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Università degli Studi di Padova

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IL CICLO MESTRUALE E LA LUNA: UNA SINCRONIZZAZIONE SEMPRE PIÙ RARA

L’Università di Padova partecipa allo studio internazionale che rivela la perdita della sincronia con la Luna a causa dell’inquinamento luminoso

 

Molte specie animali sincronizzano il loro comportamento riproduttivo con una determinata fase del ciclo lunare per aumentare il successo nella procreazione. Negli esseri umani, l’influenza della luna sul comportamento riproduttivo rimane controversa, sebbene il ciclo mestruale abbia un periodo molto prossimo a quello dei cicli lunari.

È già stato dimostrato come i cicli mestruali femminili si sincronizzino in maniera intermittente con i cicli di luminanza (che descrivono la quantità di luce lunare visibile nel corso del mese, che varia dalla luminanza minima del Novilunio alla luminanza massima del Plenilunio) e/o gravitazionali della luna (l’influenza gravitazionale della Luna sulla Terra che provoca le maree).

Con l’avanzare dell’età e l’esposizione alla luce artificiale notturna, i cicli mestruali tendono ad accorciarsi e la sincronia con la luna si perde. Nello studio appena pubblicato sulla rivista «Science Advances» e che vede tra gli autori Sara Montagnese e Alberto Ferlin, del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e Rodolfo Costa del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova, i ricercatori hanno dimostrato come i cicli mestruali di 176 donne che ne avessero registrato l’inizio per almeno due anni fossero sincronizzati con il ciclo lunare in modo molto evidente fino al 2010, anno dell’introduzione massiva di illuminazione a LED in Europa, che si è aggiunta all’utilizzo diffuso di smartphone.

Con l’aumento cospicuo dell’inquinamento luminoso, dal 2010 in poi, tale sincronizzazione si osserva prevalentemente nel mese di gennaio, quando le forze gravitazionali esercitate dal sistema Sole-Terra-Luna sono più forti. Di questo i ricercatori hanno trovato conferma anche analizzando l’andamento temporale di ricerche internet pertinenti (ad esempio “dolore mestruale”) con Google Trends, uno strumento che consente di valutare l’interesse nel tempo e in diverse regioni per specifici argomenti.

«Sembra quindi probabile che la crescente esposizione notturna alla luce artificiale interferisca con la sincronizzazione con i cicli lunari di luminanza – spiega Sara Montagnese –. Complessivamente, la sincronizzazione tra il ciclo mestruale femminile e i cicli lunari è quindi ridotta rispetto al passato e rimane rilevabile prevalentemente nei periodi in cui le forze gravitazionali nel sistema Sole-Terra-Luna sono più intense».

La luce artificiale non solo “oscura” la luce naturale della luna, ma tende anche ad accorciare la durata del ciclo mestruale, collegata all’età e alla fertilità femminile: i risultati appena pubblicati potrebbero avere implicazioni importanti non solo per la fisiologia e il comportamento, ma anche per la fertilità e soprattutto la nota riduzione della stessa nel mondo occidentale.

Sara Montagnese, autrice dello studio su ciclo mestruale e la luna, pubblicato su Science Advances
Sara Montagnese, autrice dello studio su ciclo mestruale e la luna, pubblicato su Science Advances

Riferimenti bibliografici:

Charlotte Helfrich-Förster et al., Synchronization of women’s menstruation with the Moon has decreased but remains detectable when gravitational pull is strong, Sci. Adv. 11, eadw4096 (2025), DOI: 10.1126/sciadv.adw4096

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

LA “DIETA” DEGLI ELEFANTI NANI DELLA SICILIA, PALAEOLOXODON FALCONERI E PALAEOLOXODON MNAIDRIENSIS

Il Palaeoloxodon falconeri e il Palaeoloxodon mnaidriensis erano pascolatori: la loro dieta era basata su un alto consumo di materiale erbaceo abrasivo. La scoperta dei ricercatori dell’Università di Padova e Saragozza grazie all’analisi dell’usura dentaria prodotta dal cibo consumato e rinvenuta sui reperti fossili conservati al Museo della Natura e dell’Uomo

Pubblicata su «Papers in Palaeontolgy» con il titolo “Feeding strategies of the Pleistocene insular dwarf elephants Palaeoloxodon falconeri and Palaeoloxodon mnaidriensis from Sicily (Italy)” la ricerca delle Università di Padova e Saragozza sulle abitudini alimentari degli elefanti nani della Sicilia, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis, vissuti nel Pleistocene Medio (tra gli 800 e i 100 mila anni fa). È la prima volta che viene fatta un’ipotesi sulla loro dieta grazie all’analisi, sui reperti presenti nella sezione di Geologia e Paleontologa del Museo della Natura e dell’Uomo (MNU) dell’Università di Padova, dell’usura dentaria prodotta dal cibo consumato dall’animale.

Gli elefanti nani in Sicilia nel Pleistocene Medio

Il MNU dell’Università di Padova custodisce numerosi resti di elefanti nani fossili della Sicilia, provenienti da quattro località del palermitano. Si tratta di due specie estinte, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis, che derivano da uno stesso antenato comune continentale, Palaeoloxodon antiquus, arrivato sull’isola a seguito di diversi episodi indipendenti di dispersione con successiva diminuzione della taglia corporea. Il Palaeoloxodon falconeri (800-400 mila anni fa) è la specie più piccola fino ad ora conosciuta, con una altezza al garrese di circa 1 m nei maschi adulti e 0,9 m nelle femmine; il Palaeoloxodon mnaidriensis (400-100 mila anni fa) è andato incontro ad una minor riduzione di taglia ma, con i suoi 1,8-2,0 m al garrese, è sostanzialmente alto la metà dell’antenato continentale che raggiungeva i 4 m di statura

Nel Pleistocene Medio la Sicilia era probabilmente frammentata in isole più piccole e la fauna a mammiferi era estremamente impoverita. Il Palaeoloxodon falconeri era l’unico mammifero di taglia medio-grande: non aveva altre specie con cui competere per il cibo e nemmeno predatori da cui difendersi, fattore questo, che ne ha consentito l’estrema riduzione di taglia. Al contrario il Palaeoloxodon mnaidriensis viveva in una Sicilia con dimensioni prossime alle attuali e coabitava con una fauna che comprendeva ippopotami, quattro grossi ruminanti e carnivori che ne giustificano una riduzione di taglia meno marcata.

ricostruzione dei due elefanti nani di Sicilia, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis
ricostruzione dei due elefanti nani di Sicilia, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis. Raffigurazione artistica © Simone Zoccante (2025)

Analisi dei denti e abitudini alimentari

I ricercatori si sono concentrati sull’usura dentaria prodotta dal cibo consumato dall’animale per ricostruirne la dieta. Gli studiosi si sono chiesti se gli animali prediligessero la vegetazione erbacea tendenzialmente più abrasiva (pascolatori) oppure più tenera e nutriente come foglie, frutti e germogli (brucatori) o ancora se avesse una dieta mista.

«In questo studio abbiamo condotto per la prima volta un’analisi della dieta delle due specie nane utilizzando due tecniche di analisi dell’usura dentaria: quella della microusura (microwear) e della mesousura (mesowear)», dice Marzia Breda del Centro di Ateneo per i Musei dell’Università di Padova. «Il risultato più interessante è la convergenza in termini di dieta dei due elefanti in risposta a diverse pressioni ecologiche».

Marzia Breda
Marzia Breda

L’analisi della microusura dentaria studia le tracce microscopiche che il cibo ingerito dall’animale durante gli ultimi pasti prima della morte lascia sulla superficie occlusale dello smalto dei denti. I mammiferi erbivori con una dieta costituita da materiale vegetale molto abrasivo (graminacee) presentano dei pattern composti da abbondanti striature prodotte durante la masticazione. L’analisi della mesousura dentaria studia invece come le abitudini alimentari modificano la superficie occlusale del dente durante un periodo di tempo relativamente lungo rispetto alla vita dell’animale stesso (mesi o anni). Negli elefanti, i cui denti sono costituiti da un insieme di lamelle allineate, questa analisi tiene conto del rilievo tra le creste di smalto e la dentina racchiusa al loro interno. L’angolo tra il fondo della “valle” di dentina e il rilievo delle creste di smalto che le delimitano si correlano con abitudini alimentari distinte: angoli chiusi indicano diete caratterizzate da maggior consumo di materiale vegetale tenero, mentre angoli più aperti si associano a una dieta più abrasiva che, con il tempo, “appiattisce” la superficie occlusale del dente.

«Per i piccoli denti, di Palaeoloxodon falconeri,siè dovuto procedere – aggiunge Breda – alla scansione 3D del dente con un microscopio e poi estrarre digitalmente gli angoli, mettendo a punto un nuovo protocollo di riferimento per studi futuri».

Strie di microusura in tre denti di Palaeoloxodon falconeri sopra e tre di Palaeoloxodon mnaidriensis sotto.
Strie di microusura in tre denti di Palaeoloxodon falconeri sopra e tre di Palaeoloxodon mnaidriensis sotto.

I risultati

Nonostante la riduzione/assenza di competitori per l’accesso alle limitate risorse vegetali che avrebbe potuto consentire quindi la selezione di materiale vegetale più tenero e digeribile, i risultati dimostrano, per entrambe le specie, un alto consumo di materiale abrasivo tipico di una dieta di tipo pascolatore.

«Nel caso di Palaeoloxodon mnaidriensis, probabilmente si trattava di un adattamento all’espansione delle zone a prateria avvenuto durante le fasi finali del Pleistocene Medio e di una spartizione delle nicchie ecologiche con gli altri mammiferi di taglia medio-grande presenti sull’isola», sottolinea Flavia Strani, Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Saragozza. «Per Palaeoloxodon falconeri si può invece ipotizzare che l’assenza della pressione predatoria abbia portato ad un aumento della popolazione e quindi ad un sovra sfruttamento delle risorse vegetali, di per sé già limitate in ambiente insulare, spingendo le piante a “difendersi” con l’aumento di deposizioni di silice amorfa nelle cellule vegetali e con una maggior lignificazione, da cui l’usura riscontrata nelle nostre analisi».

Flavia Strani
Flavia Strani

«Si tratta di un risultato estremamente importante – puntualizza Marzia Breda dell’Università di Padova – che dimostra ancora una volta come le isole siano dei veri e propri laboratori naturali dell’evoluzione, perché in esse l’isolamento geografico e le variate condizioni ecologiche – risorse limitate, pressione predatoria ridotta o assente, e competizione ridotta o assente – forniscono le condizioni ideali per osservare e comprendere processi evolutivi che, nel più ricco e vario ambiente continentale, vengono talvolta oscurati».

«Questo studio dimostra come il MNU non sia solo un moderno centro espositivo e didattico, ma anche un vivo laboratorio di ricerca», conclude Fabrizio Nestola, Presidente del Centro di Ateneo per i Musei e Direttore del Museo della Natura e dell’Uomo. «Si tratta ancora una volta di nuovi studi su vecchi esemplari, fossili che, nonostante facciano parte delle collezioni storiche, hanno ancora tanto da raccontare e mantengono quindi un alto valore scientifico. Il nostro compito è preservarli per le generazioni future».

Riferimenti bibliografici:

Flavia Strani, Simone Rebuffi, Manuela Gialanella, Daniel DeMiguel, Stefano Castelli, Mariagabriella Fornasiero, Gilberto Artioli, Gregorio Dal Sasso, Claudio Mazzoli, Giuseppe Fusco, Marzia Breda, Feeding strategies of the Pleistocene insular dwarf elephants Palaeoloxodon falconeri and Palaeoloxodon mnaidriensis from Sicily (Italy)” – «Papers in Palaeontology» 2025, DOI: https://doi.org/10.1002/spp2.70036

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

LA NEURORIABILITAZIONE PER UNA MEDICINA PIÙ “UMANA” – Pubblicato su «The Lancet Neurology» lo studio guidato dall’Università di Padova che propone di adottare l’approccio multidimensionale della neuroriabilitazione come nuovo paradigma per la medicina del futuro, considerando il paziente nella complessità delle interazioni tra corpo, psiche, e ambiente

La neuroriabilitazione (o riabilitazione neurologica) è una branca della medicina che si occupa della valutazione e del recupero di deficit e disabilità derivanti da un danno neurologico.

Di recente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha evidenziato la centralità della neuroriabilitazione nei sistemi sanitari, riconoscendone il ruolo chiave nella presa in carico delle persone con condizioni neurologiche e disabilità correlate: due report dell’OMS sottolineano infatti la necessità di servizi di neuroriabilitazione accessibili, con approccio multidimensionale incentrato sul paziente, che consideri i bisogni individuali e il contesto sociale della persona, oltrepassando il tradizionale approccio basato esclusivamente su aspetti biologici.

Uno studio guidato dal Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova e pubblicato sulla prestigiosa rivista «The Lancet Neurology» propone un cambio di paradigma radicale, ponendo la neuroriabilitazione come modello per una medicina “dei sistemi”, più vicina alla complessità reale della persona e del suo contesto, che nell’intero percorso di prevenzione, cura e riabilitazione tenga conto anche di fattori non biologici come comportamenti, ambiente, aspetti psicologici e reti sociali.

«Il riconoscimento internazionale della neuroriabilitazione come precursore di una medicina incentrata sulla persona nella sua totalità è un traguardo importante che ribadisce la necessità della riabilitazione nel processo di cura» afferma Alessandra Del Felice, prima autrice dello studio e docente al Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova.

Alessandra Del Felice
Alessandra Del Felice, prima autrice dello studio su «The Lancet Neurology» che propone l’approccio multidimensionale della neuroriabilitazione come nuovo paradigma per la medicina

Per i pazienti ricoverati nella Clinica Neurologica e Stroke Unit di Padova, dirette dal prof. Maurizio Corbetta dell’Università di Padova – e presto anche per pazienti ambulatoriali con esiti di traumi cerebrali e ictus – questo modello è già realtà: il paziente è preso in carico con un approccio multidisciplinare e con metodologie innovative, considerando la totalità della persona oltre gli aspetti puramente biologici. Ciò assicura un recupero più completo e soddisfacente per pazienti e famiglie, ottimizzando anche le risorse del sistema sanitario regionale.

Lo studio evidenzia tre elementi distintivi della neuroriabilitazione che stanno influenzando altri campi della medicina e contribuendo a un cambio di paradigma generale:

  • integrazione tra biologia e fattori esterni (come comportamento, ambiente, reti sociali);

  • collaborazione tra discipline diverse (medicina, psicologia, ingegneria biomedica…);

  • adozione di metodologie innovative per valutare interventi complessi e personalizzati.

La neuroriabilitazione può fungere da apripista per la medicina dei sistemi, evolvendo da un modello strettamente biomedico a uno più olistico che riconosca l’importanza dei fattori non biologici come comportamenti, esposizioni ambientali, attitudini psicologiche e reti sociali per rendere più efficaci prevenzione, intervento e riabilitazione.

Nonostante l’efficacia, i servizi di neuroriabilitazione sono spesso trascurati. Proprio per questo «The Lancet Neurology» ha istituito una Commissione per sensibilizzare, identificare priorità di ricerca e promuovere nuovi interventi, incluse innovazioni tecnologiche come interfacce cervello-computer e realtà virtuale. La neuroriabilitazione, con il suo approccio olistico, potrebbe fungere da modello per altri campi medici verso una medicina veramente personalizzata e incentrata sul paziente.

Riferimenti bibliografici:

Alessandra Del Felice, Antonio Luigi Bisogno, Margherita Bertuccelli, Nick S. Ward, Maurizio Corbetta, Neurorehabilitation as a forerunner in the paradigm shift towards systems medicine – «The Lancet Neurology» – 2025, link: https://www.thelancet.com/journals/laneur/article/PIIS1474-4422(25)00281-9/fulltext

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

PALMA DI GOETHE: ALL’ORTO BOTANICO DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA È STATO SEQUENZIATO IL SUO GENOMA

È il primo sequenziamento genomico di alta qualità a livello cromosomico della palma nana del Mediterraneo, unica nativa dell’Europa continentale e specie con la distribuzione più a nord tra tutte le palme. Nel suo DNA vi sono molte sequenze ripetute: tracce di antichi adattamenti.

È stato pubblicato su «Scientific Data» con il titolo Chromosome-level assembly of the 400-year-old Goethe’s Palm (Chamaerops humilis L.) lo studio, coordinato da Francesco Dal Grande dell’Università di Padova e frutto della collaborazione con il Centro per la Biodiversità Genomica di Francoforte e altri partner internazionali, in cui è stato effettuato il primo sequenziamento genomico di alta qualità a livello cromosomico della palma nana del Mediterraneo ed è stato effettuato sulla “Palma di Goethe” all’Orto Botanico dell’Università di Padova.

Il rapido declino della biodiversità globale mette in luce la necessità di aumentare gli sforzi di conservazione. I giardini botanici di tutto il mondo svolgono un ruolo cruciale nella conservazione ex situ delle piante. In particolare, le piante monumentali hanno un grande valore ecologico e culturale, che deve essere tutelato.

L’esemplare di palma nana o palma di San Pietro (Chamaerops humilis L.), messa a dimora nel 1585, è la pianta più antica dell’Orto botanico di Padova ed è nota come Palma di Goethe. Dopo averla ammirata il 27 settembre 1786, infatti, il poeta tedesco ne trae ispirazione per formulare una intuizione evolutiva nel suo saggio La metamorfosi delle piante del 1790, legando così il suo nome a quello della palma “padovana”, per sempre. Nel tempo, la Palma di Goethe è diventata simbolo del legame profondo tra scienza, cultura e natura. La palma nana cresce spontaneamente lungo le coste del Mediterraneo occidentale in formazioni a macchia degradata, spesso in luoghi inaccessibili per sfuggire allo sfruttamento e sottrarsi così alle azioni invasive messe in atto dall’essere umano. Eredità della flora italiana del Terziario (circa 65 milioni di anni fa), attualmente è l’unica specie di palma autoctona a essere sopravvissuta alle glaciazioni che hanno colpito l’Europa fino a 12.000 anni fa.

«Oggi, quasi 240 anni dopo, siamo ripartiti dalla stessa palma per intraprendere un nuovo viaggio. Lo abbiamo fatto in collaborazione con il Centro di Biodiversità Genomica di Francoforte sul Meno, in Germania. La città natale di Goethe, appunto. E abbiamo ottenuto un genoma di altissima qualità. All’Orto botanico dell’Università di Padova abbiamo sequenziato il genoma della Palma di Goethe, la palma coltivata più antica preservata in un orto botanico», spiega Francesco Dal Grande, docente di Botanica sistematica ed Ecologia applicata al Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova. «Si tratta del primo genoma della palma nana del Mediterraneo, Chamaerops humilis, l’unica palma nativa dell’Europa continentale e la specie con la distribuzione più a nord tra tutte le palme. Nel nostro studio abbiamo scoperto che nel suo DNA vi sono tantissime sequenze ripetute: tracce di antichi adattamenti che, molto probabilmente, hanno permesso alla specie di adattarsi a climi aridi e caldi, come quelli del Mediterraneo. Il genoma ottenuto ci ha permesso anche di svelare un segreto storico: l’origine di questa pianta», continua Dal Grande. «I dati genomici indicano chiaramente un legame tra questa palma e le popolazioni dell’area occidentale del Mediterraneo, la Penisola Iberica e il Marocco. Questo è un esempio di come il DNA possa nutrire la storia, qualora i documenti da soli non bastassero. In un’epoca di forte declino della biodiversità, conoscere in maniera così approfondita il genoma di una specie diventa un vantaggio, uno strumento in più e molto potente per capirla, proteggerla e conservarla nel tempo».

«Grazie alla ricerca pubblicata oggi sappiamo di più sul nostro simbolo, la Palma di Goethe del 1585, e sulla sua provenienza – dice Tomas Morosinotto, Prefetto dell’Orto Botanico -. Utilizzando i metodi più attuali di analisi possiamo capire come la pianta più antica del nostro Orto botanico si è adattata a un clima che non era il suo: uno studio attuale su una pianta con più di quattro secoli di storia, nell’epoca del cambiamento climatico».

In questo nuovo studio, Dal Grande e colleghi presentano il primo assemblaggio genomico di alta qualità, a livello cromosomico, di Chamaerops humilis L., ottenuto grazie a tecnologie all’avanguardia che consentono di leggere e organizzare il DNA con estrema precisione (PacBio HiFi e Arima Hi-C). Ad oggi, questo genoma è il più contiguo e completo all’interno della famiglia delle Arecaceae, con un contenuto di sequenze ripetute dell’88%, di cui il 63% è attribuito agli elementi Long Terminal Repeat (LTR). Un contenuto così elevato di sequenze ripetute ci dice che il genoma è stato modellato da pressioni evolutive intense, probabilmente legate al clima mediterraneo.

Lo studio presenta anche la prima analisi completa dei microRNA in una palma. I microRNA sono piccole molecole regolatorie che controllano quali geni vengono attivati o disattivati. È stata identificata per la prima volta nelle palme la famiglia miR827, che nelle piante aiuta a regolare l’assorbimento di nutrienti fondamentali come il fosforo e l’azoto. Trovare una famiglia di microRNA finora sconosciuta nelle palme apre nuove strade per capire come le piante rispondano a stress ambientali e carenze nutrizionali.

Infine, grazie all’analisi dei microsatelliti – brevi sequenze ripetute di DNA utilizzate per tracciare le origini genetiche – i ricercatori hanno scoperto che l’esemplare patavino condivide affinità con popolazioni dell’area occidentale del Mediterraneo, in particolare tra Marocco e Penisola Iberica.

Questi risultati rappresentano un significativo progresso nella genomica della conservazione della specie e gettano le basi per nuove strategie di conservazione: in questo scenario i giardini botanici sono e, sempre di più, saranno attori protagonisti nella salvaguardia della biodiversità globale.

 

Riferimenti bibliografici: 

Beltran-Sanz, N., Prost, S., Malavasi, V. et al.Chromosome-level assembly of the 400-year-old Goethe’s Palm (Chamaerops humilis L.), Scientific Data, 12, 1542 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41597-025-05673-7

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

UNA NUOVA TERAPIA A BASE DI ANTICORPI RALLENTA LA PROGRESSIONE DEL GLIOBLASTOMA E RIDUCE L’IPERATTIVITÀ CEREBRALE INDOTTA DAL TUMORE

Lo studio, pubblicato sulla rivista «Cell Communication and Signaling», è stato condotto da un team internazionale di ricerca guidato dall’Università di Padova in collaborazione con il CNR-IBBC

 Il glioblastoma è la forma più aggressiva di tumore cerebrale negli adulti, con una sopravvivenza media dopo la diagnosi inferiore ai 15 mesi.

Un team internazionale di ricercatori guidato da Fabio Mammano, docente al Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova e associato con incarico di ricerca all’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IBBC) CNR, ha sviluppato una nuova terapia a base di anticorpi che si è dimostrata efficace nel rallentare la crescita del glioblastoma. Oltre a ostacolare la progressione tumorale, il trattamento riduce anche l’iperattività neuronale causata dal tumore, una condizione spesso associata a crisi epilettiche nei pazienti.

Il glioblastoma è notoriamente difficile da trattare. In questo studio, pubblicato sulla rivista scientifica «Cell Communication and Signaling», i ricercatori hanno mirato a un bersaglio molecolare preciso: i canali emisomici delle connessine (connexin hemichannels), che nei tumori sono iperattivi e rilasciano segnali pro-tumorali come ATP (Adenosin Trifosfato, una molecola energetica essenziale per la crescita e la proliferazione delle cellule) e glutammato.

Utilizzando colture cellulari derivate da pazienti e un modello murino rappresentativo della malattia, i ricercatori hanno testato un anticorpo monoclonale chiamato abEC1.1, in grado di bloccare selettivamente alcune connessine (Cx26, Cx30 e Cx32).

I risultati sono stati:

  • riduzione della migrazione e dell’invasività delle cellule tumorali
  • inibizione del rilascio di ATP e glutammato
  • riduzione significativa del volume tumorale e aumento della sopravvivenza nei topi
  • normalizzazione dell’attività sinaptica anomala indotta dal tumore

«È la prima volta che un anticorpo terapeutico si dimostra capace di contrastare contemporaneamente la crescita del glioblastoma e l’iperattività neuronale che il tumore induce nei tessuti circostanti – spiega Mammano –. Questo approccio apre la strada a nuove strategie terapeutiche che mirano non solo alle cellule tumorali, ma anche alle loro interazioni patologiche con l’ambiente cerebrale».

Fabio Mammano
Fabio Mammano

«Con questo studio abbiamo chiaramente evidenziato l’importanza di contrastare specificamente i componenti molecolari che attivano e rafforzano la comunicazione tra le cellule tumorali ed il tessuto circostante, alimentando la proliferazione incontrollata del glioblastoma» aggiunge Daniela Marazziti, ricercatrice del CNR-IBBC e coautrice del lavoro.

L’anticorpo è stato somministrato sia come proteina purificata sia tramite terapia genica con vettori virali AAV (virus adeno-associati), una modalità che potrebbe consentire effetti terapeutici duraturi con una sola somministrazione. Lo studio rafforza l’idea che i canali emisomici delle connessine siano un bersaglio farmacologico promettente per il trattamento del glioblastoma. La tecnologia è oggetto di brevetto in contitolarità tra l’Università di Padova, il CNR, l’Università degli Studi di Milano e l’Università ShanghaiTech.

La ricerca è stata condotta in collaborazione con istituzioni accademiche in Italia e Cina ed è stata finanziata da Ministero dell’Università e della Ricerca (PRIN), Fondazione Cariparo, Fondazione Giovanni Celeghin, Università ShanghaiTech e Fondazione Umberto Veronesi.

Link: https://biosignaling.biomedcentral.com/articles/10.1186/s12964-025-02370-1

Titolo:

Viola Donati, Chiara Di Pietro, Luca Persano, Elena Rampazzo, Mariateresa Panarelli, Clara Cambria, Anna Selimi, Lorenzo Manfreda, Ana Gabriela de Oliveira do Rêgo, Gina La Sala, Camilla Sprega, Arianna Calistri, Catalin Dacian Ciubotaru, Guang Yang, Francesco Zonta, Flavia Antonucci, Daniela Marazziti e Fabio Mammano, Connexin hemichannel blockade by abEC1.1 disrupts glioblastoma progression, suppresses invasiveness, and reduces hyperexcitability in preclinical models – «Cell Communication and Signaling» – 2025

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

NATI PER CONTARE COSÌ: IL CERVELLO, LA LATERALIZZAZIONE CEREBRALE E L’ASSOCIAZIONE TRA NUMERI E SPAZIO

Uno studio condotto dal Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova dimostra che l’associazione tra numeri e spazio dipende dalla lateralizzazione cerebrale ed è influenzata dall’esposizione alla luce

La maggior parte di noi pensa ai numeri come disposti lungo una linea mentale che va da sinistra a destra: i più piccoli a sinistra, i più grandi a destra. Si ritiene comunemente che questa “linea numerica mentale” sia un prodotto dell’esperienza culturale, in particolare della lettura e della scrittura. Tuttavia, evidenze raccolte in bambini e animali mettono in discussione questa idea, suggerendo che l’associazione tra numero e spazio possa avere origini biologiche.

Alla base dello sviluppo di questa linea numerica mentale c’è la lateralizzazione cerebrale, nota anche come specializzazione emisferica, che si riferisce all’idea che i due emisferi del cervello siano funzionalmente diversi e abbiano ruoli specializzati in vari processi cognitivi.

Lo studio pubblicato sulla rivista «eLife» e coordinato dal Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova offre una prova diretta a favore di questa ipotesi basandosi sull’osservazione di pulcini appena nati: i risultati mostrano che la lateralizzazione cerebrale – la specializzazione degli emisferi destro e sinistro per funzioni diverse – è necessaria per lo sviluppo di una linea numerica mentale orientata da sinistra a destra ed è influenzata dalla luce.

«L’esposizione alla luce durante lo sviluppo embrionale induce la lateralizzazione cerebrale nei pulcini domestici, migliorando le loro abilità spazio-numeriche e la loro tendenza a “contare” da sinistra a destra – spiega Rosa Rugani, prima autrice dello studio e docente al Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova –. Diversi modelli teorici hanno ipotizzato che la linea numerica mentale abbia origine nella lateralizzazione cerebrale, ma finora mancavano prove sperimentali dirette. Il nostro studio fornisce queste evidenze».

I ricercatori hanno inoltre osservato che solo gli individui con una lateralizzazione ben sviluppata mostravano la tendenza a organizzare i numeri da sinistra a destra.

«Per la prima volta dimostriamo che la lateralizzazione non è solo associata alla linea numerica mentale, ma è indispensabile per il suo sviluppo – continua Rugani –. Questo suggerisce che la nostra percezione dei numeri nello spazio ha radici biologiche profonde, sebbene venga poi modellata dall’interazione con l’ambiente».

Rosa Rugani
Rosa Rugani

Gli autori ipotizzano che questa tendenza possa avere vantaggi evolutivi; ad esempio, una scansione visiva da sinistra a destra potrebbe aiutare i pulcini a localizzare e quantificare meglio le risorse alimentari durante il foraggiamento.

«Il nostro lavoro dimostra che la lateralizzazione cerebrale gioca un ruolo fondamentale nel modo in cui gli animali – e probabilmente anche gli esseri umani – rappresentano i numeri nello spazio – aggiunge Lucia Regolin, coautrice dello studio e docente nello stesso Dipartimento –. Comprendere le basi biologiche della cognizione numerica può aiutarci a capire perché certe abilità emergono, quando lo fanno, e perché possono risultare alterate in presenza di un’organizzazione cerebrale atipica».

Questa ricerca apre nuove prospettive nello studio delle origini evolutive del pensiero numerico e dell’influenza delle prime esperienze sensoriali sullo sviluppo cognitivo.

Riferimenti bibliografici:

Rosa Rugani, Matteo Macchinizzi, Yujia Zhang, Lucia Regolin, Hatching with Numbers: Pre-natal Light Exposure Affects Number Sense and the Mental Number Line in young domestic chicks – «eLife Sciences» – 2025, link: https://elifesciences.org/articles/106356

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

UN NUOVO MODELLO PER COMPRENDERE LE ORIGINI DELL’UNIVERSO – Superare il paradigma teorico inflazionario che è troppo “addomesticabile”: pubblicato su «Physical Review Research Letters» il lavoro del team internazionale di ricerca di cui fa parte l’Università di Padova

Un team di scienziati, tra cui Daniele Bertacca e Sabino Matarrese del Dipartimento di Fisica e Astronomia G. Galilei dell’Università di Padova, in collaborazione con i colleghi Raúl Jiménez dell’Università di Barcellona e Angelo Ricciardone dell’Università di Pisa, ha pubblicato su «Physical Review Research Letters» un articolo dal titolo “Inflation without an inflaton” in cui si propone una nuova teoria sull’origine del nostro Universo. La nuova visione teorica introduce un cambiamento radicale sulla comprensione dei primissimi istanti di vita dell’Universo, senza fare affidamento su alcuni elementi speculativi tradizionalmente ipotizzati nella teoria standard dell’Inflazione.

Svelare il mistero della nascita dell’Universo

Per decenni i cosmologi hanno lavorato adottando il paradigma dell’Inflazione, un modello che suggerisce come l’Universo si sia espanso in modo incredibilmente rapido preparando il terreno per tutto ciò che osserviamo oggi. Il paradigma inflazionario è in grado di spiegare perché il nostro universo sia così omogeneo e isotropo e, allo stesso tempo, perché contenga strutture disomogenee, come galassie e ammassi di galassie.

Ma c’è un problema: questa teoria include troppi parametri “liberi”, ovvero parametri “regolabili”, che possono essere modificati a piacimento. Nella scienza troppa flessibilità può essere problematica perché rende difficile capire se un modello adottato stia veramente prevedendo qualcosa o se si stia semplicemente adattando, a posteriori, ai dati osservati.

Il team internazionale di ricerca ha proposto un nuovo modello in cui l’Universo primordiale non ha bisogno di nessuno di questi parametri arbitrari, ma di una sola scala di energia che determina tutte le predizioni osservabili. I ricercatori partono da uno stato cosmico ben consolidato noto come spazio-tempo di de Sitter. Quest’ultimo è un modello geometrico di Universo dominato dall’energia del vuoto che si espande accelerando: uno spazio-tempo che si espande in modo accelerato in ogni punto, come un palloncino che si gonfia sempre più velocemente.

Il ruolo delle onde gravitazionali

Il nuovo modello non si basa su ipotetici campi o particelle come, ad esempio, il campo chiamato “inflatone”. Piuttosto suggerisce che le naturali oscillazioni quantistiche dello spazio-tempo stesso sotto forma di onde gravitazionali quantistiche (“gravitoni”) siano state sufficienti a innescare le minuscole fluttuazioni di densità che alla fine hanno dato origine a galassie, stelle e pianeti.

Queste increspature gravitazionali evolvono in modo non lineare, il che significa che interagiscono e costruiscono complessità nel tempo, portando a previsioni verificabili che i ricercatori possono oggi analizzare, vagliare e confrontare con i dati misurati da esperimenti terrestri e dallo spazio.

«Comprendere l’origine dell’Universo non è solo una ricerca filosofica, ci aiuta a rispondere a domande fondamentali su chi siamo e da dove proviene tutto. Questa nuova proposta fornisce un quadro essenziale ma potente: offre previsioni chiare che le future osservazioni, come la misurazione dell’ampiezza delle onde gravitazionali primordiali e lo studio statistico della struttura cosmica, potranno eventualmente confermare o confutare – dicono gli autori della nuova teoria pubblicata -. Non solo, questo nuovo approccio dimostra che non sono necessari ulteriori ingredienti speculativi per spiegare il cosmo, ma solo di una profonda comprensione della gravità e della fisica quantistica. Questo modello potrebbe segnare un nuovo capitolo nel modo in cui pensiamo alla nascita dell’Universo».

Daniele Bertacca, Raul Jimenez, Sabino Matarrese e Angelo Ricciardone, Inflation without an inflaton” – «Physical Review Research Letters» 2025, link alla ricerca: https://journals.aps.org/prresearch/abstract/10.1103/vfny-pgc2

Padova, 22 luglio 2025

foto di cielo stellato
Un nuovo modello per comprendere le origini dell’universo e superare il paradigma teorico inflazionario; lo studio è pubblicato su Physical Review Research Letters. Foto di Hans 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

L’1% DEGLI INVESTIMENTI NELL’EOLICO OFFSHORE POTREBBE RIPRISTINARE MILIONI DI ETTARI DI VITA MARINA – Team internazionale di ricercatori, tra cui Laura Airoldi dell’Università di Padova, ha pubblicato su «BioScience» uno studio che evidenzia i potenziali benefici dell’energia eolica per piante, animali e società

I parchi eolici offshore non solo forniscono energia pulita, ma possono anche svolgere un ruolo fondamentale nel ripristino degli ecosistemi vulnerabili, sia sopra che sotto la superficie del mare. Questo include habitat dei fondali marini, barriere coralline, praterie di fanerogame marine e zone umide costiere: ecosistemi essenziali per la biodiversità, le popolazioni ittiche e la resilienza climatica.

Contribuire con solo l’1% degli investimenti globali nei progetti eolici offshore entro il 2050 sarebbe sufficiente per il ripristino su larga scala della natura marina: a rivelarlo è lo studio internazionale dal titolo Financing marine restoration through offshore wind investments, pubblicato sulla rivista scientifica «BioScience» a cui ha preso parte Laura Airoldi, docente di Ecologia dell’Università di Padova nella Stazione idrobiologica “Umberto d’Ancona” di Chioggia (di cui è responsabile) e afferente al Centro Nazionale di Biodiversità finanziato dal PNRR.

La ricerca, coordinata dall’Istituto Reale Neerlandese per la Ricerca Marina (Royal Netherlands Institute for Sea Research, il centro oceanografico nazionale dei Paesi Bassi) nell’ambito del programma The Rich North Sea, un’iniziativa delle ONG olandesi Natuur & Milieu (Natura & Ambiente) e North Sea Foundation, arriva in un momento critico: gli obiettivi ambientali globali stanno diventando irraggiungibili – come quello dell’ONU di ripristinare il 30% degli ecosistemi degradati entro il 2030 – a causa della mancanza di finanziamenti e di politiche mirate.

I ricercatori hanno evidenziato che sarebbe sufficiente destinare solo l’1% degli investimenti globali nell’eolico offshore da qui al 2050 per finanziare il ripristino di milioni di chilometri quadrati di ecosistemi marini, come barriere coralline, mangrovie, praterie sottomarine e scogliere di ostriche.

«Il ripristino degli ecosistemi marini non avvantaggia solo piante e animali, ma anche le persone. Mari e coste in buona salute assorbono carbonio, proteggono le rive e sostengono le popolazioni ittiche. Secondo lo studio, ogni dollaro investito nel ripristino degli ecosistemi può generare tra 2 e 12 dollari in benefici per la società», spiega Laura Airoldi, coautrice del lavoro e docente dell’Ateneo patavino. «Questo è particolarmente rilevante in vista della crescita esponenziale prevista del settore eolico offshore: dai 56 gigawatt del 2021 si passerà, secondo le stime, a 2.000 gigawatt entro il 2050».

«L’eolico offshore ha un’opportunità unica: non solo sostenere la transizione energetica, ma anche diventare la prima industria marina a contribuire in modo netto e positivo al ripristino su larga scala degli ecosistemi», aggiunge Christiaan van Sluis (The Rich North Sea), autore principale dello studio. «Integrando fin da ora requisiti strategici per la biodiversità nei processi di autorizzazione e assegnazione delle gare, possiamo invertire la perdita di biodiversità con solo una frazione dell’investimento complessivo».

Laura Airoldi
L’1% degli investimenti nell’eolico offshore potrebbe ripristinare milioni di ettari di vita marina; i benefici dell’energia eolica per piante, animali e società. In foto, Laura Airoldi

Con questo lavoro gli autori esortano i governi a rendere il ripristino marino un requisito standard nella normativa sull’eolico offshore: ciò includerebbe l’obbligo di destinare una percentuale fissa degli investimenti dei progetti alla biodiversità marina attraverso condizioni di licenza o criteri non basati sul prezzo nelle gare d’appalto. Con l’espansione accelerata del settore, il ripristino della natura dovrebbe essere integrato in modo strutturale nelle politiche.

Riferimenti bibliografici:

Christiaan J van Sluis, Eline van Onselen, Laura Airoldi, Carlos M Duarte, Helena F M W van Rijswick, Tjisse van der Heide, Renate A Olie, Marjolein Kelder, Tjeerd J Bouma, Financing marine restoration through offshore wind investments – «BioScience» – 2025, link: https://academic.oup.com/bioscience/advance-article/doi/10.1093/biosci/biaf092/8185302

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

QUANDO L’IA IMPARA PIÙ CHE SEMPLICI PAROLE: L’intelligenza artificiale sta iniziando a riconoscere anche le nostre risposte emotive

Le descrizioni testuali delle immagini utilizzate per addestrare i moderni modelli di IA generativa contengono non solo informazione sul contenuto semantico dell’immagine, ma anche sullo stato emotivo della persona che fornisce la descrizione: i risultati della ricerca pubblicata dal team padovano sulla rivista «Royal Society Open Science»

Zaira Romeo, Istituto di Neuroscienze del CNR, e Alberto Testolin, Dipartimento di Psicologia Generale e Dipartimento di Matematica dell’Università di Padova, hanno pubblicato sulla rivista «Royal Society Open Science» l’articolo dal titolo “Artificial Intelligence Can Emulate Human Normative Judgments on Emotional Visual Scenes”. In questo studio hanno testato vari modelli linguistici multimodali di grandi dimensioni per verificare se fossero in grado di emulare le reazioni emotive umane di fronte ad una varietà di scene visive. Le valutazioni fornite dall’IA hanno mostrato una sorprendente corrispondenza con quelle umane, nonostante questi sistemi non fossero stati addestrati specificamente per fornire giudizi emozionali sulle immagini. Questo studio non solo dimostra che il linguaggio può supportare lo sviluppo di concetti emotivi nei moderni sistemi di IA, ma solleva anche importanti interrogativi su come si potranno impiegare queste tecnologie in contesti sensibili, come l’assistenza agli anziani, l’istruzione ed il supporto alla salute mentale.

un'immagine generata dall'intelligenza artificiale

La ricerca

«Abbiamo analizzato le risposte di alcuni moderni sistemi di IA generativa (GPT, Gemini e Claude) a specifiche domande sul contenuto emotivo di un insieme di scene visive. I sistemi presi in esame sono tutti basati su modelli cosiddetti di deep learning, ovvero reti neurali su larga scala costituite da miliardi di neuroni collegati tra di loro che vengono “addestrate” su enormi quantità di testo e immagini. Lo scopo dell’addestramento è imparare ad associare ad una certa immagine una corrispondente descrizione testuale plausibile (per esempio, “Un gatto nero che rincorre un topo in un solaio”) in base a milioni di esempi reperiti online o forniti da esperti umani. Abbiamo posto all’IA lo stesso tipo di domande che si fanno ai soggetti umani durante gli esperimenti sulla percezione e sulla valutazione delle emozioni, utilizzando un insieme di stimoli visivi standardizzati, composto da immagini con diversi tipi di contenuto emotivo», dicono Zaira Romeo e Alberto Testolin. «Le immagini potevano rappresentare animali, persone, paesaggi ed oggetti, in accezione positiva (come un volto sorridente, due persone che si abbracciano o un campo di fiori), negativa (come una situazione di pericolo, un animale ferito, un ambiente sporco), oppure neutra (ad esempio un oggetto di uso quotidiano o un paesaggio urbano). È fondamentale notare che in questo studio – continuano gli autori – abbiamo utilizzato un insieme di immagini appartenenti ad un database di ricerca privato, fornitoci dai colleghi del Nencki Institute for Experimental Biology dell’Università di Varsavia, assicurandoci quindi che nessuna IA avesse mai analizzato questo tipo di stimoli visivi durante la fase di addestramento».

Si sono dapprima indagate tre dimensioni affettive fondamentali che vengono normalmente utilizzate per caratterizzare le risposte emotive umane: piacevolezza, tendenza all’allontanamento/avvicinamento e attivazione (detta anche “coinvolgimento”). Si è sottoposta l’IA a quesiti particolari quali “Come giudichi questa immagine? Come reagisci a questa immagine? Come ti senti dopo aver visto questa immagine?” classificando le risposte rispettivamente con scale numeriche: da 1 “molto negativa” a 9 “molto positiva”; da 1 “la eviterei” a 9 “mi avvicinerei”; infine da 1 “rilassato” a 9 “attivato”. Si sono poi indagate anche le reazioni a sei emozioni di base: felicità, rabbia, paura, tristezza, disgusto e sorpresa, chiedendo all’IA di fornire un punteggio in risposta a richieste del tipo: “Giudica l’intensità dell’emozione di felicità evocata da questa immagine”.

I risultati

Le valutazioni date dall’IA hanno mostrato una sorprendente corrispondenza con quelle fornite da valutatori umani, nonostante questi sistemi non fossero stati addestrati specificamente per fornire questo tipo di giudizi emozionali su scene visive, sia rispetto alle tre dimensioni affettive fondamentali sia rispetto alle sei emozioni di base. GPT ha fornito le risposte più allineate, mostrando però una chiara tendenza a sovrastimare i giudizi umani, soprattutto per stimoli associati ad una forte carica emotiva. È anche interessante notare che spesso l’IA dichiarava esplicitamente di provare ad indovinare la risposta ipotizzando il tipo di giudizio che avrebbe dato un essere umano “medio”.

«Per esempio, in risposta ad un’immagine che rappresentava alcuni cammelli in un deserto con delle palme sullo sfondo l’IA ha risposto: Come modello di IA, non ho reazioni personali o emotive. Tuttavia, posso fornire una risposta oggettiva basata sulla reazione tipica che avrebbe un umano a questa scena. L’immagine raffigura una tranquilla scena di cammelli in un deserto, che molte persone troverebbero interessante come possibile esperienza di viaggio esotico, portando quindi ad una tendenza ad approcciare piuttosto che evitare», spiegano Zaira Romeo e Alberto Testolin. «In altri casi al contrario, invece di immedesimarsi in un giudizio medio, l’IA ha simulato la reazione di un particolare gruppo di persone, per esempio attribuendo un punteggio negativo ad un’immagine di un piatto di carne dichiarandosi vegetariana».

Sempre più ricerche scientifiche cercano di caratterizzare le risposte date dai moderni sistemi di IA, sia per capire quanto simili siano alle risposte che darebbe un essere umano sia per verificare che le reazioni dell’IA in determinati contesti siano appropriate, per evitare potenziali ripercussioni negative sugli utenti che la utilizzano. Questo studio è stato il primo a confrontare esplicitamente le risposte date dall’IA con i giudizi emotivi dati da soggetti umani, offrendo una nuova prospettiva sulle competenze emotive di questi sistemi.

«Attenzione però, il fatto che l’IA riesca ad emulare accuratamente i nostri giudizi emotivi non implica affatto che abbia la facoltà di provare emozioni – sottolineano gli autori della ricerca -. La spiegazione più plausibile è che le descrizioni testuali delle immagini utilizzate per addestrare questi sistemi siano estremamente ricche ed informative, al punto da riuscire a trasmettere non solo l’informazione sul contenuto semantico dell’immagine, ma anche sullo stato emotivo della persona che ha fornito la descrizione. Questa ipotesi è ben allineata con le teorie psicologiche che sottolineano l’importanza del linguaggio nel dare forma al pensiero e strutturare il mondo che abitiamo, incluso lo sviluppo delle nostre emozioni. Allo stesso tempo questa ricerca solleva anche importanti interrogativi su come si potranno impiegare le future tecnologie di IA in contesti sempre più sensibili come l’assistenza agli anziani, l’istruzione ed il supporto alla salute mentale – concludono Zaira Romeo e Alberto Testolin -. Oltre ad essere in grado di comprendere il contenuto emotivo di una situazione dovremmo infatti assicurarci che il comportamento adottato dall’IA in questi contesti sia sempre allineato con il nostro sistema di valori etici e morali».

in foto, Zaira Romeo e Alberto Testolin
L’intelligenza artificiale sta iniziando a riconoscere anche le nostre risposte emotive; lo studio su Royal Society Open Science. In foto, gli autori dello studio, Zaira Romeo e Alberto Testolin

Riferimenti bibliografici:

Zaira Romeo, Alberto Testolin, Artificial Intelligence Can Emulate Human Normative Judgments on Emotional Visual Scenes – «Royal Society Open Science» 2025, link: https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rsos.250128

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

TEORIA DELLA COSTRUZIONE DELLA NICCHIA: COME L’AMBIENTE COSTRUITO DALL’UOMO POTREBBE CAMBIARE LA NOSTRA SALUTE E TRASFORMARE IL PIANETA IN UNA “TRAPPOLA EVOLUTIVA”

Uno studio coordinato dall’Università di Padova analizza le interazioni tra i cambiamenti ambientali causati dalle attività umane e le nuove pressioni ecologiche nel breve e lungo termine attraverso la teoria della Costruzione della Nicchia

La salute del pianeta e quella umana sono profondamente interconnesse: la crisi planetaria in atto sta già condizionando il nostro benessere, proiettandoci verso un futuro incerto e segnato da condizioni ambientali sempre più insostenibili, scarsità di risorse e diseguaglianze sociali crescenti.

Per meglio comprendere e affrontare queste complesse sfide di natura sociale, ambientale e sanitaria tra loro interconnesse, lo studio dal titolo Evolutionary Epidemiology: A Look Ahead at Human Non-Communicable Diseases through a Niche Construction Approach, pubblicato sulla rivista «BioScience» e coordinato dal Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, propone di adottare una prospettiva evoluzionistica per far luce sulle cause profonde della nostra dipendenza dalla natura e sui possibili effetti a lungo termine dell’attuale crisi ambientale sul benessere umano.

I ricercatori hanno utilizzato la teoria della Costruzione della Nicchia (Niche Construction Theory, NCT) per indagare come l’essere umano, alterando il mondo naturale, trasformi anche le condizioni ecologiche e sociali (che formano la “nicchia socio-ecologica”) in cui vive. Questi cambiamenti ambientali possono generare nuove pressioni selettive che, per quanto vantaggiose in alcuni casi, potrebbero rivelarsi dannose (maladattative) in condizioni ambientali o sociali diverse, o nel lungo periodo.

«Oggi viviamo in una “nicchia industrializzata”, cioè in un ambiente costruito dagli umani che, pur avendo portato indubbi benefici, sta generando nuove fragilità rivelandosi, per alcuni aspetti, maladattativo», spiega Sofia Belardinelli del Dipartimento di Biologia dell’Ateneo patavino e prima autrice dello studio. «Integrare una prospettiva evolutiva negli studi epidemiologici e nelle analisi sulla salute globale può aiutarci a comprendere il nostro ruolo nella crisi ambientale e nella quarta transizione epidemiologica».

Sofia Belardinelli
Teoria della Costruzione della Nicchia: come l’ambiente costruito dall’uomo potrebbe cambiare la nostra salute e trasformare il pianeta in una trappola evolutiva. In foto, Sofia Belardinelli

Per spiegare questa apparente contraddizione tra vantaggi immediati e il rischio di esiti maladattativi, gli autori dello studio propongono di analizzare le interazioni tra i cambiamenti ambientali causati dalle attività umane, le nuove pressioni ecologiche e selettive che questi generano, – e i potenziali esiti sulla salute –, e gli effetti di queste interazioni in diverse dimensioni spazio-temporali: a livello molecolare, dell’individuo, della popolazione, a breve e lungo termine.

Dopo l’epoca delle pestilenze e delle carestie, e dopo l’epoca della regressione delle malattie infettive, sostituite – secondo la ricostruzione storica dell’epidemiologo Abdel Omran – dalle malattie degenerative e antropogeniche, potremmo oggi trovarci all’inizio di una nuova fase: una quarta transizione segnata da una maggiore instabilità sanitaria, con nuove pandemie e patologie legate alla perdita di biodiversità e al cambiamento climatico.

«Uno sguardo evolutivo può anche aiutare a comprendere come la persistenza delle minacce ambientali sia potenzialmente in grado di alterare l’eredità ecologica – cioè le condizioni ambientali – che trasmettiamo alle future generazioni, cambiando le condizioni in cui vivranno e a cui dovranno adattarsi», conclude Telmo Pievani, coautore dello studio e docente al Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova. «Condizioni non ottimali potrebbero compromettere la nostra capacità di sopravvivere e riprodurci, aumentando il rischio di cadere in una vera e propria trappola evolutiva».

Telmo Pievani
Telmo Pievani

Riferimenti bibliografici:

Sofia Belardinelli, Luigi Garaffa, Telmo Pievani, Paolo Vineis, Evolutionary Epidemiology: A Look Ahead at Human Non-Communicable Diseases through a Niche Construction Approach – «BioScience» – 2025, Link: https://doi.org/10.1093/biosci/biaf095

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova