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STELLE DI NEUTRONI: LE ESPLOSIONI TERMONUCLEARI RINFORZANO I GETTI

Improvvisi e luminosi lampi di raggi X emessi dalla superficie delle stelle di neutroni in accrescimento fanno brillare i loro getti immettendo gas extra al loro interno. I ricercatori hanno scoperto inoltre che il gas nel getto si muove a circa un terzo della velocità della luce.

Un team internazionale di ricercatori guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha scoperto l’esistenza di una connessione tra le esplosioni termonucleari di raggi X che si verificano sulla superficie delle stelle di neutroni in accrescimento e i potenti getti emessi da queste sorgenti. I ricercatori hanno inoltre misurato per la prima volta, in maniera diretta, la velocità di un getto, migliorando la nostra comprensione sul loro meccanismo di lancio. I risultati sono stati appena pubblicati sulla rivista Nature.

Le stelle di neutroni sono i resti di stelle massicce che hanno concluso la loro evoluzione con un’esplosione di supernova. Caratterizzati dall’avere un’enorme massa compressa in un volume molto piccolo – motivo per cui vengono anche chiamati oggetti compatti – questi corpi celesti possono trascorrere tutta la loro esistenza in solitudine, ma possono anche fare coppia, nelle cosiddette binarie a raggi X (X-ray binaries, in inglese). Si tratta di sistemi astrofisici in cui una stella di neutroni (o un buco nero) attrae a sé materia dalla malcapitata stella compagna, utilizzandola a proprio vantaggio per aumentare di massa in un processo noto come accrescimento.

Una delle conseguenze di questo processo è l’accumulo di grandi quantità di materia sulla superficie della stella di neutroni. Con il progredire dell’accumulo, questa materia può raggiungere valori di temperatura e densità tali innescare potenti esplosioni termonucleari simili a quelle prodotte dalle bombe a idrogeno: improvvisi e luminosi lampi di luce X, di durata compresa tra i 10 e i 100 secondi, denominati burst di tipo I, il segno tangibile di un pasto abbondante in corso.

Nonostante la loro avidità, non tutta la materia in accrescimento viene però inghiottita dalla stella di neutroni: una parte viene infatti espulsa nello spazio sotto forma di potenti deflussi di materia collimati, osservabili anche nella banda radio dello spettro elettromagnetico: i cosiddetti getti.

Lanciati da tutti i sistemi binari con stella di neutroni o buco nero, questi getti sono studiati fin dagli anni ’70. Tuttavia, ci sono ancora molte domande aperte sul loro conto. Come vengono effettivamente lanciati? Qual è la relazione che lega il processo di accrescimento di un oggetto compatto e l’emissione di questi getti? E ancora, quanto velocemente vengono lanciati?

Rappresentazione artistica di come le esplosioni nucleari su una stella di neutroni alimentano i getti che escono dalle sue regioni magnetiche polari. In primo piano, al centro a destra, vediamo una sfera bianca molto luminosa, che rappresenta la stella di neutroni; dei filamenti bianchi/viola fuoriescono dalla sua regione polare. La stella di neutroni è circondata da una sfera più grande, la corona, e più all'esterno da un disco con fasce concentriche di diversi colori. Una fascia arancione collega la parte esterna del disco a una grande sezione giallo-arancione-rossa di una sfera nell'angolo in alto a sinistra. Questa rappresenta la stella compagna della stella di neutroni. Crediti: Danielle Futselaar, Nathalie Degenaar, Anton Pannekoek Institute, University of Amsterdam.
Nelle stelle di neutroni, esiste una stretta connessione tra le esplosioni termonucleari e i getti, le prime rinforzano i secondi. Rappresentazione artistica di come le esplosioni nucleari su una stella di neutroni alimentano i getti che escono dalle sue regioni magnetiche polari. In primo piano, al centro a destra, vediamo una sfera bianca molto luminosa, che rappresenta la stella di neutroni; dei filamenti bianchi/viola fuoriescono dalla sua regione polare. La stella di neutroni è circondata da una sfera più grande, la corona, e più all’esterno da un disco con fasce concentriche di diversi colori. Una fascia arancione collega la parte esterna del disco a una grande sezione giallo-arancione-rossa di una sfera nell’angolo in alto a sinistra. Questa rappresenta la stella compagna della stella di neutroni. Crediti: Danielle Futselaar, Nathalie Degenaar, Anton Pannekoek Institute, University of Amsterdam

Ora, grazie a una articolata campagna di osservazioni in banda radio e X, un team internazionale guidato da ricercatori dell’INAF, in collaborazione con scienziati dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), dell’Università di Amsterdam e della Texas Tech University, non solo ha scoperto che esiste una stretta connessione tra le esplosioni termonucleari e i getti, ma, per la prima volta, ha misurato la velocità di questi getti, parametro fondamentale per la comprensione del loro meccanismo di lancio.

“Gli oggetti compatti in accrescimento (buchi neri e stelle di neutroni) sono onnipresenti nell’universo” dice Thomas Russell, ricercatore presso l’INAF di Palermo con una Inaf astrophysics fellowship (IAF), e primo autore dello studio. “Questi oggetti – continua Russell – non sono semplici aspirapolvere unidirezionali. Parte della materia in ingresso viene infatti sparata fuori sotto forma di deflussi di materia ed energia veloci e focalizzati, chiamati getti. Questi getti possono propagarsi verso l’esterno a velocità prossime a quella della luce, rilasciando enormi quantità di energia nell’ambiente circostante che possono condizionare la formazione stellare. Tuttavia, nonostante la loro importanza, attualmente non sappiamo come questi getti vengano lanciati. Il nostro studio fornisce uno strumento completamente nuovo per rispondere a questa importante domanda  rimasta finora senza risposta”.

Il satellite INTEGRAL (International Gamma-Ray Astrophysics Laboratory) dell’ESA. Crediti: ESA
Il satellite INTEGRAL (International Gamma-Ray Astrophysics Laboratory) dell’ESA. Crediti: ESA

Le stelle di neutroni oggetto dello studio sono quelle dei sistemi binari a raggi X 4U 1728-34 e 4U 1636-536, che mostrano entrambe frequenti esplosioni di raggi X di tipo I. Per ognuna delle due sorgenti, i ricercatori hanno condotto una campagna di osservazioni simultanee nell’X e nel radio. Le osservazioni in banda X, che tracciano il flusso di accrescimento della stella di neutroni, sono state condotte utilizzando il satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Il monitoraggio in banda radio, che permette di studiare l’emissione dei getti, è stato condotto invece con l’Australia Telescope Compact Array (ATCA), una schiera di sei antenne radio situate presso l’Osservatorio Paul Wild, in Australia, gestite dall’Agenzia scientifica nazionale australiana (CSIRO).

L’Australia Telescope Compact Array (ATCA). Crediti: Alex Cherney/CSIRO
L’Australia Telescope Compact Array (ATCA). Crediti: Alex Cherney/CSIRO

L’obiettivo dei ricercatori era di individuare eventuali cambiamenti nell’emissione radio in seguito al verificarsi dei burst X di tipo I. E li hanno trovati: incrementi della luminosità radio, detti flare, sono stati osservati entro pochi minuti dopo ogni singola esplosione termonucleare.

Mettendo insieme tutti i pezzi del puzzle, la loro conclusione è che l’evoluzione dei getti è strettamente correlata a queste esplosioni.

“Grazie alla capacità di INTEGRAL di osservare ininterrottamente un oggetto celeste per circa tre giorni, abbiamo catturato quattordici burst X emessi da 4U 1728-34, che ci hanno permesso di determinare per la prima volta il loro impatto sull’evoluzione dei getti radio”, sottolinea Erik Kuulkers,  già Project scientist della missione INTEGRAL presso l’ESA e co-autore dello studio. “Non sapevamo davvero cosa aspettarci. Inizialmente pensavamo che il ruolo di queste esplosioni sui getti fosse minimo. Tuttavia, le nostre osservazioni mostrano un impatto drammatico, in cui i burst potenziano la luminosità dei getti pompando ulteriore materia al loro interno”.

Nello studio, i ricercatori sono riusciti anche a misurare la velocità dei getti del sistema binario 4U 1728-34 attraverso osservazioni a due diverse frequenze radio: a 5,5 e 9 gigahertz (GHz). Le frequenze più elevate provengono da regioni del getto più vicine alla stella di neutroni, mentre quelle più basse provengono da regioni più lontane.

“Poiché abbiamo le misure precise dei tempi di arrivo sia dei burst X che dei brillamenti radio, possiamo misurare la velocità con cui il materiale extra ha percorso il getto fino al punto in cui si sono verificati i flare”, spiega Melania Del Santo, ricercatrice all’INAF di Palermo e coautrice della pubblicazione. “Nel caso di 4U 1728-34 questa velocità risulta pari a 0,38 c, ovvero ad un terzo della velocità della luce, corrispondente a circa 114.000 chilometri al secondo. Si tratta di una velocità elevata, ma notevolmente inferiore rispetto a quella dei getti nei sistemi binari con buco nero, il cui valore stimato può essere anche superiore a 0,9 c”.

La scoperta che i burst di raggi X di tipo I influenzano l’evoluzione dei getti e la determinazione della velocità di questi deflussi offre un modo completamente nuovo e robusto per comprendere quale sia il loro meccanismo di lancio, attualmente non ancora ben compreso. Ulteriori studi permetteranno di capire se il meccanismo di lancio sia basato sulla rotazione della stella di neutroni o sulla rotazione del suo disco di accrescimento.

“Ora che disponiamo di un metodo robusto per misurare la velocità dei getti, possiamo eseguire questo esperimento in sistemi binari in cui le stelle di neutroni hanno velocità di rotazione, masse e campi magnetici diversi” conclude Russell. “Con più di 120 stelle di neutroni nella nostra galassia che sappiamo produrre esplosioni di raggi X di tipo I, saremo in grado di determinare il meccanismo che guida il lancio di questi getti, confrontando la loro velocità con le proprietà del sistema binario”.


 

Per altre informazioni:

L’articolo “Thermonuclear explosions on neutron stars reveal the speed of their jets”, di Thomas D. Russell, Nathalie Degenaar, Jakob van den Eijnden, Thomas Maccarone, Alexandra J. Tetarenko, Celia Sánchez-Fernández, James C.A. Miller-Jones, Erik Kuulkers & Melania Del Santo, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

 

Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

NGC 1851E, NELLA COSTELLAZIONE DELLA COLOMBA, È IL BUCO NERO PIÙ LEGGERO O LA STELLA DI NEUTRONI PIÙ PESANTE?

Un articolo pubblicato oggi su Science ci svela la presenza di un oggetto dalla natura misteriosa all’interno dell’ammasso globulare NGC 1851, visibile nella costellazione della Colomba a oltre 39 mila anni luce dalla Terra. Di cosa si tratta? Un team internazionale di astronomi, guidato da ricercatori dell’Istituto Max Planck per la Radioastronomia di Bonn e a cui partecipano anche ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Bologna, ha sfruttato la sensibilità delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT per scoprire un oggetto massiccio dalle caratteristiche uniche: è più pesante delle stelle di neutroni più pesanti conosciute e allo stesso tempo è più leggero dei buchi neri più leggeri trovati finora. Altro particolare non di poca rilevanza: l’indagato speciale è in orbita attorno a una pulsar al millisecondo in rapida rotazione. Questa potrebbe essere la prima scoperta del tanto ambito sistema binario radio pulsar – buco nero: una coppia stellare che consentirebbe nuovi test della teoria della relatività generale di Einstein.

Rappresentazione artistica del sistema NGC 1851 partendo dal presupposto che la stella compagna massiccia sia un buco nero. La stella sullo sfondo, la più luminosa, è la sua compagna orbitale, la radio pulsar NGC 1851E. Le due stelle sono separate da 8 milioni di km e ruotano l’una attorno all’altra ogni 7 giorni. Credit: Daniëlle Futselaar (artsource.nl)
Rappresentazione artistica del sistema NGC 1851 partendo dal presupposto che la stella compagna massiccia sia un buco nero. La stella sullo sfondo, la più luminosa, è la sua compagna orbitale, la radio pulsar NGC 1851E. Le due stelle sono separate da 8 milioni di km e ruotano l’una attorno all’altra ogni 7 giorni. Credit: Daniëlle Futselaar (artsource.nl)

Luminose e intermittenti come dei potenti fari cosmici puntati verso la Terra, le pulsar sono stelle di neutroni, ossia i resti compatti (una ventina di chilometri di diametro) ed estremamente densi, derivati da potenti esplosioni di supernova. La teoria mostra che deve esistere una massa massima per una stella di neutroni. Il valore di tale massa massima non è noto con precisione, ma esistono indicazioni sperimentali che almeno fino ad una massa totale pari a circa 2,2 volte la massa del Sole, la stella continua comunque ad essere una stella di neutroni.  D’altro canto, molteplici evidenze osservative indicano che i buchi neri (oggetti così densi e compatti per cui nemmeno la luce può allontanarsi da essi) si formano dal collasso che ha luogo alla fine della evoluzione di stelle molto più massicce di quelle che producono le stelle di neutroni. In questo caso la massa minima osservata finora per il nascente buco nero è circa 5 volte la massa del Sole. Bisogna allora domandarsi quale tipo di oggetto compatto si formi nell’intervallo di masse fra 2,2 e 5 volte la massa del Sole, in quello che i ricercatori chiamano “gap di massa per i buchi neri”: una stella di neutroni estremamente massiccia, un buco nero estremamente leggero o altro? Ad oggi non esiste una risposta chiara.

Nell’ambito delle due collaborazioni internazionali “Transients and Pulsars with MeerKAT” (TRAPUM) e “MeerTime”, gli esperti sono stati in grado prima di rilevare e poi di studiare ripetutamente i deboli impulsi provenienti da una delle stelle dell’ammasso, identificandola come una pulsar radio, un tipo di stella di neutroni che gira molto rapidamente ed emette onde radio nell’Universo come un faro cosmico. Questa pulsar, denominata NGC 1851E (ossia la quinta pulsar nell’ammasso globulare NGC 1851), ruota su se stessa più di 170 volte al secondo, e ogni rotazione produce un impulso ritmico, come il ticchettio di un orologio.

Spiega Ewan Barr, dell’Istituto Max Planck per la Radioastronomia di Bonn e primo autore (assieme alla dottoranda dello stesso istituto Arunima Dutta) dello studio:

“Il ticchettio di questi impulsi è incredibilmente regolare. Osservando come cambiano i tempi dei ticchettii, tramite una tecnica chiamata pulsar timing, siamo stati in grado di effettuare misurazioni estremamente precise del moto orbitale di questo oggetto”.

L’estrema regolarità degli impulsi osservati ha permesso anche una misurazione molto precisa della posizione del sistema, dimostrando – tramite osservazioni col telescopio spaziale Hubble – che l’oggetto in orbita attorno alla pulsar non era una normale stella, bensì un residuo estremamente denso di una stella collassata. Inoltre, il fatto che l’orbita stia progressivamente cambiando l’orientamento rispetto a noi (un effetto chiamato tecnicamente “precessione del periastro” e previsto dalla relatività generale) ha mostrato che la compagna ha una massa che era contemporaneamente più grande di quella di qualsiasi stella di neutroni conosciuta e tuttavia più piccola di quella di qualsiasi buco nero conosciuto, posizionandola esattamente nel gap di massa dei buchi neri.

Le antenne del radiotelescopio MeerKAT, in Sudafrica. Crediti: SARAO
Le antenne del radiotelescopio MeerKAT, in Sudafrica. Crediti: SARAO

Alessandro Ridolfi, primo autore della scoperta di NGC 1851E (conosciuta anche col nome alternativo PSR J0514-4002E), nel 2022, co-autore della pubblicazione su Science, nonché postdoc presso l’INAF di Cagliari, sottolinea:

“Sin dalle prime osservazioni successive alla scoperta, questo sistema binario mostrava caratteristiche peculiari, in particolare per quanto riguarda l’elevata massa della stella compagna. Ulteriori osservazioni hanno evidenziato che si trattava addirittura di un sistema unico, con una stella compagna avente una massa in quella che per ora è la “terra di nessuno” per gli oggetti compatti, ovverosia quell’intervallo di masse per le quali la teoria non è oggi in grado di stabilire se si abbia a che fare con un buco nero leggero o una stella di neutroni pesante”.

Ridolfi è uno dei vincitori del bando “Astrofit-INAF” e lavora alla ricerca di nuove pulsar esotiche ospitate in ammassi globulari.

Potenziale storia della formazione della radiopulsar NGC 1851E e della sua stella compagna. Crediti: Thomas Tauris (Aalborg University / MPIfR)
Potenziale storia della formazione della radiopulsar NGC 1851E e della sua stella compagna. Crediti: Thomas Tauris (Aalborg University / MPIfR)

Cristina Pallanca, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, prosegue:

“Se si rivelerà essere un buco nero, avremo individuato il primo sistema binario composto da una pulsar e un buco nero, una sorta di Santo Graal dell’astronomia. Grazie ad esso avremo un’opportunità senza precedenti per testare con altissima precisione la teoria della relatività generale di Albert Einstein e, di conseguenza, per comprendere meglio le proprietà fisiche dei buchi neri”.

E aggiunge Marta Burgay, un’altra ricercatrice di INAF-Cagliari coinvolta nel progetto:

“Se invece si trattasse di una stella di neutroni, la sua massa elevata imporrà nuovi vincoli alla natura delle forze nucleari, vincoli che non si possono ottenere con nessun esperimento di laboratorio”.

Il sistema si trova nell’ammasso globulare NGC 1851, un denso insieme di vecchie stelle molto più fitte rispetto alle stelle del resto della Galassia. Mario Cadelano, ricercatore al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, lo descrive:

“Un sistema binario così non poteva che crearsi in un ambiente altrettanto straordinario: l’ammasso globulare NGC 1851 è un insieme di centinaia di migliaia di stelle mantenute unite dalla loro stessa forza di gravità, formatosi circa 13 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva appena 800 mila anni e la nostra Galassia stava attraversando le prime fasi di formazione. All’interno degli ammassi globulari, le stelle interagiscono continuamente durante il corso della loro vita: si scambiano energia, collidono, si uniscono in nuovi sistemi binari e così via. Il nucleo di NGC 1851 è dinamicamente molto attivo, anche più rispetto a quello di altri ammassi globulari, e questo ha favorito la formazione del sistema binario unico nel suo genere che abbiamo scoperto”.

Le regioni centrali di NGC 1851 sono così affollate che le stelle possono interagire tra loro, sconvolgendo le loro orbite e nei casi più estremi scontrandosi. Si ritiene che sia stata una di queste collisioni tra due stelle di neutroni a creare l’oggetto massiccio che ora orbita attorno alla radio pulsar. Tuttavia, prima che venisse creata l’attuale binaria, la radio pulsar deve aver acquisito materiale da un’altra stella in una cosiddetta binaria a raggi X di piccola massa. Un tale processo di “riciclaggio” è necessario per riportare la pulsar alla velocità di rotazione attuale.

La scoperta di questo oggetto misterioso mette in luce le potenzialità degli strumenti utilizzati in questa survey e delle antenne che arriveranno nel futuro. Andrea Possenti, ricercatore anch’egli presso la sede sarda dell’INAF, commenta:

“Questa scoperta è l’apice degli studi finora condotti, grazie al sensibilissimo telescopio MeerKAT, sulle pulsar negli ammassi globulari, un campo di ricerca dove INAF, tramite il gruppo di Cagliari, ricopre dall’inizio un ruolo primario. Ruolo importante sia sul fronte della ricerca di nuove pulsar, 87 quelle scoperte fino ad oggi con il solo radiotelescopio sudafricano, sia ai fini dello studio di quelle note. Il bello è che c’è ancora tanto da scoprire in questi densi sistemi stellari, sia con le osservazioni a MeerKAT, sia, ancor più, con l’avvento del rivoluzionario radiotelescopio SKA. Senza contare – conclude Possenti – che collisioni fra stelle di neutroni come quella ipotizzata per spiegare l’origine di questo sistema potrebbero costituire ulteriori eventi, rari ma di grande interesse, per telescopi per onde gravitazionali, come Virgo, Ligo e il futuro Einstein Telescope”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “A pulsar in a binary with a compact object in the mass gap between neutron stars and black holes”, di  E. Barr, Arunima Dutta, Paulo C. C. Freire, Mario Cadelano, Tasha Gautam, Michael Kramer, Cristina Pallanca, Scott M. Ransom, Alessandro Ridolfi, Benjamin W. Stappers, Thomas M. Tauris, Vivek Venkatraman Krishnan, Norbert Wex, Matthew Bailes, Jan Behrend, Sarah Buchner, Marta Burgay, Weiwei Chen, David J. Champion, C.-H. Rosie Chen, Alessandro Corongiu, Marisa Geyer, Y. P. Men, Prajwal V. Padmanabh, Andrea Possenti, è stato pubblicato sulla rivista Science.

 

 

Testo e immagini dagli Uffici Stampa INAF e Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

GW190521: SCOPERTO UN SEGNALE GRAVITAZIONALE ANOMALO GENERATO DALLA FUSIONE “ISTANTANEA” DI DUE BUCHI NERI

Il risultato potrebbe fornire un nuovo strumento per l’interpretazione dei segnali gravitazionali, aumentando la comprensione delle configurazioni che caratterizzano i sistemi binari di buchi neri

Il 21 maggio 2019 i due interferometri LIGO, negli USA, e Virgo, in Italia, hanno rivelato un segnale gravitazionale straordinariamente intenso, ma estremamente breve. Una sorta di potentissimo gong cosmico, chiamato GW190521, dalla data della sua rivelazione. L’onda gravitazionale era stata generata dalla fusione di due buchi neri a miliardi di anni luce di distanza dalla Terra e, in seguito a quel fragoroso scontro, è stato prodotto un buco nero di oltre 150 masse solari, il buco nero più massiccio osservato fino ad oggi da LIGO e Virgo.

GW190521: scoperto segnale gravitazionale anomalo generato dalla fusione “istantanea” di due buchi neri

GW190521 è stata un’osservazione eccezionale e per molti versi enigmatica, che ha stimolato gli astrofisici a immaginare possibili scenari cosmici che spieghino il meccanismo di formazione della coppia binaria e le caratteristiche della sua violenta fusione. Giovedì 17 novembre, un gruppo di ricerca composto da scienziati della sezione di Torino dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, insieme ai colleghi dell’Università di Torino e dell’Università Friedrich Schiller di Jena (Germania), ha pubblicato un importante studio su Nature Astronomy, intitolato ‘GW190521 as a dynamical capture of two nonspinning black holes’, in cui prova a interpretare la natura enigmatica di questo segnale gravitazionale anomalo.

Attraverso simulazioni effettuate tramite calcolatore, gli scienziati hanno appurato come un modello che preveda l’esistenza di sistemi binari composti da coppie di buchi con orbite allungate, in grado di dare luogo a collisioni rapide e puntuali, sia compatibile con l’evento anomalo di breve durata osservato. Se confermato, il risultato potrebbe fornire un nuovo strumento per l’interpretazione dei segnali gravitazionali, aumentando la comprensione delle configurazioni che caratterizzano i sistemi binari di buchi neri.

Osservate per la prima volta nel 2015, le onde gravitazionali, impercettibili perturbazioni dello spaziotempo, sono in grado fornirci preziose informazioni sui corpi celesti che compongono i sistemi binari responsabili della loro emissione, nonché sull’evoluzione dinamica di questi stessi sistemi. Nel caso dei buchi neri, i segnali gravitazionali rivelati hanno trovato fino a oggi corrispondenza con le previsioni del modello utilizzato per interpretarli, che distingue tre diverse fasi nel processo di coalescenza: iniziale, caratterizzata dalla vorticosa rotazione dei buchi neri uno intorno all’altro (inspiral); centrale, relativa alla fusione (merger); e finale, durante la quale il nuovo corpo celeste venutosi a creare si espande e si contrae prima di stabilizzarsi (ringdown).

“L’analisi del segnale registrato il 21 maggio 2019 dalle collaborazioni LIGO e Virgo ha fatto emergere delle differenze rispetto ai dati su cui siamo abituati a confrontarci. La forma e la brevità – meno di un decimo di secondo – del segnale associato all’evento, inducono infatti a ipotizzare una fusione istantanea tra due buchi, avvenuta in mancanza di una fase di spiraleggiamento”, commenta Alessandro Nagar, ricercatore della sezione INFN di Torino.

“GW190521 è un segnale particolarmente enigmatico perché la sua forma e la sua natura esplosiva lo rendono estremamente diverso da quanto abbiamo osservato in passato. Inizialmente era stato analizzato come la fusione di due buchi neri pesanti in rapida rotazione che si avvicinano lungo orbite quasi circolari, ma le sue caratteristiche speciali ci hanno indotto a proporre altre possibili interpretazioni”, spiega Rossella Gamba, laureata all’Università di Torino, attualmente ricercatrice dell’Università di Jena e autrice principale della ricerca.

Secondo l’ipotesi proposta dagli autori dell’articolo di Nature Astronomy, a differenza delle sorgenti finora analizzate grazie alle osservazioni degli interferometri LIGO e Virgo, costituite da coppie di buchi neri formatisi a seguito del collasso di una stella in sistemi separati e caratterizzate da un’orbita circolare costante, GW190521 potrebbe essere stato originato dallo scontro di due buchi con orbite eccentriche, a seguito della formazione del sistema binario per mezzo della cattura dinamica di uno dei due corpi da parte dell’altro. Uno scenario contemplato anche dalla Relatività Generale.

“Per verificare l’ipotesi abbiamo elaborato un modello descrittivo avvalendoci di una combinazione di metodi analitici all’avanguardia e simulazioni numeriche, confrontando i dati ottenuti con il segnale. In questo modo abbiamo scoperto che una fusione altamente eccentrica spiega l’osservazione meglio di qualsiasi altra ipotesi avanzata in precedenza. Le probabilità di errore sono 1:4300”, commenta Matteo Breschi, ricercatore dell’Università di Jena e coautore dello studio.

Il modello impiegato per interpretare l’evento fornisce inoltre possibili indizi sulle condizioni alla base dell’eventuale nascita ed evoluzione dinamica della tipologia di sistema binario descritto. La cattura dinamica potrebbe infatti avvenire in ambienti molto densi, come gli ammassi stellari, dove i buchi neri binari possono formarsi.

“Uno dei due buchi neri situati in un simile ambiente, in possesso inizialmente di un’orbita non vincolata, potrebbe essere infatti catturato dal campo gravitazionale dell’altro, dando vita al sistema binario che porterà alla rapida fusione dei suoi componenti posti su traiettorie altamente eccentriche. L’ipotesi potrebbe inoltre spiegare le elevate masse dei due buchi neri progenitori coinvolti che, in ambiente stellare molto denso, potrebbero essere andati incontro a eventi di fusione precedenti. Sebbene i tassi di fusione siano attualmente molto incerti, le catture dinamiche dovrebbero essere molto rare. Ma questo rende i nostri risultati ancora più eccitanti”, illustra Gregorio Carullo, ricercatore del Niels Bohr Institute di Copenaghen.

Per effettuare l’analisi di GW190521 è stato necessario sviluppare un quadro di riferimento teorico nell’ambito della relatività generale, in grado di descrivere le fusioni di buchi neri altamente eccentrici, confrontando infine le previsioni del modello con le simulazioni.

“Il lavoro sviluppato dai gruppi di ricerca di Torino e Jena non ha precedenti, in quanto nessun modello di cattura dinamica era mai stato impiegato prima d’ora nell’analisi dei dati delle onde gravitazionali, che ha richiesto estrema attenzione e una notevole potenza di calcolo”, specifica Simone Albanesi, ricercatore dell’Università di Torino.

“Lo sviluppo del modello analitico per le binarie eccentriche e la cattura dinamica è stato avviato nel 2019, con diversi progressi teorici originali in quello che all’epoca era un territorio per lo più inesplorato”, conclude Piero Rettegno, laureato all’Università di Torino e attualmente ricercatore INFN della sezione di Torino.

 

GW190521 potrebbe dunque essere il primo incontro dinamico di buchi neri osservato. Si è sempre pensato che questi eventi fossero molto rari, ma ciò renderebbe la scoperta ancora più importante. Questa ipotesi potrebbe spiegare anche le masse insolitamente elevate dei buchi neri ‘progenitori’ osservati: in ambienti densi, i buchi neri potrebbero subire fusioni multiple e la loro massa crescere dopo ogni collisione.

Testo e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

ETA CARINAE: MOLECOLE A BASE DI SILICIO IN UNA STELLA MASSICCIA SULL’ORLO DELL’ESPLOSIONE

Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica ha osservato, per la prima volta, molecole a base di silicio nei pressi di una stella massiccia ed evoluta: Eta Carinae, nella costellazione della Carena. La scoperta, ottenuta analizzando i dati del radiotelescopio ALMA nel deserto di Atacama, in Cile, permette di comprendere i complessi processi di formazione delle molecole e della polvere in condizioni fisiche estreme.

A sinistra: la stella Eta Carinae, circondata dalla Nebulosa Omuncolo, osservata con lo strumento VISIR del Very Large Telescope; a destra: uno zoom sull’anello di polvere che circonda la stella, con le osservazioni di monossido di carbonio (in rosso e verde) e monossido di silicio (in blu) realizzate dal radiotelescopio ALMA; in basso: lo spettro realizzato con ALMA in una delle porzioni dell’anello, che mostra la rilevazione delle molecole monossido di silicio (SiO), monosolfuro di silicio (SiS) e mononitruro di silicio (SiN).
Crediti: Immagine e dati ALMA: C. Bordiu et al. (2022); Immagine VISIR: A. Mehner et al. (2019)

Eta Carinae è una stella molto massiccia e prossima alla fine del suo ciclo di vita, che affascina gli astronomi sin dall’Ottocento, quando se ne osservarono forti variazioni di luminosità e una “grande eruzione” che ha riversato enormi quantità di gas e polvere nei dintorni, creando la Nebulosa Omuncolo. Con una massa pari a circa 90 volte quella del Sole, questa stella fa parte di un sistema binario e si può osservare in direzione della costellazione della Carena, visibile dall’emisfero meridionale. Un nuovo studio, guidato da Cristobal Bordiu dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha individuato tre molecole a base di silicio nella nebulosa che circonda Eta Carinae: monossido di silicio (SiO), monosolfuro di silicio (SiS) e mononitruro di silicio (SiN). Si tratta della prima scoperta di molecole a base di silicio – e di zolfo – nei dintorni di una stella così massiccia ed evoluta. Il lavoro è stato condotto in collaborazione con il Centro de Astrobiología e il Consiglio superiore delle ricerche scientifiche (CSIC) in Spagna e il Joint ALMA Observatory in Cile. I risultati sono stati pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.

Eta Carinae: molecole a base di silicio in una stella massiccia sull'orlo dell'esplosione
Immagine dell’anello di polvere che circonda la stella Eta Carinae, con le osservazioni di monossido di carbonio (in rosso e verde) e monossido di silicio (in blu) realizzate dal radiotelescopio ALMA. Crediti: C. Bordiu et al. (2022)

“Eta Carinae è un oggetto di grande interesse per chi studia le stelle massicce”, spiega Cristobal Bordiu, ricercatore INAF a Catania e primo autore dell’articolo. “Volevamo studiare la chimica di questo tipo di stelle. Questa importante scoperta, avvenuta in maniera fortuita, dimostra come le stelle massicce nelle ultime fasi evolutive siano effettivamente in grado di formare specie chimiche a base di silicio (e zolfo)”.

Il materiale espulso durante la “grande eruzione” di Eta Carinae, ricco di elementi pesanti, è un terreno fertile per la formazione di molecole, come dimostra l’osservazione di molte specie chimiche a base di azoto, ossigeno e carbonio nell’ultimo decennio. La maggior parte del gas molecolare si trova in una struttura ad anello nella Nebulosa Omuncolo, una regione chiamata anche “farfalla” per via della sua forma, che contiene grandi quantità di polvere. Questo indica che le condizioni in questa regione permettono alle molecole di sopravvivere anche alla potente radiazione ultravioletta della stella, che permea l’ambiente circostante. È proprio qui, all’interno di “grumi” di gas e polvere nella regione a forma di farfalla, sul lato interno dell’anello, che sono state osservate le nuove molecole. La scoperta è stata possibile grazie a osservazioni ad alta risoluzione realizzate con il radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array), nell’ambito del progetto ALMAGAL a guida INAF.

La Nebulosa Omuncolo che circonda la stella Eta Carinae, osservata con il telescopio spaziale Hubble. Crediti: ESA/Hubble & NASA

“Le molecole contenenti silicio sono fondamentali per comprendere il ciclo di vita della polvere cosmica”, ricorda la co-autrice Filomena Bufano, ricercatrice INAF a Catania. “Lo studio di queste ci permette di capire meglio come si formano insieme alla polvere in condizioni fisiche estreme e di valutare il ruolo delle stelle massicce come fabbriche di molecole nella nostra galassia”.

 

Nell’insolito ecosistema molecolare che circonda Eta Carinae, molecole come il monossido di silicio si formano quando i granelli di polvere vengono distrutti dal martellamento ciclico dei venti stellari emanati dalle due stelle. Le onde d’urto risultanti, modulate dal periodo orbitale del sistema binario, di circa cinque anni e mezzo, liberano il silicio gassoso intrappolato all’interno dei granelli. Il silicio può così combinarsi con atomi liberi di ossigeno, zolfo e azoto, producendo le molecole individuate in questo studio. Le onde d’urto sono state da tempo riconosciute come agente importante nei dintorni di questo tipo di stelle, ma la distribuzione delle molecole appena rilevate, che si trovano leggermente più vicino a Eta Carinae rispetto ad altre specie come il monossido di carbonio, fornisce la prima prova diretta dei processi esercitati sulla polvere dai venti provenienti dalla stella.

 

“Eta Carinae è il laboratorio ideale per studiare il ciclo di vita di polvere e molecole in ambienti astrofisici estremi”, sottolinea Bordiu. “La chimica molecolare di Eta Carinae è sorta in meno di 200 anni, in seguito alla grande eruzione. Si tratta di una scala temporale molto conveniente per gli umani, anche se appena un battito di ciglia in termini astronomici, che ci permette di monitorare l’evoluzione dell’ecosistema molecolare di queste stelle quasi in tempo reale. Finora si credeva che le stelle evolute più fredde e le supernove fossero le principali produttrici di polvere di silicio, ma la scoperta di queste molecole nei dintorni di una stella come Eta Carinae ci permette di assegnare anche alle stelle evolute con massa e temperatura molto più elevate un ruolo fondamentale nella formazione della polvere nell’universo primordiale”.

 

La quantità di due delle molecole osservate (SiO e SiS) è oltre dieci volte inferiore a quelle che si trovano vicino a stelle di massa intermedia, che sono molto più fredde e quindi più inclini a formare molecole. Al contrario, la terza molecola (SiN), piuttosto rara nello spazio, è la più abbondante delle tre, riflettendo la peculiare composizione chimica della Nebulosa Omuncolo, ricca di azoto. Questo conferma Eta Carinae come una rara anomalia tra le stelle massicce evolute: uno scenario unico per mettere alla prova modelli di formazione e distruzione molecolare e studiare l’interazione tra i venti stellari e l’ambiente circostante. Inoltre, la presenza di molecole contenenti silicio invita i ricercatori a ripensare il ruolo di queste stelle prossime alla loro fine nella produzione di polvere e molecole, che ha importanti implicazioni nella formazione di molecole capaci di favorire l’insorgere della vita.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “First detection of silicon-bearing molecules in η Car” di C. Bordiu, J. R. Rizzo, F. Bufano, G. Quintana-Lacaci, C. Buemi, P. Leto, F. Cavallaro, L. Cerrigone, A. Ingallinera, S. Loru, S. Riggi, C. Trigilio, G. Umana, E. Sciacca, è stato pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

LISA e la scoperta di nuovi campi fondamentali 

Su Nature Astronomy lo studio pubblicato da Andrea Maselli, ricercatore del GSSI, associato INFN, e dai colleghi della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, dell’Università di Nottingham e della Sapienza di Roma, che suggerisce un nuovo approccio per rilevare con grande accuratezza nuovi campi fondamentali e verificare la teoria della relatività generale grazie a LISA, il rivelatore di onde gravitazionali spaziale, che partirà come missione ESA – NASA nel 2037.

LISA campi fondamentali
Foto 1: Rappresentazione artistica della deformazione spazio-tempo di un EMRI. Un piccolo buco nero che ruota intorno ad un buco nero supermassiccio. (Credits: NASA)

La Relatività Generale di Einstein è la teoria corretta per i fenomeni gravitazionali? È possibile sfruttare tali fenomeni per scoprire nuovi campi fondamentali?

Il lavoro uscito oggi su Nature Astronomy, condotto da Andrea Maselli, ricercatore del GSSI, associato INFN, assieme a ricercatori della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, dell’Università di Nottingham, e della Sapienza Università di Roma, mostra che le osservazioni di onde gravitazionali da parte dell’interferometro spaziale LISA (Laser Interferometer Space Antenna) saranno in grado di rivelare la presenza di nuovi campi fondamentali con grande accuratezza.

Il campo gravitazionale è, secondo la Relatività Generale, espressione della curvatura dello spazio-tempo creata dalla presenza di massa o energia che altera lo spazio circostante.

Nuovi campi fondamentali associati alla gravità, in particolare quelli scalari, sono alla base di modelli teorici sviluppati per spiegare una grande varietà di scenari fisici. Potrebbero ad esempio fornire indizi sull’espansione accelerata dell’Universo o sulla materia oscura, oppure essere manifestazioni a bassa energia di una descrizione consistente e completa della gravità e delle particelle elementari.

Le osservazioni di oggetti astrofisici caratterizzati da campi gravitazionali deboli e piccole curvature spazio-temporali non hanno mostrato finora alcuna indicazione dell’esistenza di questi campi. Tuttavia, diversi modelli suggeriscono che deviazioni dalla Relatività Generale, o interazioni tra la gravità e nuovi campi, siano più rilevanti quando la curvatura dello spazio-tempo è molto grande. Per questa ragione, l’osservazione di onde gravitazionali – che ha aperto una nuova finestra sul regime di campo gravitazionale forte – rappresenta un’opportunità unica per scoprire nuovi campi fondamentali.

LISA campi fondamentali
Foto 2: EMRI: Sezione di un’orbita percorsa da un oggetto stellare attorno a un buco nero massivo (Credits: N. Franchini)

LISA, il rivelatore di onde gravitazionali spaziale sviluppato per osservare onde gravitazionali da sorgenti astrofisiche, permetterà di studiare nuove famiglie di sorgenti astrofisiche, diverse da quelle osservate da Virgo e LIGO, come gli Extreme Mass Ratio Inspirals (EMRI).

“Gli EMRI, sistemi binari in cui un oggetto compatto con massa stellare – un buco nero o una stella di neutroni – orbita attorno ad un buco nero milioni di volte più massivo del nostro Sole, sono infatti tra le sorgenti che ci si aspetta di osservare con LISA, e rappresentano un’arena preziosissima per studiare il regime di campo forte della gravità. – spiega Andrea Maselli, primo autore del paper – Il corpo più piccolo di un EMRI compie decine di migliaia di cicli orbitali prima di cadere nel buco nero supermassivo, emettendo così segnali di lunga durata che permettono di misurare anche le più piccole deviazioni dalle predizioni della teoria di Einstein e del modello standard delle particelle”.

Gli autori dello studio hanno sviluppato uno nuovo approccio per modellizzare il segnale emesso dagli EMRI, studiando per la prima volta in modo rigoroso se e come LISA possa scoprire l’esistenza di campi scalari accoppiati all’interazione gravitazionale, e misurare la carica scalare, una grandezza che quantifica il campo associato al corpo più piccolo del sistema binario.

Il nuovo approccio sviluppato è “agnostico” rispetto alla teoria che predice l’esistenza del campo scalare, poichè non dipende dall’origine della carica o dalla natura dell’oggetto compatto.  L’analisi mostra anche come future misure della carica scalare potranno essere tradotte in vincoli molto stringenti sulle deviazioni della Relatività Generale o del Modello Standard.

LISA, che partirà come missione ESA-NASA nel 2037, opererà in orbita attorno al Sole, in una costellazione di tre satelliti distanti milioni di chilometri l’uno dall’altro, osservando onde gravitazionali emesse a bassa frequenza, in una banda non accessibile agli interferometri terrestri a causa del rumore ambientale. Lo spettro visibile di LISA aprirà una nuova finestra sull’evoluzione degli oggetti compatti in una grande varietà di sistemi astrofisici del nostro Universo.

Riferimenti:

Detecting fundamental fields with LISA observations of gravitational waves from extreme mass-ratio inspirals – Andrea Maselli, Nicola Franchini, Leonardo Gualtieri, Thomas P. Sotiriou, Susanna Barsanti, Paolo Pani – Nature Astronomy DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-021-01589-5

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il segnale UV e ottico che sfida i modelli delle pulsar

Osservati, per la prima volta da una pulsar al millisecondo in fase “esplosiva”, lampi in banda ottica e ultravioletta oltre alle pulsazioni nei raggi X tipiche di questi corpi celesti. La scoperta, guidata da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e basata anche su osservazioni effettuate con il Telescopio Nazionale Galileo, mette alla prova i modelli teorici che descrivono il comportamento delle pulsar in sistemi binari

Illustrazione di una pulsar in un sistema binario. Crediti: ESA

Si chiama SAX J1808.4-3658 ed è una pulsar, ovvero una stella di neutroni – quel che resta di stelle più massicce del Sole – che emette radiazione attraverso due coni di luce e ruota molto rapidamente, facendo sì che l’emissione appaia pulsante, come quella un faro. Ma non finisce qui. È una pulsar “al millisecondo”, cioè ruota ancora più veloce della maggior parte delle pulsar, completando ben 401 giri su sé stessa in un solo secondo, e per di più si trova in un sistema binario, orbitando insieme a un’altra stella alla quale sottrae regolarmente materia. Ma è anche un oggetto celeste decisamente incostante. Alterna infatti fasi di “quiescenza” a periodi più attivi o “esplosivi” ogni 3–4 anni: l’esplosione più recente, la nona dalla sua scoperta nel 1996, è stata registrata tra agosto e settembre 2019.

Durante la fase esplosiva, la luminosità di SAX J1808.4-3658 – ad oggi si conoscono una ventina di sistemi simili ad essa – aumenta significativamente sia in banda ottica e ultravioletta (UV) che nei raggi X, e inizia l’accrescimento: l’altra stella trasferisce materia e momento angolare alla pulsar attraverso un disco che si estende fino a pochi chilometri dalla sua superficie. Questo processo accelera la rotazione della pulsar e convoglia la materia in accrescimento sui suoi poli, dando origine a un segnale pulsato nei raggi X.

“Quando è stato annunciato l’inizio della nuova esplosione di SAX J1808.4-3658, ad agosto 2019, ci siamo chiesti se, oltre alle pulsazioni in banda X, il sistema potesse mostrare anche pulsazioni in banda ottica e ultravioletta”, spiega Arianna Miraval Zanon, dottoranda presso l’Università dell’Insubria e associata all’INAF di Milano, co-prima autrice insieme a Filippo Ambrosino, ricercatore all’INAF di Roma, dell’articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy. E la curiosità è stata premiata. “Per la prima volta abbiamo osservato nello stesso sistema, durante la fase esplosiva, pulsazioni con lo stesso periodo di rotazione della pulsar in tre bande diverse: X, UV e ottica”, aggiunge Ambrosino.

Fino ad allora, non erano mai state osservate pulsazioni in banda UV da pulsar in sistemi binari. In banda ottica, invece, le pulsazioni erano state viste soltanto in 5 pulsar isolate e in un solo sistema binario, PSR J1023+0038, quest’ultimo in un lavoro firmato dallo stesso Ambrosino e diversi co-autori del nuovo studio; si tratta però di un sistema diverso, che si trova in una fase intermedia, e che quindi somiglia a SAX J1808.4-3658 solo in parte.

UV ottico pulsar SAX J1808.4-3658
Lo strumento SiFAP2 installato al Telescopio Nazionale Galileo. Crediti: A. Ghedina

Lo studio si basa su osservazioni in banda UV effettuate con il telescopio spaziale Hubble e in banda ottica con il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF a La Palma (Isole Canarie), equipaggiato con il fotometro ottico ad altissima risoluzione temporale e accuratezza assoluta SiFAP2, cruciale per la scoperta delle pulsazioni ottiche da questo sistema. Il primo prototipo dello strumento, SiFAP, era stato ideato e sviluppato da Franco Meddi insieme a Filippo Ambrosino, con l’ausilio di Paolo Cretaro al Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma, e già nel 2017 aveva permesso di rivelare le pulsazioni ottiche dall’altra pulsar menzionata, PSR J1023+0038. Grazie a successive collaborazioni con INAF, con lo stesso TNG e con l’Università di Catania (in particolare con Francesco Leone), lo strumento è stato migliorato prendendo il nome di SiFAP2, una nuova versione che consentirà di effettuare anche studi polarimetrici grazie ad un nuovo sistema di cubi polarizzatori.

Ma le nuove osservazioni pongono un dilemma: la luminosità delle pulsazioni misurate in banda ottica e UV è troppo elevata per essere spiegata, usando i modelli teorici esistenti, dall’accrescimento di materia sulla pulsar. “Il segnale ottico e UV pulsato potrebbe quindi essere prodotto nella magnetosfera della pulsar, o poco lontano da essa, ed essere alimentato dalla rotazione del dipolo magnetico della pulsar”, dice Miraval Zanon. “Se così fosse, potrebbero convivere o alternarsi molto rapidamente due meccanismi fisici diversi: da una parte l’accrescimento produrrebbe gli impulsi in banda X; dall’altra la pulsar, alimentata dalla sua stessa rotazione, riuscirebbe a generare impulsi in banda ottica e UV. Questo scenario sfida gli attuali modelli teorici secondo cui un meccanismo esclude l’altro”.

Un altro aspetto interessante sollevato dal nuovo studio è uno sfasamento significativo – pari a poco più di mezzo periodo di rotazione – osservato tra la pulsazione X e quella ottica. “Questo ha dato adito a diverse interpretazioni”, sottolinea Ambrosino, “la più suggestiva delle quali è senza dubbio la possibilità che l’emissione X pulsata provenga da uno dei due poli magnetici della pulsar, mentre la pulsazione ottica sia generata nel polo opposto. Questa è solo un’ipotesi, non possiamo dire nulla di veramente definitivo prima di avere una statistica più ampia sull’emissione ottica di queste sorgenti”.

In futuro, il gruppo ha in programma nuove osservazioni di questo sistema durante la fase quiescente con lo strumento SiFAP2, per indagare l’eventuale presenza di pulsazioni ottiche una volta diminuita la luminosità: questo aiuterà a comprendere meglio il meccanismo che le genera durante la fase esplosiva. Un piano sul più lungo termine, già approvato, prevede lo studio della prossima sorgente, tra le venti simili a questa, che entrerà in fase esplosiva, effettuando osservazioni simultanee nei raggi X con l’osservatorio dell’ESA XMM-Newton, in UV con Hubble e in ottico con il TNG.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy nell’articolo Optical and ultraviolet pulsed emission from an accreting millisecond pulsar di F. Ambrosino, A. Miraval Zanon, A. Papitto, F. Coti Zelati, S. Campana, P. D’Avanzo, L. Stella, T. Di Salvo, L. Burderi, P. Casella, A. Sanna, D. de Martino, M. Cadelano, A. Ghedina, F. Leone, F. Meddi, P. Cretaro, M. C. Baglio, E. Poretti, R. P. Mignani, D. F. Torres, G. L. Israel, M. Cecconi, D. M. Russell, M. D. Gonzalez Gomez, A. L. Riverol Rodriguez, H. Perez Ventura, M. Hernandez Diaz, J. J. San Juan, D. M. Bramich, F. Lewis

https://doi.org/10.1038/s41550-021-01308-0

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Onde gravitazionali: le nuove sensazionali scoperte del team internazionale di ricercatori Virgo e LIGO 

Il ruolo degli scienziati UNIPG  

onde gravitazionali Virgo LIGO
Helios Vocca e Roberto Rettori


Si è svolta oggi presso il Rettorato dell’Università degli Studi di Perugia la conferenza stampa di presentazione ai giornalisti umbri delle nuove, sensazionali scoperte scientifiche realizzate dai ricercatori dei progetti Virgo e LIGO.

onde gravitazionali Virgo LIGO
Helios Vocca e Roberto Rettori

All’incontro con i giornalisti – realizzato in contemporanea con l’omologo evento internazionale che ha visto collegati i vari gruppi di ricerca in modalità streaming – erano presenti i professori Helios Vocca, Delegato del Rettore per il settore Ricerca, Valutazione e Fund-raising e Roberto Rettori, Delegato del Rettore per il settore Orientamento, Tutorato e Divulgazione scientifica, insieme a numerosi Delegati Rettorali e Direttori dei Dipartimenti dello Studium.

Onde gravitazionali Virgo LIGO

I ricercatori dei progetti Virgo e LIGO hanno annunciato l’osservazione della fusione di un sistema binario di massa straordinariamente grande: due buchi neri di 66 e 85 masse solari, hanno prodotto alla fine un buco nero di circa 142 masse solari. Il buco nero finale è il più massiccio rivelato finora per mezzo delle onde gravitazionali. Si trova in una regione di massa entro cui non è mai stato osservato prima un buco nero, né con onde gravitazionali né con osservazioni elettromagnetiche, e potrebbe servire a spiegare la formazione dei buchi neri supermassicci. Inoltre, il componente più pesante del sistema binario iniziale si trova in un intervallo di massa proibito dalla teoria dell’evoluzione stellare e rappresenta una sfida per la nostra comprensione degli stadi finali della vita delle stelle massicce.

Helios Vocca

“Il risultato di oggi è per noi fonte di enorme soddisfazione – dichiara il professore Helios Vocca, responsabile del gruppo Virgo Perugia – perché si tratta di una nuova scoperta realizzata grazie ad un detector che è frutto anche del lavoro realizzato dal gruppo Virgo Perugia in trent’anni di attività: un impegno, quello del team perugino, che è stato ampiamente riconosciuto a livello internazionale e che ci vede coinvolti nel management sia del progetto Virgo, sia del nuovo esperimento  giapponese ‘Kagra’, guidato da Takaaki Kajita, premio Nobel per la Fisica nel 2015 e laureato honoris causa del nostro Ateneo. Del nostro gruppo, inoltre – aggiunge Vocca – fa parte anche il dottor Michele Punturo, della sezione INFN di Perugia, attualmente Principal Investigator dell’esperimento ‘Einstein Europe’, il futuro detector europeo per le onde gravitazionali.

Il team di Perugia possiede competenze uniche al mondo – spiega il professor Vocca – in particolare sulle sospensioni degli specchi degli interferometri. In virtù di questa altissima specializzazione, stiamo lavorando insieme ad altri colleghi di vari Paesi europei e giapponesi per creare un laboratorio internazionale proprio a Perugia o comunque in Umbria, al fine di sfruttare le ricadute tecnologiche dei rilevatori di onde gravitazionali in altri settori, quali ad esempio quello del rischio sismico, affinché le avanzatissime tecnologie utilizzate nello spazio servano al miglioramento della vita dei cittadini.

Il tutto, inoltre, – conclude il professor Helios Vocca – avrà un’importante valenza per i nostri studenti: stiamo infatti puntando a costruire, in questo ambito scientifico, un’offerta didattica innovativa interuniversitaria, ovvero corsi di laurea realizzati in partnership con altri Atenei del centro-Italia, per dar vita a una ‘scuola’ che sia davvero unica persino a livello internazionale”.

Roberto Rettori

“In questo periodo di emergenza, nel rispetto delle direttive ministeriali, l’Università degli Studi di Perugia non ha mai interrotto né l’attività didattica né quella di ricerca – ha sottolineato il professore Roberto Rettori -. L’esperimento Virgo, che per l’unità di Perugia è coordinato dal professor Helios Vocca del Dipartimento di Fisica e Geologia, ne è una chiara dimostrazione.

I risultati che i nostri eccellenti ricercatori ottengono in tutte le discipline, permettono al nostro Ateneo di crescere e sempre di più diventare un punto di riferimento in Italia e nel mondo, promuovendo quindi Perugia e il suo territorio. Attraverso le numerose iniziative di divulgazione della ricerca che stiamo organizzando in tutta la regione, l’Università degli Studi di Perugia esce dalle sue mura, arriva alla popolazione e diventa suo patrimonio da difendere e valorizzare. Ringrazio il Magnifico Rettore, Professore Maurizio Olivieroper il supporto costante che offre a tali iniziative nonché tutti i colleghi per il loro lavoro. L’Ateneo di Perugia è soprattutto il luogo accogliente della conoscenza dove i giovani possono realizzare le loro passioni e costruire il loro futuro”.

La Sala Dessau all’Università di Perugia

Perugia, 2 settembre 2020

 

Virgo e LIGO svelano nuove e inattese popolazioni di buchi neri

Helios Vocca e Roberto Rettori

Virgo e LIGO hanno annunciato l’osservazione della fusione di un sistema binario di massa straordinariamente grande: due buchi neri di 66 e 85 masse solari, hanno prodotto alla fine un buco nero di circa 142 masse solari. Il buco nero finale è il più massiccio rivelato finora per mezzo delle onde gravitazionali. Si trova in una regione di massa entro cui non è mai stato osservato prima un buco nero, né con onde gravitazionali né con osservazioni elettromagnetiche, e potrebbe servire a spiegare la formazione dei buchi neri supermassicci. Inoltre, il componente più pesante del sistema binario iniziale si trova in un intervallo di massa proibito dalla teoria dell’evoluzione stellare e rappresenta una sfida per la nostra comprensione degli stadi finali della vita delle stelle massicce.

Gli scienziati delle collaborazioni internazionali che sviluppano e utilizzano i rivelatori Advanced Virgo presso lo European Gravitational Observatory (EGO) in Italia e i due Advanced LIGO negli Stati Uniti hanno annunciato l’osservazione di un buco nero di circa 142 masse solari, che è il risultato finale della fusione di due buchi neri di 66 e 85 masse solari. I componenti primari e il buco nero finale si trovano tutti in un intervallo di massa mai visto prima, né con onde gravitazionali né con osservazioni elettromagnetiche. Il buco nero finale è il più massiccio rivelato finora per mezzo di onde gravitazionali. L’evento di onda gravitazionale è stato osservato dai tre interferometri della rete globale il 21 maggio 2019. Il segnale (chiamato GW190521) è stato analizzato dagli scienziati, che stimano che la sorgente disti circa 17 miliardi di anni luce dalla Terra. Due articoli scientifici che riportano la scoperta e le sue implicazioni astrofisiche sono stati pubblicati oggi su Physical Review Letters e Astrophysical Journal Letters,
rispettivamente.

“Il segnale osservato il 21 maggio dello scorso anno è molto complesso e, dal momento che il sistema è così massiccio, lo abbiamo osservato per un tempo molto breve, circa 0.1 s”, dice Nelson Christensen, directeur de recherche CNRS presso ARTEMIS a Nizza in Francia e membro della Collaborazione Virgo. “Non assomiglia molto ad un sibilo che cresce rapidamente in frequenza, che è il tipo di segnale che osserviamo di solito: assomiglia piuttosto ad uno scoppio, e corrisponde alla massa più alta mai osservata da LIGO e Virgo.” Effettivamente, l’analisi del segnale – basata su una potente combinazione di modernissimi modelli fisici e di metodi di calcolo – ha rivelato una gran quantità di informazione su diversi stadi di questa fusione davvero unica.

Questa scoperta è senza precedenti non solo perché stabilisce il record di massa tra tutte le osservazioni fatte finora da Virgo e LIGO ma anche perché possiede altre caratteristiche speciali. Un aspetto cruciale, che ha attratto in particolare l’attenzione degli astrofisici, è che il residuo finale appartiene alla classe dei cosiddetti “buchi neri di massa intermedia” (da cento a centomila masse solari). L’interesse verso questa popolazione di buchi neri è collegato ad uno degli enigmi più affascinanti e intriganti per astrofisici e cosmologi: l’origine dei buchi neri supermassicci. Questi mostri giganteschi, milioni di volte più pesanti del Sole e spesso al centro delle galassie, potrebbero essere il risultato della fusione di buchi neri di massa intermedia.

Fino ad oggi, pochissimi esempi di questa categoria sono stati identificati unicamente per mezzo di osservazioni elettromagnetiche, e il residuo finale di GW190521 è la prima osservazione di questo genere per mezzo di onde gravitazionali. Ed è di interesse ancora maggiore, visto che si trova nella regione tra 100 e 1000 masse solari, che ha rappresentato per molti anni una specie di “deserto dei buchi neri”, a causa della scarsità di osservazioni in questo intervallo di massa.

I componenti e la dinamica della fusione del sistema binario che ha prodotto GW190521 offrono spunti astrofisici straordinari. In particolare, il componente più massiccio rappresenta una sfida per i modelli astrofisici che descrivono il collasso in buchi neri delle stelle più pesanti, quando queste arrivano alla fine della loro vita. Secondo questi modelli, stelle molto massicce vengono completamente distrutte dall’esplosione di supernova, a causa di un processo chiamato “instabilità di coppia”, e si lasciano dietro solo gas e polveri cosmiche. Perciò gli astrofisici non si aspetterebbero di osservare alcun buco nero nell’intervallo di massa tra 60 e 120 masse solari: esattamente dove si trova il componente più massiccio di GW190521. Quindi, questa osservazione apre nuove prospettive nello studio delle stelle massicce e dei meccanismi di supernova.

“Parecchi scenari predicono la formazione di buchi neri nel cosiddetto intervallo di massa di instabilità di coppia: potrebbero risultare dalla fusione di buchi neri più piccoli o dalla collisione multipla di stelle massicce o addirittura da processi più esotici”, dice Michela Mapelli, professore presso l’Università di Padova, e membro dell’INFN Padova e della Collaborazione Virgo. “Comunque, è possibile che si debba ripensare la nostra attuale comprensione degli stadi finali della vita di una stella e i conseguenti vincoli di massa sulla formazione dei buchi neri. In ogni caso, GW190521 è un importante contributo allo studio della formazione dei buchi neri.”

Infatti, l’osservazione di GW190521 da parte di Virgo e LIGO porta la nostra attenzione sull’esistenza di popolazioni di buchi neri che non sono mai stati osservati prima o sono inattesi, e in tal modo solleva nuove intriganti domande sui meccanismi con cui si sono formati. A dispetto del segnale insolitamente breve, che limita la nostra capacità di dedurre le proprietà astrofisiche della sorgente, le analisi più avanzate e i modelli attualmente disponibili suggeriscono che i buchi neri iniziali avessero alti valori di spin, o in altre parole che avessero un’elevata velocità di rotazione.

“Il segnale mostra segni di precessione, una rotazione del piano orbitale prodotta da spin elevati e con un’orientazione particolare”, nota Tito Dal Canton, ricercatore del CNRS presso IJCLab ad Orsay, Francia, e membro della Collaborazione Virgo, “L’effetto è debole e non possiamo esserne certi del tutto, ma se fosse vero darebbe forza all’ipotesi che i buchi neri progenitori siano nati e vissuti in un ambiente cosmico molto dinamico e affollato, come un ammasso stellare denso o il disco di accrescimento di un nucleo galattico attivo.”

Parecchi scenari diversi sono compatibili con questi risultati e anche l’ipotesi che i progenitori della fusione possano essere buchi neri primordiali non è stata scartata dagli scienziati. Effettivamente, noi stimiamo che la fusione abbia avuto luogo 7 miliardi di anni fa, un tempo vicino alle epoche più
antiche dell’Universo.

Rispetto alle precedenti osservazioni di onde gravitazionali, il segnale di GW190521 è molto breve e più difficile da analizzare. La complessa natura di questo segnale ci ha spinto a considerare anche altre sorgenti più esotiche, e queste possibilità sono descritte in un altro articolo che accompagna quello della scoperta. La fusione di un sistema binario di buchi neri resta però l’ipotesi più
probabile.

“Le osservazioni portate avanti da Virgo e LIGO illuminano l’universo oscuro e definiscono un nuovo panorama cosmico”, dice Giovanni Losurdo, che guida Virgo ed è dirigente di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare in Italia, “E oggi, ancora una volta, annunciamo una scoperta senza precedenti. Continuiamo a migliorare i nostri strumenti per aumentare la loro performance e
per vedere sempre più a fondo nell’Universo.”

Informazioni aggiuntive sugli osservatori di onde gravitazionali:

La Collaborazione Virgo è composta attualmente da circa 580 membri provenienti da 109 istituzioni in 13 diversi paesi, che comprendono Belgio, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Polonia, Portogallo, Spagna e Ungheria. Lo European Gravitational Observatory (EGO) che ospita il rivelatore Virgo si trova vicino a Pisa in Italia ed è finanziato dal Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) in Francia, dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) in Italia, e dal Nikhef in Olanda. Una lista dei gruppi della Collaborazione Virgo è disponibile al link http://public.virgo-gw.eu/the-virgo-collaboration/ . Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito web di Virgo http://www.virgo-gw.eu

.LIGO è finanziato dalla National Science Foundation (NSF) e la sua operatività dipende da Caltech e MIT, che hanno concepito e guidato il progetto. Il sostegno finanziario per il progetto Advanced LIGO è venuto dall’NSF, con significativi impegni e contributi da parte tedesca (Max Planck Society), inglese (Science and Technology Facilities Council) e australiana (Australian Research Council-OzGrav). Circa 1300 scienziati di tutto il mondo partecipano all’impresa scientifica della Collaborazione LIGO, che include anche la Collaborazione GEO. Una lista di altri partners è disponibile al link https://my.ligo.org/census.php
.

I RICERCATORI DI PERUGIA A CACCIA DELLE ONDE GRAVITAZIONALI

Un’esperienza ventennale nella descrizione teorica e nello sviluppo di tecnologie per osservare le onde gravitazionali che ha condotto anche a ricadute tecnologiche nel campo delle energie rinnovabili.

onde gravitazionali Virgo LIGO
Helios Vocca e Roberto Rettori

Il gruppo di scienziati di Perugia che lavora all’esperimento Virgo per la rivelazione e lo studio di onde gravitazionali fa parte del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia e della Sezione di Perugia dell’INFN e da circa trent’anni si occupa de i rivelatori delle Onde Gravitazionali. Il gruppo si occupa per lo più di elabora re modelli teorici e tecniche sperimentali per studiare la dinamica dei sistemi fisici non lineari e in particolare p er lo studio del rumore. Si tratta cioè di conoscere le caratteristiche e saper limitare o utilizzare in modo efficiente tutte qu elle vibrazioni che popolano i fenomeni naturali, dalle vibrazioni delle molecole e degli atomi dovute alla temperatura alle vibrazioni macroscopiche che potrebbero disturbare la rivelazione dei segnali che arrivano dal cosmo e che l’esperimento Virgo rivela. Oltre a questo negli ultimi anni ha acquisito competenze di ottica quantistica, di data analisi e modelli stica della Relatività Generale per sistemi compatti.

Il gruppo di ricerca perugino attivo nell’esperimento Virgo è coordinato dal Prof. Helios Vocca (attualmente nel Management Team sia dell’esperimento europeo Virgo che dell’esperimento giapponese Kagra). Sono nel complesso 12, tra scienziati e tecnici, le persone del Dipartimento di Fisica e della Sezione di Perugia dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare che costituiscono il team coinvolto nell’osservazione e nell’analisi dei dati raccolti sulle onde gravitazionali; fra loro anche il Dott. Michele Punturo responsabile del gruppo di ricerca astroparticellare per la sezione INFN di Perugia e attualmente Principal Investigato dell’esperimento Einstein Telescope, futuro detector europeo per le Onde Gravitazionali.

Le abilità acquisite dal team perugino nello studio delle vibrazioni, da quelle microscopiche a quelle più grandi, ha consentito di apportare un contributo essenziale ai metodi utilizzati per istallare gli specchi e il complesso dei sistemi ottici, cuore dello strumento per l’osservazione delle onde gravitazionali: l’interferometro Virgo. Il rivelatore Virgo istallato a Cascina, nelle campagne poco fuori Pisa, è costituito da due lunghi tubi di tre chilometri l’uno, disposti perpendicolarmente tra loro a formare una elle. All’interno di questi tubi si fa il vuoto e viene fatto correre un raggio laser avanti e indietro attraverso un sistema di specchi. È proprio lo spostamento degli specchi al passaggio dell’onda gravitazionale che ne rileva la presenza. Di conseguenza è cruciale la realizzazione di queste parti dell’apparato. Attraverso una conoscenza accurata del rumore termico, ovvero delle vibrazioni degli atomi e delle molecole che costituisco i materiati di cui sono fatte le parti del rivelatore Virgo, il gruppo di Perugia ha fatto sì che il segnale delle onde gravitazionali non si confondesse con altri disturbi provenienti dall’ambiente. Il gruppo di Perugia si è occupato, sin dalla nascita del progetto Virgo, dello sviluppo del sistema per sospendere gli specchi all’interno delle torri dell’esperimento. Tale sistema è unico perché consente allo specchio di poter oscillare dissipando pochissima energia e quindi rendendolo estremamente sensibile alla rivelazione dei segnali gravitazionali. Il pendolo è costituito da sottilissimi fili prima di acciaio, ora di un particolare vetro: il quarzo fuso. Insieme ai fili è stato ideato e realizzato un sistema originale di ancoraggio degli specchi attraverso tecniche innovative d’incollaggio delle componenti del rivelatore sviluppate tra i laboratori di Perugia e quelli di Glasgow. Queste tecnologie sono alla base dell’aumento di sensibilità che caratterizza il cosiddetto Advanded Virgo.

Le abilità tecniche e le conoscenze teoriche acquisite in questi trent’anni dai fisici dell’Università di Perugia, coinvolti nel progetto Virgo, ha consentito al gruppo di entrare da protagonista anche nell’esperimento giapponese, Kagra (esperimento guidato da una vecchia conoscenza dell’Ateneo perugino, il Prof. Takaaki Kajita premio Nobel in Fisica nel 2015, al quale nel 2017 è stata riconosciuta la laurea Honoris Causa) trasferendo le proprie competenze alla collaborazione asiatica per la realizzazione delle sospensioni criogeniche in zaffiro delle ottiche del rivelatore.

 

 

Testi e foto dall’Ufficio Stampa Università di Perugia