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Università dell’Insubria

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ERC Proof of Concept per il progetto FLORA (Fusing LiDAR Observations with Remote-sensing Analysis)

Innovazione e benessere urbano: un progetto dell’Università degli Studi di Milano si aggiudica un finanziamento complessivo di 150mila euro

 Il riconoscimento dell’European Research Council è stato assegnato a due docenti della Statale di Milano: Valentina Bollati, al suo quarto ERC, ed Elia Biganzoli, con FLORA (Fusing LiDAR Observations with Remote-sensing Analysis), un progetto interdisciplinare per rispondere alle necessità di benessere e alla salute dei cittadini. Lo studio coinvolgerà le istituzioni e i cittadini di Legnano, in provincia di Milano, per creare un modello replicabile a livello globale.

 

Milano, 23 gennaio 2025 – Migliorare l’estetica urbana e la vivibilità delle città, per tutelare e promuovere la salute dei cittadini: è l’obiettivo che si pone il progetto FLORA (Fusing LiDAR Observations with Remote-sensing Analysis), vincitore di un ERC Proof of Concept (PoC) di 150 mila euro. FLORA è guidato da Valentina Bollati, docente dei Medicina del Lavoro e responsabile dell’EPIGET Lab, il Laboratorio di Epidemiologia, Epigenetica e Tossicologia del Dipartimento Scienze Cliniche e di Comunità ed Elia Biganzoli, docente di Statistica Medica e responsabile del gruppo di Epidemiologia e Statistica Bioinformatica del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche dello stesso Ateneo, cofondatori dell’iniziativa INES nella quale si colloca anche il progetto FLORA e componenti del Centro di Ricerca Coordinata DESIRE sulla Scienza delle Decisioni.

FLORA avrà come compito quello di analizzare con metodi di Intelligenza Artificiale il legame tra la salute e l’esposoma, ovvero l’insieme di tutte le esposizioni ambientali, comportamentali e occupazionali, non genetiche, cui un individuo è esposto nel corso della sua vita. Questo studio, che sarà svolto a Legnano (Mi), è un’importante applicazione del progetto MAMELI “MApping the Methylation of repetitive elements to track the Exposome effects on health: the city of Legnano as a LIving lab”, progetto guidato sempre da Valentina Bollati per il quale nel 2023 si è aggiudicata un ERC Consolidator Grant di circa 3 milioni di euro, che si è avvalso della collaborazione con diversi gruppi di ricerca di Ateneo, tra cui quello coordinato da Elia Biganzoli. Il riconoscimento PoC viene infatti conferito ai progetti che si propongono di esplorare il potenziale commerciale e sociale delle ricerche già finanziate da un ERC iniziale, risultando così ancora più significativo.

Con FLORA avremo la possibilità di integrare alcune informazioni dettagliate sul paesaggio urbano – come spazi verdi, qualità dell’aria, flussi di traffico – con le percezioni dei cittadini. Inoltre si potranno creare metriche per quantificare la percezione estetica, la vivibilità e la salute urbana, identificando le aree che necessitano di interventi mirati. E soprattutto, coinvolgendo urbanisti, amministratori, comunità locali e abitanti, si potrà dare avvio a una nuova progettazione delle città che risponda alle esigenze di benessere e salute”, spiega Valentina Bollati, già vincitrice anche di un ERC Starting Grant nel 2011 e di un ERC PoC nel 2018.

Un team multidisciplinare di eccellenza, composto anche da Fabio Mosca (Università degli Studi di Milano), Pilar Guerrieri (Politecnico di Milano), Andrea Cattaneo (Università dell’Insubria) e Giovanni Sanesi (Università degli Studi di Bari) collaborerà con le autorità locali e i cittadini di Legnano per raccogliere dati e implementare un cruscotto di indicatori multidimensionali (FLORA dashboard), capace di integrare diverse tecnologie, come lo strumento laser LiDAR (Light Detection and Ranging) per rilevare la distanza di un oggetto, i sistemi GIS (Geographic Information System) e i sondaggi sulla percezione umana, con l’obiettivo finale di creare un modello replicabile e trasferibile a livello globale. 

La forza di FLORA risiede proprio nella capacità di unire competenze interdisciplinari, con l’uso responsabile e trasparente dell’Intelligenza Artificiale e della Scienza delle Decisioni, superando i tradizionali approcci settoriali e adottando una visione integrata e sostenibile del benessere urbano”, conclude Elia Biganzoli.

Milano. Foto di Giannino Nalin
Milano. Foto di Giannino Nalin

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

ZONA ABITABILE: NUOVO STUDIO CHE RILEVA COME PER REALIZZARE LE CONDIZIONI ADATTE ALLA VITA NON BASTI LA SOLA ACQUA, MA SI NECESSITA UNA RADIAZIONE UV DELLA STELLA NÉ TROPPO INTENSA DA RISULTARE DANNOSA NÉ TROPPO DEBOLE DA NON AGIRE COME CATALIZZATORE PER LO SVILUPPO DELLA VITA

Rappresentazione artistica di uno dei pianeti nel sistema TRAPPIST-1. Crediti: ESO/N. Bartmann/spaceengine.org

Un team tutto italiano di ricercatori dell’Università dell’Insubria, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) ha di recente portato alla luce una tematica molto rilevante nell’ambito della ricerca di mondi abitabili tra gli esopianeti. Nello specifico i ricercatori si sono chiesti se gli esopianeti scoperti nella cosiddetta “zona abitabile” (vale a dire la zona intorno a una stella dove c’è possibilità che esista acqua liquida sulla superficie) ricevono un flusso di radiazione ultravioletta favorevole allo sviluppo e al mantenimento della vita. Per la raccolta dei dati il team ha utilizzato il telescopio spaziale Swift della NASA per osservare 17 stelle che ospitano 23 pianeti nella zona abitabile. I risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (MNRAS). Riccardo Spinelli, dottorando dell’Università dell’Insubria e primo autore dello studio, spiega:

“Abbiamo dimostrato che i pianeti scoperti nella zona abitabile delle nane rosse, che sono circa il 75% delle stelle dell’universo, non ricevono abbastanza radiazione ultravioletta per innescare alcuni processi che – secondo esperimenti recenti – portano alla formazione dei mattoni fondamentali della vita (ad esempio RNA)”.

zona abitabile acqua radiazione UV
Rappresentazione artistica della stella nana bianca WD1054–226 attorno alla quale orbitano nubi di detriti planetari e un pianeta nella sua zona abitabile. Crediti: Mark A. Garlick / markgarlick.com

L’acqua è sicuramente un elemento fondamentale per lo sviluppo della vita come la conosciamo noi. Tuttavia, alcuni esperimenti dimostrano che le condizioni per generare la vita e preservarla potrebbero essere molteplici. Ad esempio, la luce ultravioletta della stella attorno a cui i pianeti orbitano può essere un fattore determinante nel definire l’abitabilità di un pianeta. La radiazione ultravioletta prodotta dalla stella che raggiunge il pianeta ha un duplice ruolo: può favorire la formazione di zuccheri primari che assieme agli altri “mattoni” possono portare allo sviluppo della vita ma può anche risultare dannosa distruggendo le catene del DNA delle prime cellule e batteri che si formano. La zona abitabile, l’intervallo di distanze a cui un pianeta in orbita attorno alla sua stella riesce a conservare l’acqua allo stato liquido sulla sua superficie, deve sovrapporsi, almeno in parte, con la zona in cui la radiazione UV della stella non è né troppo intensa da risultare dannosa né troppo debole da non agire come catalizzatore per lo sviluppo della vita.

Il ricercatore aggiunge: “Dai dati raccolti abbiamo dedotto che le nane rosse che abbiamo studiato emettono troppa poca radiazione vicino-ultravioletta per innescare l’origine della vita secondo una chimica che richiede tale radiazione. Inoltre abbiamo trovato una relazione tra la luminosità di una stella nella banda vicino-ultravioletta e la temperatura superficiale di una stella. Questa relazione ci consente di dire che una stella per innescare tali reazioni nella zona abitabile, ovvero irraggiare un pianeta in zona abitabile con un flusso vicino-ultravioletto sufficiente, deve avere una temperatura superficiale di almeno 4000 gradi. Dato che circa il 75% delle stelle dell’Universo sono stelle più fredde questo potrebbe dire che la maggior parte delle stelle dell’Universo non riesce a formare questi mattoni fondamentali per la vita”.

Al contrario, le stelle più calde delle nane rosse riescono a fornire ai pianeti orbitanti nella zona abitabile una radiazione ultravioletta sufficiente ad innescare i processi per la formazione dei mattoni fondamentali per la vita.

Recenti studi sperimentali hanno dimostrato che, in laboratorio, alcuni zuccheri fondamentali per la vita si formano efficientemente se alcune molecole (come acido cianidrico e anidride solforica) vengono esposte ad un flusso minimo di radiazione con lunghezza d’onda nel vicino-ultravioletto.

“D’altra parte sappiamo che troppa radiazione ultravioletta è deleteria per la vita, perché danneggia il DNA e distrugge molte proteine. Dunque esiste attorno ad ogni stella una fascia entro la quale un pianeta potrebbe ricevere abbastanza radiazione UV per innescare l’origine della vita, ma non troppa da distruggerla. Abbiamo definito questa fascia zona ‘UV abitabile’. È una definizione analoga a quella di zona abitabile, che delimita la zona attorno ad una stella dove l’irraggiamento stellare consente una temperatura adatta alla presenza di acqua liquida sulla superficie planetaria, condizione che si ritiene necessaria alla vita sulla Terra. Il nostro lavoro è partito dalla domanda: gli esopianeti scoperti che orbitano nella zona abitabile, orbitano anche nella zona UV abitabile?”, sottolinea Francesco Borsa dell’INAF di Milano.

Perché utilizzare Swift? Questo telescopio osserva nella banda ultravioletta, mediante lo strumento UltraViolet Optical Telescope (UVOT) “che ci ha permesso di misurare il flusso delle stelle selezionate che hanno attorno a loro pianeti orbitanti nella fascia abitabile. Alcune delle osservazioni di cui avevamo bisogno non erano presenti nell’archivio di dati Swift e quindi abbiamo fatto una proposta osservativa ottenendo una frazione del tempo che l’Italia ha a disposizione in accordo con gli altri stati (USA e UK) che hanno costruito e gestiscono il satellite”, afferma ancora Spinelli.

“Un cambiamento di prospettiva interessante è che in futuro l’eventuale scoperta di vita su pianeti abitabili attorno a nane rosse, potrebbe farci riconsiderare l’ipotesi che la luce ultravioletta sia fondamentale per la formazione della vita. In qualche modo, gli esopianeti potrebbero rappresentare anche dei laboratori per studiare come la vita si è originata sulla terra”, conclude Giancarlo Ghirlanda dell’INAF di Milano.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “The ultraviolet habitable zone of exoplanets”, di Riccardo Spinelli, Francesco Borsa, Giancarlo Ghirlanda, Gabriele Ghisellini, Francesco Haardt, è stato pubblicato su pubblicato su Monthly Notices Royal Astronomical Society (MNRAS).

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

DALLO STUDIO DEI G-QUADRUPLEX INDICAZIONI UTILI PER PROGETTARE NUOVI FARMACI ONCOTERAPICI

I ricercatori delle Università Milano-Bicocca, Insubria e Padova in collaborazione con il Cnr-Ifn hanno analizzato come si evolvono le strutture secondarie del DNA presenti in alcuni promotori di protooncogeni. Gli studi pubblicati su Nucleic Acids Research.

G-quadruplex farmaci
Dallo studio dei G-quadruplex indicazioni utili per progettare nuovi farmaci oncoterapici. Foto PublicDomainPictures 

Osservare da vicino il comportamento dei G-quadruplex, strutture secondarie del Dna, per contribuire alla messa a punto di farmaci oncoterapici di nuova generazione. I risultati degli studi condotti in collaborazione dai ricercatori delle Università dell’Insubria, di Milano-Bicocca e di Padova, con il coinvolgimento dell’Istituto di Fotonica e nanotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifn), sono confluiti in due lavori pubblicati sulla rivista Nucleic Acids Research (DOI: 10.1093/nar/gkab079 – 10.1093/nar/gkab674).

Quando pensiamo al Dna, la struttura che subito ci affiora alla mente è la doppia elica. Da anni, tuttavia, è noto come il Dna possa assumere localmente strutture non canoniche. Un aspetto particolarmente rilevante è che questi sistemi rappresentano degli interessanti punti di intervento terapeutico per trattare molte patologie tra cui tumori, malattie neurodegenerative, infezioni, e così via. Per la loro particolare importanza funzionale, le strutture secondarie non canoniche denominate G-quartets (G4s) occupano un posto di rilievo in questo contesto. Finora la ricerca di nuovi farmaci indirizzati verso questi bersagli non ha prodotto i risultati sperati e questo deriva in larga parte dal fatto che la struttura del Dna varia sensibilmente nel tempo e nello spazio.

I ricercatori hanno analizzato le proprietà conformazionali e nanomeccaniche dei G4s presenti nel promotore di un particolare protooncogene responsabile di diverse forme tumorali, abbinando tecniche di ensemble a misure di singola molecola per capire come queste strutture evolvono nel tempo, come la loro evoluzione è influenzata dalla matrice di Dna a doppia elica che le circonda e come interagiscono quando si formano una vicina all’altra. Inoltre, è stato osservato come la presenza di sequenze in grado di formare G4s in un tratto di Dna favorisca la denaturazione nanomeccanica della doppia elica in questo tratto, quindi l’inizio dell’espressione genica. Poiché le proteine deputate alla trascrizione del Dna, evento che dà inizio alla sintesi proteica, funzionano esercitando forze e torsioni sui promotori al fine di indurne la denaturazione locale, le informazioni raccolte costituiscono una “fotografia” ad alta risoluzione del bersaglio di elezione. Infine, è stato possibile seguire come si ripiegano queste sequenze e con quale velocità. Queste informazioni aiuteranno a progettare farmaci di nuova generazione che siano in grado di controllare la produzione di oncoproteine in pazienti neoplastici.

«Si tratta di una collaborazione fra soggetti lontani geograficamente, ma coinvolti in una sorta di laboratorio delocalizzato, che sono in grado di realizzare strumentazioni innovative non commerciali e di applicarle alla caratterizzazione di campioni biologici progettati ad hoc. Tutto questo è possibile, grazie anche al supporto delle nostre Istituzioni Universitarie che permettono e facilitano questo networking» dichiara il dottor Luca Nardo del Dipartimento di Scienza e alta tecnologia dell’Università dell’Insubria.

«La ricerca è stata condotta in modo interdisciplinare, con il coinvolgimento paritetico di Biofisici e Chimici Farmaceutici. Infatti, soltanto attraverso una stretta collaborazione tra ricercatori appartenenti a comunità scientifiche che tradizionalmente interagiscono solo marginalmente, disposti a compartecipare competenze complementari, è possibile dare risposte a domande che apparentemente sembrano insolubili. In particolare è stato necessario realizzare misure di singola molecola su filamenti di Dna studiati letteralmente uno per uno, al fine di caratterizzare aspetti che vengono generalmente nascosti da misure di insieme» afferma il professor Francesco Mantegazza, del Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano-Bicocca».

«Il contributo fondamentale dei nostri risultati è quello di aver sottolineato in modo forte alla comunità scientifica come sia necessario capire l’evoluzione nel tempo e nello spazio dei bersagli che vogliamo colpire per intervenire in modo efficace e mirato. Il nostro network, coinvolgendo scienziati con visioni apparentemente diverse, ci ha consentito di rispondere a questa necessità mettendo a punto approcci innovativi e versatili che potranno quindi ora essere utilizzati a più ampio respiro» è quanto riassume la professoressa Claudia Sissi del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università degli Studi di Padova.

«In qualità di responsabile del Laboratorio di Fotofisica e Biomolecole a Como, compartecipato da Cnr e Insubria, sono estremamente soddisfatta degli importanti risultati ottenuti negli ultimi anni e di questo in particolare. Ringrazio tutti i giovani ricercatori che nel tempo si sono alternati in laboratorio, senza la cui dedizione e competenza la ricerca sarebbe stata impossibile», conclude la professoressa Maria Bondani del Cnr-Ifn.

 

Testo dall’Ufficio Stampa Università di Padova.

I risultati dello studio su Neurochemistry International

POLVERI SOTTILI E SCLEROSI MULTIPLA: DIMOSTRATO L’EFFETTO SU NEUROINFIAMMAZIONE E RIPARAZIONE DELLA MIELINA

I ricercatori del NICO – Università di Torino hanno dimostrato per la prima volta gli effetti negativi dell’esposizione al PM sulle capacità rigenerative del tessuto nervoso

polveri sottili sclerosi multipla mielina
Foto di JuergenPM

Secondo l’OMS causa la morte prematura di circa 4 milioni di persone nel mondo ogni anno. Ma l’esposizione cronica ad alti livelli di polveri sottili – il famoso PM (particulate matter) – è anche associata a una prevalenza della Sclerosi Multipla in alcune popolazioni. In particolare nei grandi centri urbani, dove i picchi di PM precedono sistematicamente i ricoveri ospedalieri dovuti all’esordio o alla recidiva di patologie croniche autoimmuni, tra cui la Sclerosi Multipla, come dimostrano numerosi studi epidemiologici. A oggi restano tuttavia da chiarire i meccanismi con cui l’esposizione al PM eserciti un effetto sul sistema nervoso centrale.

Grazie a un progetto pilota finanziato da AISM e la sua Fondazione FISM – Fondazione Italiana Sclerosi Multipla, le ricercatrici del NICO – Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino hanno chiarito per la prima volta che l’esposizione al PM ha effetti negativi sulle capacità rigenerative del tessuto nervoso, e in particolare della mielina, il rivestimento degli assoni che – se danneggiato, come avviene nella SM – compromette la trasmissione delle informazioni fra i neuroni.

 

Lo studio è nato grazie alla collaborazione tra i ricercatori del NICO Enrica Boda, Roberta Parolisi, Annalisa Buffo (Gruppo Fisiopatologia delle Cellule Staminali Cerebrali), Francesca Montarolo e Antonio Bertolotto (Gruppo Neurobiologia Clinica – CRESM, Centro di Riferimento Regionale SM dell’Ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano, TO) con il gruppo di ricerca di Valentina Bollati dell’Università di Milano e Andrea Cattaneo dell’Università dell’Insubria.

I risultati della ricerca – pubblicati sulla rivista Neurochemistry International – dimostrano in un modello animale che l’esposizione al PM2.5 ostacola la riparazione della mielina, inibisce il differenziamento degli oligodendrociti e promuove l’attivazione degli astrociti e della microglia, cellule che di norma svolgono funzioni di sostegno per i neuroni ma che – quando attivate dal sistema immunitario come accade nella Sclerosi Multipla – contribuiscono alla neuroinfiammazione.

Nelle prime fasi di malattia, la mielina può comunque essere riparata da cellule gliali presenti nel tessuto nervoso, chiamate oligodendrociti, il che contribuisce alla remissione – purtroppo spesso solo temporanea – dei sintomi. Le ricerche in corso nei nostri laboratori sono importanti perché permettono di capire quali fattori possono ostacolarne la riparazione – sottolinea la prof.ssa Enrica Boda del NICO, Università di Torino –  aggiungendo un tassello nella comprensione dei meccanismi di neurotossicità del PM. I nostri studi – continua – ora si focalizzano nell’identificare i meccanismi cellulari e molecolari che mediano il trasferimento del ‘danno’ dovuto all’inalazione del PM2.5 dai polmoni al sistema nervoso centraleRiconoscere fattori di rischio ambientali modificabili – come l’inquinamento dell’aria – e i meccanismi che mediano le loro azioni può fornire informazioni importanti per prevenire le recidive della Sclerosi Multipla agendo su politiche ambientali, stile di vita e possibilmente, progettazione di nuovi strumenti di prevenzione e interventi terapeutici”.

 

Neurochemistry International, maggio 2021

Exposure to fine particulatematter (PM2.5) hampers myelin repair in a mouse model of white matter demyelination.
Parolisi R, Montarolo F, Pini A, Rovelli S, Cattaneo A, Bertolotto A, Buffo A, Bollati V, Boda E

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

Il segnale UV e ottico che sfida i modelli delle pulsar

Osservati, per la prima volta da una pulsar al millisecondo in fase “esplosiva”, lampi in banda ottica e ultravioletta oltre alle pulsazioni nei raggi X tipiche di questi corpi celesti. La scoperta, guidata da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e basata anche su osservazioni effettuate con il Telescopio Nazionale Galileo, mette alla prova i modelli teorici che descrivono il comportamento delle pulsar in sistemi binari

Illustrazione di una pulsar in un sistema binario. Crediti: ESA

Si chiama SAX J1808.4-3658 ed è una pulsar, ovvero una stella di neutroni – quel che resta di stelle più massicce del Sole – che emette radiazione attraverso due coni di luce e ruota molto rapidamente, facendo sì che l’emissione appaia pulsante, come quella un faro. Ma non finisce qui. È una pulsar “al millisecondo”, cioè ruota ancora più veloce della maggior parte delle pulsar, completando ben 401 giri su sé stessa in un solo secondo, e per di più si trova in un sistema binario, orbitando insieme a un’altra stella alla quale sottrae regolarmente materia. Ma è anche un oggetto celeste decisamente incostante. Alterna infatti fasi di “quiescenza” a periodi più attivi o “esplosivi” ogni 3–4 anni: l’esplosione più recente, la nona dalla sua scoperta nel 1996, è stata registrata tra agosto e settembre 2019.

Durante la fase esplosiva, la luminosità di SAX J1808.4-3658 – ad oggi si conoscono una ventina di sistemi simili ad essa – aumenta significativamente sia in banda ottica e ultravioletta (UV) che nei raggi X, e inizia l’accrescimento: l’altra stella trasferisce materia e momento angolare alla pulsar attraverso un disco che si estende fino a pochi chilometri dalla sua superficie. Questo processo accelera la rotazione della pulsar e convoglia la materia in accrescimento sui suoi poli, dando origine a un segnale pulsato nei raggi X.

“Quando è stato annunciato l’inizio della nuova esplosione di SAX J1808.4-3658, ad agosto 2019, ci siamo chiesti se, oltre alle pulsazioni in banda X, il sistema potesse mostrare anche pulsazioni in banda ottica e ultravioletta”, spiega Arianna Miraval Zanon, dottoranda presso l’Università dell’Insubria e associata all’INAF di Milano, co-prima autrice insieme a Filippo Ambrosino, ricercatore all’INAF di Roma, dell’articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy. E la curiosità è stata premiata. “Per la prima volta abbiamo osservato nello stesso sistema, durante la fase esplosiva, pulsazioni con lo stesso periodo di rotazione della pulsar in tre bande diverse: X, UV e ottica”, aggiunge Ambrosino.

Fino ad allora, non erano mai state osservate pulsazioni in banda UV da pulsar in sistemi binari. In banda ottica, invece, le pulsazioni erano state viste soltanto in 5 pulsar isolate e in un solo sistema binario, PSR J1023+0038, quest’ultimo in un lavoro firmato dallo stesso Ambrosino e diversi co-autori del nuovo studio; si tratta però di un sistema diverso, che si trova in una fase intermedia, e che quindi somiglia a SAX J1808.4-3658 solo in parte.

UV ottico pulsar SAX J1808.4-3658
Lo strumento SiFAP2 installato al Telescopio Nazionale Galileo. Crediti: A. Ghedina

Lo studio si basa su osservazioni in banda UV effettuate con il telescopio spaziale Hubble e in banda ottica con il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF a La Palma (Isole Canarie), equipaggiato con il fotometro ottico ad altissima risoluzione temporale e accuratezza assoluta SiFAP2, cruciale per la scoperta delle pulsazioni ottiche da questo sistema. Il primo prototipo dello strumento, SiFAP, era stato ideato e sviluppato da Franco Meddi insieme a Filippo Ambrosino, con l’ausilio di Paolo Cretaro al Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma, e già nel 2017 aveva permesso di rivelare le pulsazioni ottiche dall’altra pulsar menzionata, PSR J1023+0038. Grazie a successive collaborazioni con INAF, con lo stesso TNG e con l’Università di Catania (in particolare con Francesco Leone), lo strumento è stato migliorato prendendo il nome di SiFAP2, una nuova versione che consentirà di effettuare anche studi polarimetrici grazie ad un nuovo sistema di cubi polarizzatori.

Ma le nuove osservazioni pongono un dilemma: la luminosità delle pulsazioni misurate in banda ottica e UV è troppo elevata per essere spiegata, usando i modelli teorici esistenti, dall’accrescimento di materia sulla pulsar. “Il segnale ottico e UV pulsato potrebbe quindi essere prodotto nella magnetosfera della pulsar, o poco lontano da essa, ed essere alimentato dalla rotazione del dipolo magnetico della pulsar”, dice Miraval Zanon. “Se così fosse, potrebbero convivere o alternarsi molto rapidamente due meccanismi fisici diversi: da una parte l’accrescimento produrrebbe gli impulsi in banda X; dall’altra la pulsar, alimentata dalla sua stessa rotazione, riuscirebbe a generare impulsi in banda ottica e UV. Questo scenario sfida gli attuali modelli teorici secondo cui un meccanismo esclude l’altro”.

Un altro aspetto interessante sollevato dal nuovo studio è uno sfasamento significativo – pari a poco più di mezzo periodo di rotazione – osservato tra la pulsazione X e quella ottica. “Questo ha dato adito a diverse interpretazioni”, sottolinea Ambrosino, “la più suggestiva delle quali è senza dubbio la possibilità che l’emissione X pulsata provenga da uno dei due poli magnetici della pulsar, mentre la pulsazione ottica sia generata nel polo opposto. Questa è solo un’ipotesi, non possiamo dire nulla di veramente definitivo prima di avere una statistica più ampia sull’emissione ottica di queste sorgenti”.

In futuro, il gruppo ha in programma nuove osservazioni di questo sistema durante la fase quiescente con lo strumento SiFAP2, per indagare l’eventuale presenza di pulsazioni ottiche una volta diminuita la luminosità: questo aiuterà a comprendere meglio il meccanismo che le genera durante la fase esplosiva. Un piano sul più lungo termine, già approvato, prevede lo studio della prossima sorgente, tra le venti simili a questa, che entrerà in fase esplosiva, effettuando osservazioni simultanee nei raggi X con l’osservatorio dell’ESA XMM-Newton, in UV con Hubble e in ottico con il TNG.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy nell’articolo Optical and ultraviolet pulsed emission from an accreting millisecond pulsar di F. Ambrosino, A. Miraval Zanon, A. Papitto, F. Coti Zelati, S. Campana, P. D’Avanzo, L. Stella, T. Di Salvo, L. Burderi, P. Casella, A. Sanna, D. de Martino, M. Cadelano, A. Ghedina, F. Leone, F. Meddi, P. Cretaro, M. C. Baglio, E. Poretti, R. P. Mignani, D. F. Torres, G. L. Israel, M. Cecconi, D. M. Russell, M. D. Gonzalez Gomez, A. L. Riverol Rodriguez, H. Perez Ventura, M. Hernandez Diaz, J. J. San Juan, D. M. Bramich, F. Lewis

https://doi.org/10.1038/s41550-021-01308-0

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma