/140945/Hyperglycemia-Reduced-Hematopoietic-Stem-Cells-and

Titolo: “Hyperglycemia, reduced hematopoietic stem cells, and outcome of COVID-19” – «Diabetes» – 2022

Autori: Benedetta Maria Bonora, Paola Fogar, Jenny Zuin, Daniele Falaguasta, Roberta Cappellari, Annamaria Cattelan, Serena Marinello, Anna Ferrari, Angelo Avogaro, Mario Plebani, Daniela Basso, Gian Paolo Fadini.

Gian Paolo Fadini

Gian Paolo Fadini è Professore Associato di Endocrinologia presso l’Università degli Studi di Padova e Dirigente Medico presso la Divisione di Malattie del Metabolismo dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova. È anche Principal investigator del Laboratorio di Diabetologia Sperimentale presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (http://www.vimm.it/scientific-board/gian-paolo-fadini/), una struttura scientifica traslazionale e di base.

L’attività didattica del Prof. Fadini è rivolta agli studenti del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia e del Corso di Specialità in Endocrinologia e Metabolismo, mentre le attività di ricerca sono dedicate allo studio delle complicanze croniche del diabete, delle cellule staminali nel diabete, dell’angiogenesi, dell’aterosclerosi, della calcificazione e rigenerazione vascolare, della guarigione delle ulcere, delle sindrome metabolica e insulino-resistenza, dello stress ossidativo, delle complicanze diabetiche acute, e dei meccanismi genetiche di longevità delle malattie metaboliche.

Con una serie di studi clinici traslazionali sulle cellule progenitrici endoteliali, l’attività di ricerca del Prof. Fadini ha contribuito alla comprensione di come il diabete induca danno vascolare e comprometta la riparazione endoteliale. Come evoluzione di questo campo di studi, il Prof. Fadini è passato a considerare il midollo osseo, che regola le cellule staminali vascolari e la rigenerazione, come bersaglio delle complicanze diabetiche. In ambito clinico, il Prof. Fadini ha condotto studi utilizzando dati clinici accumulati routinari sugli esiti cardiovascolari e sull’efficacia nel mondo reale dei farmaci ipoglicemizzanti, inclusa la serie di studi osservazionali nazionali DARWIN.

Al Professor Gian Paolo Fadini è stato assegnato il premio Minkowski, il riconoscimento europeo più prestigioso nel campo delle ricerche sul diabete, per le sue ricerche sul ruolo delle alterazioni delle cellule staminali nelle complicanze vascolari del diabete.

Il Prof. Fadini è Associate Editor per Atherosclerosis, Journal of Endocrinological Investigation e Nutrition Metabolism & Cardiovascular Disease, è membro del board di European Heart Journal, Diabetes Obesity & Metabolism e Cardiovascular Diabetology edex membro del consiglio di Diabetes e Clinical Science e revisore (tra gli altri) per: Lancet Diabetes & Endocrinology, Circulation, Circulation Research, J Am Coll Cardiol, ATVB, Stem Cells, Stroke, Diabetologia, Diabetes Care. Ha pubblicato più di 300 articoli su riviste peer-review, con un H-index di 54.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova, sullo studio pubblicato su Diabetes, che indaga la relazione tra cellule staminali e COVID-19 grave.

PFAS E DANNI NEURONALI POSSONO ESSERE COINVOLTI NELL’INSORGERE DELLE ANOMALIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE E NEL PARKINSON 

Studio Università di Padova-VIMM pubblicato sulla prestigiosa rivista «Environment International». I PFAS si integrano con le membrane neuronali e il sistema nervoso è a rischio durante la fase dello sviluppo embrionale. I dati preliminari suggeriscono anche un coinvolgimento delle cellule implicate nel processo degenerativo del Parkinson.

Carlo Foresta PFAS danni neuronali Parkinson sistema nervoso centrlae
Il professor Carlo Foresta

Un gruppo di ricerca guidato dal professor Carlo Foresta dell’Università di Padova ha recentemente pubblicato sulla rivista «Environment International» – con il titolo “Impairment of human dopaminergic neurons at different developmental stages by perfluoro-octanoic acid (PFOA) and differential human brain areas accumulation of perfluoroalkyl chemicals” – l’ultimo studio sugli gli effetti dei PFAS sul sistema nervoso.

Lo studio, iniziato dalle relazioni tra inquinamento da PFAS e anomalie congenite del sistema nervoso o disturbi comportamentali e neurologici come l’Alzheimer, l’autismo e i disturbi dell’attenzione e iperattività, è stato sviluppato per indagare se in cellule neuronali di specifiche aree del cervello si riscontrasse un accumulo di PFAS.

In collaborazione con il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova – nell’ambito del “Programma di donazione del corpo alla scienza” coordinato dal professor Raffaele De Caro e dal professor Andrea Porzionato – sono stati effettuati prelievi di diverse aree del tessuto cerebrale. In presenza di significative concentrazioni plasmatiche di PFOA, PFOS e PFHxS sono stati riscontrati importanti segni di accumulo di queste sostanze soprattutto in aree costituite da particolari neuroni detti dopaminergici, come l’ipotalamo.

I risultati dello studio sono giunti da uno studio impegnativo e metodico, che ha coinvolto diversi Dipartimenti dell’Università di Padova e del Veneto Institute of Molecular Medicine (VIMM) per verificare gli effetti biologici di queste sostanze sui neuroni dopaminergici attraverso la coltivazione in laboratorio di cellule staminali neuronali a diversi stadi di differenziamento, fino al neurone dopaminergico maturo.

In particolare, è stato osservato che i PFAS a concentrazioni simili a quelle ritrovate nelle aree cerebrali si integrano con le membrane neuronali, modificandone la struttura e la stabilità. L’effetto dei PFAS è più evidente quanto più precoce è lo stadio di maturazione.

Sono ora in corso studi per determinare quali sono le conseguenze funzionali di queste osservazioni.

«Per la prima volta si è dimostrato che nell’uomo queste sostanze chimiche possono modificare la funzione delle cellule nervose – commenta il professor Carlo Foresta – Ulteriori studi sono necessari per quantificare le conseguenze sulla salute delle persone. Le osservazioni che dimostrano una maggior sensibilità delle cellule neuronali non ancora mature fanno pensare che gli effetti dei PFAS possano essere più evidenti durante le fasi più sensibili dello sviluppo del sistema nervoso come nell’embrione».

«I dati preliminari suggeriscono un coinvolgimento delle cellule implicate nel processo degenerativo del Parkinson – dice il Professor Angelo Antonini, Responsabile dell’Unità Parkinson e Malattie Rare Neurologiche della Clinica Neurologica dell’Università di Padova – Ancora non sappiamo se i PFAS possono poi determinare un’alterazione nei processi di degradazione della proteina alfa-sinucleina alla base di questa malattia. Tuttavia confermano una vulnerabilità di questi nuclei cerebrali e che i fattori ambientali insieme al profilo genetico giocano un ruolo importante probabilmente come fattore scatenante nel processo degenerativo».

«Si tratta di una collaborazione fra più gruppi universitari e team di ricerca, tra cui il mio gruppo al VIMM, che ha messo a punto la coltura di cellule staminali umane differenziate in neuroni dopaminergici che sono stati utilizzati nello studio per dimostrare l’effetto nocivo dei PFAS – conclude il Principal Investigator del VIMM Mario Bortolozzi-. La nostra expertise biofisica ed elettrofisiologica ci ha permesso di verificare che tali colture fossero funzionali, cioè in grado di “sparare” i cosiddetti potenziali d’azione, una sorta di firma autografa del neurone».

Link alla ricerca: https://doi.org/10.1016/j.envint.2021.106982

Autori: Andrea Di Nisio, Micaela Pannella, Stefania Vogatisi, Stefania Sut, Stefano Dall’Acqua, Maria Santa Rocca, Angelo Antonini, Andrea Porzionato, Raffaele De Caro, Mario Bortolozzi, Luca De Toni, Carlo Foresta

TitoloImpairment of human dopaminergic neurons at different developmental stages by perfluoro-octanoic acid (PFOA) and differential human brain areas accumulation of perfluoroalkyl chemicals – «Environment International» 2021 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova, circa lo studio pubblicato su Environment International che spiega come PFAS e danni neuronali possano essere coinvolti nell’insorgere di anomalie del sistema nervoso centrale e Parkinson

DA UNO STUDIO VIMM-UNIVERSITÀ DI PADOVA UN NUOVO METODO PER STIMOLARE LE CELLULE STAMINALI NELLE PERSONE AFFETTE DA DIABETE 

La ricerca è stata pubblicata su Diabetologia, la rivista ufficiale della Società Europea per lo Studio del Diabete (EASD).

cellule staminali diabete retinopatia
Gian Paolo Fadini

Il fenofibrato, un farmaco routinariamente utilizzato per il trattamento degli elevati livelli di trigliceridi è in grado di stimolare il livello delle cellule staminali circolanti in pazienti con retinopatia diabetica: è quanto emerge da uno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) sotto il coordinamento di Gian Paolo Fadini, Professore Associato di Endocrinologia e Principal Investigator dell’Unità di Diabetologia Sperimentale del VIMM.

L’articolo – pubblicato su «Diabetologia», la rivista ufficiale della Società Europea per lo Studio del Diabete (EASD) – parte, secondo la ricostruzione di Benedetta Bonora prima autrice dello studio, dalle precedenti osservazioni di due grandi studi internazionali che indicavano come il fenofibrato, un farmaco comunemente utilizzato anche nei diabetici per abbassare la concentrazione di trigliceridi nel sangue, fosse in grado di proteggere dalla progressione della retinopatia, una  temibile complicanza cronica del diabete che può portare alla cecità e per la quale le armi terapeutiche a disposizione sono limitate.

“Avevamo notato – sottolinea Gian Paolo Fadini – che i pazienti diabetici con bassi livelli di cellule staminali circolanti hanno un rischio aumentato di progredire verso stadi più avanzati di retinopatia. Abbiamo quindi cercato di capire come sia possibile stimolare le cellule staminali circolanti, che hanno un ruolo chiave nel proteggere i tessuti e gli organi dal danno cronico e il cui meccanismo di protezione è compromesso dal diabete. Partendo da questo assunto, Il nostro laboratorio potrà lavorare nell’identificazione di approcci terapeutici per ripristinare la protezione d’organo tramite le cellule staminali nei pazienti con diabete”.

“Comprendere il meccanismo di un trattamento – aggiunge Angelo Avogaro, professore Ordinario di endocrinologia e Direttore della Diabetologia di Padova – è un passo fondamentale per permetterne un suo utilizzo su larga scala. Questo nuovo studio fornisce un importante contributo alle nostre conoscenze di come sia possibile prevenire la progressione di una delle più temibili complicanze croniche del diabete per cui, ancora oggi, ci sono limitate opportunità terapeutiche”.

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Link all’articolo: https://rdcu.be/ctKHn

Titolo: Fenofibrate increases circulating haematopoietic stem cells in people with diabetic retinopathy: a randomised, placebo-controlled trial

Autori: Gian Paolo Fadini, Benedetta Maria Bonora, Mattia Albiero, Mario Luca Morieri, Roberta Cappellari, Francesco Ivan Amendolagine, Marta Mazzucato, Alberto Zambon, Elisabetta Iori, Angelo Avogaro

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova.

INDIVIDUATI I SEGNALI CON CUI IL TUMORE ALTERA I NEURONI MOTORI, IN UNO STUDIO DEL VIMM E DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA 

I risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista “Science Translational Medicine”, hanno mostrato che la crescita della massa neoplastica causa la produzione di specifiche proteine (activina A, IL6, noggin) che alterano la struttura e la funzionalità dei neuroni motori presenti nel midollo spinale. A partire dall’identificazione delle molecole coinvolte nella cachessia neoplastica, è stata avviata la sperimentazione di un farmaco già utilizzato in diversi Paesi per trattare altri tipi di patologie.

Individuati i segnali con cui il tumore altera i neuroni motori: Roberta Sartori

La crescita di un tumore all’interno del corpo umano causa dei cambiamenti funzionali, strutturali e metabolici dei tessuti che portano al progressivo aggravarsi delle condizioni del paziente. Nella maggior parte dei casi la neoplasia altera la normale capacità contrattile e metabolica muscolare, inducendo spesso nei pazienti uno stato di affaticamento, di stanchezza e di “mancanza di fiato” che non solo limita la capacità di movimento, ma riduce anche la tolleranza ai trattamenti farmacologici.

Più specificamente, una delle cause di mortalità associata alla crescita tumorale è dovuta ad un’incontrollata perdita di peso che non può essere contrastata con un supporto nutrizionale. Più della metà dei pazienti con tumori solidi va incontro a questo processo, chiamato cachessia, che è il risultato dell’esaurimento del tessuto adiposo e muscolare.

Purtroppo i meccanismi molecolari alla base della cachessia neoplastica non sono ancora completamente definiti e, a oggi, non esistono terapie atte a contrastarne l’insorgenza. Un aiuto importante può arrivare allora dalla ricerca, e in particolare da quella rivolta a identificare bersagli per terapie farmacologiche.

Vanno in questa direzione i risultati pubblicati sulla prestigiosa rivista “Science Translational Medicine” dal gruppo di ricerca guidato dal Prof. Marco Sandri (e coordinato dalla Dott.ssa Roberta Sartori, prima autrice dello studio) presso il dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova e l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) di Padova e dal Professor Paul Gregorevic (con il co-primo autore Adam Hagg) presso il Centre for Muscle Research dell’University of Melbourne. Il titolo dell’articolo è: “Perturbed BMP signaling and denervation promote muscle wasting in cancer cachexia”.

tumore neuroni motori cachessia neoplastica
Individuati i segnali con cui il tumore altera i neuroni motori: Marco Sandri

La ricerca ha chiarito come la crescita della massa neoplastica causi la produzione di specifiche proteine (activina A, IL6, noggin) che alterano la struttura e la funzionalità dei neuroni motori, responsabili del rilascio di segnali attivatori dalla spina dorsale alle fibre muscolari. Questo effetto sui moto-neuroni comporta una diminuita comunicazione tra nervo e muscolo, evento che induce debolezza, affaticabilità precoce, perdita di massa muscolare e l’insorgenza, appunto, della cachessia.

Lo studio, sostenuto in Italia da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro e dalla Fondazione Umberto Veronesi, è stato condotto in collaborazione con un team di ricercatori dell’Università di Padova diretto dal Prof. Stefano Merigliano e con il team della Prof. Paola Costelli dell’Università di Torino.

“Questo lavoro è un esempio di come una collaborazione internazionale e multidisciplinare abbia permesso sia l’individuazione delle molecole coinvolte nella cachessia neoplastica, sia la sperimentazione, in animali di laboratorio, di un farmaco già in uso in vari Paesi per il trattamento di altre patologie.” Ha sottolineato il Prof. Marco Sandri del Dipartimento di Scienze Biomediche.

“Il trattamento farmacologico ha contrastato la degenerazione dei neuroni, preservato la massa muscolare e, inoltre, ha aumentato la sopravvivenza indipendentemente dalla crescita del tumore. Questi risultati hanno gettato le basi per lo sviluppo di una nuova serie di farmaci che potrebbero agire sia sui neuroni sia sui muscoli, per massimizzare l’azione anti-cachettica e migliorare la qualità di vita e la sopravvivenza dei pazienti oncologici.” I risultati ottenuti in laboratorio dovranno essere confermati in sperimentazioni cliniche.

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Link al testo completo e al PDF della ricerca al seguente sito nella sezione “Key Publications”: https://www.vimm.it/scientific-board/marco-sandri/

Titolo: Perturbed BMP signaling and denervation promote muscle wasting in cancer cachexia – «Science Translational Medicine» – 2021

Autori: Roberta Sartori, Adam Hagg, Sandra Zampieri, Andrea Armani, Catherine E. Winbanks , Laís R. Viana, Mouna Haidar, Kevin I. Watt, Hongwei Qian, Camilla Pezzini, Pardis Zanganeh, Bradley J. Turner, Anna Larsson, Gianpietro Zanchettin, Elisa S. Pierobon, Lucia Moletta, Michele Valmasoni, Alberto Ponzoni, Shady Attar, Gianfranco Da Dalt, Cosimo Sperti, Monika Kustermann, Rachel E. Thomson, Lars Larsson, Kate L. Loveland, Paola Costelli, Aram Megighian, Stefano Merigliano, Fabio Penna, Paul Gregorevic, Marco Sandri 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova.