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Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario

Un team di ricercatori dell’IFOM, dell’Università di Torino e dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, l’Ospedale San Raffaele e l’Istituto di Candiolo, ha individuato una strategia innovativa per rendere i tumori del colon-retto sensibili all’immunoterapia, combinando due chemioterapici specifici. La scoperta, resa possibile grazie al sostegno dell’European Research Council (ERC) e della Fondazione AIRC, è stata pubblicata sull’autorevole rivista scientifica Cancer Cell e apre nuove possibilità terapeutiche per il tumore al colon-retto.

Il problema che affligge, ancora oggi, migliaia di pazienti oncologici è rappresentato dalla mancanza di terapie efficaci sebbene enormi passi avanti siano stati fatti. L’immunoterapia rappresenta una vera rivoluzione in oncologia negli ultimi 15 anni, incrementando le possibilità di cura per pazienti con melanoma, tumore del rene e alcune forme di cancro al polmone. Tuttavia, quando si tratta di tumore del colon-retto metastatico, questa terapia innovativa funziona solo in meno del 5% dei pazienti. La ragione sta nelle caratteristiche molecolari specifiche di questo tipo di cancro, che lo rendono praticamente “invisibile” al sistema immunitario.

“Da circa dieci anni nei nostri laboratorio studiamo una categoria di tumori che presentano un sistema di riparazione del DNA difettoso, chiamato mismatch repair”, spiega Alberto Bardelli, Direttore Scientifico di IFOM e Professore Ordinario del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, coordinatore dello studio. “Questi tumori definiti immunoresponsivi – prosegue Giovanni Germano, Ricercatore di IFOM e Professore associato di Istologia all’Università Statale di Milano, che ha coordinato lo studio insieme a Bardelli – sono particolari perché, a causa di questo difetto, accumulano centinaia di mutazioni che creano nuovi antigeni, ovvero molecole che funzionano come ‘bandierine rosse’ per richiamare l’attenzione del sistema immunitario.”

L’obiettivo era quindi trovare un modo per trasformare i tumori “freddi”, che il sistema immunitario non riesce a vedere, in tumori “caldi” che invece può attaccare efficacemente.

“In questa fase sperimentale, grazie al sostegno di Fondazione AIRC, avevamo già scoperto che alcuni farmaci come la temozolomide riescono a far emergere nel tumore le cellule in grado di presentare quelle bandierine rosse, quelle che il sistema immunitario riesce ad attaccare meglio – spiega Bardelli. – Il problema era che questo approccio funzionava solo per una piccola parte dei pazienti: meno del 20% di chi ha un tumore al colon-retto metastatico.”

“Partendo da queste considerazioni, quattro anni fa abbiamo avviato un percorso di studio innovativo. – illustra Pietro Paolo Vitiello, Ricercatore IFOM e Oncologo medico presso l’Università di Torino, primo autore dello studio pubblicato su Cancer Cell – Abbiamo pensato di osservare cosa succede quando esponiamo le cellule tumorali a specifiche combinazioni di chemioterapici.”

La svolta è arrivata studiando la combinazione di due farmaci: la temozolomide, già nota per la sua capacità di selezionare cellule con difetti nel riparo del DNA, e il cisplatino.

“La combinazione di questi due chemioterapici – prosegue Vitiello – riesce a indurre nelle cellule tumorali uno stato adattativo particolare. Per sfuggire all’azione distruttiva dei farmaci, infatti, le cellule riducono la loro capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA”.

Il meccanismo di difesa del tumore si trasforma paradossalmente in una vulnerabilità:

“Le cellule trattate con questa combinazione – aggiunge Germano – hanno iniziato ad accumulare un numero elevatissimo di mutazioni, creando così tantissime nuove proteine, situazione simile a quando un batterio o un virus invadono da estranei il nostro organismo. È come se il tumore, nel tentativo di proteggersi dalla chemioterapia, si fosse reso riconoscibile e attaccabile dal sistema immunitario.”

Ma i benefici non si fermano qui: “Grazie ad una collaborazione con l’Ospedale San Raffaele – illustra Vitiello – abbiamo osservato che la combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare anche l’ambiente circostante il tumore, il cosiddetto microambiente tumorale, rendendolo più favorevole all’attivazione della risposta immunitaria contro il cancro”.

La ricerca, sostenuta dall’Advanced Grant “TARGET” erogato dall’European Research Council e da un finanziamento della Fondazione AIRC, non è rimasta confinata ai laboratori: grazie a una collaborazione con il gruppo di Luis Diaz al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, i primi 18 pazienti sono già stati trattati con questo approccio chemioterapico sperimentale.

“Il passaggio dai laboratori ai pazienti ha prodotto i primi risultati incoraggianti. – sottolinea Bardelli – le analisi dei campioni ematici di questi pazienti ci confermano che il trattamento funziona: aumenta effettivamente le mutazioni nelle cellule tumorali. Tuttavia – precisa lo scienziato – è ancora necessario un lavoro di ottimizzazione prima di poter proporre questo nuovo regime terapeutico a un numero maggiore di pazienti.”

Questa scoperta rappresenta un cambio di paradigma significativo: invece di combattere direttamente i meccanismi di resistenza del tumore, i ricercatori hanno imparato a sfruttarli.

“Possiamo pensare – riflette Bardelli – a trattamenti sempre più personalizzati che guidino l’evoluzione delle cellule tumorali verso uno stato che è più facilmente trattabile con le terapie immunologiche a disposizione.”

Il prossimo passo? “sarà di valutare – anticipa Bardelli – altre strategie per rendere i tumori più sensibili all’immunoterapia, agendo sia sulla produzione degli antigeni tumorali che sull’interazione tra sistema immunitario e cancro.”

“Questo lavoro dimostra quanto sia importante accorciare le distanze tra le scoperte biologiche e l’applicazione clinica”, conclude lo scienziato “È un risultato che non sarebbe stato possibile senza il programma IFOM dedicato ai Medici-Ricercatori, di cui Vitiello è stato parte integrante fin dal suo arrivo nel nostro istituto. Un programma che crea figure professionali dalle competenze trasversali e fortemente traslazionali.”

 

APPROFONDIMENTO SCIENTIFICO 

Il ruolo del sistema mismatch repair (MMR). I tumori con alterato sistema di riparo del DNA mismatch repair rappresentano il prototipo dei tumori responsivi all’immunoterapia. Questo perché a causa dell’alterato riparo del DNA, questi tumori accumulano centinaia di mutazioni che portano alla formazione di nuovi antigeni, molecole di derivazione proteica in grado di attirare l’attenzione del sistema immunitario.

Meccanismo molecolare della scoperta L’aggiunta di cisplatino alla temozolomide induce nelle cellule tumorali uno stato in cui il riparo del DNA è depotenziato. I due chemioterapici inducono numerosissime mutazioni al DNA tumorale, spingendo le cellule tumorali a ridurre la capacità di riconoscere e riparare i danni al DNA per sfuggire all’azione dei farmaci. Questo adattamento, che protegge transitoriamente le cellule dall’effetto della chemioterapia, crea però una nuova vulnerabilità sfruttabile terapeuticamente, rendendo i tumori più riconoscibili al sistema immunitario e più sensibili all’immunoterapia.

I due chemioterapici protagonisti

  • Temozolomide: farmaco alchilante che danneggia il DNA delle cellule tumorali introducendo lesioni specifiche. È efficace contro tumori con specifiche caratteristiche molecolari, ed è attualmente utilizzato principalmente nel trattamento di alcuni tumori cerebrali.
  • Cisplatino: composto a base di platino che forma legami crociati con il DNA, impedendo la replicazione cellulare. È uno dei chemioterapici più utilizzati in oncologia per il trattamento di tumori solidi come quelli del testicolo, dell’ovaio, della vescica e del polmone.

Modifiche del microambiente tumorale I tumori sono costituiti sia da cellule tumorali che da cellule dell’organismo che circondano e interagiscono con esse, come quelle del sistema immunitario, che costituiscono il cosiddetto “microambiente tumorale”. La combinazione di cisplatino e temozolomide è in grado di modificare le caratteristiche delle cellule presenti microambiente tumorale, potenziando gli elementi in grado di sostenere l’attivazione immunitaria contro il tumore.

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Una nuova prospettiva terapeutica per i tumori del colon-retto: quando la chemioterapia “addestra” il sistema immunitario. Foto di StockSnap

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

STUDIO DEI PROCESSI METABOLICI E INFIAMMATORI LEGATI A CANCRO E MALATTIE CRONICHE: NASCE A UNITO IL NUOVO CENTRO DI RICERCA ATLANTIS
 
Il centro interdipartimentale, diretto dalla Prof.ssa Paola Costelli è specializzato nello studio dell’infiammazione e del metabolismo nel cancro e nelle malattie cronico-degenerative
 

 

È stato inaugurato ieri, venerdì 20 dicembre, il nuovo centro di ricerca Atlantis, nato dalla collaborazione tra il Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, il Dipartimento di Oncologia e il Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino.
Il centro, diretto dalla Prof.ssa Paola Costelli, è specializzato nello studio delle vie metaboliche e della loro interazione con i processi flogistici nella patogenesi del cancro e delle malattie cronico-degenerative.
Atlantis si propone di promuovere la ricerca di base, preclinica e clinica nel campo del metabolismo e dell’infiammazione sfruttando un approccio innovativo ed interdisciplinare, anche nell’ottica di favorire le collaborazioni nazionali ed internazionali. Oltre agli obiettivi di ricerca, Atlantis favorirà la formazione superiore e la divulgazione scientifica, attraverso l’interazione con corsi di dottorato, scuole di specializzazione, centri di ricerca e associazioni di pazienti. Inoltre, promuoverà la collaborazione con l’industria biotecnologica per lo sviluppo di brevetti e tecnologie innovative, facilitando il trasferimento dei risultati della ricerca al settore industriale.
Dal punto di vista tecnologico, Atlantis offre la possibilità di eseguire analisi metabolomiche e proteomiche ‘targeted’ e ‘untargeted’ sia su fluidi biologici (bulk) che su matrici solide (spatial metabolomic/proteomic). Più semplicemente, le strumentazioni presenti in Atlantis rendono possibile analizzare il profilo metabolomico/proteomico di un campione biologico, identificare i metaboliti di interesse e analizzare la loro distribuzione a livello cellulare.
“L’inaugurazione di Atlantis è un momento importante non solo per il Polo di Medicina Orbassano-Candiolo, ma per tutta la Scuola di Medicina e per l’Università di Torino” – afferma Paola Costelli, direttrice del Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche e del centro di Ricerca Atlantis“Il Centro Atlantis si pone come una realtà di ricerca all’avanguardia sul territorio regionale e nazionale, essendo equipaggiato per effettuare analisi metabolomica e lipidomica su diverse matrici biologiche. Anche se al momento siamo ancora relativamente lontani dal rendere l’analisi metabolomica una routine nella pratica clinica, le applicazioni di queste tecnologie in ambito biomedico sono vastissime. A solo titolo di esempio, possiamo citare l’identificazione di biomarcatori utili a fini diagnostici, prognostici e di follow-up della malattia, permettendo così di personalizzare l’approccio terapeutico”.
Inaugurazione del Centro di Ricerca Atlantis, da sinistra Cristian Fiori, Cristina Prandi, Andrea Graziani, Elisabetta Bugianesi, Paola Costelli
Inaugurazione del Centro di Ricerca Atlantis, da sinistra Cristian Fiori, Cristina Prandi, Andrea Graziani, Elisabetta Bugianesi, Paola Costelli

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

ALL’UNIVERSITÀ DI TORINO 1,8 MILIONI DI EURO PER RIVOLUZIONARE LE TERAPIE TUMORALI ANTI-ANGIOGENESI DEL PROGETTO COOLISH

COOLISH, progetto di ricerca interdisciplinare del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e del Candiolo Cancer Institute-IRCCS-FPO, ha ottenuto un importante finanziamento di 1,8 milioni di euro dal Fondo Italiano per le Scienze Applicate (FISA), il programma del Ministero dello Sviluppo Economico istituito con la legge di bilancio 2022, che ha l’obiettivo di innalzare il livello di attrazione, competitività e innovazione dell’Italia, elevando la capacità di fare ricerca.

Il progetto COOLISH ha lo scopo di ottimizzare la scoperta di molecole bioattive in ambito oncologico attraverso il superamento degli attuali limiti presenti nelle colture cellulari bidimensionali e dei modelli tridimensionali, poco efficaci nel riprodurre il microambiente tumorale. L’obiettivo è sviluppare una piattaforma basata su organoidi vascolarizzati derivati da pazienti con tumori di difficile trattamento, come l’adenocarcinoma duttale pancreatico, il carcinoma polmonare non a piccole cellule e il melanoma metastatico, noti per essere refrattari o scarsamente responsivi alle attuali terapie anti-angiogeniche. Questa progetto consentirà di testare un’ampia libreria di molecole, già approvate alla sperimentazione umana dalle agenzie regolatorie, per identificare composti in grado di bloccare la crescita degli organoidi tumorali attraverso il blocco dell’angiogenesi, ossia il processo di formazione di formazione di nuovi vasi sanguigni.

“I farmaci anti-angiogenetici – spiega il Prof. Federico Bussolino, Direttore del laboratorio di Oncologia vascolare al Candiolo Cancer Institute – sono fondamentali nella lotta contro il cancro perché bloccano la formazione di nuovi vasi sanguigni, impedendo al tumore di crescere e diffondersi. Agiscono in modo mirato e possono essere combinati con altre terapie per aumentarne l’efficacia. Tuttavia le molecole anti-angiogenetiche attualmente disponibili non sono efficaci in tutti i tumori, che per altro richiedono la vascolarizzazione per la loro progressioneLa presenza di un team multidisciplinare supportato da un finanziamento importante quale FISA 2022 permetterà a COOLISH di effettuare nei prossimi quattro anni una Ricerca ad alto profilo diretta a innovare questi trattamenti, offrendo di riflesso nuove speranze ai pazienti”.

COOLISH è una piattaforma multidisciplinare sviluppata dal Prof. Federico Bussolino del Candiolo Cancer Institute-IRCCS-FPO, dal Prof. Luca Primo del Dipartimento di Oncologia, dalla Prof.ssa Laura Anfossi del Dipartimento di Chimica e del Prof. Marco L. Lolli del Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco.

tumori infantili RNA
Foto di RyanMcGuire

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Individuato un nuovo potenziale biomarcatore della SLA: GDF15, la proteina che riduce l’appetito
Uno studio internazionale, coordinato da Sapienza Università di Roma, ha dimostrato il coinvolgimento della citochina GDF15, nota per causare la riduzione dell’appetito, nella progressione della SLA. Il lavoro, pubblicato sulla rivista Brain Behavior and Immunity, suggerisce un nuovo potenziale biomarcatore e bersaglio terapeutico per il trattamento della malattia.

 

La sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è una malattia multifattoriale caratterizzata dalla degenerazione progressiva dei motoneuroni e dalla paralisi muscolare. Nonostante i trattamenti attualmente utilizzati, i pazienti sopravvivono solo 3-5 anni dopo la diagnosi iniziale.

La perdita di peso è un’importante caratteristica clinica, al momento della diagnosi, delle persone affette da SLA. Con una prevalenza stimata del 56%-62%, la perdita di peso è definita come un rilevante e indipendente fattore prognostico. Diversi studi hanno riportato che il decorso della malattia è sfavorevole quando i pazienti perdono peso rapidamente o hanno un indice di massa corporea basso al momento della diagnosi.

Lo studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, che ha visto la partecipazione dei dipartimenti di Fisiologia e Farmacologia, di Chimica e Tecnologie del Farmaco, di Neuroscienze Umane e dell’Università di Amsterdam, ha dimostrato che la citochina GDF15 è coinvolta nelle disfunzioni metaboliche che caratterizzano la patologia.

Utilizzando un modello murino della patologia e campioni di pazienti affetti da SLA, i ricercatori hanno osservato che GDF15 è altamente espresso nel sangue periferico e in campioni di tessuto umano a livello della corteccia cerebrale motoria, nel midollo spinale e nel tronco encefalico.

In particolare, lo studio si è focalizzato sul ruolo del recettore GFRAL, presente nei neuroni di una regione specifica del sistema nervoso centrale, e cioè l’area postrema e il nucleo del tratto solitario. I ricercatori hanno mostrato che silenziando l’espressione del GFRAL solo in queste regioni provocava un rallentamento della perdita di peso e di tessuto adiposo, il miglioramento della funzione motoria e una maggiore sopravvivenza nei topi.

I risultati dello studio evidenziano un coinvolgimento dell’asse GDF15-GFRAL nella modulazione delle alterazioni metaboliche alla base della perdita di peso e della progressione della malattia nella SLA. La ricerca mette in luce l’importanza di aumentare l’attenzione sull’aspetto nutrizionale e sui cambiamenti metabolici nei pazienti per anticipare la diagnosi della malattia e per sviluppare interventi terapeutici innovativi.

“Questo studio contribuisce ad aumentare la nostra comprensione dei meccanismi alla base della sclerosi laterale amiotrofica – commenta Cristina Limatola del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza. Sappiamo infatti che la SLA non è più definibile come una patologia del motoneurone, perchè numerose alterazioni sono state descritte a carico della componente gliale e del sistema immunitario prima che si manifestino sintomi nei pazienti e prima che sia misurabile un danno neurodegenerativo. La nostra scoperta del coinvolgimento della citochina GDF15 nella perdita di peso che precede la manifestazione dei sintomi della SLA conferma l’importanza di un approccio olistico per una diagnosi precoce della malattia e l’identificazione di nuovi bersagli terapeutici”.

 

Riferimenti bibliografici:

Cocozza G., Busdraghi L. M., Chece G., Menini A., Ceccanti M., Libonati L., Cambieri C., Fiorentino F., Rotili D., Scavizzi F., Raspa M., Aronica E., Inghilleri M., Garofalo S., Limatola C., “GDF15-GFRAL signaling drives weight loss and lipid metabolism in mouse model of amyotrophic lateral sclerosis”, Brain, Behavior, and Immunity (2025) DOI: https://doi.org/10.1016/j.bbi.2024.12.010

microscopio cellule invecchiamento
Individuato un nuovo potenziale biomarcatore della SLA: GDF15, la proteina che riduce l’appetito; lo studio su Brain, Behavior, and Immunity. Foto PublicDomainPictures 

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Long COVID: scoperta la causa dei disturbi polmonari: il danno polmonare può essere causato da uno stato infiammatorio

I risultati di uno studio di Monzino e Università Statale di Milano, pubblicati sul Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science, identificano nell’infiammazione di basso grado e nell’attivazione piastrinica la causa dei danni polmonari, responsabili dei maggiori disturbi nella sindrome Long Covid, rendendo possibile una cura farmacologica personalizzata.

Milano, 12 dicembre 2024 – Un gruppo di ricercatori dell’IRCCS Centro Cardiologico Monzino e dell’Università degli Studi di Milano, guidati da Marina Camera, Responsabile dell’Unità di Ricerca di Biologia Cellulare e Molecolare Cardiovascolare del Monzino e Professore Ordinario di Farmacologia presso l’Università Statale di Milano, in collaborazione con i clinici del Centro Cardiologico Monzino e dell’Istituto Auxologico Italiano, ha individuato i meccanismi molecolari alla base dei disturbi polmonari nei pazienti che soffrono della sindrome Long COVID, aprendo la strada a una possibile terapia.

I dati della ricerca, pubblicati su JACC BTS (Journal of American College of Cardiology Basic to Translational Science) evidenziano che in questi pazienti il danno polmonare può essere causato da uno stato infiammatorio con attivazione delle piastrine che legandosi ai leucociti formano nel sangue degli etero-aggregati. Questi etero-aggregati, entrando nel microcircolo polmonare, possono determinare danno vascolare e alveolare promuovendo deposizione di tessuto fibrotico responsabile dei principali sintomi riferiti dai pazienti con Long COVID (dispnea, dolore toracico, astenia etc etc). Mediante esperimenti in vitro effettuati con il plasma di questi pazienti, lo studio suggerisce anche che i farmaci antiinfiammatori e antiaggreganti sono in grado di contrastare questi processi e rappresentano dunque una potenziale opzione terapeutica.

Benché l’emergenza pandemica COVID-19 sia terminata, il virus persiste nella popolazione e gli effetti di lungo termine dell’infezione – il cosiddetto Long COVID appunto – hanno ancora un forte impatto negativo sulla qualità di vita di un’alta percentuale di soggetti che hanno contratto la malattia in forma più o meno grave. I sintomi più preoccupanti del Long COVID sono riconducibili alla compromissione del parenchima polmonare e possono durare anche un anno dopo la fase acuta dell’infezione. Per questo la ricerca cardiovascolare internazionale si è concentrata sulle cause della persistenza dei sintomi post-COVID.

Diversi studi sostengono l’ipotesi che il danno polmonare sia causato dalla prolungata disfunzione endoteliale e dall’attivazione delle cellule immunitarie, con produzione di citochine che sostengono il processo infiammatorio. Tuttavia la fisiopatologia dei sintomi e le ragioni dello stato infiammatorio e della conseguente disfunzione polmonare non sono state del tutto chiarite.

I nostri studi hanno identificato un ruolo centrale, che nessuno aveva ancora considerato, sia dell’infiammazione cronica di basso grado che delle piastrine. Livelli anche di poco superiori ai limiti di normalità di proteina C reattiva e di interleuchina 6 possono infatti sinergizzare e sostenere l’attivazione delle piastrine. Gli aggregati che esse formano con i leucociti potrebbero dunque spiegare la disfunzione polmonare promuovendo deposizione di tessuto fibrotico che compromette la funzionalità polmonare”, dichiara Marina Camera.

Nell’era COVID, fra luglio e ottobre 2020, abbiamo reclutato presso il Centro Cardiologico Monzino e l’Istituto Auxologico Italiano 204 pazienti che avevano contratto il COVID nei mesi precedenti. Escludendo chi soffriva di gravi malattie pregresse o stava assumendo una terapia anticoagulante, abbiamo identificato 34 pazienti con sintomi di Long COVID che sono stati quindi confrontati con altrettanti soggetti che non presentavano sintomi dopo l’infezione da COVID-19. A questi soggetti è stato effettuato un prelievo di sangue per la valutazione dello stato di attivazione delle piastrine. I dati ottenuti hanno chiaramente indicato come nei soggetti sintomatici il danno polmonare evidenziato dagli esami TAC sia significativamente associato a un fenotipo piastrinico pro-infiammatorio”, spiega Marta Brambilla, ricercatrice del centro Cardiologico Monzino e prima firma del lavoro.

La ricerca pubblicata su JACC va a completare gli studi sull’impatto cardiovascolare del COVID-19, confermando l’eccellenza, riconosciuta a livello internazionale, del Centro Cardiologico Monzino su questo fronte. “Abbiamo dapprima identificato nel profilo procoagulante piastrinico il meccanismo responsabile delle complicanze trombotiche nei pazienti con infezione acuta da COVID-19. Abbiamo anche evidenziato che i quattro vaccini anti-COVID utilizzati durante la pandemia, pur inducendo un transiente stato infiammatorio tipico della stimolazione immunitaria, non inducono attivazione piastrinica e dunque non aumentano il rischio trombotico nella popolazione generale. Questo ultimo lavoro evidenzia infine non solo i meccanismi fisiopatologici, ma anche i biomarcatori utili per personalizzare la terapia farmacologica nella gestione della sindrome del Long COVID”, conclude Marina Camera.

Immagine di Gerd Altmann

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Nuove frontiere per il trattamento della SLA: la proteina HuD, un nuovo possibile target terapeutico
Lo studio, pubblicato su Nature Communications e coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha osservato un coinvolgimento della proteina HuD nei difetti della giunzione neuromuscolare, tra i primi segni distintivi della patologia. I risultati aprono allo sviluppo di nuove terapie mirate.

La SLA è una malattia neurodegenerativa progressivamente invalidante, dovuta alla compromissione graduale dei neuroni motori, le cellule nervose che stimolano la contrazione muscolare permettendo il movimento e altre funzioni importanti. Quando nei pazienti i neuroni motori degenerano, i muscoli volontari non ricevono più stimoli dal cervello e si atrofizzano, portando così alla paralisi completa. Attualmente, si utilizzano trattamenti capaci di ridurre i sintomi della malattia ma non esiste una cura per fermarne la progressione.

I difetti della giunzione neuromuscolare – il punto di connessione tra i neuroni motori e il muscolo – sono tra i primi segni distintivi della SLA.

Da quanto emerge dalla ricerca, condotta dal gruppo di Alessandro Rosa del Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e l’Università di Pittsburgh, ci sarebbe un legame tra la disregolazione di una specifica proteina, denominata HuD, e i disturbi della giunzione neuromuscolare nei pazienti affetti da SLA.

“I risultati ottenuti individuano in questa proteina un ruolo cruciale in un momento precoce della malattia suggerendola quindi come un possibile target in ambito terapeutico”, ha sottolineato Alessandro Rosa.

La ricerca ha mostrato come livelli elevati di proteina HuD possano portare a difetti alla giunzione neuromuscolare con conseguente degenerazione dei neuroni motori. Riducendo quindi i livelli della proteina con terapie mirate si potrebbero limitare i disturbi della giunzione neuromuscolare nei pazienti.

Questa evidenza è stata confermata in vivo in un modello animale, il moscerino Drosophila melanogaster, in cui la sovraespressione della proteina causa difetti nella locomozione, mentre la sua riduzione migliora il fenotipo motorio.

Il progetto è stato finanziato dal PNRR nell’ambito del Centro Nazionale 3 – Sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA. Per il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie hanno contribuito al lavoro anche Alessio Colantoni e Monica Ballarino.

Riferimenti bibliografici:

“HuD impairs neuromuscular junctions and induces apoptosis in human iPSC and Drosophila ALS models” – Beatrice Silvestri, Michela Mochi, Darilang Mawrie, Valeria de Turris, Alessio Colantoni, Beatrice Borhy, Margherita Medici, Eric Nathaniel Anderson, Maria Giovanna Garone, Christopher Patrick Zammerilla, Marco Simula, Monica Ballarino, Udai Bhan Pandey & Alessandro Rosa, Nature Communications, volume 15, Article number: 9618 (2024) doi: https://www.nature.com/articles/s41467-024-54004-8

Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Terapie a RNA: fotografata l’interazione tra RNA e serina idrossimetiltrasferasi, una proteina metabolica coinvolta nella crescita dei tumori

In uno studio internazionale, coordinato dal Dipartimento di Scienze biochimiche A. Rossi Fanelli della Sapienza Università di Roma, è stata utilizzata una tecnica all’avanguardia per cogliere i dettagli del meccanismo di inibizione di una proteina metabolica da parte dell’RNA. I risultati della ricerca sostenuta da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell. Se i dati saranno confermati in ulteriori studi, potranno offrire nuove speranze di applicazione delle terapie a RNA nella lotta contro il cancro.

Le cellule tumorali sono in grado di rielaborare le proprie funzioni in modo da crescere più velocemente e sopravvivere a condizioni avverse, aumentando per esempio la produzione di specifiche proteine. La ricerca potrebbe fornire strumenti per interferire con questi processi tramite terapie a base di RNA. Queste ultime infatti potrebbero a breve rivoluzionare la medicina, grazie alla loro capacità di influenzare direttamente l’espressione genica e di conseguenza la produzione di proteine all’interno delle cellule.

Il gruppo di ricerca guidato da Francesca Cutruzzolà della Sapienza Università di Roma ha chiarito i dettagli di un nuovo meccanismo per bloccare selettivamente l’attività della serina idrossimetiltrasferasi (SHMT), una proteina che ha un ruolo chiave nella crescita tumorale, utilizzando l’RNA come molecola inibitoria. La ricerca è avvenuta in collaborazione con il Dipartimento di Chimica e Tecnologie del farmaco della Sapienza, l’IBPM-CNR, le università di Milano e di Pavia e altre istituzioni nazionali e internazionali.

Grazie alla microscopia crioelettronica, una tecnica all’avanguardia che permette di osservare le molecole allo stato nativo con una risoluzione senza precedenti, i ricercatori hanno potuto osservare l’interazione tra SHMT1 e RNA a livello atomico. Ciò ha consentito di comprendere dettagliatamente il meccanismo di inibizione dell’enzima.

“Questa tecnica permette di scattare una fotografia di un oggetto oltre mille volte più piccolo di una singola cellula”, commentano Sharon Spizzichino e Federica Di Fonzo del gruppo di ricerca della Sapienza.

“La fotografia a livello atomico dell’interazione tra RNA e proteine metaboliche – spiega Francesca Cutruzzolà, coordinatrice dello studio – rappresenta un importante traguardo nella ricerca biomedica, aprendo la strada a nuove frontiere nel trattamento delle malattie attraverso terapie innovative basate sull’RNA”.

I risultati ottenuti aprono la strada a una comprensione più profonda dei meccanismi molecolari alla base delle terapie a RNA, fondamentale per lo sviluppo di trattamenti più efficaci e meno invasivi per numerose condizioni patologiche. La ricerca è stata sostenuta da AIRC, e da altri fondi quali quelli del Piano nazionale ripresa resilienza (PNRR) assegnati al progetto dal titolo “National Center for Gene Therapy and Drugs based on RNA Technology.

 

Riferimenti bibliografici:

Structure-based mechanism of riboregulation of the metabolic enzyme SHMT1 – S. Spizzichino, F. Di Fonzo, C. Marabelli et al., Mol. Cell. – DOI:https://doi.org/10.1016/j.molcel.2024.06.016

 

microscopio cellule invecchiamento
Foto PublicDomainPictures

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia

Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza e dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma e pubblicato su Nature Communications ha individuato in un farmaco impiegato in terapie sperimentali contro il cancro un possibile approccio terapeutico per il trattamento della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è una malattia neurodegenerativa causata dalla progressiva perdita di motoneuroni, le cellule predisposte al controllo dei movimenti volontari dei muscoli.  A oggi non esiste una cura efficace per questa rara patologia.

In un recente studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma e dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Roma, pubblicato sulla rivista Nature Communications e finanziato da un progetto ERC-Synergy, è stato scoperto che un farmaco già impiegato in terapie sperimentali contro il cancro potrebbe avere effetti benefici anche sulla SLA, aprendo nuove importanti prospettive terapeutiche.

I ricercatori, coordinati da Irene Bozzoni del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e del centro CLNS2 di IIT di Roma, sono partiti dallo studio di specifiche condizioni che determinano la formazione nelle cellule di strutture chiamate granuli da stress. La funzione di tali strutture è quella di proteggere temporaneamente le molecole di RNA e di proteine fino alla risoluzione dello stato di stress. Circa il 10% dei casi totali di SLA sono causati da mutazioni in proteine che in molti casi sono componenti dei granuli da stress. Queste alterazioni provocano la produzione di proteine aberranti che trasformano i granuli in aggregati tossici per i motoneuroni. In particolare nella SLA, così come in altre malattie neurodegenerative, ciò che risulta alterato sono il numero, la composizione e le dinamiche di formazione e dissociazione di questi granuli.

Il gruppo di ricercatori ha scoperto che una specifica modifica chimica dell’RNA, nota come N6-metiladenosina (m6A), ha un ruolo cruciale nell’alterazione delle dinamiche di formazione e dissociazione dei granuli in forme particolarmente aggressive di SLA: la malattia è caratterizzata da livelli di m6A aumentati e il loro ripristino a livelli fisiologici è in grado di ristabilire le normali proprietà dei granuli da stress.

“Siamo riusciti a diminuire i livelli di m6A utilizzando una molecola (STM2457) attualmente impiegata nella sperimentazione clinica per la cura di tumori leucemici – spiega Irene Bozzoni – Questa scoperta apre alla possibilità di utilizzarla anche come nuovo approccio terapeutico per il trattamento della SLA”.

I risultati dello studio rappresentano un prezioso contributo per la comprensione dei meccanismi cellulari alla base della patologia e, soprattutto, individuano nelle modifiche dell’RNA promettenti target terapeutici per contrastare la SLA.

Riferimenti bibliografici:

M6A reduction relieves FUS-associated ALS granules – Di Timoteo et al.

Nature Communications – DOI: 10.1038/s41467-024-49416-5

microscopio cellule invecchiamento
Sclerosi Laterale Amiotrofica – SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia. Foto PublicDomainPictures

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Identificato il meccanismo che consente alle cellule del tumore al pancreas di sopravvivere e proliferare in assenza di nutrienti
Uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature Signal Transduction and Targeted Therapy, che ha visto la collaborazione multidisciplinare di diversi centri in Italia fra cui la Sapienza Università di Roma, ha svelato per la prima volta il meccanismo di sopravvivenza e progressione neoplastica di questo tumore, aprendo la strada a nuovi approcci terapeutici.

Da un punto di vista biologico, le cellule tumorali sono continuamente sottoposte a stress: il loro microambiente infatti è povero di ossigeno e soprattutto povero di nutrienti. Questo è particolarmente vero per il tumore del pancreas, una delle neoplasie più temibili dei nostri tempi, spesso resistente ai trattamenti. Come il tumore del pancreas sia in grado di mantenere un alto tasso di proliferazione in carenza di nutrienti è ancora ignoto.

Uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature Signal Transduction and Targeted Therapy, che ha visto la collaborazione multidisciplinare di diversi centri in Italia fra cui la Sapienza Università di Roma, ha svelato per la prima volta il meccanismo di sopravvivenza e progressione di questo tumore, aprendo la strada a nuovi approcci terapeutici.

Secondo i ricercatori, alla base vi è la mancata espressione di una piccola molecola di RNA non codificante (microRNA) denominata miR-15a, la quale è normalmente espressa nel pancreas sano ma viene spesso persa durante le fasi precoci di trasformazione neoplastica. Il miR-15a rappresenta una sorta di freno molecolare che mantiene costantemente bassi i livelli della proteina Fra-2, un fattore di trascrizione di cruciale importanza per la risposta del tumore allo stress.

In assenza di miR-15a, le cellule tumorali sollecitate dalla carenza di nutrienti sono libere di esprimere il fattore di trascrizione Fra-2 che, a cascata, attiva la trascrizione di geni fondamentali per la loro sopravvivenza. Tra i geni targets di Fra-2, vi è il recettore per IGF1 (IGF1-recettore), responsabile dello stimolo proliferativo.

“La scoperta di questo meccanismo – spiega Gian Luca Rampioni Vinciguerra, primo nome dello studio e ricercatore del Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare della Sapienza – accresce la nostra comprensione della malattia e fornisce un razionale utile per l’impostazione delle terapie. Nei nostri modelli, il tumore del pancreas in carenza di nutrienti diventa dipendente dall’attivazione di IGF1-recettore e, quindi, estremamente sensibile alla sua inibizione farmacologica, che diventa un’arma estremamente efficace per contrastare la crescita tumorale”.

Il lavoro è stato concepito dal Professor Carlo Maria Croce (The Ohio State University, USA), lo scienziato italiano più citato al mondo secondo top italian scientists, che nella sua lunga carriera ha compiuto scoperte fondamentali nel campo della genetica dei tumori. La ricerca si è avvalsa inoltre della collaborazione multidisciplinare di diversi centri in Italia, quali l’Università Sapienza di Roma, l’Università di Modena e Reggio Emilia e il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano.

Identificato il meccanismo che consente alle cellule del tumore al pancreas di sopravvivere e proliferare in assenza di nutrienti 
Identificato il meccanismo che consente alle cellule del tumore al pancreas di sopravvivere e proliferare in assenza di nutrienti. Rappresentazione grafica

 

Riferimenti bibliografici:

Nutrient restriction-activated Fra-2 promotes tumor progression via IGF1R in miR-15a downmodulated pancreatic ductal adenocarcinoma – Gian Luca Rampioni Vinciguerra, Marina Capece, Luca Reggiani Bonetti, Giovanni Nigita, Federica Calore, Sydney Rentsch, Paolo Magistri, Roberto Ballarin, Fabrizio Di Benedetto, Rosario Distefano, Roberto Cirombella, Andrea Vecchione, Barbara Belletti, Gustavo Baldassarre, Francesca Lovat & Carlo M. Croce – Signal Transduction and Targeted Therapy 2024, DOI: https://doi.org/10.1038/s41392-024-01740-4

 

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Malattia di Charcot-Marie-Tooth di tipo 2A: identificazione di un possibile approccio terapeutico

Un gruppo di ricercatori del “Centro Dino Ferrari”, Università degli Studi di Milano, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, ha utilizzato efficacemente un approccio combinato di sostituzione e silenziamento genico, rispettivamente in grado di esprimere il gene “sano” e di spegnere quello “malato”, in un modello sperimentale di Malattia di Charcot-Marie-Tooth. La pubblicazione su Cellular Molecular Life Science.

Milano, 5 dicembre 2023 – Un recente studio condotto dai ricercatori del “Centro Dino Ferrari”, Università degli Studi di Milano, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, accettato per la pubblicazione on line sulla rivista Cellular Molecular Life Science, ha dimostrato l’efficacia di un approccio di terapia genica in un modello sperimentale di Malattia di Charcot-Marie-Tooth di tipo 2A (CMT2A).

La CMT2A è una polineuropatia sensitivo-motoria, caratterizzata dalla morte dei neuroni motori e sensitivi, dovuta a mutazioni del gene Mitofusina 2 (MFN2). Attualmente la cura è di supporto e non esiste una terapia efficace nel prevenire il carattere degenerativo della malattia. Una delle principali sfide nel trattamento di questa patologia risiede non soltanto nell’assenza della proteina MFN2 funzionale, ma anche nella presenza di una variante tossica di questa proteina.

Un approccio combinato di sostituzione e silenziamento genico, rispettivamente in grado di esprimere il gene “sano” e di spegnere quello “malato”, può costituire un approccio terapeutico ideale per questa malattia. Il principale investigatore di questa ricerca è la Prof.ssa Stefania Corti, attualmente a capo del Laboratorio di Cellule Staminali Neurali nel Dipartimento di Fisiopatologia Medico-Chirurgica e dei Trapianti dell’Università degli Studi di Milano. Il gruppo di ricerca, oltre ad includere altri membri del suo laboratorio e ricercatori del “Centro Dino Ferrari” dell’Università degli Studi di Milano e della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, ha collaborato per la realizzazione di questo studio con il King’s College, l’Istituto di Genetica Molecolare “Romeo ed Enrica Invernizzi”, il dipartimento di Scienze Biomediche dell’University Humanitas, l’Istituto Neurologico Carlo Besta e il centro di ricerca Preclinica della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico.

La Dott.ssa Federica Rizzo, primo autore di questo lavoro di ricerca, e i suoi colleghi hanno dimostrato come questo approccio combinato di silenziamento del gene MFN2 difettivo e di ripristino del gene sano ha portato ad un miglioramento delle caratteristiche della malattia in un modello in vitro costituito da motoneuroni derivati da cellule staminali pluripotenti indotte di pazienti affetti da CMT2A. La correzione molecolare è stata inoltre confermata in un modello murino di CMT2A tramite l’iniezione locale nel Sistema Nervoso Centrale di un vettore Adeno-Associato AAV9 che veicola il gene MFN2 sano e il costrutto per il silenziamento.

Questo studio fornisce la prima “prova di principio” di efficacia di questo trattamento per la CMT2A e testimonia la perseveranza del gruppo di ricerca della prof.ssa Corti nello studio di questa patologia e nell’identificazione di possibili strategie terapeutiche. La ricerca è stata condotta con il supporto dell’Associazione “Centro Dino Ferrari”, dell’Associazione Progetto Mitofusina2 onlus, del Ministero della Salute, nell’ambito del Progetto di Ricerca Giovani Ricercatori – GR- 2018-12365358 finanziato 2018–2021, e della Fondazione Telethon nell’ambito del progetto GGP19002.

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 Foto di tahabaz

 

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano