GLI EFFETTI NASCOSTI DEI PESTICIDI UTILIZZATI NEI CAMPI
Una ricerca pubblicata su Science of the Total Environment e realizzata da Simone Tosi, docente e ricercatore del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, mostra come i pesticidi possano provocare danni comportamentali, cognitivi e fisiologici a impollinatori e tanti altri animali benefici per l’uomo
Un lavoroappena pubblicato sulla prestigiosa rivista Science of the Total Environment, condotta da un team di ricercatori e ricercatrici coordinati da Simone Tosi, docente e ricercatore del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino ha indagato sugli effetti collaterali dei pesticidi utilizzati nei campi coltivati. Secondo lo studio sono noti gli effetti subletali (capaci cioè di causare danni patologici o biologici, ma non la morte) su insetti impollinatori e tanti altri organismi benefici, solo del 29% dei pesticidi diffusi nell’ambiente. Questi pesticidi inoltre, vengono spesso diffusi nell’ambiente contemporaneamente insieme a tanti altri, creando di fatto dei cocktail chimici che amplificano esponenzialmente i danni sugli animali. La ricerca dimostra come ad oggi la comunità scientifica non sia a conoscenza degli effetti collaterali causati dal 99% delle possibili combinazioni di pesticidi utilizzati nei campi coltivati.
“Dopo anni di ricerche sul complesso e controverso stato di salute delle api ci siamo resi conto che qualcosa non quadrava”, dichiara Simone Tosi, docente e ricercatore del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino.“Nelle nostre ricerche, la gran parte delle api e altri impollinatori esposte ai pesticidi mostrava anomalie comportamentali e fisiologiche: non riuscivano più a muoversi e coordinarsi, le abilità di volo erano alterate, ed erano incapaci a termoregolare l’alveare. Nonostante ciò, i pesticidi approvati all’uso nei nostri campi non sono testati per questo tipo di effetti sugli impollinatori. È come se valutassimo il rischio causato dell’alcol sugli esseri umani solo considerando gli effetti letali, non quelli sulle abilità cognitive, come ad esempio la guida in stato d’ebbrezza”.
I ricercatori lamentano una carenza di dati riguardanti queste tematiche e, attraverso questo studio, propongono nuovi metodi e approcci per analizzare e interpretare questi effetti. I risultati della ricerca evidenziano l’importanza di considerare gli impatti subletali e combinati dei pesticidi, inclusi fungicidi ed erbicidi. L’approccio integrativo di questo lavoro ha l’obiettivo di facilitare la sua implementazione in future ricerche scientifiche e nei processi di valutazione del rischio, verso una migliore comprensione delle complessità del mondo reale.
“Abbiamo deciso di affrontare questo limite del sistema raccogliendo tutti i dati disponibili sui complessi effetti che i pesticidi causano agli impollinatori”, aggiunge Simone Tosi. “Troppi dati sulla tossicità dei prodotti chimici sono sconosciuti. Il nostro studio ha iniziato a colmare questo limite di conoscenza, ponendo l’attenzione su una tematica molto attuale, anche a livello politico. Abbiamo discusso la questione fornendo ai cittadini, ai ricercatori, ai valutatori del rischio e ai politici, in modo trasparente, tutto quello che abbiamo scoperto”.
La ricerca rappresenta un importante tassello verso la condivisione standardizzata di dati sulla tossicità dei pesticidi. Se i valutatori del rischio mirano a proteggere le persone e l’ambiente dalle conseguenze inaccettabili dell’uso di pesticidi, questi approcci armonizzati e standardizzati possono aiutarli a soddisfare in modo più efficace il loro lavoro. I ricercatori, in questo studio, sottolineano la necessità di una valutazione più raffinata e olistica dei rischi dei pesticidi, che non si concentri solo sulla letalità, verso un ambiente più sano per le api e per gli uomini.
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
COME GLI UMANI, ANCHE I PINGUINI CAMBIANO “TONO DI VOCE” A SECONDA DEL CONTESTO SOCIALE
I dati raccolti dai ricercatori dell’Università di Torino suggeriscono che questa forma implicita di plasticità vocale potrebbe essere molto più diffusa nel regno animale di quanto si pensasse
Anche i pinguini cambiano tono di voce a seconda del contesto sociale. Pinguini africani – foto di Giulia Olivero
É stato pubblicato sulla rivistaProceedings of the Royal Society B uno studio, realizzato dai ricercatori del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, intitolato Vocal accommodation in penguins (Spheniscus demersus) as a result of social environment. La ricerca ha analizzato in che modo i pinguini africani (Spheniscus demersus) sono in grado di modificare le loro vocalizzazioni nel tempo e in funzione delle loro interazioni sociali. Una modulazione vocale paragonabile a quella del linguaggio umano e utile a comprenderne in maniera significativa la sua evoluzione.
Pinguini africani – foto di Veronica Maraner
Sono state studiate le caratteristiche acustiche delle vocalizzazioni di diverse colonie di pinguino africano, una specie filogeneticamente distante da tutte quelle che sono state precedentemente identificate come capaci di apprendimento vocale. In particolare, vengono messe a confronto le caratteristiche acustiche delle vocalizzazioni di diversi pinguini con vari gradi di interazione sociale: stessa colonia o colonia diversa; stessa colonia a distanza di tre anni; partner contro non partner.
I risultati dimostrano che più i pinguini ascoltano le vocalizzazioni dei membri di un dato gruppo sociale, più le loro vocalizzazioni diventano simili, nel tempo, a quelle ascoltate. Questo fenomeno è ancora più marcato tra i partner di una coppia. Complessivamente, i risultati suggeriscono che i pinguini sono capaci di convergenza acustica, e che la plasticità vocale nel regno animale è forse più diffusa rispetto a quanto precedentemente ipotizzato.
“Ci siamo chiesti – dichiara Luigi Baciadonna, ricercatore del DBIOS UniTo e primo autore della ricerca – fino a che punto le vocalizzazioni dei pinguini siano flessibili e rispondenti all’ambiente sociale. Utilizzando un’analisi delle componenti principali , abbiamo ridotto 14 parametri vocali dei richiami di contatto dei pinguini a 4, ciascuno dei quali comprende parametri altamente correlati e che possono essere classificati come frequenza fondamentale, frequenza delle formanti, modulazione della frequenza, tasso di modulazione dell’ampiezza e durata. Dopodiché, abbiamo confrontato le differenze tra questi parametri individui con diversi gradi di interazioni sociali: stessa colonia contro stessa colonia rispetto a colonie diverse, stessa colonia per 3 anni e partner rispetto a non partner”.
Pinguini africani – foto di Veronica Maraner
Le analisi indicano che più i pinguini sperimentano i richiami degli altri, più i loro richiami diventano simili nel tempo, dimostrando che la convergenza vocale richiede un lungo periodo di tempo e una relativa stabilità nell’appartenenza alla colonia, e che il legame sociale unico dei partner può influenzare la convergenza vocale in modo diverso rispetto ai non partner. I risultati suggeriscono che questa forma implicita di plasticità vocale è forse molto più diffusa in tutto il regno animale di quanto si pensasse e potrebbe essere una capacità fondamentale della vocalizzazione dei vertebrati.
Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
Il Museo di Anatomia Umana “Luigi Rolando” dell’Università di Torino
Chi visita il Museo di Anatomia Umana ha la possibilità di immergersi in un eccezionale esempio di museo scientifico ottocentesco, rimasto praticamente inalterato. Il Museo contiene infatti preparati anatomici artificiali e naturali, esposti in vetrine affollate. Le collezioni sono rese fruibili ai visitatori tramite postazioni video, codici QR e la guida cartacea disponibile al bookshop.
La prima sala del Museo di Anatomia Umana Luigi Rolando. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
Una lunga storia
Il Museo di Anatomia Umana è uno dei più antichi appartenenti all’Università di Torino. Le sue origini risalgono infatti al 1739, quando il professore di anatomia Giovan Battista Bianchi sviluppa il Progetto per il Museo della Regia Università. Nelle sale espositive sono conservati alcuni preparati appartenenti a queste prime raccolte, ma la maggioranza dei materiali risale al secolo successivo. A cavallo tra Sette e Ottocento il Museo gode dell’attività di Direttori autorevoli, come Luigi Rolando, studioso del sistema nervoso, con la spiccata capacità di coniugare dati di natura morfologica, funzionale ed embriologica e fondatore della scuola neuroanatomica torinese. Gli succede Lorenzo Restellini, patriota convinto, medaglia al valore militare, che combatte in diverse battaglie risorgimentali come volontario nel servizio sanitario militare. Infine Carlo Giacomini, che sviluppa la scuola anatomica torinese in vari campi (neuroanatomia, anatomia topografica, embriologia, antropologia, primatologia) e mette a punto procedimenti tecnici originali per l’allestimento di preparati anatomici macro e microscopici, in parte conservati nel museo. Partecipa anche ad attività sanitarie durante eventi bellici, nel quadro della nascente Croce Rossa Internazionale. Questi scienziati contribuirono all’ampliamento delle collezioni anatomiche, pensate con scopo didattico: servivano infatti agli studenti e ai ricercatori di medicina nell’ambito dei propri studi.
Nel 1898 il Museo viene spostato nel Palazzo degli Istituti Anatomici, nato nell’ambito della Città della Scienza, voluta dai professori universitari e dalla Città di Torino per dare uno spazio funzionale e di prestigio alle discipline scientifiche. Qui le collezioni trovano la loro collocazione definitiva, che permane fino ad oggi.
Varcando la soglia del Museo si ha la sensazione di entrare in una “cattedrale della scienza” con un impianto architettonico che si sviluppa in una serie di colonne di granito che sostengono le volte a crociera e suddividono lo spazio in tre navate. Sulle pareti, in apposite lunette, sono collocati i ritratti di personaggi illustri del mondo accademico e naturalistico, come Andrea Vesalio, Marcello Malpighi, Giulio Bizzozero e lo stesso Luigi Rolando, l’unico posizionato nella sala dedicata allo studio del cervello.
Le collezioni esposte
Il Museo di Anatomia Umana espone preparati anatomici artificiali (prevalentemente modelli in cera), naturali (conservati a secco o in liquido) e collezioni frenologiche e primatologiche.
Lo scorticato, realizzato da Ercole Lelli, rappresenta un esempio di ceroplastica settecentesca. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
Le cere del Museo, recentemente restaurate, rappresentano una delle più ricche collezioni esistenti. La raccolta comprende oltre 200 opere di ceroplastica, alcune delle quali risalenti alla seconda metà del Settecento. Altri preparati artificiali sono la “donna solo nel ventre aperta”, in gesso, che rappresenta uno dei pezzi più antichi esposti all’interno del Museo, già menzionata nel primo catalogo, datato 1739. Degno di nota è anche L’uomo di Auzoux, un modello anatomico di scorticato, realizzato in cartapesta dal medico e anatomista francese Louis-Jérome Auzoux, scomponibile in 129 pezzi ed appartenente alla prima serie entrata in commercio (1830).
L’uomo di Auzoux, uno dei pezzi più pregiati esposti in museo, è un esempio di preparati anatomici artificiali. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
I preparati anatomici a secco e in liquido risalgono prevalentemente alla seconda metà dell’Ottocento, quando nuove tecniche di preparazione favoriscono l’allestimento di preparati di anatomia “naturale”. In molte vetrine si osservano preparati che sembrano ripetitivi, mentre osservando più attentamente si notano piccole differenze anatomiche, oggetto di interesse per lo studio della variabilità individuale.
La prima vetrina della sala principale mostra una serie di scheletri di feti umani a diverso stadio di ossificazione, dal terzo mese di gravidanza alla nascita; poco più avanti due vetrine conservano lo scheletro di una persona affetta da gigantismo acromegalico contrapposto a uno di nano armonico.
Nella seconda sala si apprezza una numerosa collezione di cervelli, preparati secco secondo il metodo di conservazione messo a punto da Carlo Giacomini. In questa sala, dedicata allo studio del cervello, è esposta anche una parte della collezione craniologica, composta da più di 1000 crani, preparati prevalentemente durante la seconda metà dell’Ottocento. Si tratta di una delle collezioni più importanti per il numero di individui di età e sesso noti.
Infine, la collezione frenologica, donata al Museo dall’Accademia di Medicina nel 1913, è composta da diverse teste in gesso, tra cui anche quella di Gall, fondatore della disciplina, oltre a calchi in gesso di crani e teste di personaggi divenuti famosi nel bene e nel male (come Cavour, Napoleone, Raffaello Sanzio…). La frenologia era una disciplina in voga nella prima metà dell’Ottocento, soprattutto in ambito artistico, che riteneva di poter individuare all’interno di precise aree del cervello la localizzazione di attitudini varie, qualità morali e facoltà individuali. Esaminando esternamente il cranio di un individuo si credeva di poter individuare le “bozze” della benevolenza, dell’affettività, della combattività, ecc.
Le collezioni “nascoste”
Tra le collezioni conservate nel deposito del Museo vi è quella di strumenti medico-chirurgici militari oltre a quella di calchi di reperti paleoantropologici.
La pinza “cavapalle” appartiene alla collezione di strumenti medico chirurgici Ottocenteschi e serviva ad estrarre i proiettili o altri corpi estranei dai soldati feriti sul campo. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
Gli strumenti medico-chirurgici, oltre 200, sono stati attribuiti, per caratteristiche e tipologie costruttive e grazie alla presenza in molti casi dei marchi dei costruttori, a un periodo che va dalla fine del Settecento agli ultimi decenni dell’Ottocento. Sono state utilizzate dai due anatomisti Lorenzo Restellini e Carlo Giacomini durante le campagne militari ottocentesche. Successivamente sono stati disposti, nel corso del Novecento, nella sala settoria dell’Istituto Anatomico, dove venivano utilizzati nelle normali attività di dissezione da professori e studenti. Le operazioni di riordino del patrimonio in strumentaria di interesse storico-scientifico effettuate in anni recenti hanno permesso la loro identificazione e valorizzazione.
Questo è il calco dell’incisione di un uro presente nella Grotta del Romito ed appartiene alla collezione paleontologica del Museo di Anatomia Umana. Credits: Museo di Anatomia Umana, Università degli Studi di Torino
La collezione di calchi paleontologici, invece, è stata realizzata a partire dal 1980, anno di attivazione del Laboratorio di Paleontologia Umana da parte del prof. Giacomo Giacobini presso l’allora Istituto di Anatomia Umana dell’Università di Torino. Il Laboratorio ha sviluppato attività di ricerca riunendo, grazie anche a collaborazioni internazionali, una ricca collezione di elevata qualità di calchi di reperti paleoantropologici: reperti osteologici (principalmente crani), manufatti paleolitici (litici, in osso, avorio …), opere d’arte parietale e mobiliare, e un’importante collezione di sepolture paleolitiche. La collezione di calchi di sepolture è fra le più ricche al mondo ed ha un elevato valore scientifico, in quanto rappresenta una fotografia dello scavo paleoantropologico al momento del rinvenimento, poi successivamente smantellato.
Il Museo di Anatomia Umana Luigi Rolando dell’Università di Torino fa parte del Sistema Museale di Ateneo (SMA).
PERCHÉ MOLTI TUMORI SONO RESISTENTI ALLE TERAPIE A BERSAGLIO MOLECOLARE? LE RISPOSTE POSSONO ARRIVARE ANCHE DAI MODELLI MATEMATICI
In uno studio tutto italiano condotto da IFOM, Università di Torino, Università Statale di Milano e Candiolo Cancer Institute FPO IRCCS, un gruppo di ricercatori ha investigato la resistenza alle terapie a bersaglio molecolare con un approccio inedito che combina modelli matematici ed esperimenti di laboratorio. Sono così riusciti a caratterizzare le sottopopolazioni cellulari dei tumori con eccezionali livello di dettaglio e approfondimento. I risultati sono stato pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature Genetics. Lo studio è stato sostenuto da Fondazione AIRC e da un grant ERC dell’Unione europea.
Molti tumori sono resistenti alle terapie a bersaglio molecolare: risposte possono arrivare dai modelli matematici. Foto di Darko Stojanovic
Una delle strategie terapeutiche più promettenti per i pazienti oncologici è costituita dalle terapie a bersaglio molecolare. Veicolando il farmaco in modo specifico alle cellule tumorali che portano in superficie un determinato bersaglio, tali terapie garantiscono una maggiore precisione e una minore tossicità rispetto alle chemioterapie tradizionali. L’efficacia di queste terapie è però purtroppo limitata dallo sviluppo di tolleranze e resistenze da parte dei tumori, che possono così dare metastasi.
Lo sviluppo di metastasi e di resistenza alle terapie sono la principale causa di ricadute nei pazienti oncologici. In alcuni casi la recidiva è rapida, ed è dovuta ad alterazioni genetiche già esistenti nella massa tumorale prima della somministrazione del trattamento. In altri casi invece il tumore riappare dopo molto tempo, anche anni dopo la diagnosi, e non sappiamo come e perché. La capacità di prolungare l’efficacia di un trattamento è a oggi limitata dalla scarsa conoscenza dei molteplici meccanismi che portano allo sviluppo della resistenza.
Capire esattamente in che modo i tumori riescono ad opporre resistenza alle terapie è pertanto un quesito cruciale a cui rispondere per riuscire a sconfiggerli, rendendo le terapie a bersaglio molecolare più efficaci e offrendo ai pazienti qualità e aspettative di vita superiori. Un significativo passo avanti in questa direzione è stato segnato dai risultati di uno studio, appena pubblicati sull’autorevole rivista scientifica Nature Genetics. Lo studio è stato condotto in collaborazione a IFOM, all’Università di Torino, all’Università degli studi di Milano e al Candiolo Cancer Institute FPO IRCCS da ricercatori guidati dai Professori Marco Cosentino Lagomarsino e Alberto Bardelli grazie al sostegno di Fondazione AIRC e di un grant ERC dell’Unione europea.
Il gruppo interdisciplinare costituito da fisici e biologi ha investigato la resistenza alle terapie a bersaglio molecolare da un punto di vista quantitativo e con un approccio inedito che combina la matematica alla biologia. Più precisamente, grazie agli strumenti matematici le cellule tumorali sono state caratterizzate nelle loro diverse sottopopolazioni, raggiungendo eccezionali livelli di dettaglio e approfondimento.
“Abbiamo adottato – illustra Marco Cosentino Lagomarsino, di IFOM e Università degli Studi di Milano – un metodo molto simile a quello originariamente utilizzato, nel 1943, da Salvador Luria e Max Delbrück per studiare lo sviluppo di resistenza nei batteri. Quell’esperimento pionieristico diede un impulso fondamentale alla moderna genetica sperimentale e si dimostrò cruciale allo sviluppo della biologia molecolare, al punto che i due scienziati ricevettero il premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1969. Lo stesso approccio era però stato utilizzato finora in modo assai limitato nelle cellule umane, verosimilmente per la complessità e la durata degli esperimenti richiesti. Occorre infatti campionare e caratterizzare tantissime cellule, nel nostro caso ottenute da pazienti affetti da tumore al colon retto, sia durante il trattamento farmacologico che in condizioni normali di crescita.”
“I risultati ottenuti con gli esperimenti di laboratorio si sono arricchiti delle analisi matematiche e viceversa – spiega Alberto Bardelli, di IFOM e Università di Torino –, e la collaborazione è stata essenziale per la buona riuscita di questo progetto. Da un lato le considerazioni teoriche preliminari basate sui modelli matematici ci hanno permesso di progettare gli esperimenti in maniera ottimale per i nostri scopi. Dall’altro, i risultati degli esperimenti di genetica e biologia molecolare ci hanno permesso di applicare modelli matematici per pensare a protocolli di trattamento innovativi, che possano in prospettiva portare a una riduzione della resistenza alle terapie”.
Cosa hanno evidenziato i ricercatori in laboratorio? “Abbiamo osservato – racconta Mariangela Russo, prima autrice dell’articolo, dell’Università di Torino e Candiolo Cancer Institute – che le terapie a bersaglio molecolare inducono nelle cellule tumorali la transizione a uno stato di letargo, rendendole in grado di tollerare temporaneamente il trattamento. Queste cellule, chiamate appunto “persistenti”, essendo tolleranti alla terapia, hanno potenzialmente tempo di acquisire mutazioni genetiche che le rendono in grado di replicarsi in presenza del farmaco, causando così una recidiva di malattia. I nostri studi ci hanno permesso di capire che la terapia induce un aumento significativo della capacità di mutare delle cellule persistenti: non solo le cellule tumorali persistenti hanno del tempo per sviluppare mutazioni a loro favorevoli, ma la terapia rende questo processo più veloce.”
Quali risposte hanno fornito i modelli matematici? “Avvalendoci degli strumenti forniti dalla fisica teorica, siamo stati in grado di tradurre gli esperimenti eseguiti in laboratorio in un linguaggio matematico” – riferisce Simone Pompei di IFOM, che è co-primo autore dell’articolo e ha sviluppato i modelli matematici utilizzati –. “Questi strumenti hanno permesso di interpretare e predire con maggiore precisione il comportamento delle cellule tumorali durante i trattamenti. Abbiamo così potuto quantificare la capacità delle cellule tumorali di diventare persistenti e di riuscire in seguito a sviluppare mutazioni genetiche che comportano resistenza alle terapie. In questo modo abbiamo calcolato che le cellule persistenti mutano fino a 50 volte più velocemente delle cellule tumorali. Questo significa che le cellule persistenti, anche se presenti in piccolo numero, comportano un’alta probabilità di recidiva.”
“Oltre a portare una maggiore comprensione dei meccanismi molecolari alla base della resistenza alle terapie – concludono Cosentino-Lagomarsino e Bardelli – i risultati ottenuti nello studio aprono a nuove possibilità per prevenire l’insorgere della resistenza e impedire lo sviluppo di metastasi. In prospettiva, dal punto di vista molecolare, si potrebbe agire sui meccanismi che portano le cellule tumorali ad aumentare il proprio tasso di mutazione, possibilmente impedendo tale incremento. I dati preliminari di esperimenti in corso sembrano promettenti. Anche dal punto di vista dei modelli matematici, il potenziale aperto dai risultati dello studio sono estremamente promettenti e nel tempo potrebbero portare a trattamenti mirati e calibrati su ciascun tumore e paziente. Guidati da modelli matematici, i medici potrebbero modulare le dosi e i tempi di somministrazione dei farmaci antitumorali in modo da minimizzare la probabilità di recidiva di malattia.” Il prossimo passo che vedrà impegnati i ricercatori sarà di trasferire il protocollo – per ora applicato solo a linee cellulari – a esperimenti preclinici più significativi, come colture cellulari in tre dimensioni derivate da campioni tissutali ottenuti da pazienti.
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino sull’approccio che combina modelli matematici ed esperimenti di laboratorio per i tumori resistenti alle terapie a bersaglio molecolare
TUTELA DELLA BIODIVERSITÀ: QUANDO PIANTE E HABITAT FANNO LA DIFFERENZA
La conservazione della biodiversità può essere più efficace se orientata verso la tutela dell’intero habitat piuttosto che delle singole specie. Questo perché sono meno condizionati da preferenze soggettive legate a diversi fattori, tra i quali i bias di preferenza soggettiva
Quali sono i fattori che determinano le modalità di finanziamento nella tutela delle specie vegetali protette e dei loro habitat? Con lo studio “Dimension and impact of biases in funding for species and habitat conservation”, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) sede di Verbania-Pallanza, l’Università di Helsinki, l’Università di Minho e il Dipartimento per la Ricerca e il Monitoraggio del Parco Nazionale Svizzero, hanno cercato di rispondere a questa domanda sfruttando i dati disponibili per i progetti LIFE, il principale programma di finanziamento per la conservazione della natura messo in atto dall’Unione Europea.
Tra il 1992, anno di fondazione del progetto LIFE, e il 2020, le specie animali hanno ricevuto un finanziamento in euro triplo (oltre 2 miliardi di euro) rispetto alle piante (690 milioni). Ma anche tra le piante sono evidenti diverse delle disparità. Alcune specie, come le orchidee, ricevono moltissimi fondi (circa un milione di euro a specie) e attenzioni, mentre le specie con una distribuzione più “nordica” o con areali più grandi, sono più finanziate. Anche il fattore estetico, ad esempio il colore dei fiori è importante: le specie con fiori blu/viola sono più finanziate; al contempo, il rischio di estinzione non è correlato allo sforzo finanziario.
È stato osservato invece come la conservazione degli habitat, nonostante non sia ben allineata con lo stato di conservazione degli ambienti, sia meno influenzata da bias di tipo estetico, confermando che orientare i programmi di conservazione della biodiversità verso gli habitat, piuttosto che verso le singole specie, consentirebbe di aumentare l’efficacia di questi programmi, soprattutto quando si interviene in aree geografiche estremamente frammentate ed antropizzate.
“La biodiversità – dichiara Martino Adamo, ricercatore del DBIOS Unito – è tra le più grandi ed imprescindibili risorse sul pianeta Terra. La consapevolezza dell’importanza di questo patrimonio globale si sta lentamente facendo strada nelle coscienze collettive. Per arrivare a questo risultato nel campo animale, le parti interessate hanno ampiamente utilizzato strategie molto vicine al marketing, cercando di fare leva sulla naturale propensione dell’uomo ad immedesimarsi nel soggetto da tutelare e ad antropomorfizzare la natura. Un fenomeno chiamato, ironicamente, «effetto cucciolo di foca»”.
Per le piante, invece, è ben noto il fenomeno opposto, quando si parla di cecità nei loro confronti (“plant blindness”). La maggior parte degli osservatori, infatti, percepisce la vegetazione che li circonda come un semplice elemento paesaggistico e non come un complesso mondo di interrelazioni tra individui, specie e comunità. Recentemente è stato evidenziato che nell’Unione Europea oltre il 75% dei fondi destinati ad interventi di tutela della natura sono andati a finanziare la tutela di mammiferi e uccelli.
Testo e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
L’AMORE AI TEMPI DEL COVID-19: GLI EFFETTI NEGATIVI DELLA PANDEMIA SULLE RELAZIONI DI COPPIA DEGLI ITALIANI
Una ricerca condotta dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino e pubblicata sulla rivista scientifica internazionale Journal of Affective Disorders ha indagato l’impatto della pandemia da COVID-19 sulle relazioni di coppia e benessere psicologico degli italiani.
Uno studio condotto dalle ricercatrici A. Romeo, A. Benfante e M. Di Tella del gruppo “ReMind the Body” del Dipartimento di Psicologia, coordinato dal Prof. Lorys Castelli dell’Università di Torino, ha indagato i livelli di ansia, depressione e i sintomi da stress post-traumatico (PTSS), insieme all’impatto delle misure restrittive pandemiche sulle relazioni romantiche, e l’adattamento di coppia, inteso come qualità e soddisfazione della relazione.
La ricerca, condotta tra il 4 Dicembre 2020 e 10 Gennaio 2021 e pubblicata sulla rivista scientifica internazionale Journal of Affective Disorders, ha coinvolto 410 partecipanti aventi una relazione romantica stabile. Secondo i risultati, i partecipanti che hanno dichiarato un impatto negativo della situazione pandemica sulla relazione di coppia riportavano peggiori esiti psicologici e difficoltà nella relazione stessa.
L’amore ai tempi del COVID-19: gli effetti negativi della pandemia sulle relazioni di coppia degli italiani
Alla domanda “Ritiene che le misure contenitive introdotte per arginare l’emergenza COVID-19 e la nuova quotidianità che ne è derivata abbiano avuto un impatto sulla sua relazione sentimentale?”, il 32% dei partecipanti ha riferito un impatto negativo sulla relazione di coppia, mentre solo il 18.5% ha dichiarato un impatto positivo, la restante parte dei partecipanti nessuno impatto. I partecipanti che dichiaravano un impatto negativo erano tendenzialmente più giovani, con problemi lavorativi, senza figli e con una minore durata della relazione rispetto agli altri partecipanti. Da un punto di vista psicologico, questo gruppo presenta maggiore ansia, depressione e PTSS.
Quindi, secondo i risultati di questa ricerca, le persone che hanno risentito maggiormente delle conseguenze della pandemia da COVID-19 hanno mostrato una peggiore salute mentale e una scarsa qualità della relazione.
Ad ogni modo, un evento stressante come quello della pandemia non dovrebbe essere considerato come unico fattore che influenza la qualità di una relazione e il benessere psicologico. I risultati dello studio si inseriscono all’interno di un filone di ricerca che garantisce una visione più complessa e multifattoriale del benessere di coppia e che prende in considerazione fattori individuali e ambientali preesistenti. Ad esempio, persone con un buon adattamento di coppia ed alti livelli di benessere psicologico saranno maggiormente in grado di fronteggiare eventi stressanti, come la pandemia da COVID-19. Allo stesso tempo giovani coppie che percepiscono la loro relazione come instabile potrebbero essere meno portati a fronteggiare alcune problematiche in modo adattivo.
In conclusione, lo studio mette in luce quanto la salute mentale del singolo individuo sia influenzata dalla qualità della relazione di coppia e al contempo influenzi, a sua volta, la relazione romantica stessa. L’intreccio tra questi aspetti assume una valenza particolare a fronte di eventi traumatici di straordinaria portata come quella del COVID-19.
Anche questa volta la ricerca si mette al servizio della clinica ponendo l’accento sull’importanza di una visione multifattoriale della salute mentale dell’individuo e della coppia, che stimoli la realizzazione di protocolli di intervento sempre più mirati ed efficaci.
Testo e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
UN ANTIVIRALE MADE IN UNITO CONTRO COVID-19 E PER RISPONDERE A FUTURE PANDEMIE: PREMIATO IL PROGETTO ITALO-SVEDESE GUIDATO DA UNITO
Vincitore del bando Nato-Science for Peace and Security, prevede – grazie al lavoro di un network internazionale – lo sviluppo di MEDS433: un candidato farmaco efficace contro SARS-Cov2 e un’ampia gamma di virus umani
Il progetto di ricerca italo-svedese VIPER,guidato dall’Università di Torinoeche si propone di studiare nuovi antivirali efficaci contro SARS-CoV-2,ha vinto il prestigioso bando NATO – Science for Peace and Security (SPS) Programme. L’obiettivo di VIPER (Learning a lesson: fighting SARS-CoV-2 Infection and get ready for other future PandEmic scenaRios) è rispondere a malattie virali emergenti, attuali e future, attraverso lo sviluppo di antivirali ad ampio spettro.
Il network internazionale coinvolto in VIPER è composto dai partner svedesi del Karolinska Institutet di Stoccolma (Prof. Ali Mirazimi) e dell’Università di Uppsala (Prof.ssa Katarina Edwards) e dai partner italiani dell’Università di Torino (Proff. Marco L. Lolli e Giorgio Gribaudo), Università di Messina (Prof.ssa Anna Piperno) e Università di Padova (Prof.ssa Cristina Parolin). Università ed Enti di ricerca dei due Paesi saranno impegnati nello sviluppo preclinico della molecola MEDS433, un inibitore dell’enzima diidroorotato deidrogenasi (DHODH) di ultima generazione, dalle potenti attività antivirali ad ampio spettro, capace di inibire la replicazione oltre che di SARS-CoV-2 anche di un’ampia gamma di virus umani.
I gruppi di ricerca Italo-Svedesi, che possiedono competenze scientifiche sinergiche, agiranno come un unico esteso gruppo di ricerca europeo. Con il Kick-Off meeting, che si terrà giovedì 30 Giugno, VIPER inizierà ufficialmente il suo percorso attraverso la presentazione dettagliata dei suoi obiettivi progettuali. In tale occasione verrà messa a punto un’agenda di lavoro che vedrà le ricercatrici e i ricercatori coinvolti incontrarsi periodicamente durante i 27 mesi del progetto. Le attività di VIPER prevedono lo sviluppo su larga scala di MEDS433 (Torino) a supporto della sperimentazione in vitro e in vivo, la sua formulazione in innovativi agenti veicolanti (Messina e Uppsala), lo studio in vitro delle proprietà antivirali e del meccanismo molecolare dell’attività antivirale delle molecole formulate (Torino e Padova) e lo studio dell’efficacia delle formulazioni in vivo in un modello murino di SARS-CoV-2 (Stoccolma).
Il programma NATO SPS, attivo da oltre sei decenni, è uno dei più grandi e importanti programmi di partenariato dell’Alleanza che affronta le sfide della sicurezza del XXI secolo. Attivo in scenari quali cyber defence, sicurezza energetica e tecnologie avanzate, in questo caso SPS viene diretto alla difesa antiterroristica da agenti biologici, affrontando di riflesso una tematica di enorme attualità, data dalla pandemia di COVID-19.
Il programma SPS, oltre che sovvenzionare progetti pluriennali di alto impatto tecnologico, promuove la cooperazione scientifica pratica tra ricercatori, lo scambio di competenze e know-how tra le comunità scientifiche della NATO e dei Paesi partner.
“Gli effetti devastanti della malattia COronaVIrus (COVID-19) – sottolinea il Prof. Marco L. Lolli, docente del Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco dell’Università di Torino e coordinatore del progetto – hanno insegnato al mondo come, in assenza di farmaci antivirali ad ampio spettro, sia difficile controllare la diffusione iniziale di una pandemia emergente e di riflesso salvare vite umane nell’attesa dello sviluppo di vaccini e farmaci specifici per il virus emergente”.
MEDS433 è un antivirale interamente “made in UniTo”. Infatti è stato inventato e caratterizzato chimicamente dal gruppo di ricerca MedSynth del Prof. Lolli al Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco e la sua attività antivirale ad ampio spettro, nei confronti di un’estesa varietà di virus umani, sia a DNA che a RNA, compresi i più importanti virus respiratori, è stata definita nel Laboratorio di Microbiologia e Virologia del Dipartimento di Scienza della Vita e Biologia dei Sistemi, diretto dal Prof. Giorgio Gribaudo, sempre all’Università di Torino.
“Data la sua potente attività antivirale a concentrazioni nanomolari e la bassa tossicità, MEDS433 – conclude il Prof. Lolli – può essere considerato un nuovo e promettente antivirale, non solo perché arricchisce il nostro armamentario farmacologico contro SARS-CoV-2, ma anche per affrontare futuri eventi pandemici. Siamo molto orgogliosi che questo consorzio si sia formalizzato perché avremo gli strumenti necessari per portare MEDS433 alla sperimentazione umana, cosi da fornire una soluzione strategica per affrontare le fasi iniziali della diffusione di un nuovo virus emergente”.
Un antivirale contro COVID-19 e per rispondere a future pandemie. Illustrazione, elaborata dai Centers for Disease Control and Prevention, della tipica morfologia di un coronavirus umano
Testo e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino sul progetto di ricerca italo-svedese per l’antivirale contro COVID-19 e per rispondere a future pandemie.
LINFOMA B DEL CANE, STUDIO DI UNITO SCOPRE NUOVE MUTAZIONI GENETICHE E IDENTIFICA NUOVI TARGET TERAPEUTICI APRENDO A NUOVE POSSIBILITÀ DI CURA ANCHE PER L’UOMO
Il linfoma a grandi cellule B è uno dei tumori più frequenti nel cane ed è considerato un buon modello per lo studio della stessa patologia nell’uomo. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, Lab Animal
Ricercatori e ricercatrici di un team europeo coordinato dal Prof. Luca Aresu del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, hanno identificato per la prima volta le mutazioni genetiche presenti nel Linfoma a grandi cellule B (DLBCL) del cane. Tale risultato rappresenta la prima descrizione del profilo genetico di questo tumore del cane.
Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista di Nature, Lab Animal (https://www.nature.com/articles/s41684-022-00998-x), in collaborazione con l’Università di Bologna (Prof.ssa Laura Marconato) e l’Institute of Oncology Research di Bellinzona (Prof. Francesco Bertoni) rappresenta un enorme passo avanti nella comprensione dei meccanismi patogenetici del DLBCL e identifica nuovi marker prognostici e terapeutici per il monitoraggio della malattia.
Il DLBCL infatti è uno dei tumori più frequenti nel cane, ma soprattutto da anni viene considerato anche come un buon modello per studiare la stessa patologia nell’uomo. Proprio in questo senso i risultati ottenuti dal team di ricerca potrebbero portare a vantaggi che riguardano sia il cane sia l’uomo.
Purtroppo, nonostante i grossi passi avanti nelle terapie del cane, tra cui la possibilità di usare un vaccino autologo in associazione al protocollo chemioterapico standard, il DLBCL rimane ancora troppo spesso non curabile. La malattia umana e quella canina sono molto simili e infatti diverse molecole, approvate da agenzie regolatorie per il trattamento dei linfomi umani, sono state provate prima in cani affetti da linfomi, dando ottimi risultati ma, fino ad oggi, mancava una analisi più approfondita dei meccanismi patogenetici alla base dello sviluppo del DLBCL del cane e un confronto con la controparte umana.
Da anni il Prof. Aresu dirige il “Canine Comparative Oncology Lab” al Dipartimento di Scienze Veterinarie conducendo studi nel campo della genetica, trascrittomica ed epigenetica dei tumori più frequenti e aggressivi nel cane. La ricerca si focalizza, in particolare, su caratteristiche istologiche, fenotipiche, molecolari e genetiche che sono alla base della predisposizione tumorale e patogenesi delle principali neoplasie del cane. Inoltre, i bersagli molecolari delle neoplasie più frequenti ed aggressive sono studiati per ricercare terapie target.
Nel suo studio il gruppo di ricerca ha applicato tecniche di Next Generation Sequencing per studiare la parte codificante del DNA dei cani con tumore. Tale approccio è alquanto nuovo in medicina veterinaria ed ha permesso di evidenziare come esistano delle similitudini con il DLBCL umano, tra cui alcuni pathway di attivazione di NFκ-B e B-cell receptor e del rimodellamento della cromatina. Ma sono state messe in evidenza anche delle differenze, tra cui le mutazioni più frequenti che caratterizzano questo tumore. Infatti, i geni più frequentemente mutati nel cane (TRAF3, SETD2, POT1, TP53, FBXW7) sono alterati meno frequentemente nel DLBCL umano, come evidenziato in diversi studi degli ultimi anni in medicina umana.
Attraverso la stretta collaborazione di ricercatori di fama internazionale nel campo della patologia comparata, del sequenziamento, dell’oncologia veterinaria e della medicina umana è stato possibile associare alcune mutazioni a caratteristiche biologiche e andamenti clinici diversi. Nello specifico le mutazioni del gene TP53 sono state associate ad una prognosi peggiore indipendentemente dal trattamento. Il gene TP53 viene definito “il guardiano del genoma” proprio per la sua funzione di identificare danni al DNA e successivamente impedire che i difetti vengano trasmessi nel processo di replicazione. Nel DLBCL del cane, le mutazioni del TP53 hanno un effetto deleterio tale da impedire la sua funzione protettiva e potenzialmente portare allo sviluppo di un tumore. Nello studio, tutti i cani erano stati trattati e seguiti dalla Prof.ssa Marconato.
Proprio la disponibilità dei dati clinici e di follow-up ha permesso lo sviluppo di un modello predittivo da parte del Prof. Piero Fariselli del Dipartimento di Scienze Mediche di UniTo che è oggi disponibile online (https://compbiomed.hpc4ai.unito.it/canine-dlbcl/). Tale modello permetterà in futuro a veterinari e proprietari di cani con DLBCL di indirizzare la scelta terapeutica e potenzialmente avere una predizione sulla prognosi. A partire dall’autunno, infatti, lo screening genetico del TP53 sarà disponibile a livello diagnostico e rappresenterà il primo test genetico disponibili in oncologia veterinaria in grado di predire prognosi e guidare la terapia.
Il gruppo del Prof. Bertoni a Bellinzona è attivo nello sviluppo di nuovi farmaci e combinazioni per pazienti affetti da linfomi. Già da anni, gli screenings, in collaborazione con il Prof. Aresu, comprendono un modello di DLBCL canino. I risultati dello studio appena pubblicato permetteranno di scegliere nel modo migliore quali nuovi approcci terapeutici siano più appropriati per studi sui cani.
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
TUMORE AL PANCREAS, SCIENZIATI DI UNITO IDENTIFICANO UN NUOVO MARCATORE PER INDIRIZZARE MEGLIO LE TERAPIE
Lo studio pre-clinico pubblicato dalla prestigiosa rivista internazionale Gut dimostra come PI3K-C2γ giochi un ruolo chiave nello sviluppo di uno dei tumori attualmente più aggressivi
Un nuovo studio preclinico, svolto al Centro di Biotecnologie Molecolari “Guido Tarone” dell’Università di Torino, ha reso possibile la scoperta di una nuova terapia focalizzata per un sottogruppo di pazienti affetti da neoplasia maligna del pancreas. Il gruppo di ricerca guidato dalla Prof.ssa Miriam Martini e dal Prof. Emilio Hirsch ha dimostrato che la proteina PI3K-C2γ gioca un ruolo chiave nello sviluppo del tumore al pancreas. L’indagine scientifica ha permesso di far luce sui meccanismi di sviluppo di questo tumore e potrebbe consentire, in futuro, di massimizzare l’efficacia delle attuali opzioni terapeutiche di uno dei tumori attualmente più aggressivi.
Emilio Hirsch
In Italia, ogni anno vengono diagnosticati circa 13.000 nuovi casi di tumore al pancreas e la percentuale di sopravvivenza a 5 anni è meno del 10%. Si prevede che, entro il 2030, il tumore al pancreas diventi la seconda causa di morte oncologica. La gravità e la mancanza di trattamenti efficaci rendono necessari studi per la ricerca di nuove terapie e marcatori che possano aiutare a scegliere il farmaco più efficace. Per poter crescere, le cellule tumorali hanno bisogno di nutrienti e fonti d’energia.
Tumore al pancreas, un nuovo marcatore per indirizzare meglio le terapie. Anatomia del pancreas. Immagine BruceBlaus, Blausen.com staff. “Blausen gallery 2014”. Wikiversity Journal of Medicine. DOI:10.15347/wjm/2014.010. ISSN 20018762. – CC BY-SA 3.0
L’aggressività del tumore al pancreas è dovuta alla capacità di adattarsi in condizioni avverse, come ad esempio la scarsità di nutrienti e fonti energetiche, che vengono sfruttate dalle cellule per sopravvivere. Recentemente, sono stati sviluppati dei farmaci che impediscono l’utilizzo di tali nutrienti, come ad esempio la glutammina.
PI3K-C2γ controlla la via di segnalazione intracellulare di mTOR, che regola il metabolismo e la crescita della cellula, e influisce sull’utilizzo della glutammina per favorire la progressione tumorale. Nel tumore al pancreas, la proteina PI3K-C2γ non è presente in circa il 30% dei pazienti, i quali sviluppano una forma maggiormente aggressiva della malattia
La Dott.ssa Maria Chiara De Santis, primo autore dello studio pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Gut, ha dimostrato che la perdita di PI3K-C2γ accelera lo sviluppo del tumore, ma allo stesso tempo rende più sensibili a farmaci che colpiscono mTOR e all’utilizzo della glutammina.
Lo studio guidato dagli scienziati di UniTo è stato frutto di un intenso lavoro di collaborazione con gruppi nel territorio italiano ed internazionale, tra cui quelli del Prof. Francesco Novelli, Prof.ssa Paola Cappello e Prof. Paolo Ettore Porporato (Università di Torino), Prof. Andrea Morandi (Università di Firenze), Prof. Vincenzo Corbo e Prof. Aldo Scarpa (Università di Verona), Prof. Gianluca Sala e Prof. Rossano Lattanzio (Università di Chieti) e Prof.ssa Elisa Giovannetti (Università di Amsterdam e Fondazione Pisana per la Scienza).
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
UNO STUDIO DIMOSTRA IL LEGAME TRA SALUTE MENTALE DELLE DONNE E CONDIZIONI DI LAVORO
Un nuovo studio svolto dall’Università di Trieste, Università di Torino e Università Milano Bicocca in collaborazione con il King’s College di Londra ha dimostrato per la prima volta come la qualità del lavoro e le condizioni lavorative incidano sulla salute mentale delle donne che lavorano nel Regno Unito.
20 giugno 2022 – Una ricerca svolta nel Regno Unito da un team di ricercatori italiani e inglesi ha dimostrato il nesso di causalità tra laqualità del lavoro e la salute mentale dei lavoratori, soprattutto nelle donne. Lo studio, pubblicato sulla rivista Labour Economics, è stato condotto dai docenti di Economia Politica Michele Belloni dell’Università di Torino,Elena Meschi dell’Università Milano Bicocca e da Ludovico Carrino, ricercatore del King’s College di Londra e dell’Università di Trieste.
Le analisi attuate hanno impiegato dati provenienti da oltre 26.000 lavoratori britannici (donne e uomini) che hanno svolto lo stesso lavoro tra il 2010 e il 2015. Pur mantenendo lo stesso lavoro, le condizioni all’interno delle quali queste persone hanno operato sono cambiate nel corso del tempo sia a causa del progresso tecnologico che delle fasi di crescita e di decrescita economica, che hanno inciso sull’operato delle aziende in cui lavoravano. Lo studio ha analizzato come la salute mentale dei lavoratori, in generale, abbia reagito nel tempo al cambiamento delle condizioni di lavoro.
Attraverso lo studio, i ricercatori hanno scoperto che le caratteristiche principali di un lavoro che hanno un effetto sulla salute mentale dei suoi dipendenti sono due: la flessibilità di organizzazione degli orari di lavoro e il grado di autonomia che le persone hanno nell’applicare e sviluppare le loro competenze sul posto di lavoro. La ricerca ha rilevato che queste caratteristiche del lavoro hanno conseguenze diverse in base al sesso del lavoratore: in particolare, la salute mentale delle donne appare più sensibile, rispetto a quella degli uomini, a variazioni nella qualità del lavoro. Infine, lo studio sottolinea la grande rilevanza economica e sociale dei risultati per il contesto della figura lavorativa femminile, anche considerato che, in Inghilterra come in Italia, le donne tendono a ricoprire più frequentemente una molteplicità di ruoli cruciali come la cura della casa e dei figli che creano conflitti tra famiglia e lavoro.
L’analisi svolta prova che i miglioramenti nella qualità del lavoro portano a grandi riduzioni della depressione e dell’ansia per le donne. Questa evidenza suggerisce che politiche pubbliche e private che migliorino la salute sul lavoro potrebbero portare a una maggiore efficienza nell’ambito dei servizi sanitari e per il benessere di tutta la società, dato che i costi legati alla salute mentale sono notoriamente molto rilevanti. I dati disponibili per l’Italia, da uno studio realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità, basato sul sistema di sorveglianza PASSI [2017-2022] stimano che almeno il 6% degli italiani sotto i 70 anni abbia sintomi depressivi, e che la depressione colpisca le donne da due a tre volte più degli uomini. Nel Regno Unito, la Mental Health Foundation ha recentemente stimato che i problemi di salute mentale costano all’economia britannica, soprattutto a causa della minor produttività del lavoratore, almeno 118 miliardi di sterline l’anno, il 5% del PIL di tutto il Regno Unito.
Ludovico Carrino, ricercatore del King’s College di Londra e dell’Università di Trieste, ha sottolineato: “È necessaria una flessibilità del lavoro che non sia uguale per tutti: le esigenze sono diverse a seconda dell’età e del tipo di lavoro. È importante che essa sia misurata in base alle priorità delle singole persone. Questo studio ha rilevato, ad esempio, che se alcune posizioni lavorative solitamente meno flessibili (ad esempio gli addetti alle vendite, ai servizi ricettivi, e all’assistenza sociale) potessero sperimentare la stessa autonomia degli impiegati addetti al lavoro di ufficio, si osserverebbe una riduzione nel rischio di depressione clinica del 26% come diretta conseguenza. Ci auguriamo dunque che la dimostrazione di questa relazione causale, una tra le prime negli studi empirici, possa avere un impatto reale per lavoratrici e datori di lavoro, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, anche alla luce del dibattito politico in corso sulla creazione di migliori posti di lavoro e sulla riduzione delle disuguaglianze nel lavoro femminile nell’era post-Covid”.
Secondo le ricerche effettuate, dichiara Michele Belloni, docente di Economia Politica all’Università di Torino, “la salute mentale delle lavoratrici più giovani (sotto i 35 anni) è risultata migliorata nelle situazioni in cui le stesse potevano sperimentare una maggiore libertà di azione in termini di responsabilità personale e programmi formativi. Per le donne oltre i 50, invece, è stata registrata una migliore salute mentale nel momento in cui esse potevano contribuire in modo creativo al proprio lavoro e lavorare in condizioni dell’ambiente fisico migliori, oltre che disporre di orari di lavoro più flessibili.”
In particolare, la qualità del lavoro ha ripercussioni su vari sintomi di benessere mentale come depressione, ansia, disfunzione sociale (capacità di prendere decisioni e concentrarsi) e fiducia in sé stessi (autostima). Un miglioramento nel grado di responsabilità personale delle lavoratrici, ad esempio, porta a una riduzione nel rischio di depressione clinica del 26% in media tra tutte le età, e un miglioramento negli indici di ansia del 20% per lavoratrici giovani o ultracinquantenni. Altri benefici sono una riduzione nelle disfunzioni sociali fino al 12%, e un miglioramento dell’autostima del 28% tra le giovani e del 45% tra le lavoratrici più anziane. Un miglioramento nell’autonomia sugli orari di lavoro porta a un miglioramento del 11% nei livelli di ansia e del 24% nell’autostima, tra le lavoratrici anziane. Riduzioni nell’esposizione a rischi fisici nel lavoro riduce il rischio depressione del 20% tra le donne giovani, e del 42% tra quelle anziane, mentre riduce l’ansia del 7% tra le giovani e del 11% tra le anziane; risulta inoltre avere un grande beneficio sull’autostima delle lavoratrici anziane (+25%), ma non tra quelle giovani.
Elena Meschi, docente di economia politica all’Università Milano-Bicocca, infine afferma che “dallo studio è inoltre emerso come gli interventi volti a migliorare le condizioni di lavoro possano essere più efficaci per alcune lavoratrici piuttosto che per altre, a seconda del tipo di lavoro che svolgono. In particolare, i risultati segnalano che i benefici maggiori di un miglioramento nella qualità del lavoro si riscontrano nelle donne impegnate in mansioni caratterizzate da alto stress lavorativo. Sono questi i lavori ove si riscontrano contemporaneamente sia elevate esigenze psicologiche, sia bassi livelli di controllo decisionale su come soddisfare queste esigenze”.
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino