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Sapienza Università di Roma

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Nanostelle per una nuova tecnologia che imita l’organizzazione cellulare: DNA e anticorpi insieme per una svolta nei biomateriali intelligenti

Roma, 4 novembre 2025 – Una collaborazione tra ricercatori delle Università di Roma Tor Vergata e Sapienza ha portato allo sviluppo di una nuova e promettente tecnologia che combina la nanotecnologia del DNA con la precisione degli anticorpi, le molecole naturali che riconoscono specifici bersagli. Lo studio è pubblicato sul Journal of the American Chemical Society (JACS).

rappresentazione artistica delle goccioline sferiche ibride di DNA e anticorpi
rappresentazione artistica delle goccioline sferiche ibride di DNA e anticorpi

Un team di ricercatori dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, in collaborazione con Sapienza Università di Roma, ha sviluppato un nuovo sistema molecolare in grado di creare micro-compartimenti programmabili che imitano il modo in cui le cellule organizzano le proprie funzioni interne. Lo studio è stato pubblicato su JACS – Journal of the American Chemical Society, una tra le riviste più autorevoli nel campo della chimica.

Alla base di questa tecnologia ci sono strutture chiamate nanostelle di DNA, molecole di DNA sintetico progettate in laboratorio con quattro bracci. Tre terminano con sequenze adesive che permettono alle nanostelle di riconoscersi e agganciarsi tra loro in modo controllato. Il quarto braccio è invece modificato con un antigene, cioè una porzione molecolare riconosciuta in modo specifico da un anticorpo.

Quando è presente l’anticorpo corretto, questo si lega agli antigeni di nanostelle diverse e funziona come un ponte molecolare, collegandole tra loro e facendo nascere i micro-compartimenti sferici. È proprio la presenza dell’anticorpo a “decidere” quando questi compartimenti si formano, si dissolvono o si riformano: per questo il sistema è programmabile. Variando tipo e quantità di anticorpo, i ricercatori possono controllare in modo preciso il comportamento del sistema.

La parte innovativa di questo lavoro consiste nel dimostrare che DNA e anticorpi possono essere usati insieme come elementi costruttivi per creare micro-strutture dinamiche che riproducono artificialmente una logica tipica dei sistemi biologici: formare ambienti interni altamente regolati in risposta a un segnale specifico. Questo meccanismo è alla base dell’organizzazione cellulare naturale e rappresenta uno dei tratti più complessi da imitare in laboratorio.

“Questa scoperta apre porte a possibilità entusiasmanti. La capacità dei micro-compartimenti di formarsi in risposta a molecole specifiche, per esempio, potrebbe essere utilizzata per rilevare marcatori biologici, permettendo nuovi strumenti diagnostici,” afferma Erica Del Grosso, ricercatrice principale del progetto e professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche dell’Università di Roma Tor Vergata”.

“I nostri micro-compartimenti ibridi anticorpo-DNA sono come un ponte tra biologia e tecnologia,” conferma Francesco Ricci, ricercatore principale del progetto e professore ordinario presso lo stesso Dipartimento, “Non sono solo stabili e precisi, ma programmabili, fornendo un modo per creare strutture artificiali simili a cellule e sostenere la ricerca di nuovi biomateriali.”

“Unire DNA e anticorpi è come costruire un ponte tra due mondi: scoprire come queste molecole interagiscono e collaborano apre nuove prospettive e rende la ricerca che faccio sempre più stimolante”. Aggiunge Sara Scalia, primo autore dell’articolo e dottoranda presso il gruppo guidato dal Prof. Francesco Ricci.

“Dal punto di vista teorico siamo riusciti a sviluppare un modello che ha permesso di spiegare l’origine dei micro-compartimenti e di prevederne il comportamento” conclude Lorenzo Rovigatti, professore di fisica della materia teorica presso la Sapienza Università di Roma, “un passo importante verso lo sviluppo di applicazioni in ambito biomedico e della scienza dei materiali.”

Il progetto è stato sostenuto dal Consiglio europeo per la ricerca (ERC), dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (AIRC), dal Ministero dell’Università e della ricerca (MUR) e da NextGenerationEU – Missione 4, Componente 2.

immagine da microscopia a fluorescenza che mostra tre diverse goccioline sferiche ibride di anticorpi e DNA (rosse, verdi e blu), ognuna formata da una nanostella di DNA differente e da un anticorpo differente
Nanostelle per una nuova tecnologia che imita l’organizzazione cellulare: DNA e anticorpi insieme per una svolta nei biomateriali intelligenti. Immagine da microscopia a fluorescenza che mostra tre diverse goccioline sferiche ibride di anticorpi e DNA (rosse, verdi e blu), ognuna formata da una nanostella di DNA differente e da un anticorpo differente

Riferimenti bibliografici: 

Sara Scalia, Marco Cappa, Lorenzo Rovigatti, Erica Del Grosso e Francesco Ricci, Immune-Induced Antibody–DNA Hybrid Condensates, Journal of the American Chemical Society, Articles ASAP (Article) –
October 23, 2025 – DOI: 10.1021/jacs.5c13855

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata

“Energetica degli ecosistemi”: la fauna selvatica africana ha perso un terzo della sua “energia naturale”

A rivelarlo una ricerca dell’Università di Oxford realizzata in collaborazione con la Sapienza, che individua il declino della biodiversità come causa del fenomeno. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, propone misure innovative per la tutela degli ecosistemi.

Ogni ecosistema terrestre possiede una propria “energia naturale” che alimenta funzioni ecologiche vitali come il ciclo dei nutrienti e la dispersione dei semi.

Un nuovo studio condotto dall’Università di Oxford in collaborazione con la Sapienza di Roma, ha introdotto un nuovo approccio basato proprio sull’“energetica degli ecosistemi” che ha quantificato la perdita di energia naturale della fauna africana.

I risultati pubblicati sulla rivista scientifica Nature, hanno evidenziato che, rispetto all’epoca precoloniale, l’energia naturale complessiva del continente africano è diminuita di oltre un terzo a causa del declino di specie di grandi dimensioni come elefanti, rinoceronti e leoni che modellavano e regolavano l’ecosistema in passato. In questo senso i grandi animali selvatici rappresentano veri e propri ingegneri ecologici che non possono essere semplicemente sostituiti da specie più piccole o da bestiame.

“La ricerca mostra come la riduzione dell’energia nelle comunità di uccelli e mammiferi non sia stata uniforme, ma abbia colpito in modo differenziale i gruppi funzionali che sostengono processi ecosistemici essenziali come la dispersione dei semi, l’impollinazione e il modellamento della vegetazione”, dichiara Luca Santini della Sapienza di Roma, coautore dello studio.

Basandosi su dati relativi a oltre 3.000 specie di uccelli e mammiferi distribuite su 317.000 paesaggi comprendenti foreste, savane e deserti, i ricercatori hanno combinato sei grandi set di dati ecologici, incluso un nuovo Indice di Integrità della Biodiversità per l’Africa, costruito con il contributo di esperti locali.

Questa prospettiva energetica rivela non solo quanto della biodiversità sia andato perso, ma anche come tale perdita incida sul funzionamento stesso della natura. Mentre i grandi mammiferi hanno subito i cali più gravi, specie più piccole – come roditori e uccelli canori – dominano ora i flussi energetici residui del continente.

Lo studio, oltre a diagnosticare il declino delle comunità di uccelli e mammiferi africane, propone anche l’uso di un approccio “energetico” per informare progetti di restauro ecologico. La mappatura dei flussi di energia permette di quantificare l’integrità dei gruppi di specie che svolgono importanti funzioni ecosistemiche, identificando quindi priorità di restauro che prescindono dalla composizione specifica.

Questa ricerca potrebbe ridefinire il modo in cui scienziati e decisori politici valutano la perdita di biodiversità in tutto il mondo, in quanto il destino delle singole specie è collegato al funzionamento e alla stabilità dell’intero pianeta.

Grafico che mostra il flusso energetico per la fauna selvatica africana secondo il nuovo approccio della energetica degli ecosistemi
Grafico che mostra il flusso energetico per la fauna selvatica africana secondo il nuovo approccio della energetica degli ecosistemi

Roma, 3 novembre 2025

 

Riferimenti bibliografici:

Ty Loft, Imma Oliveras Menor, Nicola Stevens, Robert Beyer, Hayley S. Clements, Luca Santini, Seth Thomas, Joseph A. Tobias & Yadvinder Malhi, Energy flows reveal declining ecosystem functions by animals across Africa, Nature (2025), DOI: 10.1038/s41586-025-09660-1

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione, Ufficio Rettorato Sapienza Università di Roma

LIGO, Virgo e KAGRA osservano per la prima volta buchi neri di “seconda generazione”, GW241011 e GW241110

Due fusioni di buchi neri speciali, rivelate a un mese di distanza l’una dall’altra alla fine del 2024, aggiungono un nuovo importante tassello alla nostra comprensione dei fenomeni più violenti del nostro universo. Alcune caratteristiche di queste fusioni suggeriscono infatti che si tratti di buchi neri di “seconda generazione”, cioè di buchi neri generati a loro volta da precedenti fusioni, avvenute in ambienti cosmici molto densi e affollati, come gli ammassi stellari, dove è più probabile che i buchi neri si scontrino e si fondano ripetutamente.

In un nuovo articolo pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters, la Collaborazione Internazionale LIGO-Virgo-KAGRA ha annunciato la rilevazione di due segnali di onde gravitazionali avvenuta nell’ottobre e nel novembre dello scorso anno, in cui i buchi neri presentano degli spin, ovvero caratteristiche di rotazione, insoliti. Un’osservazione che aggiunge un nuovo importante tassello alla nostra comprensione dei fenomeni più elusivi dell’universo. Le onde gravitazionali sono “increspature” nello spazio-tempo che derivano da cataclismi dello spazio profondo: i segnali più intensi di questa natura sono spesso generati dalla collisione di buchi neri. Utilizzando algoritmi e modelli matematici estremamente sofisticati, è possibile ricostruire dall’analisi di questi segnali molte caratteristiche fisiche dei buchi neri che li hanno generati: la loro massa, la distanza dalla Terra e persino la velocità e la direzione della loro rotazione attorno al proprio asse, chiamata spin.

La prima fusione rivelata, GW241011 (11 ottobre 2024), si è verificata a circa 700 milioni di anni luce di distanza dalla Terra ed è stata causata dalla collisione di due buchi neri con una massa pari a circa 17 e 7 volte quella del nostro sole. Il più grande dei due buchi neri in GW241011 è uno dei buchi neri che ruota più rapidamente tra quelli osservati fino ad oggi. Quasi un mese dopo, il 10 Novembre 2024, è stato rilevato GW24111010, un segnale proveniente da circa 2,4 miliardi di anni luce dalla Terra, proveniente dalla fusione di buchi neri con una massa pari a circa 16 e 8 volte quella del nostro sole. Mentre la maggior parte dei buchi neri osservati ruotano nella stessa direzione della loro orbita, il buco nero primario di GW241110 ruota invece in direzione opposta e rappresenta il primo caso del genere osservato fino ad oggi.

“Ogni nuova rivelazione fornisce importanti indicazioni sull’universo, poiché ogni fusione osservata è sia una scoperta astrofisica che un laboratorio eccezionale per sondare le leggi fondamentali della fisica”, afferma il coautore del lavoro Carl-Johan Haster, assistant professor di astrofisica presso l’Università del Nevada, Las Vegas (UNLV). “Binarie come queste erano state previste, ma questa è la prima prova diretta della loro esistenza”.

Entrambe le rivelazioni, inoltre, indicano la possibilità di buchi neri di “seconda generazione”.

“GW241011 e GW241110 sono tra gli ultimi eventi delle diverse centinaia osservati dalla rete LIGO-Virgo-KAGRA”, afferma Stephen Fairhurst, professore all’Università di Cardiff e portavoce della collaborazione scientifica LIGO. “Entrambi gli eventi hanno un buco nero significativamente più massiccio dell’altro e in rapida rotazione, e forniscono indicazioni interessanti che questi buchi neri si siano formati da precedenti fusioni di buchi neri”.

In particolare gli indizi evidenziati dai ricercatori sono la differenza di dimensioni tra i buchi neri in ciascuna fusione (il più grande era quasi il doppio del più piccolo) e l’orientamento di rotazione dei buchi neri più grandi in ciascun evento. Una spiegazione naturale di queste peculiarità è che i buchi neri siano il risultato di precedenti fusioni. Fenomeni di questo tipo, chiamati fusioni gerarchiche, avvengono solitamente in regioni cosmiche estremamente ‘affollate’, come gli ammassi stellari, dove i buchi neri sono più propensi a scontrarsi e quindi a fondersi ripetutamente.

“Queste rivelazioni evidenziano le straordinarie capacità dei nostri osservatori di onde gravitazionali”, afferma Gianluca Gemme, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e portavoce della Collaborazione Virgo. “Le insolite configurazioni di spin osservate in GW241011 e GW241110 non solo sfidano la nostra comprensione della formazione dei buchi neri, ma offrono anche prove convincenti di fusioni gerarchiche in alcuni ambienti cosmici: ci insegnano che alcuni buchi neri non esistono solo come partner isolati, ma probabilmente come membri di una folla densa e dinamica. Queste scoperte evidenziano, ancora una volta, il ruolo cruciale della rete internazionale di interferometri gravitazionali per svelare i fenomeni più elusivi dell’universo”.

Alla scoperta delle proprietà nascoste delle fusioni di buchi neri

Le onde gravitazionali furono previste per la prima volta da Albert Einstein nel 1916 come parte della sua teoria della relatività generale, ma sebbene la loro esistenza fu dimostrata negli anni ’70, la loro prima osservazione diretta risale a soli 10 anni fa, quando le collaborazioni scientifiche LIGO e Virgo annunciarono di avere rivelato onde gravitazionali risultanti dalla fusione di due buchi neri. Oggi, LIGO, Virgo e KAGRA costituiscono una rete mondiale di rivelatori avanzati di onde gravitazionali e stanno per concludere il loro quarto ciclo di osservazioni, O4. La campagna attuale è iniziata alla fine di maggio 2023 e dovrebbe continuare fino a metà novembre di quest’anno. Ad oggi, sono state osservate circa 300 fusioni di buchi neri attraverso le onde gravitazionali, compresi i candidati identificati nella campagna O4 in corso che sono in attesa di validazione finale.

Inoltre, nel caso dell’osservazione annunciata oggi, la precisione con cui è stato misurato GW241011 ha permesso di testare in condizioni estreme alcune delle previsioni chiave della teoria della relatività generale di Einstein.

Infatti questo evento può essere confrontato con le previsioni della teoria di Einstein e con la soluzione del matematico Roy Kerr per i buchi neri in rotazione. La rapida rotazione del buco nero lo deforma leggermente, lasciando un’impronta caratteristica nelle onde gravitazionali che emette. Analizzando GW241011, il team di ricerca ha trovato un eccellente accordo con la soluzione di Kerr e ha verificato, ancora una volta, la previsione di Einstein, ma con una precisione senza precedenti. 

Inoltre, poiché le masse dei singoli buchi neri differiscono in modo significativo, il segnale delle onde gravitazionali contiene il “ronzio” di un’armonica superiore, simile agli armonici degli strumenti musicali, ‘ascoltato’ solo in tre diversi segnali gravitazionali fino ad oggi. Una di queste armoniche è stata osservata con estrema chiarezza e conferma un’altra previsione della teoria di Einstein.

“Questa scoperta significa anche che siamo più sensibili che mai a qualsiasi nuova fisica che possa andare oltre la teoria di Einstein”, afferma Haster.

Ricerca avanzata di particelle elementari

I buchi neri in rapida rotazione come quelli osservati in questo studio hanno un’altra applicazione: la fisica delle particelle. Scienziate e scienziati possono utilizzarli per verificare l’esistenza di alcune particelle elementari leggere e ipotizzare la loro massa.

Queste particelle, chiamate bosoni ultraleggeri, sono previste da alcune teorie che vanno oltre il Modello Standard della fisica delle particelle, che descrive e classifica tutte le particelle elementari conosciute. Se i bosoni ultraleggeri esistono, possono essere generati dall’energia rotazionale dei buchi neri. Quanta energia si disperda in queste particelle e quanto la rotazione dei buchi neri rallenti nel tempo dipende dalla massa, che non conosciamo, degli ipotetici bosoni. L’osservazione che il buco nero massiccio nel sistema binario che ha emesso GW241011 continua a ruotare rapidamente anche milioni o miliardi di anni dopo la sua formazione è un’idicazione che ci permette di escludere un’ampia gamma di masse di bosoni ultraleggeri.

“La rivelazione e lo studio di questi due eventi dimostrano quanto sia importante far funzionare i nostri rivelatori in sinergia e sforzarsi di migliorarne la sensibilità”, afferma Francesco Pannarale, professore alla Sapienza – Università di Roma e ricercatore della Collaborazione Virgo – “Gli strumenti LIGO e Virgo ci hanno insegnato nuovamente qualcosa su come si formano le binarie di buchi neri nel nostro Universo”, aggiunge, “e sulla fisica fondamentale che le regola nella loro essenza. Con il potenziamento dei nostri strumenti, saremo in grado di approfondire questi e altri aspetti grazie alla maggiore precisione delle nostre osservazioni”.

 

Riferimenti bibliografici: 

“GW241011 and GW241110: Exploring Binary Formation and Fundamental Physics with Asymmetric, High-Spin Black Hole Coalescences” è stato pubblicato il 28 ottobre su The Astrophysical Journal Letters,  DOI: http://dx.doi.org/10.3847/2041-8213/ae0d54

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa EGO e Virgo.

Un nuovo studio rivela le origini della zanzara urbana Culex pipiens form molestus, capace di trasmettere all’uomo con la sua puntura il virus della febbre del Nilo Occidentale (West Nile)

Nel 2025 l’Italia ha registrato un aumento significativo di casi di virus trasmessi all’uomo da zanzare. In particolare la zanzara Culex pipiens ha infettato oltre 700 persone, metà delle quali ha manifestato la forma neuroinvasiva più preoccupante che in 69 casi ha avuto un esito infausto.

Nel nostro paese tale zanzara è presente in due forme differenti: la Culex pipiens form molestus, che punge prevalentemente gli esseri umani nelle ore serali e in quelle notturne, e la Culex pipiens form pipiens, che ha una predilezione per gli uccelli.

Per decenni i biologi evoluzionisti hanno creduto che la forma molestus fosse evoluta negli ultimi 200 anni dalla forma pipiens all’interno di sotterranei e cantine nell’Europa settentrionale, tanto da attribuirgli il nome di “zanzara della metropolitana di Londra”. Questo caso è infatti stato spesso citato come esempio della capacità di una specie di adattarsi rapidamente a nuovi ambienti e all’urbanizzazione. Ora però un nuovo studio guidato da ricercatori dell’Università di Princeton negli Stati Uniti – con il contributo di ricercatori di università di tutto il mondo, inclusa SAPIENZA – smentisce tale teoria.

Lo studio – pubblicato il 23 ottobre sulla rivista Science – grazie all’analisi del DNA di migliaia di esemplari di Culex pipiens rappresentativi della diversità geografica e genetica della specie, dimostra che molestus si è evoluta e adattata all’uomo tra 1.000 e 10.000 anni fa in una società agricola antica, molto probabilmente nell’Antico Egitto, dove ha sviluppato l’adattamento ad ambienti antropizzati che in tempi più recenti ha consentito la colonizzazione di ambienti ipogei dell’Europe centro-settentrionale.

“Oltre a rivedere uno dei “casi da manuale” sull’evoluzione e l’adattamento urbano, la ricerca ha anche importanti implicazioni per la salute pubblica” – spiega Alessandra della Torre del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, coautrice dello studio – e fornisce nuove informazioni sulla variabilità genetica di questa zanzara che potranno essere utili per comprendere meglio il ruolo della specie nella trasmissione del virus del virus del West Nile dagli uccelli all’uomo.  I risultati aprono la strada a ricerche più approfondite sui legami potenziali tra urbanizzazione, ibridazione e trasmissione del virus dagli uccelli all’uomo”.

zanzara Culex pipiens. Foto di Aleksandrs Balodis, CC BY-SA 4.0
in uno studio su Science, ricercate le origini della zanzara urbana Culex pipiens form molestus, capace di trasmettere all’uomo con la sua puntura il virus del Nilo Occidentale (West Nile). In foto, Culex pipiens. Foto di Aleksandrs Balodis, CC BY-SA 4.0

Riferimenti bibliografici:

Yuki Haba, PipPop Consortium, Petra Korlević, Erica McAlister, Mara K. N. Lawniczak, Molly Schumer, Noah H. Rose, e Carolyn S. McBride, Ancient origin of an urban underground mosquito, Science 390, eady4515(2025), DOI:10.1126/science.ady4515

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Dalla Sapienza una nuova metodologia per tracciare le sorgenti degli “inquinanti eterni”, i PFAS

Uno studio del Dipartimento di Scienze della Terra ha sviluppato il primo metodo analitico per l’analisi isotopica dei principali PFAS presenti nell’ambiente. I risultati pubblicati sulla rivista Science of The Total Environment.

I PFAS sono sostanze chimiche create dall’uomo, presenti in molti prodotti grazie alla loro resistenza al calore e all’acqua. Si trovano ad esempio come composti nelle pentole antiaderenti, negli indumenti impermeabili, nelle schiume antincendio oppure negli imballaggi alimentari o nei cosmetici. Esse non si degradano nell’ambiente e si accumulano negli organismi viventi, compreso l’uomo con effetti cancerogeni. Per la loro persistenza vengono anche chiamati “inquinanti eterni”.

In questo contesto critico, un importante passo avanti arriva dalla Sapienza di Roma. Eduardo Di Marcantonio, dottorando presso il Dipartimento di Scienze della Terra, sotto la supervisione dei professori Luigi Dallai e Massimo Marchesi, ha sviluppato il primo metodo analitico per l’analisi isotopica dei principali PFAS presenti nell’ambiente.

Le analisi isotopiche rispetto a quelle chimiche non si limitano a rivelare la presenza e la quantità di un composto, ma restituiscono un valore che per lo stesso composto può essere diverso in base al processo chimico, fisico o biologico che lo ha originato. Questo tipo di analisi permette quindi, in condizioni di inquinamento diffuso, di differenziare le diverse sorgenti  nonché la dispersione nell’ambiente.

Dopo oltre 300 tentativi sperimentali, il team di ricerca ha messo a punto un protocollo che permette di ottenere “firme isotopiche” specifiche per PFAS provenienti da diversi produttori industriali. Questa caratterizzazione rende possibile distinguere le origini dei composti, persino in scenari di inquinamento diffuso – cioè con sorgenti molteplici e non identificabili puntualmente.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Science of The Total Environment, ha anche mostrato significative differenze isotopiche tra PFAS di origine diversa, aprendo la strada all’identificazione delle fonti di questi “contaminanti eterni” nell’ambiente.

Il metodo è stato messo a punto presso il Dipartimento di Scienze della Terra che negli ultimi anni, ha investito molto nella creazione di uno dei laboratori di isotopi stabili più avanzati d’Europa, con l’obiettivo di mettere la ricerca al servizio del monitoraggio ambientale e della tutela della salute pubblica.

Questa nuova metodologia, che restituisce il primo tracciante di sorgente per contaminanti così pericolosi per la salute e allo stesso tempo troppo poco monitorati fa parte di un progetto pilota che è stato avviato, in collaborazione con il CNR, per analizzare campioni  provenienti dalla zona rossa di contaminazione da PFAS in provincia di Vicenza.

Riferimenti bibliografici:

 Eduardo Di Marcantonio, Orfan Shouakar-Stash, Massimo Marchesi, Luigi Dallai, “Compound-specific carbon isotope analysis of perfluorocarboxylic acids (PFCAs) by gas chromatography-isotope ratio mass spectrometry”, Science of The Total Environment (2025) – DOI: https://doi.org/10.1016/j.scitotenv.2025.180564

un microscopioUna nuova metodologia per tracciare le sorgenti degli “inquinanti eterni”, i PFAS; lo studio pubblicato su Science of The Total Environment
Una nuova metodologia per tracciare le sorgenti degli “inquinanti eterni”, i PFAS; lo studio pubblicato su Science of The Total Environment. Foto PublicDomainPictures

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La fisica del biliardo per guidare i microrganismi a esplorare l’ambiente

Lo studio, coordinato dalla Sapienza, ha messo a punto un metodo ispirato alla dinamica del tavolo da biliardo, per orientare il movimento di microrganismi all’interno di un ambiente delimitato. Tra le possibili applicazioni, la progettazione di algoritmi di navigazione per robot in grado di esplorare ambienti complessi e sconosciuti.

Lo studio è pubblicato su PNAS.

Particelle inanimate, come le molecole di un gas, raggiungono l’equilibrio termico, uno stato stabile in cui si distribuiscono uniformemente all’interno di un contenitore, indipendentemente dalla sua forma o dal materiale di cui è composto.

Oggetti che si muovono autonomamente invece quali microrganismi o robot, sono molto sensibili a quello che succede sulle pareti dell’ambiente che li contiene. Comprendere la relazione tra gli effetti al bordo e le distribuzioni spaziali potrebbe permettere di progettare contenitori con forme ottimizzate per il controllo geometrico della cosiddetta materia attiva.

In uno studio pubblicato su PNAS, Roberto Di Leonardo del dipartimento di Fisica della Sapienza insieme a ricercatori del Centro di Ricerca Biologica (Biological Research Center) in Ungheria hanno introdotto un nuovo metodo che consente di guidare il movimento di particelle attive in base alle regole con cui rimbalzano sui bordi dell’ambiente in cui si muovono.

Il metodo è stato testato con la microalga unicellulare Euglena gracilis che, come una palla su un tavolo da biliardo, si muove in linea retta rimbalzando sul confine tra luce e ombra di una zona illuminata. A differenza delle molecole di un gas che si distribuiscono uniformemente all’interno di un contenitore, le microalghe possono ricoprire una “macchia” di luce con distribuzioni altamente sensibili alle condizioni al contorno. In particolare, attraverso la progettazione di una sorta di “microbiliardo” multistadio, è stato possibile guidare le microalghe in regioni di accumulazione definite soltanto dalla forma di questo “biliardo di luce”.

In generale, questo metodo rende possibile progettare la forma di contenitori in modo che i oggetti attivi al loro interno si accumulino spontaneamente o evitino determinate regioni.

Le applicazioni potrebbero essere numerose: dal controllo spaziale e all’isolamento dei microrganismi fino alla progettazione di algoritmi di navigazione per robot microscopici e macroscopici in grado di esplorare in modo più efficiente ambienti complessi e sconosciuti.

“È sempre entusiasmante vedere – dichiara Roberto Di Leonardo – come concetti della fisica classica, sviluppati originariamente per la materia inanimata, possono essere generalizzati a oggetti che si muovono autonomamente, ciò che oggi chiamiamo materia attiva. Ogni volta che questo accade, emergono nuove idee che non solo approfondiscono la nostra comprensione di ciò che pensavamo di sapere già, ma aprono anche la strada a nuove applicazioni per sistemi viventi o robotici”.

Riferimenti bibliografici:

R. Di Leonardo, A. Búzás, L. Kelemen, D. Tóth, S.Z. Tóth, P. Ormos, & G. Vizsnyiczai, Active billiards: Engineering boundaries for the spatial control of confined active particles, Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. (2025) 122 (38) e2426715122, DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2426715122 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

HSCHARME: scoperto un nuovo gene chiave per la salute del cuore

Una ricerca condotta da Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Istituto di biologia e patologia molecolari del CNR, ha identificato un gene finora sconosciuto nell’essere umano, che gioca un ruolo cruciale nello sviluppo delle cellule del cuore. La scoperta, pubblicata su Nature Communications, apre nuove prospettive nella diagnosi e nella terapia delle cardiomiopatie.

Identificato per la prima volta nell’essere umano un gene finora sconosciuto, che tuttavia ha un ruolo cruciale nella maturazione dei cardiomiociti, le cellule responsabili della contrazione cardiaca. La scoperta è di un gruppo di ricerca del Dipartimento di biologia e biotecnologie ‘Charles Darwin’ della Sapienza Università di Roma in collaborazione con l’Istituto di biologia e patologia molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IBPM) di Roma. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista Nature Communications.

Lo studio ha rivelato come il malfunzionamento di questo gene, battezzato HSCHARME, sia associato a cardiomiopatie in diverse coorti di pazienti, aprendo nuove prospettive per diagnosi più precise e terapie mirate.

“Questo gene appartiene alla categoria dei cosiddetti RNA non codificanti lunghi (lncRNA), molecole che non danno origine a proteine ma regolano finemente l’attività di altri geni”, afferma la prof.ssa Monica Ballarino della Sapienza Università di Roma. “HSCHARME agisce come un vero e proprio ‘architetto’ del genoma che guida la corretta attività dei geni del cuore. HSCHARME si è rivelato cruciale per guidare lo sviluppo e la maturazione dei cardiomiociti, le cellule muscolari responsabili della contrazione cardiaca. Quando questo gene non funziona correttamente, le cellule non si sviluppano in maniera adeguata, con conseguenze sulla salute dell’intero organo”.

“Lo studio ha mostrato per la prima volta che HSCHARME controlla un processo fondamentale chiamato ‘splicing alternativo’, che consente a singoli geni di produrre proteine diverse per garantire la complessità necessaria al buon funzionamento delle cellule”, continua Pietro Laneve del CNR-IBPM. “Nei pazienti affetti da cardiomiopatia ipertrofica e dilatativa, due patologie gravi e diffuse, la funzione di HSCHARME risulta alterata, con effetti negativi sui geni cardiaci e sul cuore. Questo rende il gene un potenziale bersaglio per nuove diagnosi precoci e terapie personalizzate”.

Il risultato è stato reso possibile grazie a un insieme di tecnologie d’avanguardia, dalla genomica comparativa alla trascrittomica a singola cellula, fino al genome editing e all’uso di cellule staminali pluripotenti indotte, differenziate in cardiomiociti umani. Grazie a questi strumenti i ricercatori hanno ricostruito i partner molecolari del gene e ne hanno studiato la funzione in modelli cellulari e in campioni clinici, individuando la proteina PTBP1 come cofattore fondamentale.

Si tratta di una scoperta che va oltre la ricerca di base: le malattie cardiache colpiscono milioni di persone nel mondo e, nonostante i progressi nella genetica, resta difficile prevederne l’evoluzione. Studi come questo aprono nuove prospettive verso una medicina di precisione in grado di identificare gli individui a maggior rischio e di guidare terapie personalizzate, con l’obiettivo di prevenire eventi drammatici come la morte cardiaca improvvisa.

Allo studio ha collaborato anche l’Istituto italiano di tecnologia (IIT).

Immagine rappresentativa di cardiomiociti umani derivati da cellule staminali pluripotenti
HSCHARME: scoperto un nuovo gene chiave per la salute del cuore, che apre nuove prospettive nella diagnosi e nella terapia delle cardiomiopatie. Immagine rappresentativa di cardiomiociti umani derivati da cellule staminali pluripotenti
 
Riferimenti bibliografici:

Buonaiuto G, Desideri F, Setti A, Palma A, D’Angelo A, Storari G, Santini T, Laneve P, Trisciuoglio D, Ballarino M., LncRNA HSCHARME is altered in human cardiomyopathies and promotes stem cell-derived cardiomyogenesis via splicing regulation, Nat Commun. 2025 Aug 23;16(1):7880. doi: 10.1038/s41467-025-62754-2, PMID: 40849301, Link: https://rdcu.be/eB3Fr

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

 TIP60, la centralina multiproteica che “viaggia” all’interno delle cellule per garantirne la corretta replicazione

La review, pubblicata sulla rivista Epigenetics & Chromatin dai ricercatori della Sapienza, fa il punto sulle conoscenze riguardanti il complesso multiproteico TIP60, in particolare sulle sue funzioni “non canoniche” relative alla mitosi. Lo studio apre nuove prospettive nella comprensione delle malattie legate a difetti della divisione cellulare e nell’individuazione di strategie terapeutiche

Il complesso multiproteico TIP60 è una sorta di “centralina” cellulare che controlla il rimodellamento della cromatina. La cromatina è la sostanza che compone il nucleo delle cellule ed è costituita da DNA avvolto a mo’ di gomitolo attorno alle proteine.
TIP60 svolge un ruolo cruciale per il corretto funzionamento delle cellule, regolando, tra l’altro, l’espressione dei geni e le sue alterazioni possono contribuire all’insorgenza di patologie umane, tra cui il cancro e disturbi dello sviluppo neurologico.

Da anni il Laboratorio di Epigenetics and cell division della Sapienza (Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin), coordinato da Patrizio Dimitri, studia le funzioni “non canoniche” svolte da TIP60.

“In particolare – spiega Dimitri – siamo stati incuriositi dall’osservazione che proteine note per svolgere funzioni cromatiniche si spostassero dal nucleo ai siti dell’apparato mitotico che controlla varie fasi divisione cellulare”.

Tali osservazioni, condotte su diversi organismi dall’uomo a Drosophila melanogaster (il moscerino della frutta), fino alle piante, indicano che questo fenomeno è conservato nel corso dell’evoluzione. Da questa esigenza è nata la recente review, con l’obiettivo di fare il punto sulle conoscenze attuali e stimolare nuove direzioni di ricerca in un campo tanto promettente quanto ancora poco esplorato.

L’articolo, pubblicato sulla rivista Epigenetics & Chromatin, si focalizza in particolare su quello che Dimitri ha chiamato il viaggio mitotico delle proteine rimodellatrici, un fenomeno che rivela le funzioni moonlighting del complesso TIP60, capace di svolgere compiti differenti in compartimenti cellulari distinti, mostrando una sorprendente versatilità.

Si tratta di un fenomeno di grande interesse, perché suggerisce l’esistenza di meccanismi genetico-molecolari ancora da chiarire, che svolgono un ruolo fondamentale nel controllo della divisione cellulare e nella stabilità del genoma. Approfondire questi meccanismi potrebbe aprire nuove prospettive nella comprensione delle malattie legate a difetti nei processi di divisione e regolazione genica. Non a caso, il TIP60 rappresenta un potenziale bersaglio per lo sviluppo di future strategie terapeutiche.

“Lo studio tocca anche aspetti centrali dell’evoluzione biologica – osserva Paolo Dimitri –Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’evoluzione non crea necessariamente geni o proteine del tutto nuovi. Molto più spesso riutilizza e modifica molecole già esistenti, adattandole a nuovi compiti senza far loro perdere del tutto le funzioni originarie”.

Le ricerche sono state condotte grazie a finanziamenti ottenuti dal Ministero dell’Università e della Ricerca (Progetto PRIN 2022: Integrating genetic models to mechanistically dissect cytokinesis failure in neurodevelopmental disorders).

Localizzazione della proteina TIP60 sul midbody in cellule umane in coltura
Localizzazione della proteina TIP60 sul midbody in cellule umane in coltura

La fotografia mostra il risultato di un esperimento di immunofluorescenza condotto da Maria Virginia Santopietro, presso l’Advanced Imaging Core Facility di Trento, utilizzando la Expansion Microscopy, una raffinata tecnica di imaging a super-risoluzione.  La freccia indica la presenza sul midbody della proteina TIP60 (che dà il nome al complesso). Il midbody è l’organello che definisce l’evento finale della divisione cellulare (final cut), che dà luogo alla formazione di due cellule figlie (il segnale di TIP60 è in arancione, mentre i fasci di microtubuli del fuso mitotico sono in verde).

 

Riferimenti bibliografici:

Santopietro, M.V., Ferreri, D., Prozzillo, Y. et al., The multitalented TIP60 chromatin remodeling complex: wearing many hats in epigenetic regulation, cell division and diseases, Epigenetics & Chromatin 18, 40 (2025), DOI: https://doi.org/10.1186/s13072-025-00603-8

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Da Pantelleria a Marte: in un lago siciliano si sperimenta l’origine della vita

Nell’isola siciliana, un team di ricercatori italiani ha identificato un ambiente naturale con analogie geologiche con Marte e che potrebbe simulare anche le condizioni della Terra primordiale. Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences, è frutto della collaborazione tra Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e le Università della Tuscia e Sapienza di Roma, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI).
In una lettera del 1871 al suo amico Joseph Dalton Hooker, Charles Darwin ipotizzava che la vita potesse essere nata in ‘un piccolo stagno caldo’. Oggi, a oltre 150 anni di distanza, quell’ipotesi trova maggiori conferme grazie allo studio che un team interdisciplinare di scienziati italiani ha effettuato sull’isola di Pantelleria, in particolare presso il piccolo lago termale chiamato ‘Bagno dell’Acqua’: Questo luogo si è rivelato un laboratorio naturale ideale per simulare ambienti simili a quelli che potrebbero essere esistiti miliardi di anni fa sia sulla Terra che su Marte, offrendo preziosi indizi sui meccanismi universali dell’origine della vita.
Immagine satellitare con esperimenti
Immagine satellitare con esperimenti

La ricerca, pubblicata sull’International Journal of Molecular Sciences, è stata condotta da ricercatori e ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), dell’Università della Tuscia, dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF), dell’Università Sapienza di Roma, con la collaborazione dell’Ente Parco nazionale Isola di Pantelleria e finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI)  con i progetti ‘ExoMars’ e ‘Migliora’.

“Il lago ‘Bagno dell’Acqua’ si distingue per la combinazione unica di alta alcalinità, attività idrotermale, diversità mineralogica e attività microbica. Utilizzando l’acqua del lago, ricca di minerali, siamo riusciti a sintetizzare molecole di RNA (una delle due molecole, assieme al DNA, fondamentali per la vita) a partire da alcuni suoi precursori: i nucleotidi contenenti la guanina, una delle quattro famose basi azotate”,
spiega Giovanna Costanzo, biologa molecolare dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del CNR (CNR-IBPM).
“A Pantelleria, in un’ambiente esterno al laboratorio, dove solitamente si svolgono le nostre attività, abbiamo verificato la possibilità di condurre esperimenti di astrobiologia, sfruttando le proprietà chimiche e fisiche di un lago con caratteristiche simili sia a quelle ipotizzate per la Terra primitiva, ovvero il nostro pianeta circa 4,5 miliardi di anni fa, che a quelle rilevate in aree marziane di grande interesse astrobiologico, come il cratere Jezero e la regione di Oxia Planum, attualmente considerati prioritari per la ricerca di antiche forme di vita”.
I ricercatori sono riusciti a sintetizzare non solo l’RNA, ma anche tutte le basi azotate presenti sia nel DNA che nell’RNA.
“Inoltre, sono stati ottenuti anche componenti del PNA (Acido Peptidico Nucleico), un potenziale precursore degli attuali acidi nucleici, che potrebbe aver rappresentato un ponte tra genetica e metabolismo” spiega il chimico organico Raffaele Saladino dell’Università della Tuscia di Viterbo. “La vita, pertanto, avrebbe potuto avere una modalità di origine chimica comune sia nel lontano passato di Marte che sulla Terra primitiva”.
Il progetto Migliora (‘Modeling Chemical Complexity: all’Origine di questa e di altre Vite per una visione aggiornata delle missioni spaziali’) si inserisce all’interno di un programma nazionale di astrobiologia che Asi sta coordinando già dal 2020.
“I risultati di questo progetto costituiscono un tassello fondamentale nella conoscenza dell’origine della vita sulla Terra” sottolinea Claudia Pacelli, Responsabile Scientifico del progetto per Asi. “Riteniamo che queste ricerche contribuiranno inoltre a rafforzare il ruolo della comunità scientifica italiana nel contesto della ricerca astrobiologica internazionale”.
microbialite Pantelleria
microbialite Pantelleria
Riferimenti bibliografici:
Valentina Ubertini, Eleonora Mancin, Enrico Bruschini, Marco Ferrari, Agnese Piacentini, Stefano Fazi, Cristina Mazzoni, Bruno Mattia Bizzarri, Raffaele Saladino, Giovanna Costanzo, “The “Bagno dell’Acqua” Lake as a Novel Mars-like Analogue: Prebiotic Syntheses of PNA and RNA Building Blocks and Oligomers”, International Journal of Molecular Sciences, 2025, 26, 6952. https://doi.org/10.3390/ijms26146952
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Malattie respiratorie e rischio infettivo: un nuovo studio evidenzia l’impatto del metapneumovirus umano sugli anziani italiani

I ricercatori della Sapienza sono tra gli autori di uno studio condotto su tutto il territorio nazionale. Pubblicata sulla rivista “The Journal of Infectious Diseases”, la ricerca offre un utile supporto per lo sviluppo di una futura campagna vaccinale.

Il metapneumovirus umano (hMPV) è un agente respiratorio che rappresenta una delle cause frequenti di malattie delle vie aeree con un grado di severità molto ampio e che colpisce tutte le fasce d’età, ma soprattutto i bambini piccoli e gli anziani.

Un ampio studio multicentrico condotto da Sapienza Università di Roma, dall’Università di Milano e quella di Pavia ha raccolto e analizzato i dati ottenuti tra il 2022 e il 2024 da diciassette centri distribuiti su tutto il territorio nazionale, evidenziando la diffusione del virus e il suo impatto nei soggetti più anziani. La ricerca, finanziata dai fondi del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR) nell’ambito delle iniziative sulle infezioni emergenti, è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista “The Journal of Infectious Diseases” in un numero interamente dedicato all’hMPV.

“Lo studio – spiega Guido Antonelli del Dipartimento di Medicina Molecolare della Sapienza, co-autore dello studio e responsabile della UOC “Microbiologia e Virologia” del Policlinico Umberto I di Roma – ha analizzato quasi 100.000 campioni respiratori provenienti da pazienti di tutte le età, ambulatoriali e ospedalizzati, rilevando un tasso di positività all’hMPV del 3,4%. Nella fascia di età superiore ai 50 anni, la positività si attestava al 2,6%, con un terzo dei casi riscontrati in soggetti con più di 80 anni”.

I risultati emersi hanno evidenziato due picchi stagionali del virus – a febbraio 2023 e ad aprile 2024 – che, seppur con alcune variazioni geografiche, hanno un’incidenza sovrapponibile tra la popolazione generale e quella anziana. In alcune aree del Nord-Ovest l’hMPV è stato riscontrato più frequentemente nei pazienti ambulatoriali piuttosto che nei ricoverati.

L’analisi genetica dei ceppi virali ha rilevato una distribuzione equilibrata tra i due principali sottotipi del virus (hMPV-A e hMPV-B), con la predominanza di varianti emergenti e la scomparsa di alcuni ceppi precedentemente circolanti.

“I risultati emersi indicano chiaramente che l’hMPV è un patogeno respiratorio rilevante soprattutto degli adulti più anziani – continua Alessandra Pierangeli, docente di Virologia e co-autrice dello studio – Ciò evidenza l’importanza dello sviluppo di strategia preventive mirate, inclusi eventuali strumenti vaccinali, per proteggere le fasce più vulnerabili della popolazione”.

La ricerca rappresenta il primo rapporto di tale ampiezza in Italia e un passo fondamentale per migliorare la comprensione dell’epidemiologia dell’hMPV, fornendo un’utile fonte di riferimento per valutare il rapporto costo-beneficio in vista di una futura campagna vaccinale e proponendosi come supporto per le autorità nello sviluppo di interventi mirati di sanità pubblica.

Riferimenti bibliografici:

Mancon, L. Pellegrinelli, G. Romano, E. Vian, V. Biscaro, G. Piccirilli, T. Lazzarotto, S. Uceda Renteria, A. Callegaro, E. Pagani, E. Masi, G. Ferrari, C. Galli, F. Centrone, M. Chironna, C. Tiberio, E. Falco, V. Micheli, F. Novazzi, N. Mancini, T.G. Allice, F. Cerutti, E. Pomari, C. Castilletti, E. Lalle, F. Maggi, M. Fracella, P. Ravanini, G. Faolotto, R. Schiavo, G. Lo Cascio, C. Acciarri, S. Menzo, F. Baldanti, G. Antonelli, A. Pierangeli, E. Pariani, A. Piralla, AMCLI-GLIViRe Working Group, on behalf, Multicenter Cross-sectional Study on the Epidemiology of Human Metapneumovirus in Italy, 2022–2024, With a Focus on Adults Over 50 Years of Age, The Journal of Infectious Diseases, Volume 232, Issue Supplement_1, 15 July 2025, Pages S109–S120, DOI: https://doi.org/10.1093/infdis/jiaf111

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