Bronchiolite in età pediatrica: negli ultimi anni casi più gravi associati a nuove varianti del virus VRS
Uno studio condotto da ricercatori della Sapienza in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Infection della Elsevier ha caratterizzato le varianti genetiche del virus emerse nel periodo post-pandemico, associate a forme di bronchiolite particolarmente gravi nei bambini.
Negli ultimi anni sono aumentati i casi gravi di bronchiolite nei bambini, e all’impennata hanno contribuito varianti del virus respiratorio sinciziale (VRS), responsabile della malattia. Lo suggeriscono i risultati di uno studio condotto dai virologi della Sapienza di Roma in collaborazione con il Dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato dal Journal of Infection,
La bronchiolite è una malattia spesso associata all’infezione da VRS che può causare insufficienza respiratoria soprattutto nei bambini con età inferiore a un anno. È importante riuscire a comprendere perché alcuni di loro sviluppino forme cliniche molto gravi e tali da richiedere l’ospedalizzazione e ricovero in terapia intensiva. La caratterizzazione di questi casi, inclusa l’individuazione di ceppi virali che provocano un decorso severo dell’infezione, è di fondamentale importanza per una migliore gestione clinica e terapeutica dei pazienti e per l’utilizzo mirato di misure profilattiche già disponibili o disponibili a breve, come anticorpi monoclonali e vaccini anti-VRS.
La ricerca, finanziata da un progetto Ccm del ministero della Salute, ha analizzato i casi ospedalizzati per bronchiolite presso i reparti del Dipartimento Materno Infantile del Policlinico Umberto I nelle stagioni pre-pandemiche, durante e dopo la pandemia, utilizzando i dati della piattaforma di sorveglianza RespiVirNet dell’Iss.
I risultati hanno dimostrato che nell’autunno 2021 si è verificato un numero di ospedalizzazioni per bronchiolite da VRS quasi doppio rispetto ai periodi pre-pandemici, probabilmente per effetto dell’allentamento delle misure di contenimento del virus. La malattia è stata causata principalmente da ceppi di VRS sottotipo A, che circolavano anche prima della pandemia di COVID-19, e la gravità è stata simile a quella delle stagioni precedenti. Diversamente, le ospedalizzazioni per bronchiolite del 2022-2023, in numero simile all’anno precedente, sono state principalmente causate da nuove varianti genetiche di VRSVù sottotipo B, associate a una maggiore severità della malattia se confrontata a quella delle stagioni precedenti, soprattutto per l’elevata necessità di supporto respiratorio e di ricovero in terapia intensiva.
“Un punto di forza delle nostre ricerche – spiega Guido Antonelli della Sapienza – è quello di aver svolto un’analisi virologica dettagliata su un numero elevato di pazienti pediatrici ospedalizzati per bronchiolite durante le ultime sei stagioni invernali dal 2018-2019 al 2022-2023. In tutti i bambini ricoverati, è stata eseguita la caratterizzazione molecolare e il sequenziamento del ceppo di VRS e una analisi statistica dettagliata dei dati demografici e clinici associati ad un maggiore rischio di forme gravi di bronchiolite.”
“Il nostro studio – spiegano Alessandra Pierangeli e Carolina Scagnolari, coordinatrici della ricerca condotta in stretta collaborazione con il gruppo di pediatri diretti da Fabio Midulla e il coordinamento del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità diretto da Anna Teresa Palamara – aggiunge nuovi elementi alla comprensione dei meccanismi patogenetici associati alle varianti di VRS circolanti nel periodo post-pandemico. In effetti sembra che la maggiore severità della patologia e l’aumento degli ingressi in terapia intensiva riscontrato nei casi di VRS sottotipo B, nel 2022-2023 non sono spiegabili solo dal debito immunitario associato ai periodi di lockdown”.
“Lo studio – sottolinea Palamara – evidenzia la necessità di rafforzare la sorveglianza epidemiologica a livello nazionale di VRS, così come degli altri virus respiratori circolanti soprattutto nei mesi invernali, e di progetti di sequenziamento genomico integrati da studi che possano monitorare infettività e patogenicità delle varianti virali. Attraverso dati come quelli evidenziati da questo studio è possibile prevedere l’intensità dei picchi stagionali di casi di bronchiolite allo scopo di razionalizzare le risorse sanitarie”.
Riferimenti:
Genetic diversity and its impact on disease severity in respiratory syncytial virus subtype-A and -B bronchiolitis before and after pandemic restrictions in Rome – A. Pierangeli, R. Nenna, M. Fracella, C. Scagnolari, G. Oliveto, L. Sorrentino, F. Frasca, M.G. Conti, L. Petrarca, P. Papoff, O. Turriziani, G. Antonelli, P. Stefanelli, A.T. Palamara, F. Midulla – Journal of Infectionhttps://doi.org/10.1016/j.jinf.2023.07.008
Contrastare la sterilità dei terreni con piante tolleranti alle alte concentrazioni saline
Una nuova ricerca coordinata da Raffaele Dello Ioio della Sapienza Università di Roma ha individuato il meccanismo molecolare che inibisce lo sviluppo delle radici quando una pianta si trova in un terreno con elevate presenza di sale. Lo studio, pubblicato su Communications Biology, può portare allo sviluppo di piante in grado di sopravvivere e avere alta resa agricola anche se esposte a questo minerale.
Come effetto del riscaldamento globale, le condizioni climatiche di molte aree nel mondo stanno radicalmente cambiando aumentando le zone soggette ad inaridimento del suolo o ad alluvioni. Tali cambiamenti causano un aumento della concentrazione salina nel suolo, rendendo molte aree coltivabili quasi completamente sterili. Infatti, l’aumento di sale nel suolo inibisce la crescita delle piante causando una notevole riduzione nella resa agricola.
Il primo organo che viene a contatto con il sale presente nel suolo è la radice: da questa propagano segnali che generano molteplici anomalie nello sviluppo di tutta la pianta che conducono alla morte.
Un nuovo studio coordinato da ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza di Roma ha combinato esperimenti di biologia molecolare, genetica e biologia computazionale giungendo a identificare il meccanismo molecolare che inibisce la crescita della radice quando una pianta è esposta ad alte concentrazioni saline. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Communications Biology.
Il gruppo di ricerca si è servito della nota pianta modello Arabidopsis thaliana, meglio conosciuta come Arabetta comune, percomprendere come le condizioni chimiche, fisiche e meccaniche del suolo interferiscano con lo sviluppo della radice alterando di conseguenza lo sviluppo della pianta in toto.
“Questo studio – commenta Raffaele Dello Ioio – è seminale per la produzione futura di piante resistenti ad alte concentrazioni saline. Infatti, è plausibile che rendendo le radici delle piante insensibili alla presenza di sale nel suolo queste potranno sopravvivere ed avere alta resa agricola anche se esposte a questo minerale”.
Contrastare la sterilità dei terreni con piante tolleranti alle alte concentrazioni saline: la pianta modello Arabidopsis thaliana. Foto di Flocci Nivis, CC BY-SA 4.0
Riferimenti:
microRNA165 and 166 modulate response of the Arabidopsis root apical meristem to salt stress – Daria Scintu, Emanuele Scacchi, Francesca Cazzaniga, Federico Vinciarelli, Mirko De Vivo, Margaryta Shtin, Noemi Svolacchia, Gaia Bertolotti, Simon Josef Unterholzner, Marta Del Bianco, Marja Timmermans, Riccardo Di Mambro, Paola Vittorioso, Sabrina Sabatini, Paolo Costantino & Raffaele Dello Ioio – Communications Biology (2023) https://www.nature.com/articles/s42003-023-05201-6
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Ricerca ecologica e avanzamento tecnologico in Artico: il progetto PRA “EcoClimate” Utilizzato per la prima volta un drone idrografico nei laghi glaciali a latitudini estreme
Nell’ambito del progetto PRA “EcoClimate”, coordinato dal Gruppo di Ecologia trofica del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza Università di Roma in collaborazione con l’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRSA, sede di Roma) e Istituto di scienze polari (CNR-ISP, sedi di Messina e Roma), per la prima volta è stato utilizzato un drone idrografico, appositamente configurato per il lavoro a latitudini estreme, per ottenere batimetrie 2D e 3D ad altissima risoluzione dei bacini lacustri nelle isole Svalbard, nel circolo polare Artico.
il drone utilizzato. Credits: E. Calizza
I dati acquisiti consentiranno di calcolare con una precisione mai raggiunta prima i volumi d’acqua, i tempi di ricambio dei laghi artici e prevederne l’evoluzione in funzione delle condizioni ambientali attese nella regione per il prossimo futuro.
il gruppo di ricerca. Credits: S. Montaguti
“Il drone utilizzato è stato progettato e adattato proprio per questo scopo: piccolo, leggero e facilmente trasportabile, ci ha permesso di raggiungere laghi ai piedi dei ghiacciai mai mappati prima. I risultati ottenuti e i calcoli volumetrici dei laghi verranno, poi, correlati con i dati ecologici, per ottenere informazioni uniche su questi delicati ecosistemi acquatici”, spiega David Rossi (CNR-IRSA), responsabile della sperimentazione.
“Benchè l’uso dei droni stia diventando di uso comune nell’ambito delle attività di ricerca polare, questa è la prima volta che un drone idrografico viene utilizzato sulla terraferma per lo studio degli ecosistemi lacustri artici”, aggiunge Edoardo Calizza (Sapienza Università di Roma), coordinatore del progetto. “Questo rientra nell’approccio fortemente interdisciplinare che caratterizza il progetto PRA “EcoClimate”: l’obiettivo è comprendere come i cambiamenti climatici potranno influenzare la struttura e il funzionamento di questi delicati ecosistemi, considerati hotspot di biodiversità e sink di carbonio alle più elevate latitudini”.
La sperimentazione è stata possibile grazie alla strumentazione fornita e configurata ad hoc dalla Seafloor System Inc. per il drone idrografico portatile e dall’azienda Italiana Microgeo per l’antenna GNSS (Global Navigation Satellite System).
I dati acquisiti tramite la tecnologia appena testata saranno associati a dati ecologici per la ricostruzione delle reti trofiche, dati microbiologici per lo studio del metabolismo lacustre, immagini satellitari e misure radiometriche di campo per lo studio della dinamica di neve e vegetazione.
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Tsunami di luce contro il cancro: grazie alle onde luminose estreme sarà possibile concentrare energia in modo preciso e non-invasivo in tessuti tumorali profondi. Questa la scoperta di un gruppo di ricerca formato da Sapienza Università di Roma, Istituto dei Sistemi Complessi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Università Cattolica del Sacro Cuore e Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, che è riuscito nella trasmissione di luce laser di intensità estrema attraverso tumori millimetrici. Il risultato, pubblicato su Nature Communications, apre importanti prospettive per nuove tecniche di fototerapia per il trattamento del cancro.
Onde luminose estreme possono essere sfruttate per trasmettere luce laser intensa e concentrata attraverso campioni di tessuti tumorali
La luce laser ha potenzialità enormi per lo studio ed il trattamento dei tumori.
Fasci laser in grado di penetrare in profondità in regioni tumorali sarebbero di importanza vitale per la fototerapia, un insieme di tecniche biomediche d’avanguardia che utilizzano luce visibile ed infrarossa per trattare cellule cancerose o per attivare farmaci e processi biochimici.
Tuttavia, la maggior parte dei tessuti biologici è otticamente opaca ed assorbe la radiazione incidente, e questo rappresenta il principale ostacolo ai trattamenti fototerapici. Trasmettere fasci di luce intensi e localizzati all’interno di strutture cellulari è quindi una delle sfide chiave per la biofotonica.
Un team di ricerca di fisici e biotecnologi, guidato da Davide Pierangeli per il Consiglio Nazionale delle Ricerche, Claudio Conti per la Sapienza Università di Roma, e Massimiliano Papi per l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, ha scoperto che all’interno di strutture cellulari tumorali possono formarsi degli “tsunami ottici”, onde luminose di intensità estrema note in molti sistemi complessi, che possono essere sfruttate per trasmettere luce laser intensa e concentrata attraverso campioni tumorali tridimensionali di tumore pancreatico.
“Studiando la propagazione laser attraverso sferoidi tumorali – spiega Davide Pierangeli – ci siamo accorti che all’interno di un mare di debole luce trasmessa c’erano dei modi ottici di intensità estrema. Queste onde estreme rappresentano una sorgente super-intensa di luce laser di dimensioni micrometriche all’interno della struttura tumorale. Possono essere utilizzate per attivare e manipolare sostanze biochimiche”.
“Il nostro studio mostra come le onde estreme, che fino ad oggi erano rimaste inosservate in strutture biologiche, siano in grado di trasportare spontaneamente energia attraverso i tessuti – continua Claudio Conti – e possano essere sfruttate per nuove applicazioni biomediche.
“Con questo raggio laser estremo – conclude Massimiliano Papi – potremmo sondare e trattare in maniera non-invasiva una specifica regione di un organo. Abbiamo mostrato come tale luce può provocare aumenti di temperatura mirata che inducano la morte di cellule cancerose, e questo ha implicazioni importanti per le terapie fototermiche.”
Lo studio, pubblicato su Nature Communications, dimostra uno strumento totalmente nuovo nella cura al cancro.
Riferimenti:
Extreme transport of light in spheroids of tumor cells – Davide Pierangeli, Giordano Perini, Valentina Palmieri, Ivana Grecco, Ginevra Friggeri, Marco De Spirito, Massimiliano Papi, Eugenio DelRe, e Claudio Conti – Nature Communications (2023) https://doi.org/10.1038/s41467-023-40379-7
Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Il riconoscimento è stato attribuito dall’Unione Astronomica Internazionale al professore della Sapienza, punto di riferimento nel mondo delle applicazioni spaziali di tecnologie radar, scomparso nel 2015.
Lo IAU Working Group per la nomenclatura del sistema planetario ha assegnato il nome di Giovanni Picardi a un ampio cratere di Marte.
“Un riconoscimento per il contributo che il nostro docente ha dato allo studio e alla conoscenza del Pianeta rosso – ha dichiarato la rettrice Antonella Polimeni – e per i nostri ricercatori e le nostre ricercatrici che quotidianamente lavorano per rendere lo spazio meno lontano e sconosciuto”.
Giovanni Picardi è stato punto di riferimento per tutti i radardell’Agenzia spaziale italiana, a partire dal programma X-SAR sviluppato in collaborazione con l’Agenzia spaziale tedesca e presente in tre voli dello Space Shuttle. Ma ha avuto un ruolo fondamentale anche per i radar presenti in diverse missioni interplanetarie, da Mars Express – di cui è stato responsabile scientifico del radar MARSIS – a Mars Reconnaissance Orbiter fino a Cassini.
Il lavoro scientifico di Picardi, ampiamente riconosciuto a livello internazionale in particolare presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA, ha prodotto innovativi concetti di sistema in grado di svelare gli aspetti più nascosti di mondi quali Marte e Titano; nonché di contribuire a realizzare l’avanzato e innovativo sistema italiano COSMO-SkyMed per l’osservazione della Terra con tecniche radar.
Il contributo del docente della Sapienza è stato fondamentale anche nell’ambito della formazione e della didattica. Come fondatore e primo direttore del Dipartimento di Scienza e tecnica dell’informazione e della comunicazione, poi confluito nel Dipartimento di ingegneria dell’informazione, elettronica e telecomunicazioni, Picardi è stato un “maestro” per almeno tre generazioni accademiche di studenti e ricercatori nel settore delle telecomunicazioni e creatore di un nuovo dottorato interdisciplinare in Telerilevamento.
Allo IEO una sonda “cerca-tumore” individua con precisione i tessuti tumorali da rimuovere nel corso degli interventi di chirurgia dei tumori neuroendocrini
Uno studio clinico condotto presso l’Istituto Europeo di Oncologia dimostra l’efficacia di un’innovativa sonda, sviluppata dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dalla Sapienza Università di Roma, nell’individuare con precisione i tessuti tumorali da rimuovere nel corso degli interventi di chirurgia dei tumori neuroendocrini.
Un team congiunto di medici, ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e di Sapienza Università di Roma, coordinato da Emilio Bertani della Divisione di Chirurgia dell’apparato digerente e Direttore dell’Unità di Chirurgia dei tumori neuroendocrini dello IEO, e Francesco Ceci Direttore della Divisione di Medicina Nucleare dello IEO, ha dimostrato con uno studio clinico che l’impiego di una innovativa sonda “cerca-tumore” migliora l’efficacia della chirurgia dei tumori neuroendocrini gastrointestinali.
La sonda oggetto dello studio costituisce uno strumento innovativo in grado di rilevare i positroni, particelle emesse da radiofarmaci come quelli comunemente utilizzati per eseguire una diagnostica PET. Il dispositivo, sviluppato da INFN e Sapienza, ha dimostrato un’elevata sensibilità nell’individuare cellule tumorali marcate con un radiofarmaco specifico per i tumori neuroendocrini. Una capacità che rende la sonda efficace nel guidare la mano del chirurgo esattamente alla sede della lesione, per quanto microscopica o in una posizione difficile. Lo studio condotto in IEO fra maggio 2022 e aprile 2023 su 20 pazienti ha infatti dimostrato che la nuova sonda è in grado rivelare le sedi di malattia con una sensibilità e specificità del 90%.
Grazie all’impiego della sonda le operazioni chirurgiche, sia tradizionale che con robot, risulteranno quindi più precise e conservative, in quanto sarà possibile rilevare con grande precisione la presenza di tessuti da rimuovere, evitando al contempo asportazioni inutili. In sintesi, la procedura prevede l’iniezione di una minima dose di radiofarmaco specifico per i tumori neuroendocrini che va selettivamente a posizionarsi sulle cellule tumorali.
“La chirurgia radioguidata – spiegano Francesco Collamati dell’INFN e Riccardo Faccini di Sapienza Università di Roma – fino ad oggi ha utilizzato le sonde a raggi gamma che non funzionano quando quello che si vuole rivelare è vicino ad organi che assorbono molto radiofarmaco, come per esempio nell’addome. Una sonda come quella da noi ideata, che rivela i positroni anziché i fotoni, permette di rivelare esattamente specifiche forme di tumore in zone del corpo dove sarebbe altrimenti impossibile individuarle. Grazie alla collaborazione con IEO, siamo riusciti a validare per la prima volta la sonda durante interventi chirurgici”.
Ideatore della possibilità di effettuare questa sperimentazione presso l’IEO è stato Francesco Ceci, Direttore della Divisione di Medicina Nucleare, nonché uno dei maggiori esperti del settore.
“Da sempre il mio focus di ricerca è stata la Teranostica, quella disciplina che unisce la diagnostica di ultima generazione con le terapie di precisione. Quando sono venuto a conoscenza di questo dispositivo ho subito intuito le incredibili potenzialità ed è iniziata una proficua collaborazione con il dott. Collamati. La vera innovazione di questa procedura chirurgica risiede nel somministrare ai pazienti durante l’intervento lo stesso radiofarmaco cancro-specifico usato per la diagnostica PET. Prima individuiamo con la PET le localizzazioni del tumore e poi utilizziamo la sonda per rimuoverle con grande accuratezza. Diagnosi e terapia, le basi della Teranostica, questa volta applicate alla chirurgia”.
“IEO è sempre più vicino all’obiettivo “chirurgia di precisione”, capace di asportare niente di più e niente di meno di ciò che è necessario per guarire – spiega Emilio Bertani, chirurgo della Divisione di Chirurgia dell’Apparato Digerente e coordinatore dello studio clinico – Anche il chirurgo più esperto in un caso su tre può lasciare della malattia residua, non visibile neppure alla PET perché localizzata ad esempio nei piccoli linfonodi vicini ai vasi mesenterici. La sonda beta è in grado di rilevare anche la minima presenza di cellule tumorali e nell’ 80% dei casi il chirurgo riesce a rimuoverle senza creare danni eccessivi. Il punto forte della procedura è che bilancia la capacità di trovare la malattia e la necessità di preservare tessuti vitali per il paziente”.
“È importante ricordare che per i Tumori Neuroendocrini la chirurgia è l’unica forma di cura radicale – continua Bertani – purtroppo però fino al 30% delle laparotomie non arrivano a sterilizzare il letto tumorale e dunque a controllare il tumore. Le metastasi linfonodali si ripresentano nel 10% dei casi. La nuova sonda rappresenta quindi un grande progresso e una speranza nel trattamento dei NET anche se occorre sottolineare che ciò che cambia il risultato non è tanto la tecnologia quanto la procedura. La sonda è efficace soltanto se è in mano a un chirurgo esperto”.
“Gli eccellenti risultati ottenuti sui tumori neuroendocrini ci incoraggiano ad estendere lo studio. È già in corso in IEO uno studio nel carcinoma prostatico, e abbiamo in programma di applicare la procedura con la sonda beta anche ad altri tumori gastrointestinali e ai tumori ginecologici” conclude Ceci.
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Misure sperimentali e simulazioni al calcolatore per contrastare la crescita delle cellule tumorali: un nuovo metodo consente di ottenere informazioni sulla stabilità di multimeri di G-quadruplex telomerici
Un nuovo metodo basato sull’applicazione della fisica della materia a sistemi biologici permette di studiare particolari molecole coinvolte nella crescita delle cellule tumorali. Il protocollo messo a punto, frutto della collaborazione fra il Dipartimento di Fisica della Sapienza, il Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia e l’Istituto Officina dei Materiali del Cnr, potrà essere applicato tanto per sviluppare farmaci antitumorali di nuova generazione quanto per valutare l’efficacia di quelli esistenti. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Journal of American Chemical Society (JACS), che ha anche selezionato un’immagine creata dagli autori come copertina supplementare.
I telomeri sono particolari aree del DNA umano legate a più dell’85% dei tumori maligni e il loro studio potrebbe portare allo sviluppo di farmaci antitumorali di nuova generazione con un ampio spettro d’azione.
Questi elementi si trovano all’estremità dei cromosomi e hanno una funzione protettiva poiché preservano l’integrità del DNA durante i processi di replicazione cellulare, svolgendo un ruolo importante nel processo di invecchiamento cellulare. Ogni volta che una cellula si divide, i telomeri a poco a poco si accorciano sempre di più. Quando diventano troppo corti, la cellula perde la sua capacità di replicarsi correttamente e può entrare in uno stato di invecchiamento o morire. Nel caso delle cellule tumorali di più dell’85% dei tumori maligni, si verifica l’attivazione di un enzima chiamato telomerasi, che mantiene i telomeri più lunghi rispetto alle cellule normali. Ciò conferisce alle cellule tumorali immortalità e la capacità di proliferare in modo illimitato. La stabilizzazione dei G-quadruplex, strutture elicoidali a quattro filamenti che si formano nei telomeri, tramite l’uso di molecole chiamate ligandi, rappresenta un efficace approccio per inibire l’attività della telomerasi e limitare la crescita delle cellule tumorali. Questi ligandi potrebbero quindi fungere da nuovi farmaci per il trattamento del cancro.
La maggior parte delle ricerche attuali si concentra sui G-quadruplex in condizioni ideali, cioè come molecole biologiche che non interagiscono reciprocamente. Tuttavia, in condizioni biologicamente rilevanti, come ad esempio alle estremità dei cromosomi, possono formarsi strutture composte da più unità interagenti di G-quadruplex, note come multimeri.
In uno studio coordinato da Cristiano De Michele del Dipartimento di Fisica della Sapienza, Lucia Comez dell’Istituto Officina dei Materiali del Cnr di Perugia e Alessandro Paciaroni del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia è stato sviluppato un nuovo metodo che consente di ottenere informazioni sulla stabilità di multimeri di G-quadruplex telomerici.
I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Journal of American Chemical Society (JACS), potranno essere applicati tanto per sviluppare farmaci antitumorali di nuova generazione quanto per valutare l’efficacia di quelli esistenti.
In particolare, i ricercatori hanno utilizzato per la prima volta delle simulazioni “extremely coarse-grained” in cui i G-quadruplex vengono rappresentati con semplici forme geometriche, come cilindri o parallelepipedi. Queste simulazioni non sono particolarmente pesanti e consentono lo studio di migliaia di G-quadruplex interagenti tra di loro, riproducendo così condizioni biologicamente rilevanti. Questo ha permesso un confronto diretto tra i risultati numerici al calcolatore e gli esperimenti effettuati sia presso i nostri laboratori che in centri di ricerca internazionali, fornendo una inedita rappresentazione dei multimeri di G-quadruplex.
“In particolare – spiega De Michele – abbiamo studiato come dei ligandi, cioè dei potenziali farmaci antitumorali, agiscano sui G-quadruplex e grazie al nostro innovativo approccio abbiamo potuto capire in che modo risultano efficaci nella loro stabilizzazione”.
“Inoltre – aggiunge Paciaroni – nel nostro lavoro definiamo un protocollo che si potrà applicare per lo studio dei G-quadruplex, ma che in futuro potrà anche essere utilizzato per altri sistemi biofisici”.
“Questo studio – conclude Comez – rappresenta un notevole passo in avanti nel nostro percorso, iniziato diversi anni fa, per comprendere le proprietà elusive di questi sistemi biologici altamente complessi”
Riferimenti:
Stacking Interactions and Flexibility of Human Telomeric Multimers – Benedetta Petra Rosi, Valeria Libera, Luca Bertini, Andrea Orecchini, Silvia Corezzi, Giorgio Schirò, Petra Pernot, Ralf Biehl, Caterina Petrillo, Lucia Comez, Cristiano De Michele, e Alessandro Paciaroni – J. Am. Chem. Soc. 2023 DOI: 10.1021/jacs.3c04810
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
MISTRAL: il contributo Sapienza al Sardinia Radio Telescope
Nell’ambito del Programma Operativo Nazionale (PON) denominato “Potenziamento del Sardinia Radio Telescope per lo studio dell’Universo alle alte frequenze radio” un team di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza ha realizzato un importante strumento che consiste in un ricevitore con 415 rilevatori che operano simultaneamente. Il sistema contribuirà all’osservazione dettagliata di fenomeni celesti prima non esplorabili.
È stata completata l’installazione dello strumento MISTRAL, realizzato da un team di ricercatori del Dipartimento di Fisica di Sapienza, per il Sardinia Radio Telescope, l’imponente radiotelescopio di 64 metri di diametro dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), situato a San Basilio, in Sardegna.
L’installazione conclude una attività di quattro anni di lavoro intensissimo del team G31 del Dipartimento di Fisica, guidato da Paolo de Bernardis, responsabile scientifico di MISTRAL in Sapienza.
“Il cuore di MISTRAL è una matrice di 415 rivelatori a induttanza cinetica, realizzata da una collaborazione tra Sapienza e CNR-IFN di Roma”, commentano Alessandro Paiella, Federico Cacciotti e Giorgio Pettinari, che si sono occupati della progettazione, realizzazione e caratterizzazione dei rivelatori.
“I rivelatori sono illuminati da un sistema ottico costituito da due lenti in silicio e una serie di filtri risonanti – aggiunge Marco De Petris, responsabile dell’ottica di MISTRAL. Questo trasferisce sul mosaico l’immagine del cielo prodotta dal telescopio, ingrandendo e correggendo il suo campo di vista ed eliminando tutte le lunghezze d’onda al di fuori della banda di interesse”.
“I rivelatori sono raffreddati fino a soli 0.2 gradi sopra lo zero assoluto, ovvero a -273 gradi Celsius, da un complesso sistema criogenico, che permette di mantenerli in operazione per tutta la durata delle osservazioni, eliminando i forti disturbi dovuti all’agitazione termica”, sottolinea Alessandro Coppolecchia, responsabile della criogenia di MISTRAL.
“Oltre alla soddisfazione per aver completato lo sviluppo dell’hardware, c’è grande aspettativa per i risultati scientifici che deriverannodall’uso di MISTRAL. Infatti, grazie alla bassissima temperatura operativa e alla presenza di centinaia di rivelatori che operano simultaneamente, lo strumento risulta essere estremamente efficiente per l’osservazione dettagliata di sorgenti come gli ammassi di galassie”, aggiungono Giuseppe D’Alessandro e Alessandro Novelli che si sono occupati dell’assemblaggio e dell’housekeeping di MISTRAL.
“Quando i fotoni del fondo cosmico a microonde attraversano gli ammassi di galassie, hanno una certa probabilità di interagire con gli elettroni del gas caldo che permea l’intero volume dell’ammasso, e aumentano leggermente la loro energia, accorciando così la loro lunghezza d’onda. Ne segue un deficit di fotoni del fondo cosmico di microonde a lunghezze d’onda superiori a 1.4 mm, e un eccesso di fotoni a lunghezze d’onda inferiori”, sottolinea Giovanni Isopi, che si occupa dell’elettronica di
lettura e dei dati di MISTRAL.
“MISTRAL, alla lunghezza d’onda di 3 mm, misurerà il deficit di fotoni del fondo cosmico a microonde con grande efficienza e dettaglio, osservando in controluce un grande numero di ammassi di galassie e di filamenti di gas tra ammassi – sottolinea Elia Battistelli, Project Manager di MISTRAL. Questo permette di quantificare la struttura e la dinamica del cosmic web, l’intricato intreccio di filamenti di materia che contiene la maggior parte della materia normale e della materia oscura dell’universo”.
“Questa materia è invisibile nelle osservazioni ottiche. Infatti queste possono rivelare solo i fotoni emessi dalle stelle nelle galassie, che costituiscono solo la punta dell’iceberg della struttura a grande scala dell’universo”, aggiungono Francesco Piacentini e Fabio Columbro, che si occupano della lettura e della calibrazione di MISTRAL.
“Per questo – conclude Silvia Masi, instrument scientist di MISTRAL – strumenti come MISTRAL e come OLIMPO, costruito dal team del Dipartimento di Fisica per osservare l’eccesso di fotoni a lunghezze d’onda brevi lavorando da un pallone stratosferico, e pochi altri al mondo, risultano essenziali per capire come si sono formate le strutture nel nostro universo”.
MISTRAL è stato sviluppato nell’ambito del progetto PON (Programma Operativo Nazionale) Ricerca e Innovazione 2014 – 2020 finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca e ha raggiunto l’obiettivo di potenziare tecnologicamente il Sardinia Radio Telescope (SRT).
Il progetto di potenziamento di SRT è partito il 25 giugno del 2019 e si è concluso il 25 giugno 2023 e ha visto la partecipazione di ricercatori della Sapienza Università di Roma, del CNR-EIIT, dello UK Research and Innovation (UKRI) nel Regno Unito, dell’Università di Manchester sempre nel Regno Unito e del Korea Astronomy and Space Science Institute (KASI) in Corea del Sud.
Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
POTENZIAMENTO TECNOLOGICO DEL SARDINIA RADIO TELESCOPE – SRT: RITORNO AL FUTURO
L’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha completato con successo l’acquisizione di tutta la strumentazione di avanguardia prevista nel progetto PON Ricerca e Innovazione 2014 – 2020. Il progetto, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca per un totale di 18,7 milioni di Euro, ha raggiunto l’obiettivo di potenziare tecnologicamente il Sardinia Radio Telescope (SRT). Si apre ora una fase di verifica della nuova dotazione strumentale che porterà il radiotelescopio nella condizione di piena attività e produttività scientifica. La comunità astronomica internazionale potrà affrontare nuovi ambiti di ricerca, prima non esplorabili, grazie alla possibilità di osservare l’Universo nelle onde radio fino alla frequenza di 100 GHz.
Il Sardinia Radio Telescope (SRT), situato a San Basilio in provincia di Cagliari, è una Infrastruttura di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. È un radiotelescopio di 64 metri di diametro, certamente uno dei più innovativi e performanti d’Europa, nato per studiare le onde radio provenienti dal cosmo. Oltre ad essere uno strumento ideale per le applicazioni astronomiche come “antenna singola”, SRT può osservare anche in modalità interferometrica a lunghissima base, la cosiddetta tecnica VLBI, cioè in rete con le antenne europee e le altre antenne italiane dell’INAF situate a Medicina, in provincia di Bologna, e a Noto, in provincia di Siracusa.
Sebbene SRT sia stato progettato per osservazioni fino ad una frequenza nominale di 100 GHz, nella sua configurazione iniziale, lo strumento era stato equipaggiato con ricevitori che hanno una copertura di frequenza da 0,3 a 26 GHz.
Nell’ambito del Programma Operativo Nazionale (PON) denominato “Potenziamento del Sardinia Radio Telescope per lo studio dell’Universo alle alte frequenze radio”, INAF si è aggiudicato un finanziamento di 18,7 milioni di Euro dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Il progetto di potenziamento di SRT è partito il 25 giugno del 2019 e si è concluso il 25 giugno 2023 e ha visto la partecipazione di ricercatori di Sapienza Università di Roma, del CNR-EIIT, dello UK Research and Innovation (UKRI) nel Regno Unito, dell’Università di Manchester sempre nel Regno Unito e del Korea Astronomy and Space Science Institute (KASI) in Corea del Sud.
Per raggiungere gli obiettivi di potenziamento previsti nel progetto, SRT è stato equipaggiato con quattro nuovi ricevitori che permetteranno agli astronomi di osservare l’Universo fino a 100 GHz, avendo così una nuova finestra per studiare fenomeni celesti prima non esplorabili. Per migliorare le capacità di puntamento e la sensibilità del radiotelescopio, SRT è stato dotato anche di un nuovo sistema metrologico. E’ stato acquisito un avanzato sistema di backend e di computer per il trattamento dei dati, sono state potenziate le interfacce meccaniche ed elettroniche dell’infrastruttura che permetteranno al sistema un migliore funzionamento nel suo complesso. Infine, il potenziamento dei laboratori nella sede di Selargius della sede INAF di Cagliari, permetterà di mantenere allo stato dell’arte tutta questa nuova strumentazione capitalizzando il potenziamento per i prossimi 10 anni, almeno. Questi risultati sono stati presentati oggi al Teatro Doglio di Cagliari durante l’evento “Dall’Università all’impresa: la ricerca è innovazione” organizzato dal Ministero dell’Università e della Ricerca.
Potenziamento tecnologico del Sardinia Radio Telescope – SRT. Gallery
Crediti: P. Soletta, INAF
Crediti: P. Soletta, INAF
Crediti: P. Soletta, INAF
Crediti: INAF – Marta Burgay
Sardinia Radio Telescope al crepuscolo. Crediti: INAF – Marta Burgay
Crediti: INAF – Marta Burgay
Il presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica Marco Tavani commenta: “Con la strumentazione d’avanguardia e gli aggiornamenti infrastrutturali che vanta ora il Sardinia Radio Telescope potremo davvero spingerci molto più avanti nello studio dell’Universo nelle onde radio. Sono davvero orgoglioso di veder completato tutto questo complesso e articolato lavoro nel perfetto rispetto delle tempistiche e dei finanziamenti forniti dal Ministero dell’Università e della Ricerca, anche considerando i gravi problemi legati alla passata pandemia da COVID-19. Un lavoro corale che ha visto tutte le ‘anime’ dell’INAF – scientifiche, tecnico-ingegneristiche e amministrative – collaborare al meglio per raggiungere questo importante traguardo”.
Il progetto è strutturato in nove Obiettivi Realizzativi, ognuno con un responsabile, e le varie attività sono state seguite da un team di circa 60 unità di personale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica composto da tecnologi, tecnici, amministrativi e ricercatori distribuiti nelle sedi di Cagliari, Bologna, Firenze e Catania.
L’infrastruttura così potenziata permetterà alla comunità scientifica di espandere l’utilizzo di SRT ad alte frequenze radio sia in modalità a disco singolo che in modalità interferometrica nella rete VLBI. Nel progetto finanziato è inoltre compreso un potenziamento delle antenne INAF di Medicina e Noto che operano, congiuntamente a SRT, nella rete VLBI.
Si apre ora una nuova fase di verifica della nuova dotazione strumentale che porterà il radiotelescopio nella condizione di piena attività e produttività scientifica consentendo al radiotelescopio di operare con grande versatilità ed efficienza, permettendo agli astronomi di esplorare aree scientifiche di frontiera grazie ad una copertura in frequenza da 0.3 a 100 GHz .
Federica Govoni, ricercatrice INAF a Cagliari e responsabile del progetto PON SRT ricorda: “Questo risultato non si sarebbe potuto raggiungere senza la costante presenza del Responsabile Amministrativo del progetto Maria Renata Schirru, del Direttore dell’ INAF di Cagliari Emilio Molinari, del Responsabile Unico del Procedimenti delle gare d’appalto Ignazio Porceddu, del Project Office composto da Davide Fierro, Letizia Caito e Andrea Orlati, del personale che ha curato la rendicontazione e l’archiviazione della documentazione tecnica, ovvero Adina Mascia e Teresa Pulvirenti e dell’intero Team del progetto. Tutti hanno partecipato al raggiungimento degli obiettivi con grande spirito di abnegazione”.
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Approfondimenti sui 9 Obiettivi Realizzativi
O.R.1 – Ricevitore criogenico multi-beam in Banda W per SRT (75 – 116 GHz)
Alessandro Navarrini, INAF Cagliari:“CARUSO (Cryogenic Array Receiver for Users of the Sardinia Observatory) è un ricevitore criogenico multi-beam 4×4 operante in banda W (70-116 GHz) installato al fuoco Gregoriano del Sardinia Radio Telescope (SRT). La realizzazione dello strumento è stata appaltata da INAF ad UKRI (UK Research and Innovation) nell’ambito del contratto PON OR1. CARUSO è tra i principali e più performanti strumenti disponibili in ambito radioastronomico a livello internazionale operanti in banda W. Grazie alla sua installazione, completata nelle scorse settimane, SRT riuscirà ad effettuare osservazioni astronomiche ad alta sensibilità sia di tipo spettro-polarimetrico che di emissione nel continuo, sfruttando al massimo il campo di vista, rendendo il radiotelescopio una facility pressoché unica nel panorama internazionale.”
Alessandro Navarrini, INAF Cagliari
O.R.2– Ricevitore criogenico multi-beam in Banda Q per SRT (33 – 50 GHz)
Alessandro Orfei, INAF Bologna: “L’O.R.2 del progetto PON ha realizzato un ricevitore criogenico a microonde nella banda da 33 a 50 GHz, nella configurazione multifeed: 19 ricevitori identici guarderanno in contemporanea 19 punti del cielo. Sarà possibile ottenere mappe in spettroscopia, in polarimetria o in semplice ampiezza del segnale ricevuto. Sarà possibile osservare il Sole con questa modalità. Lo strumento deriva dal lavoro delle strutture INAF di Bologna, Firenze e Cagliari e si è avvalso della professionalità di IEIIT-CNR e dell’Università di Manchester per lo studio e realizzazione di due dispositivi in guida d’onda.”
Alessandro Orfei, INAF Bologna
O.R.3 – Camera millimetrica per SRT (80 – 116 GHz)
Matteo Murgia, INAF Cagliari: “Lo scopo dell’ O.R.3 era dotare SRT di una camera millimetrica di nuova generazione per osservazioni ad alta sensibilità e risoluzione angolare in banda W (80 – 110 GHz). La realizzazione è stata affidata a Sapienza Università di Roma, che in collaborazione con INAF ha progettato, realizzato e infine installato su SRT il ricevitore denominato MISTRAL: MIllimetric Sardinia radio Telescope Receiver based on Array of Lumped elements kids. Con un campo di vista di 4 minuti d’arco e una risoluzione angolare di 12 secondi d’arco, MISTRAL consentirà di esplorare casi scientifici chiave dalle scale galattiche fino all’Universo ad alto redshift. In particolare, l’avvento della camera MISTRAL aprirà una nuova strada per rivelare i dettagli della formazione e dell’evoluzione delle strutture su larga scala nell’Universo. Ad esempio, attraverso l’osservazione dell’effetto Sunyaev-Zel’dovich (SZ), sarà possibile effettuare indagini sugli ammassi di galassie e i filamenti che li collegano, ottenendo informazioni sulla loro fisica, dinamica e morfologia.”
O.R.4– Sistema ricevente a microonde compatto e simultaneo a tre-bande per i tre radiotelescopi Italiani
Pietro Bolli, INAF Firenze: “Tre nuovi ricevitori tri-band (18-26 GHz, 34-50 GHz e 80-116 GHz) compatti, criogenici e simultanei sono stati sviluppati, all’interno dell’O.R.4 del PON, per i tre radiotelescopi INAF (SRT, Medicina e Noto). Una volta in operazione, essi consentiranno alla comunità scientifica di espandere dai siti Italiani le osservazioni alle alte frequenze sia come antenne singole sia in modalità interferometrica. La simultaneità in frequenza permetterà di migliorare la calibrazione del ricevitore alle alte frequenze (intorno ai 100 GHz) sfruttando calibratori astronomici presenti alle più basse frequenze. I ricevitori sono stati progettati e sviluppati dal Korea Astronomy and Space Science Institute sulla base di un analogo sistema che opera da più di 10 anni al Korea VLBI Network (KVN).”
Pietro Bolli, INAF Firenze
O.R.5– Sistema metrologico per SRT
Sergio Poppi, INAF Cagliari: “Per consentire l’operatività di SRT ad alte frequenze occorre tenere sotto controllo e monitorare le deformazioni della struttura che avvengono sotto l’azione di carichi gravitazionali e termici, oltre che a causa della pressione del vento. A tal fine, O.R.5 si e’ occupato della progettazione e della acquisizione di un complesso sistema di metrologia, costituito da oltre 200 sensori di temperatura, anemometri, inclinometri che forniranno ad un modello basato su reti neurali le informazioni per il calcolo in tempo reale degli errori di puntamento del telescopio; inoltre un laser scanner, un’ antenna per misure olografiche ed un sistema all’avanguardia di misura di posizione verificheranno il profilo delle ottiche principali, oltre che il loro corretto posizionamento nello spazio al fine di fornire al sistema di controllo le correzioni affinché SRT osservi sempre in modo da avere sempre le massime prestazioni possibili.”
Sergio Poppi, INAF Cagliari
O.R.6 – Backend per SRT
Giovanni Comoretto, INAF Firenze: “I nuovi ricevitori multi-beam richiedono sistemi di acquisizione dati in grado di analizzare un numero elevato di segnali indipendenti, su una banda passante elevata, e di supportare una varietà di modalità osservative (quasi-continuo, spettroscopia, spettropolarimetria, analisi di pulsar). Questo richiede l’utilizzo di schede basate su logiche programmabili. Il sistema di acquisizione è composto da due sezioni che consentono di analizzare fino a 40 segnali rispettivamente su una banda più limitata (fino a 1.4 GHz) ma con un numero elevatissimo di canali spettrali (fino a 65mila) oppure bande fino a 2 GHz con minore risoluzione spettrale. Lo sviluppo del firmware di acquisizione deriva dalla collaborazione tra le strutture INAF di Firenze e di Cagliari.”
da sinistra: Giovanni Comoretto (INAF Firenze) e Andrea Melis (INAF Cagliari)
O.R.7– Fornitura delle interfacce elettroniche e meccaniche per l’integrazione dei nuovi sistemi
Andrea Orlati, INAF Bologna: “L’O.R.7 si è occupato del potenziamento dell’infrastruttura tecnica e tecnologica del Sardinia Radio Telescope. Alcune caratteristiche innovative della strumentazione scientifica acquisita con il progetto PON hanno reso necessari alcuni interventi ben mirati, alla meccanica e servomeccanica, agli impianti elettrico, criogenico, termostatazione e distribuzione dei segnali RF, al fine di garantire un’efficace integrazione e un pieno sfruttamento di tutti i ricevitori e dei nuovi backend digitali. Con la nuova configurazione del SRT si avrà, inoltre, una semplificazione delle procedure manutentive e il superamento di alcune carenze strutturali che apriranno il telescopio ad ulteriori miglioramenti tecnologici con chiare ricadute sulla quantità e qualità della produzione scientifica dello strumento.”
Andrea Orlati, INAF Bologna
O.R.8– HPC e sistemi di archiviazione per la raccolta ed uso dati SRT
Andrea Possenti, INAF Cagliari: “Per l’O.R.8, la disponibilità di una infrastruttura di calcolo moderna e prestazionale (circa 500 core CPU, 12 GPU di tipo A40 e oltre 8 PB di spazio su disco) costituisce un tassello fondamentale per permettere al rinnovato SRT di esprimere il suo pieno potenziale scientifico. In particolare, la componente installata presso il sito di SRT fornirà un’analisi in tempi rapidi della qualità dei dati acquisiti dall’antenna e servirà a preservare i dati per un breve periodo, prima del loro trasferimento altrove. La componente installata al sito dell’INAF di Cagliari sarà invece dedicata all’analisi approfondita dei dati.”
Andrea Possenti, INAF Cagliari
O.R.9– Potenziamento dei laboratori per lo sviluppo di tecnologie a microonde
Tonino Pisanu, INAF Cagliari: “L’O.R.9 del PON ha riguardato il potenziamento dei laboratori dell’INAF – Osservatorio Astronomico di Cagliari con la ricerca e l’acquisizione di strumentazione all’avanguardia per i laboratori di microonde, elettronica e meccanica. La strumentazione acquisita permetterà di progettare e sviluppare nuove tipologie di ricevitori e di backend radioastronomici, nuovi circuiti e schede elettroniche per il comando e controllo dei diversi sistemi installati sul Sardinia Radio Telescope e di nuovi sistemi metrologici per misurare e correggere le deformazioni gravitazionali e termiche della struttura del radiotelescopio che pregiudicano le sue prestazioni alle più alte frequenze di utilizzo.”
Tonino Pisanu, INAF Cagliari
Testi, video e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)
Zanzare: le loro storie d’amore per combattere la malaria
Dall’accoppiamento delle zanzare, nuove strategie per ridurre la diffusione della pericolosa infezione da malaria. Lo evidenzia uno studio di Cnr-Isc e Sapienza in collaborazione con l’Università degli Studi di Perugia, ora pubblicato su Scientific Reports.
Osservare delle zanzare che si accoppiano può sembrare un’attività particolarmente bizzarra, ma che si sta rivelando essenziale nello sviluppo di nuove strategie di lotta contro la malaria. Le femmine di Anopheles gambiae sono vettori di trasmissione del plasmodio della malaria, che ogni anno è responsabile di centinaia di migliaia di decessi. Le tecniche sviluppate negli ultimi anni per contrastare questa malattia si basano su un principio molto semplice: meno zanzare, meno vettori di trasmissione, meno decessi. L’uso di zanzariere impregnate di insetticidi si è rivelato molto efficace negli ultimi 20 anni. Ma questo non basta. Le zanzare hanno sviluppato resistenze agli insetticidi, per cui, dopo una iniziale riduzione, il numero dei contagi annuali è ora in salita.
L’imperativo scientifico è quindi di identificare nuove strategie, da utilizzare in associazione con i metodi di controllo attualmente in uso. Attraverso un approccio “gene drive”, si cerca di sfruttare l’accoppiamento delle zanzare per diffondere modificazioni genetiche che rendano le zanzare sterili o incapaci di trasmettere il parassita della malaria.
“Per valutare l’efficacia di queste tecniche innovative è necessario conoscere approfonditamente il meccanismo dell’accoppiamento”, spiega la Prof.ssa Roberta Spaccapelo, dell’Università degli Studi di Perugia, “sappiamo che questi insetti si accoppiano in volo e che i maschi si associano in gruppi, sciami di centinaia di individui, per essere più visibili e attrattivi alle femmine. Ma non ne sappiamo molto di più. Sono le femmine che entrano nello sciame a scegliere con quale maschio accoppiarsi? Come avviene la scelta? Ci sono delle caratteristiche che rendono alcuni maschi più attrattivi di altri?”
L’articolo “Characterization of lab-based swarms of Anopheles gambiae mosquitoes using 3D-video tracking” appena pubblicato su Scientific Reports, nato da una collaborazione fortemente interdisciplinare tra il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Perugia, il gruppo CoBBS (Collective Behavior in Biological Systems – www.cobbs.it) del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR, muove i primi passi per cercare di rispondere a questi interrogativi.
“Riprodurre sciami di Anopheles nell’ambiente controllato del laboratorio è stato un compito molto complicato. Abbiamo scelto di studiare questi sciami in gabbie molto grandi, per poter analizzare la dinamica di volo delle zanzare evitando potenziali effetti sul comportamento dovuti allo spazio confinato di gabbie piccole”, dice la Prof.ssa Irene Giardina della Sapienza.
“Abbiamo ripreso sciami di centinaia di zanzare con un sistema stereometrico di telecamere, che ci permette di ricostruire nello spazio tridimensionale le traiettorie di ogni singola zanzara nel gruppo. L’analisi di questi dati ci ha permesso di verificare che gli sciami ricreati in laboratorio hanno caratteristiche compatibili con quelle di sciami osservati in ambiente naturale“, spiega Stefania Melillo, ricercatrice dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR. “La novità più importante presentata nell’articolo è che siamo riusciti a documentare vari eventi di accoppiamento: coppie di zanzare che volano insieme per un periodo di tempo che arriva anche a 15 secondi. Ma la cosa più stupefacente è sicuramente aver osservato e documentato la competizione nell’accoppiamento. Più maschi che competono per accoppiarsi nello stesso momento con la stessa femmina.”
L’articolo rappresenta, quindi, il primo passo verso la comprensione della dinamica di accoppiamento nelle zanzare e costituisce un importante punto di riferimento per la comunità scientifica internazionale, per valutare l’efficacia delle nuove tecnologie per ridurre la popolazione di insetti così pericolosi per l’uomo.
Dall’accoppiamento delle zanzare, nuove strategie per combattere la malaria. Gallery
Immagine ottenuta sovrapponendo diverse foto dello stesso sciame. Crediti Gruppo CoBBS (Collective Behavior in Biological Systems) del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR
Immagine dell’allestimento dall’interno della gabbia, che mostra i rifugi dove le zanzare riposano. In primo piano ci sono i rifugi di terracotta, sullo sfondo due rifugi neri. Le pareti interne della gabbia sono coperte da un telo nero per ottenere uno sfondo uniforme nelle immagini. Crediti Gruppo CoBBS (Collective Behavior in Biological Systems) del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR
Immagine delle tre telecamere dall’esterno della gabbia. Crediti Gruppo CoBBS (Collective Behavior in Biological Systems) del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR
Immagine delle sei lampade a infrarossi utilizzate nell’esperimento, con le telecamere sullo sfondo all’esterno della gabbia. I tre quadrati sulla rete sono i fori in cui sono posizionati gli obiettivi delle telecamere. Crediti Gruppo CoBBS (Collective Behavior in Biological Systems) del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR
Ulteriori sviluppi di questo studio, sia dal punto di vista sperimentale che modellistico, sono tema del progetto dal titolo: Demystifying mosquito sex: unraveling MOsquito SWARMs with lab-based 3D video tracking (acronimo: MoSwarm), presentato congiuntamente dall’Università di Perugia e il CNR, appena finanziato dal MUR nell’ambito dei progetti PRIN 2022.
Riferimenti:
Characterization of lab‐based swarms of Anopheles gambiae mosquitoes using 3D‐video tracking – Andrea Cavagna, Irene Giardina, Michela Anna Gucciardino, Gloria Iacomelli, Max Lombardi, Stefania Melillo, Giulia Monacchia, Leonardo Parisi, Matthew J. Peirce & Roberta Spaccapelo – Scientific Reportshttps://doi.org/10.1038/s41598-023-34842-0
Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma