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LA VERA ETÀ DI GIOVE RIVELATA DA GOCCE DI ROCCIA FUSA – Uno studio INAF e Università di Nagoya svela come la nascita del gigante gassoso abbia innescato la formazione delle condrule nei meteoriti, permettendo di datare con precisione la nascita di Giove, avvenuta 1,8 milioni di anni dopo l’inizio del Sistema solare.

Un nuovo studio guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Nagoya ha dimostrato che la nascita del pianeta Giove ha innescato la formazione delle condrule nei meteoriti, permettendo di stabilire che il corpo celeste si è formato 1,8 milioni di anni dopo l’inizio del Sistema solare.

Schema che mostra come la gravità di Giove ha causato collisioni tra planetesimi che hanno poi fuso la roccia in goccioline, disperse dal vapore acqueo in espansione. Crediti: Diego Turrini e Sin-iti Sirono
Uno studio chiarisce in dettaglio il processo di formazione delle condrule e, grazie a ciò, riusce a datare con precisione la nascita di Giove: lo studio è pubblicato su Scientific Reports. Schema che mostra come la gravità di Giove ha causato collisioni tra planetesimi che hanno poi fuso la roccia in goccioline, disperse dal vapore acqueo in espansione. Crediti: Diego Turrini e Sin-iti Sirono

Quattro miliardi e mezzo di anni fa, Giove crebbe rapidamente fino a raggiungere la sua enorme massa, quella che oggi gli conferisce il primato di pianeta più grande del Sistema solare. La sua potente forza di attrazione gravitazionale sconvolse le orbite di piccoli corpi rocciosi e ghiacciati, simili agli odierni asteroidi e comete e noti come planetesimi. Queste perturbazioni provocarono collisioni a velocità dell’ordine di diversi chilometri al secondo, capaci di fondere le rocce e le polveri contenute in questi “piccoli” oggetti celesti. Il materiale fuso si frammentò in goccioline incandescenti di silicato – le condrule (o condri) – che oggi troviamo conservate nei meteoriti e chiamate, appunto, condriti.

Ora, due ricercatori hanno per la prima volta chiarito in dettaglio il processo di formazione di queste goccioline e, grazie a ciò, sono riusciti a datare con precisione la nascita di Giove. Lo studio, pubblicato oggi su Scientific Reports, mostra che le caratteristiche delle condrule – in particolare le loro dimensioni e le velocità di raffreddamento – sono spiegabili grazie all’acqua contenuta nei planetesimi impattanti. Questo risultato risolve un enigma di lunga data e dimostra che la formazione delle condrule è stata una conseguenza diretta della nascita dei pianeti.

“Il legame genetico tra la formazione di Giove e delle condrule determina che il pianeta si sia formato 1,8 milioni di anni dopo l’epoca delle cosiddette inclusioni ricche di calcio e alluminio (ossia l’inizio della storia del nostro sistema planetario, ndr), anticipando di 1-3 milioni di anni la formazione del pianeta gigante rispetto alle datazioni precedenti”, afferma Diego Turrini, coautore dell’articolo e primo ricercatore INAF.

Le condrule sono piccole sfere, di dimensioni tra 0,1 e 2 millimetri, che si sono formate durante le prime fasi del Sistema solare e sono state incorporate negli asteroidi in formazione. Nel corso del tempo, frammenti di questi asteroidi sono caduti sulla Terra come meteoriti. La loro forma tondeggiante ha costituito un mistero per decenni.

“Una delle principali teorie per la loro formazione è la fusione di rocce durante impatti e la successiva solidificazione di gocce di materiale fuso nella nebulosa solare”, spiega Turrini. “I modelli precedenti o non erano in grado di spiegare caratteristiche delle condrule come il rapido raffreddamento o le piccole dimensioni, oppure richiedevano condizioni molto particolari durante la formazione del Sistema solare”.

“Quando questi antichi planetesimi si scontravano, l’acqua contenuta al loro interno vaporizzava istantaneamente generando espansioni di vapore simili a piccole esplosioni. Questo processo frantumava e raffreddava la roccia silicatica fusa in gocce molto piccole, dando origine alle condrule che oggi osserviamo nei meteoriti”, spiega Sin-iti Sirono, coautore dello studio e docente presso la Graduate School of Earth and Environmental Sciences dell’Università di Nagoya in Giappone. “ll modello descritto nel nostro lavoro riesce a spiegare l’esistenza e le caratteristiche delle condrule grazie a un processo naturale, ossia l’evaporazione ed espansione dei ghiacci cometari, in risposta a fenomeni altrettanto naturali avvenuti in concomitanza con la formazione di Giove nella nebulosa solare, senza richiedere condizioni speciali”.

I due ricercatori sono arrivati a queste conclusioni grazie alla combinazione di simulazioni dinamiche e collisionali dettagliate, studiando come la rapida crescita della forza di gravità di Giove durante la sua formazione abbia causato impatti ad alta velocità tra planetesimi rocciosi e ricchi d’acqua e come l’interazione tra il materiale roccioso fuso e il ghiaccio evaporato formatisi in seguito a questi impatti abbia generato le condrule.

“I risultati sono sorprendenti”, commenta ancora Turrini. “Le caratteristiche e la quantità di condrule generate in queste simulazioni sono in accordo con i dati provenienti dai meteoriti. Inoltre, la produzione massima di condrule coincide con la fase di rapida acquisizione di gas da parte di Giove, che ha portato alla sua enorme massa. Poiché i dati dei meteoriti indicano che la formazione di condrule ebbe il picco 1,8 milioni di anni dopo l’inizio del Sistema solare, possiamo affermare di aver riconosciuto con precisione anche il momento della nascita di Giove”.

Lo studio getta luce sul processo di formazione del nostro sistema planetario, ma la durata limitata della produzione di condrule causata da Giove spiega anche perché nei meteoriti si trovano condrule di età diverse. Probabilmente pianeti giganti come Saturno hanno innescato eventi simili alla loro nascita. Analizzando i condriti di differenti epoche si potrà dunque ricostruire la sequenza di nascita dei pianeti e la storia evolutiva del Sistema solare.

Riferimenti bibliografici:

Sirono, Si., Turrini, D. Chondrule formation by collisions of planetesimals containing volatiles triggered by Jupiter’s formation, Sci Rep 15, 30919 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-12643-x

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Giove, il pianeta più grande del sistema solare

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

I BATTERI INTESTINALI POSSONO MODULARE L’ATTIVITÀ NEURONALE ATTRAVERSO SEGNALI BIOELETTRICI: SCOPERTA UNA COMUNICAZIONE DIRETTA TRA INTESTINO E CERVELLO

Un team di ricerca italo-spagnolo dimostra per la prima volta che i batteri intestinali possono modulare l’attività neuronale attraverso segnali bioelettrici, aprendo nuove strade per la cura di ansia e depressione

 

Un innovativo studio condotto congiuntamente dall’Università di Torino e dall’Università Complutense di Madrid, pubblicato sulla rivista Scientific Reports (gruppo Nature), apre nuove prospettive nella comprensione della comunicazione tra microbiota intestinale e sistema nervoso.

Per la prima volta, i ricercatori hanno dimostrato che un batterio probiotico di origine alimentare, Lactiplantibacillus plantarum, è in grado di modulare direttamente l’attività neuronale attraverso segnali bioelettrici, senza necessità di attraversare barriere o mediazioni immunitarie.

“Abbiamo sviluppato un modello in vitro che mette a contatto diretto neuroni corticali di ratto e L. plantarum” – spiega la Prof.ssa Celia Herrera Rincon, Principal Investigator dello studio – “e abbiamo osservato che i batteri si legano alla superficie neuronale senza penetrarne il nucleo, ma influenzano in modo significativo l’attività neuronale. È la prima volta che viene dimostrata questa interazione diretta, e i segnali bioelettrici coinvolti rappresentano una nuova frontiera nella ricerca biologica”.

L’analisi in tempo reale dell’attività neuronale, condotta tramite imaging del calcio, ha rivelato un aumento della segnalazione intracellulare dipendente sia dalla concentrazione batterica che dal loro metabolismo attivo. Parallelamente, l’analisi proteica ha evidenziato modifiche nei livelli di molecole chiave della neuroplasticità, come sinapsina I e pCREB.

“Questi risultati” – commenta il Rettore dell’Università di Torino e neuropsichiatra Stefano Geuna, co-autore dello studio – aprono la strada a nuovi approcci terapeutici. Potremmo un giorno trattare disturbi neuropsichiatrici gravi e diffusi, come ansia e depressione, intervenendo sul microbiota intestinale con strategie dietetiche mirate”.

Il lavoro si inserisce nel crescente interesse scientifico per l’asse intestino-cervello, ma sposta l’attenzione dalle vie indirette, già ampiamente studiate, a un’interazione diretta tra batteri e cellule nervose. Questo rappresenta un cambio di paradigma nella biologia cellulare e nelle neuroscienze, con possibili ricadute cliniche e tecnologiche in ambito neurologico e psichiatrico.

Riferimenti bibliografici:

Lombardo-Hernandez, J., Mansilla-Guardiola, J., Aucello, R. et al., An in vitro neurobacterial interface reveals direct modulation of neuronal function by gut bacteria, Sci Rep 15, 25535 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-10382-7

microscopio elettronico
I batteri intestinali, come il Lactiplantibacillus plantarum, possono modulare l’attività neuronale attraverso segnali bioelettrici. Foto di Konstantin Kolosov

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

COME GLI UCCELLI SI ADATTANO ALL’URBANIZZAZIONE DEI TERRITORI: TORINO È UN RIFUGIO VERDE PER I VOLATILI FORESTALI

Uno studio condotto in sei città italiane da parte dell’Università di Torino e appena pubblicato su Scientific Reports rivela come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione in maniera differente in base alle stagioni.

L’espansione delle città è una delle principali cause del declino globale della biodiversità, ma le comunità di uccelli possono rispondere in modo sorprendentemente diverso a questa minaccia nei vari periodi dell’anno. È quanto emerge dalla ricerca “Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons”, pubblicata oggi sulla prestigiosa rivista Scientific Reports e frutto di una collaborazione tra ricercatori di diverse università italiane e straniere, sotto la guida del National Biodiversity Future Center (NBFC).

Coordinato da Riccardo Alba, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino e del Bird Lab Torino, lo studio ha analizzato come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione lungo un gradiente che va dai centri cittadini fino alle periferie rurali. La ricerca, che ha coinvolto le città italiane di Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli e Campobasso, ha adottato un approccio multi-stagionale, includendo sia il periodo riproduttivo che quello invernale, per cogliere appieno la complessità delle dinamiche ecologiche urbane. Una particolare attenzione è stata posta ai tratti funzionali delle specie – come dieta, strategia riproduttiva, comportamento sociale e modalità di nidificazione – per comprendere quali caratteristiche favoriscano o penalizzino le diverse specie in ambienti urbanizzati.

I risultati mostrano come alcune specie, definite “winners”, riescano a prosperare in città grazie alla nidificazione coloniale, un’elevata numero di covate o una lunga durata della vita. In inverno, invece, prevalgono le specie solitarie e opportuniste, dotate di una dieta generalista. Al contrario, le specie “losers” tendono ad essere insettivore, migratrici e a nidificare al suolo – caratteristiche che le rendono vulnerabili alla perdita di habitat e alle pressioni dell’ambiente urbano. Tuttavia, la maggior parte delle specie rientra nella categoria degli “urban adapters”: non completamente favorite dagli ambienti urbani, ma comunque in grado di sfruttare efficacemente i contesti con un livello intermedio di urbanizzazione. Alcune specie, inoltre, mostrano però notevoli capacità di adattamento stagionale, frequentando aree urbane in inverno ma non durante la stagione riproduttiva e viceversa.

Torino si distingue tra le grandi città del Nord Italia per la sua eccezionale estensione di aree verdi e parchi urbani, che creano un mosaico urbano capace di ospitare una notevole diversità di uccelli, inclusi quelli tipici degli ambienti forestali. I grandi parchi urbani come il Parco della Colletta, il Meisino, il Valentino e la Pellerina offrono habitat idonei a molte specie sensibili, spesso rare in altri contesti metropolitani. In alcuni di questi parchi, ad esempio, si possono osservare specie come la cincia bigia, il rampichino comune e il picchio muratore, ma anche specie più rare nidificano, come il picchio rosso minore, il picchio nero, la colombella o il lodolaio.

Un ruolo chiave è svolto anche dalla collina di Torino, che con il Parco Naturale della Collina di Superga rappresenta un importante polmone verde a ridosso della città, fungendo da serbatoio di biodiversità e da zona di nidificazione per molte specie. Inoltre, il fiume Po, con le sue fasce perifluviali alberate, agisce come un vero e proprio corridoio ecologico, facilitando gli spostamenti e il collegamento tra le aree verdi urbane e quelle naturali circostanti. Questi elementi, inclusi i grossi viali alberati della città, rendono Torino un esempio virtuoso di come le città possano contribuire concretamente alla conservazione della biodiversità, anche di specie forestali più esigenti. Allo stesso tempo, la presenza di una fauna ricca e diversificata nelle aree verdi urbane migliora la qualità della vita dei cittadini, offrendo occasioni di contatto con la natura. Così la biodiversità urbana diventa un patrimonio sociale e culturale da valorizzare.

“Lo studio – dichiara Riccardo Alba – evidenzia la straordinaria capacità degli uccelli di adattarsi a una vasta gamma di condizioni ambientali, anche all’interno di paesaggi fortemente modificati dall’uomo. Considerare le variazioni stagionali è fondamentale per comprendere pienamente le risposte ecologiche delle specie all’urbanizzazione. Questo approccio può contribuire a migliorare la pianificazione del tessuto urbano, rendendolo più sensibile alle esigenze della fauna selvatica e più efficace nel promuovere città sostenibili e ricche di biodiversità”.

Riferimenti bibliografici:

Alba, R., Marcolin, F., Assandri, G. et al., Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons, Sci Rep 15, 16181 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-00350-6

un picchio rosso minore. Foto di Carlo Caimi, CC0
un picchio rosso minore. Foto di
Carlo Caimi, CC0

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Fiumi e torrenti: grazie all’intelligenza artificiale ora è possibile prevedere le alluvioni fino a sei ore di anticipo

Lo studio dell’Università di Pisa e del Consorzio di Bonifica Toscana Nord pubblicato su Scientific Reports

 

Nuovi modelli previsionali basati sull’intelligenza artificiale consentono di prevedere fino a sei ore di anticipo le alluvioni provocate da fiumi minori e torrenti, corsi d’acqua che sono ad oggi i più difficili da gestire e monitorare. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa e del Consorzio di Bonifica Toscana Nord pubblicato su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature.

“Le forti precipitazioni concentrate in breve tempo e su aree ristrette rendono difficile la gestione dei corsi d’acqua minori, dove la rapidità di deflusso delle acque piovane aumenta il rischio di piene improvvise, basti pensare agli eventi alluvionali avvenuti nel novembre 2023 nella provincia di Prato dove sono esondati i torrenti Furba e Bagnolo e, più recentemente, a quelli che hanno colpito la Valdera e la provincia di Livorno” spiega Monica Bini, professoressa del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa che ha coordinato la ricerca.

I modelli predittivi basati sull’intelligenza artificiale sono stati addestrati a partire dalla banca dati pluviometrica e idrometrica fornita del Servizio Idrologico Regionale della Toscana. Il passo successivo sarà quindi di sviluppare software semplici e facili da usare per anticipare le criticità dei corsi d’acqua e di mitigare i danni.

“L’intelligenza artificiale si è rivelata uno strumento prezioso per dare preallerta in piccoli bacini anche con sei ore di anticipo, ma resta fondamentale che le decisioni operative siano sempre supervisionate da esperti,” ha sottolineato il dottor Marco Luppichini, primo autore dell’articolo e assegnista di ricerca del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano.

“La disponibilità di dati pluviometrici forniti dal Servizio Idrologico Regionale e il finanziamento del Consorzio di Bonifica, per cui ringraziamo il presidente Ismaele Ridolfi, sono stati fondamentali per il successo della ricerca a cui  ha collaborato sempre per il Consorzio l’ingegnere Lorenzo Fontana – dice Monica Bini  – è per me inoltre motivo di orgoglio la partecipazione al lavoro di Giada Vailati, studentessa del corso di laurea magistrale in Scienze Ambientali del quale sono presidente, credo sia l’esempio tangibile di come il corso affronti tematiche di estrema attualità e come i nostri studenti possano da subito diventare protagonisti di ricerche internazionali e incidere sulla gestione del territorio”.

“È un risultato che ci rende orgogliosi del lavoro fatto e della collaborazione stretta in questi anni con un’eccellenza come il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa – sottolinea il presidente del Consorzio di Bonifica Toscana Nord, Ismaele Ridolfi – In queste settimane, l’emergenza climatica in atto ha dato una terribile dimostrazione degli effetti disastrosi che può avere sulle nostre vite con i casi di Emilia-Romagna, Marche, la stessa Toscana fino ad arrivare alle più recenti alluvioni che hanno colpito la Spagna e in particolare il territorio di Valencia. Oltre alle necessarie manutenzioni ordinarie e alle opere straordinarie per ridurre il rischio, abbiamo il dovere di sfruttare al meglio i nuovi strumenti in grado di prevedere il prima possibile eventi pericolosi e gli eventuali effetti sui nostri territori. La collaborazione continuerà – conclude Ridolfi -, grazie alla nuova convenzione sottoscritta nei mesi scorsi, per approfondire il tema ed estendere gli studi ad altri corsi d’acqua”.

Monica Bini e Ismaele Ridolfi
Monica Bini e Ismaele Ridolfi

Riferimenti bibliografici:

Luppichini, M., Vailati, G., Fontana, L. et al. Machine learning models for river flow forecasting in small catchments, Sci Rep 14, 26740 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-024-78012-2

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Ophiuroid Optimum: grazie alle stelle serpentine antartiche è stata identificata un nuovo periodo climatico della Terra

Pubblicato su Scientific Reports lo studio del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa su una carota di sedimento marino dell’Antartide

Un gruppo di ricercatori e ricercatrici del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa ha identificato un nuovo periodo climatico del nostro pianeta denominato “Ophiuroid Optimum” che va dal 50 al 450 d.C.

Lo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports è stato condotto in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo. Ricercatori e ricercatrici hanno analizzato una carota di sedimento marino raccolta ad una profondità di 462 m sotto il livello del mare nell’Edisto Inlet, un fiordo nel Mare di Ross occidentale in Antartide.

Lo studio della carota ha consentito di ricostruire la storia climatica della Terra negli ultimi 3600 anni evidenziando anche periodi già noti come il caldo medievale, fra il 950 e il 1250 d.C., e la piccola età glaciale, dal 1300 sino al 1850 d.C.. Durante l’intervallo di tempo denominato “Ophiuroid Optimum”, nell’area antartica dell’Edisto Inlet, si sono susseguite estati australi caratterizzate dall’assenza di ghiaccio marino ed importanti fioriture algali. Il persistere di queste condizioni ambientale ha permesso lo sviluppo di un’ampia comunità “bentonica”, ossia di organismi acquatici, animali e vegetali che vivono vicino ai fondali, ricca in stelle serpentine.

Questa carota di sedimento ci ha consentito di effettuare degli studi paleoecologici e paleoclimatici ad altissima risoluzione – spiega Giacomo Galli dottorando fra gli Atenei di Pisa e Ca’ Foscari Venezia – questo perché è in gran parte fatta di fango costituito principalmente da diatomee, cioè piccole alghe unicellulari con guscio siliceo, a cui si aggiungono foraminiferi che sono organismi unicellulari con guscio che può fossilizzare, e resti di ofiure, cioè animali noti con il nome di stelle serpentine, echinodermi simili alle stelle marine. In particolare, gli abbondanti resti fossili delle stelle serpentine hanno permesso di identificare e caratterizzare il nuovo periodo climatico”.

La nostra comprensione del clima presente, nonché la possibilità di modellare quello futuro, è possibile solo grazie ai dati che derivano dalle informazioni sul clima del passato – conclude la professoressa Morigi dell’Università di Pisa – ogni tassello che ci aiuta a comprendere meglio la storia climatica del nostro Pianeta ha enormi implicazione nell’aiutarci a capire come questa si evolverà nel prossimo futuro”.

Hanno partecipato alla ricerca per il dipartimento della di Scienze della terra dell’Università di Pisa Giacomo Galli, la professoressa Caterina Morigi, responsabile di vari progetti per la ricerca in Antartide (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide, PNRA) ed in Artide (Programma di Ricerca in Artico, PRA) e Karen Gariboldi, ricercatrice esperta di diatomee. Fra gli altri autori Ben Thuy, ricercatore presso il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo, uno dei maggiori esperti di ofiuroidi fossili al mondo.

Riferimenti bibliografici:

Galli, G., Morigi, C., Thuy, B. et al. Late Holocene echinoderm assemblages can serve as paleoenvironmental tracers in an Antarctic fjord, Sci Rep 14, 15300 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-024-66151-5

Nella foto, la bivalve Adamussium colbecki, il riccio Sterechinus neumayeri, la spugna Homaxinella balfourensis, la stella serpentina Ophionotus victoriae, ragni di mare Colossendeis. Foto NSF/USAP, di Steve Clabuesch, in pubblico dominio
L’immagine ha lo scopo di mostrare una specie di stelle serpentine, Ophionotus victoriae, i cui fossili sono stati centrali in questa ricerca che ha individuato il nuovo periodo climatico Ophiuroid Optimum. Nella foto, la bivalve Adamussium colbecki, il riccio Sterechinus neumayeri, la spugna Homaxinella balfourensis, la stella serpentina Ophionotus victoriae, ragni di mare Colossendeis. Foto NSF/USAP, di Steve Clabuesch, in pubblico dominio

Testo dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

BATTERI INTESTINALI COME IL LACTIPLANTIBACILLUS PLANTARUM MIGLIORANO CRESCITA ANIMALE PRINCIPALMENTE IN QUANTO PARTNER ATTIVI (SIMBIONTI)

Pubblicato su «Scientific Reports» lo studio dell’Università di Padova in cui si dimostra per la prima volta che se i batteri intestinali (Lactiplantibacillus plantarumsono vivi e attivi entrano in simbiosi benefica con l’animale e sono fonte nutritiva

 

Il microbiota intestinale è l’insieme dei microrganismi (batteri, ma anche virus, funghi e protozoi) ospitati da ciascun essere umano o animale sin dalla nascita e per tutta la sua vita. È una popolazione composta da centinaia di specie diverse formate da cellule e geni.

Queste “comunità”, come è noto da tempo, esercitano un effetto benefico sulla nostra salute: temprano il sistema immunitario, proteggono dalle infezioni di agenti patogeni, favoriscono la digestione e prevengono malattie cardiovascolari. Negli ultimi anni è stato scoperto che specifici batteri intestinali favoriscono anche la nostra crescita in condizioni di denutrizione. Semplificando, se una dieta è povera in nutrienti come ad esempio le proteine e se sono presenti batteri intestinali benefici, questi ultimi favoriscono comunque la crescita compensando la mancanza, come si avesse una dieta standard.

È stato anche dimostrato che ceppi di batteri appartenenti alla specie Lactiplantibacillus plantarum, comunemente isolati da diverse piante e presenti nel microbiota intestinale di molti animali, sono in grado di migliorare la crescita sia di insetti che di mammiferi (ad esempio i topi) se gli animali hanno un deficit nutrizionale.

Rimane da capire, però, il perché alcuni batteri intestinali – tra cui appunto il Lactiplantibacillus plantarum – migliorino la crescita di un animale. Sono batteri simbionti, cioè colonizzano l’intestino, ma al contempo apportano un vantaggio per l’organismo? Oppure sono semplicemente una fonte nutritiva? Su questo argomento la comunità scientifica si è sempre divisa.

Lo studio dal titolo “Gut microbes predominantly act as living beneficial partners rather than raw nutrients” pubblicato su «Scientific Reports» e guidato dalla professoressa Maria Elena Martino del Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione dell’Università di Padova ha dimostrato, per la prima volta, che i batteri intestinali esplicano la loro azione benefica migliorando la crescita animale principalmente in quanto partner attivi (simbionti) e, solo secondariamente, perché costituiscono anche una riserva energetica.

La ricerca è stata condotta sull’attività batterica intestinale nel moscerino della frutta, la Drosophila melanogaster, attraverso l’uso di batteriostatici, cioè agenti in grado di inibire o limitare la replicazione batterica senza però uccidere il microorganismo. Questa metodologia ha permesso di analizzare tre condizioni fisiologiche nei batteri per vedere e quantificare gli effetti sull’animale: la condizione naturale, cioè l’attività di batteri vivi e attivi accoppiata alla crescita; l’attività di batteri vivi, ma che non si replicano; infine l’attività di batteri morti, cioè utilizzati come sola fonte nutritiva dall’animale.

«Lo studio – dice la professoressa Maria Elena Martino – ha evidenziato due importanti risultati: il primo è che l’effetto maggiore di promozione della crescita animale si ottiene esclusivamente in presenza di batteri vivi e attivi, in particolare il 60% dell’effetto benefico esercitato dai batteri intestinali deriva dalla loro interazione attiva con l’organismo. Il secondo è che l’effetto benefico, sempre e solo con batteri vivi e attivi, sulla crescita è il risultato di due componenti: da un lato le cellule batteriche rappresentano comunque una fonte nutritiva, dall’altro vi è sia la produzione di metaboliti (amino-acidi) che una stimolazione del sistema immunitario dell’animale. Specificando ulteriormente abbiamo notato che il 60% dell’effetto benefico, come detto, è dovuto all’attività batterica (vitalità), la risorsa nutritiva è circa il 15%, mentre il resto della percentuale deriva da altri fattori minori. In conclusione, la ricerca ha permesso, per la prima volta, di dimostrare e quantificare l’effetto benefico dei batteri intestinali: esso deriva dall’interazione tra il batterio con il proprio ospite animale. Secondariamente dalla capacità dell’animale di trarre nutrienti dalla biomassa batterica. Questo studio – conclude Martino – non solo rappresenta un significativo passo in avanti nella comprensione delle relazioni tra animali e microbiota, ma determina in maniera inequivocabile il ruolo dei batteri intestinali per la crescita animale e umana».

Maria Elena Martino batteri intestinali simbionti crescita animale
Maria Elena Martino

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41598-023-38669-7

Titolo: “Gut microbes predominantly act as living beneficial partners rather than raw nutrients” – «Scientific Reports» 2023

Autori: Nuno Filipe da Silva Soares, Andrea Quagliariello, Seren Yigitturk & Maria Elena Martino

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Zanzare: le loro storie d’amore per combattere la malaria 

Dall’accoppiamento delle zanzare, nuove strategie per ridurre la diffusione della pericolosa infezione da malaria. Lo evidenzia uno studio di Cnr-Isc e Sapienza in collaborazione con l’Università degli Studi di Perugia, ora pubblicato su Scientific Reports.

Osservare delle zanzare che si accoppiano può sembrare un’attività particolarmente bizzarra, ma che si sta rivelando essenziale nello sviluppo di nuove strategie di lotta contro la malaria. Le femmine di Anopheles gambiae sono vettori di trasmissione del plasmodio della malaria, che ogni anno è responsabile di centinaia di migliaia di decessi. Le tecniche sviluppate negli ultimi anni per contrastare questa malattia si basano su un principio molto semplice: meno zanzare, meno vettori di trasmissione, meno decessi. L’uso di zanzariere impregnate di insetticidi si è rivelato molto efficace negli ultimi 20 anni. Ma questo non basta. Le zanzare hanno sviluppato resistenze agli insetticidi, per cui, dopo una iniziale riduzione, il numero dei contagi annuali è ora in salita.

L’imperativo scientifico è quindi di identificare nuove strategie, da utilizzare in associazione con i metodi di controllo attualmente in uso. Attraverso un approccio “gene drive”, si cerca di sfruttare l’accoppiamento delle zanzare per diffondere modificazioni genetiche che rendano le zanzare sterili o incapaci di trasmettere il parassita della malaria.

“Per valutare l’efficacia di queste tecniche innovative è necessario conoscere approfonditamente il meccanismo dell’accoppiamento”, spiega la Prof.ssa Roberta Spaccapelo, dell’Università degli Studi di Perugia, “sappiamo che questi insetti si accoppiano in volo e che i maschi si associano in gruppi, sciami di centinaia di individui, per essere più visibili e attrattivi alle femmine. Ma non ne sappiamo molto di più. Sono le femmine che entrano nello sciame a scegliere con quale maschio accoppiarsi? Come avviene la scelta? Ci sono delle caratteristiche che rendono alcuni maschi più attrattivi di altri?”

L’articolo “Characterization of lab-based swarms of Anopheles gambiae mosquitoes using 3D-video tracking” appena pubblicato su Scientific Reports, nato da una collaborazione fortemente interdisciplinare tra il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Perugia, il gruppo CoBBS (Collective Behavior in Biological Systems – www.cobbs.it) del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR, muove i primi passi per cercare di rispondere a questi interrogativi.

“Riprodurre sciami di Anopheles nell’ambiente controllato del laboratorio è stato un compito molto complicato. Abbiamo scelto di studiare questi sciami in gabbie molto grandi, per poter analizzare la dinamica di volo delle zanzare evitando potenziali effetti sul comportamento dovuti allo spazio confinato di gabbie piccole”, dice la Prof.ssa Irene Giardina della Sapienza.

“Abbiamo ripreso sciami di centinaia di zanzare con un sistema stereometrico di telecamere, che ci permette di ricostruire nello spazio tridimensionale le traiettorie di ogni singola zanzara nel gruppo. L’analisi di questi dati ci ha permesso di verificare che gli sciami ricreati in laboratorio hanno caratteristiche compatibili con quelle di sciami osservati in ambiente naturale“, spiega Stefania Melillo, ricercatrice dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR. “La novità più importante presentata nell’articolo è che siamo riusciti a documentare vari eventi di accoppiamento: coppie di zanzare che volano insieme per un periodo di tempo che arriva anche a 15 secondi. Ma la cosa più stupefacente è sicuramente aver osservato e  documentato la competizione nell’accoppiamento. Più maschi che competono per accoppiarsi nello stesso momento con la stessa femmina.”

L’articolo rappresenta, quindi, il primo passo verso la comprensione della dinamica di accoppiamento nelle zanzare e costituisce un importante punto di riferimento per la comunità scientifica internazionale, per valutare l’efficacia delle nuove tecnologie per ridurre la popolazione di insetti così pericolosi per l’uomo.

Dall’accoppiamento delle zanzare, nuove strategie per combattere la malaria. Gallery

 

Ulteriori sviluppi di questo studio, sia dal punto di vista sperimentale che modellistico, sono tema del progetto dal titolo: Demystifying mosquito sex: unraveling MOsquito SWARMs with lab-based 3D video tracking (acronimo: MoSwarm), presentato congiuntamente dall’Università di Perugia e il CNR, appena finanziato dal MUR nell’ambito dei progetti PRIN 2022.

 

Riferimenti:

Characterization of lab‐based swarms of Anopheles gambiae mosquitoes using 3D‐video tracking – Andrea Cavagna, Irene Giardina, Michela Anna Gucciardino, Gloria Iacomelli, Max Lombardi, Stefania Melillo, Giulia Monacchia, Leonardo Parisi, Matthew J. Peirce & Roberta Spaccapelo – Scientific Reports https://doi.org/10.1038/s41598-023-34842-0

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Come i soggetti in invecchiamento sano e attivo hanno risposto positivamente alla pandemia; la ricerca UniTO pubblicata su Scientific Reports

Per la popolazione in healthy aging le funzioni cognitive sono rimaste pienamente preservate (memoria e attenzione) mentre altre, come la cognitività globale, le funzioni esecutive e il linguaggio, sono addirittura migliorate.

Il gruppo di ricerca coordinato dalla Prof.ssa Martina Amanzio del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, in collaborazione con prestigiosi centri di ricerca (Scuola Universitaria Superiore – IUSS e Istituti Clinici Scientifici Maugeri – IRCCS di Pavia, Dipartimento di Psicologia Università Cattolica del Sacro Cuore e Istituto Auxologico Italiano – IRCCS di Milano) ha recentemente pubblicato uno studio scientifico sull’autorevole rivista Scientific Reports, del gruppo Nature. Nonostante la popolazione anziana risultasse essere quella maggiormente a rischio per quanto riguarda la salute fisica e mentale, la ricerca ha dimostrato come alcuni soggetti in “healthy aging” – in assenza di declino cognitivo o fisico oggettivabile – abbiano risposto anche positivamente alla situazione emergenziale tipica della pandemia.

Il gruppo di ricerca ha potuto sfruttare la preziosa disponibilità di dati sullo status cognitivo, fisico e comportamentale di alcuni partecipanti iscritti all’Università della Terza Età (UNITRE) di Torino, che hanno preso parte alle iniziative di apprendimento e di ricerca avviate dal gruppo coordinato dalla Prof.ssa Amanzio per promuovere l’invecchiamento sano e attivo. Si è quindi concretizzata l’opportunità unica di confrontare direttamente i dati neuropsicologici raccolti prima e durante la pandemia, indagandone così i possibili cambiamenti a livello fisico/cognitivo, di deflessione del tono dell’umore (ad esempio in termini di apatia e ansia). Inoltre, durante la pandemia, per esaminare i possibili segni di (dis)regolazione emotiva, sono state mostrate ai soggetti immagini della prima fase più drammatica del COVID-19, mentre veniva registrata l’heart rate variability.

Grazie a questo studio longitudinale, sebbene sia emersa una deflessione del tono dell’umore, in particolar modo sul versante dell’apatia e dell’ansia, anche in seguito alle misure restrittive del lockdown, si è potuto osservare come i partecipanti abbiano risposto positivamente allo stress e all’isolamento sia in termini di performance cognitiva sia in termini di buona salute fisica.

In particolare, i risultati hanno mostrato prestazioni stabili nel tempo per quanto riguarda la memoria, sia immediata che differita, e l’attenzione, unitamente ad un miglioramento nelle abilità cognitive globali, della funzione esecutiva e della comprensione linguistica.

Lo studio ha evidenziato come la riserva cognitiva, intesa come una combinazione di esperienze di vita positive, quali ad esempio le attività sociali ed educative offerte dall’UNITRE, abbia costituito un importante fattore protettivo contro gli effetti negativi ‘COVID-related’, consentendo il mantenimento del benessere individuale nonostante la criticità della pandemia.

Lo studio ha dimostrato per la prima volta in letteratura come lo sviluppo di programmi e strategie volti a prevenire il declino cognitivo e fisico siano stati fondamentali per mantenere l’healthy aging durante la pandemia COVID-19. A questo proposito, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha specificato come le UNITRE, in quanto luoghi di attività e di apprendimento informali in tutto il mondo, abbiano avuto un impatto positivo sul benessere psicologico e sulla qualità della vita della popolazione anziana prima della pandemia e durante il COVID-19.

A tal riguardo, la ricerca ha infatti potuto sottolineare come il funzionamento cognitivo possa essere stimolato e persino migliorato mediante un’adeguata interazione con un contesto positivo, anche in un momento critico come una pandemia, come sperimentato dai partecipanti UNITRE di Torino che hanno continuato a frequentare i corsi di formazione a distanza e a condividere esperienze comuni anche tramite i social media.

L’emergenza sanitaria che abbiamo vissuto a causa del COVID-19 ha senza dubbio innescato una grande preoccupazione – spiega la Prof.ssa Martina Amanzio – in particolar modo per le persone maggiormente vulnerabili, tra cui la popolazione anziana. Tuttavia, il nostro studio ha dimostrato per la prima volta in letteratura “the bright side of the moon”, ovvero come alcuni soggetti anziani abbiano risposto anche positivamente alla pandemia, confermando UNITRE come un buon modello per promuovere uno stile di vita sano e attivoLe previsioni circa l’aumento della popolazione anziana globale rendono pertanto urgente pianificare e attuare strategie di intervento coerenti con i nostri risultati al fine di promuovere un invecchiamento di successo che possa superare le avversità di potenziali future emergenze sanitarie”.

Soggetti in invecchiamento sano e attivo rispondono positivamente alla pandemia
Soggetti in invecchiamento sano e attivo rispondono positivamente alla pandemia. Foto di Gerd Altmann

 

Lo studio pubblicato su Scientific Reports:

Amanzio, M., Cipriani, G.E., Bartoli, M. et al. The neuropsychology of healthy aging: the positive context of the University of the Third Age during the COVID-19 pandemic, Sci Rep 13, 6355 (2023). DOI:  https://doi.org/10.1038/s41598-023-33513-4

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Dall’Istria alle isole e coste italiane fino alle Baleari: ridisegnata la mappa di distribuzione della foca monaca dall’Università di Milano-Bicocca

Grazie alla nuova tecnica basata sul DNA ambientale e a un monitoraggio durato due anni, i ricercatori dell’ateneo milanese, in collaborazione con il Gruppo Foca Monaca e con il supporto di nove associazioni, hanno individuato sei “hot spot” di presenza della specie nel Mediterraneo centrale. I dati sono stati pubblicati sulla rivista “Scientific Reports”.

Milano, 15 Febbraio 2023 – Alto Adriatico tra Istria e la laguna di VeneziaSalento-Golfo di Taranto, le isole minori sicilianeSardegna orientale-Canyon di CapreraArcipelago Toscano e l’arcipelago delle Baleari. Sono i sei “hot spot” di presenza della foca monaca individuati dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, grazie alla tecnica basata sul DNA ambientale, in collaborazione con il Gruppo Foca Monaca APS e con il supporto di nove associazioni ed enti di ricerca impegnati nelle operazioni di campionamento.

A rivelarlo è l’articolo “Playing hide and seek with the Mediterranean monk seal (trad.: “Giocando a nascondino con la foca monaca del Mediterraneo”), pubblicato sulla rivista Scientific Reports (DOI: http://doi.org/10.1038/s41598-023-27835-6) e nel quale sono raccolti i dati della vasta campagna di monitoraggio effettuata lungo le coste italiane e nei tratti di mari limitrofi tra il 2020 e 2021 per tracciare la presenza della foca monaca del Mediterraneo (Monachus monachus), una delle specie più rare al mondo.

Con un rivoluzionario sistema di rilevamento non invasivo, basato sulla ricerca di DNA ambientale in campioni di acqua di mare, i ricercatori hanno analizzato 135 campioni prelevati in 120 punti del Mar Mediterraneo centro-occidentale, alla ricerca di tracce molecolari della foca monaca: l’analisi ha rivelato così la presenza del raro pinnipede in aree dove mancano osservazioni dirette da decenni, come ad esempio in molti tratti di mare che circondano la nostra Penisola, dalle acque sovrastanti il canyon di Caprera all’Alto Adriatico fino alle isole Baleari.
Ridisegnata la mappa di distribuzione della foca monaca dall’Università di Milano-Bicocca
Ridisegnata la mappa di distribuzione della foca monaca dall’Università di Milano-Bicocca. Le linee continue blu delimitano le sei zone calde («hot-spot» ad alta incidenza di rilevamenti positivi) identificate nello studio, mentre le linee tratteggiate fucsia mostrano i tratti di mare monitorati ma che non hanno restituito dati molecolari suggestivi della presenza della foca monaca, almeno durante la campagna Spot the Monk 2021, a cui si riferisce l’articolo appena pubblicato. Le aree delimitate in arancione (arcipelago Toscano e delle Pelagie) segnalano le «zone calde» identificate precedentemente dagli stessi autori, utilizzando la stessa metodologia, e riportate nell’articolo su “Biodiversity and Conservation”

La ricerca ha fornito una nuova “visione” della distribuzione territoriale della foca monaca, individuando sei aree di grande interesse (“hot spot”) dove saranno concentrate da subito le attività di monitoraggio dei prossimi anni. Altro dato rilevante è la “positività” di alcuni siti storicamente noti per la presenza della specie e anche di aree vicine alle piccole isole e alle Aree Marine Protette.

Il metodo di rilevamento è stato messo a punto da Elena Valsecchi, ecologa molecolare del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, autrice principale dell’articolo e coordinatrice del gruppo di DNA ambientale marino (Marine eDna Group) dell’ateneo milanese, che da alcuni anni promuove il progetto “MeD for Med – Marine environmental DNA for the Mediterranean”, sistema di monitoraggio della biodiversità marina basato proprio sul prelievo di campioni d’acqua e sull’analisi del DNA ambientale in essi contenuto.

Nel 2020 il gruppo di ricerca milanese ha lanciato il progetto Spot the Monk” in collaborazione con il Gruppo Foca Monaca, per lo studio “focalizzato” su questo pinnipede. Emanuele Coppola, presidente del Gruppo Foca Monaca APS e coautore della pubblicazione, si è occupato di individuare i siti di campionamento al fine di stimare il passaggio stagionale dei pinnipedi e il grado di fedeltà alle singole aree. Siti costieri che, per esperienza diretta o valutazione geo-morfologica, costituivano i potenziali habitat di elezione della foca monaca.

Foto realizzate dall’equipaggio di One Ocean Foundation, una delle associazioni partner nella raccolta di campioni per Spot the Monk. Gallery

La campagna Spot the Monk” 2021, che ha portato alla individuazione dei sei “hot spot”, è stata realizzata anche grazie al coinvolgimento di diversi programmi di citizen science, facenti capo a nove tra associazioni ed enti di ricerca (in ordine alfabetico: Centro Ricerca Cetacei, Circolo Nautico Rimini, Filicudi Wildlife Conservation, Fondazione Cetacea, IMEDEA (CSIC-UIB), One Ocean Foundation, Progetto Mediterranea, Progetto Manaia e Sailing for Blue Life), che si sono adoperati a raccogliere i campioni, consentendo la raccolta simultanea in distretti marini differenti, strategia che ha consentito di delineare meglio la mappa di presenza o assenza del pinnipede.

«È importante che questi monitoraggi siano svolti in modo omogeneo e scientificamente certificato – dichiarano i team leader della ricerca, Elena Valsecchi e Emanuele Coppola –. Solo così potremo avere dati confrontabili che consentiranno di seguire nei prossimi anni il tanto sperato ritorno della specie nel Mediterraneo centrale. Un lieto evento atteso non solo dal nostro Paese, ma anche da Francia, Spagna, Marocco e Tunisia».

Foto realizzate dall’equipaggio di Progetto Mediterranea, una delle associazioni partner nella raccolta di campioni per Spot the Monk. Gallery

Questa ricerca integra i risultati, ottenuti con lo stesso approccio, pubblicati un anno fa dai ricercatori su“Biodiversity and Conservation” (DOI: https://doi.org/10.1007/s10531-022-02382-0). L’obiettivo finale è quello di stimare gli spostamenti stagionali e l’utilizzo che la specie fa dei vari habitat marini, grazie anche all’integrazione di altri campioni raccolti in alto mare, come quelli prelevati da traghetti in navigazione lungo le rotte commerciali (come descritto in un altro articolo a cura di Elena Valsecchi, pubblicato su “Frontiers in Marine Science” , DOI: https://doi.org/10.3389/fmars.2021.704786).

Infine, la collaborazione tra Università di Milano-Bicocca e il Gruppo Foca Monaca ha visto il coinvolgimento anche di realtà accademiche straniere: l’IMEDEA (Instituto Mediterráneo de Estudios Avanzados) con sede nell’isola di Maiorca e l’Università di Edimburgo, coinvolta nel più recente monitoraggio svolto lo scorso autunno tra il golfo di Taranto, Salento e le coste albanesi.
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca sulla mappa di distribuzione della foca monaca.

Solitudine e memoria: un binomio pericoloso

Uno studio internazionale ha dimostrato che la solitudine può influire sulla memoria riducendo nelle persone la capacità di riconoscimento di volti già visti. La ricerca è pubblicata sulla rivista Scientific Reports

Uno studio internazionale condotto dal Dipartimento di Psicologia della Sapienza in collaborazione con la Bournemouth University in Inghilterra, ha dimostrato che esiste una connessione tra solitudine e memoria e in particolare tra solitudine e capacità dell’uomo di riconoscere volti già visti. La ricerca, finanziata dalla società scientifica “Experimental Psychology Society” e pubblicata sulla rivista Scientific Reports, si basa sul presupposto che l’essere umano ha una forte necessità di connessioni sociali, un bisogno di affiliazione, “di appartenere, di essere parte di…”. Il senso di solitudine arriva nel momento in cui questo bisogno non viene soddisfatto, sia per mancanza di contatti sociali sia perché si ritiene che i contatti sociali esistenti siano insoddisfacenti.

Partendo da questi elementi, i ricercatori hanno investigato in che misura il numero di contatti sociali e la solitudine, riportata da giovani studenti, influenzino la capacità di riconoscere volti di coetanei e volti di persone anziane, entrambe sconosciuti, ma incontrati precedentemente.

La ricerca si basa su un effetto noto in psicologia come l’Own Age Bias e che consiste nel vantaggio del cervello umano di riconoscere i volti di persone coetanee.

L’esperimento dei ricercatori si è articolato in due fasi: nella prima sono stati presentati agli studenti volti di giovani e anziani con espressione felice, arrabbiata o neutra; focus centrale di questa fase era la memorizzazione dei volti e la loro classificazione in giovani e anziani. Quindi sono stati mostrati nuovamente volti di giovani e anziani sempre con espressione felice, arrabbiata e neutra. Metà dei volti erano stati già mostrati nella prima fase, metà no. Focus di questa fase era il riconoscimento dei volti già visti.

“In pratica – spiega Anna Pecchinenda ricercatrice del team della Sapienza – ci siamo chiesti se la solitudine, motivando le persone a ristabilire connessioni sociali, potenzia il riconoscimento di volti felici che rappresentano segnali di affiliazione sociale, o quello di volti arrabbiati che rappresentano segnali di minaccia sociale, rispetto al riconoscimento di volti neutri di persone della propria età, viste in precedenza”.

I risultati ottenuti hanno rivelato che gli studenti con bassi livelli di solitudine mostrano un riconoscimento superiore rispetto ai colleghi “soli”, per i volti sorridenti di coetanei precedentemente visti.

Questo risultato indica un effetto della solitudine sulla memoria, ovvero la solitudine influenza la capacità di riconoscere persone a noi non familiari, che potrebbero essere importanti per stabilire connessioni sociali, e suggerisce un possibile fenomeno di perpetuazione della solitudine.

Sebbene i meccanismi che portano alla cronicizzazione della solitudine siano ancora poco chiari, la solitudine cronica viene attribuita al fallimento dei tentativi di ristabilire connessioni sociali.

Negli ultimi anni, gli studi nell’ambito delle neuroscienze affettive hanno mostrato che il sentirsi socialmente isolati incide in maniera negativa non solo sul benessere emozionale, ma anche sulle funzioni cognitive dell’individuo. Infatti, nelle persone anziane, la solitudine cronica è stata associata a un aumento della mortalità del 20%.

Riferimenti:

Pizzio, A.P.G., Yankouskaya, A., Alessandri, G. et al. Social contacts and loneliness affect the own age bias for emotional faces. Sci Rep 12, 16134 (2022). https://doi.org/10.1038/s41598-022-20220-9

solitudine e memoria
Foto di Brian Merrill

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma