News
Ad
Ad
Ad
Tag

Roma

Browsing

 TIP60, la centralina multiproteica che “viaggia” all’interno delle cellule per garantirne la corretta replicazione

La review, pubblicata sulla rivista Epigenetics & Chromatin dai ricercatori della Sapienza, fa il punto sulle conoscenze riguardanti il complesso multiproteico TIP60, in particolare sulle sue funzioni “non canoniche” relative alla mitosi. Lo studio apre nuove prospettive nella comprensione delle malattie legate a difetti della divisione cellulare e nell’individuazione di strategie terapeutiche

Il complesso multiproteico TIP60 è una sorta di “centralina” cellulare che controlla il rimodellamento della cromatina. La cromatina è la sostanza che compone il nucleo delle cellule ed è costituita da DNA avvolto a mo’ di gomitolo attorno alle proteine.
TIP60 svolge un ruolo cruciale per il corretto funzionamento delle cellule, regolando, tra l’altro, l’espressione dei geni e le sue alterazioni possono contribuire all’insorgenza di patologie umane, tra cui il cancro e disturbi dello sviluppo neurologico.

Da anni il Laboratorio di Epigenetics and cell division della Sapienza (Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin), coordinato da Patrizio Dimitri, studia le funzioni “non canoniche” svolte da TIP60.

“In particolare – spiega Dimitri – siamo stati incuriositi dall’osservazione che proteine note per svolgere funzioni cromatiniche si spostassero dal nucleo ai siti dell’apparato mitotico che controlla varie fasi divisione cellulare”.

Tali osservazioni, condotte su diversi organismi dall’uomo a Drosophila melanogaster (il moscerino della frutta), fino alle piante, indicano che questo fenomeno è conservato nel corso dell’evoluzione. Da questa esigenza è nata la recente review, con l’obiettivo di fare il punto sulle conoscenze attuali e stimolare nuove direzioni di ricerca in un campo tanto promettente quanto ancora poco esplorato.

L’articolo, pubblicato sulla rivista Epigenetics & Chromatin, si focalizza in particolare su quello che Dimitri ha chiamato il viaggio mitotico delle proteine rimodellatrici, un fenomeno che rivela le funzioni moonlighting del complesso TIP60, capace di svolgere compiti differenti in compartimenti cellulari distinti, mostrando una sorprendente versatilità.

Si tratta di un fenomeno di grande interesse, perché suggerisce l’esistenza di meccanismi genetico-molecolari ancora da chiarire, che svolgono un ruolo fondamentale nel controllo della divisione cellulare e nella stabilità del genoma. Approfondire questi meccanismi potrebbe aprire nuove prospettive nella comprensione delle malattie legate a difetti nei processi di divisione e regolazione genica. Non a caso, il TIP60 rappresenta un potenziale bersaglio per lo sviluppo di future strategie terapeutiche.

“Lo studio tocca anche aspetti centrali dell’evoluzione biologica – osserva Paolo Dimitri –Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’evoluzione non crea necessariamente geni o proteine del tutto nuovi. Molto più spesso riutilizza e modifica molecole già esistenti, adattandole a nuovi compiti senza far loro perdere del tutto le funzioni originarie”.

Le ricerche sono state condotte grazie a finanziamenti ottenuti dal Ministero dell’Università e della Ricerca (Progetto PRIN 2022: Integrating genetic models to mechanistically dissect cytokinesis failure in neurodevelopmental disorders).

Localizzazione della proteina TIP60 sul midbody in cellule umane in coltura
Localizzazione della proteina TIP60 sul midbody in cellule umane in coltura

La fotografia mostra il risultato di un esperimento di immunofluorescenza condotto da Maria Virginia Santopietro, presso l’Advanced Imaging Core Facility di Trento, utilizzando la Expansion Microscopy, una raffinata tecnica di imaging a super-risoluzione.  La freccia indica la presenza sul midbody della proteina TIP60 (che dà il nome al complesso). Il midbody è l’organello che definisce l’evento finale della divisione cellulare (final cut), che dà luogo alla formazione di due cellule figlie (il segnale di TIP60 è in arancione, mentre i fasci di microtubuli del fuso mitotico sono in verde).

 

Riferimenti bibliografici:

Santopietro, M.V., Ferreri, D., Prozzillo, Y. et al., The multitalented TIP60 chromatin remodeling complex: wearing many hats in epigenetic regulation, cell division and diseases, Epigenetics & Chromatin 18, 40 (2025), DOI: https://doi.org/10.1186/s13072-025-00603-8

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Da Pantelleria a Marte: in un lago siciliano si sperimenta l’origine della vita

Nell’isola siciliana, un team di ricercatori italiani ha identificato un ambiente naturale con analogie geologiche con Marte e che potrebbe simulare anche le condizioni della Terra primordiale. Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences, è frutto della collaborazione tra Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e le Università della Tuscia e Sapienza di Roma, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI).
In una lettera del 1871 al suo amico Joseph Dalton Hooker, Charles Darwin ipotizzava che la vita potesse essere nata in ‘un piccolo stagno caldo’. Oggi, a oltre 150 anni di distanza, quell’ipotesi trova maggiori conferme grazie allo studio che un team interdisciplinare di scienziati italiani ha effettuato sull’isola di Pantelleria, in particolare presso il piccolo lago termale chiamato ‘Bagno dell’Acqua’: Questo luogo si è rivelato un laboratorio naturale ideale per simulare ambienti simili a quelli che potrebbero essere esistiti miliardi di anni fa sia sulla Terra che su Marte, offrendo preziosi indizi sui meccanismi universali dell’origine della vita.
Immagine satellitare con esperimenti
Immagine satellitare con esperimenti

La ricerca, pubblicata sull’International Journal of Molecular Sciences, è stata condotta da ricercatori e ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), dell’Università della Tuscia, dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF), dell’Università Sapienza di Roma, con la collaborazione dell’Ente Parco nazionale Isola di Pantelleria e finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI)  con i progetti ‘ExoMars’ e ‘Migliora’.

“Il lago ‘Bagno dell’Acqua’ si distingue per la combinazione unica di alta alcalinità, attività idrotermale, diversità mineralogica e attività microbica. Utilizzando l’acqua del lago, ricca di minerali, siamo riusciti a sintetizzare molecole di RNA (una delle due molecole, assieme al DNA, fondamentali per la vita) a partire da alcuni suoi precursori: i nucleotidi contenenti la guanina, una delle quattro famose basi azotate”,
spiega Giovanna Costanzo, biologa molecolare dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del CNR (CNR-IBPM).
“A Pantelleria, in un’ambiente esterno al laboratorio, dove solitamente si svolgono le nostre attività, abbiamo verificato la possibilità di condurre esperimenti di astrobiologia, sfruttando le proprietà chimiche e fisiche di un lago con caratteristiche simili sia a quelle ipotizzate per la Terra primitiva, ovvero il nostro pianeta circa 4,5 miliardi di anni fa, che a quelle rilevate in aree marziane di grande interesse astrobiologico, come il cratere Jezero e la regione di Oxia Planum, attualmente considerati prioritari per la ricerca di antiche forme di vita”.
I ricercatori sono riusciti a sintetizzare non solo l’RNA, ma anche tutte le basi azotate presenti sia nel DNA che nell’RNA.
“Inoltre, sono stati ottenuti anche componenti del PNA (Acido Peptidico Nucleico), un potenziale precursore degli attuali acidi nucleici, che potrebbe aver rappresentato un ponte tra genetica e metabolismo” spiega il chimico organico Raffaele Saladino dell’Università della Tuscia di Viterbo. “La vita, pertanto, avrebbe potuto avere una modalità di origine chimica comune sia nel lontano passato di Marte che sulla Terra primitiva”.
Il progetto Migliora (‘Modeling Chemical Complexity: all’Origine di questa e di altre Vite per una visione aggiornata delle missioni spaziali’) si inserisce all’interno di un programma nazionale di astrobiologia che Asi sta coordinando già dal 2020.
“I risultati di questo progetto costituiscono un tassello fondamentale nella conoscenza dell’origine della vita sulla Terra” sottolinea Claudia Pacelli, Responsabile Scientifico del progetto per Asi. “Riteniamo che queste ricerche contribuiranno inoltre a rafforzare il ruolo della comunità scientifica italiana nel contesto della ricerca astrobiologica internazionale”.
microbialite Pantelleria
microbialite Pantelleria
Riferimenti bibliografici:
Valentina Ubertini, Eleonora Mancin, Enrico Bruschini, Marco Ferrari, Agnese Piacentini, Stefano Fazi, Cristina Mazzoni, Bruno Mattia Bizzarri, Raffaele Saladino, Giovanna Costanzo, “The “Bagno dell’Acqua” Lake as a Novel Mars-like Analogue: Prebiotic Syntheses of PNA and RNA Building Blocks and Oligomers”, International Journal of Molecular Sciences, 2025, 26, 6952. https://doi.org/10.3390/ijms26146952
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Combattere le metastasi del tumore al colon-retto: dimostrato il ruolo dell’alleanza tra macrofagi e le cellule “natural killer”

In uno studio condotto alla Sapienza Università di Roma, un gruppo di ricercatori ha dimostrato il ruolo chiave dell’alleanza tra macrofagi e cellule “natural killer” per contrastare la crescita delle metastasi. I risultati, pubblicati sul “Journal of Clinical Investigation” aprono la strada a nuove terapie per il tumore al colon-retto

Il cancro del colon-retto (CRC) è la seconda causa di morte per tumore al mondo. Nonostante sia divenuto molto più curabile negli ultimi anni, le terapie non sono ancora efficaci in tutti i pazienti. L’ancora elevato tasso di mortalità per questo tipo di tumore è dovuto soprattutto alla capacità di diffondersi in altre parti del corpo, facendo insorgere metastasi in una rilevante frazione di pazienti.

In questo contesto, le cellule “natural killer” (NK) sono un tipo di globuli bianchi appartenenti al sistema immunitario innato, che possono aiutare a contrastare la diffusione del tumore. Il loro nome deriva proprio dalla capacità di riconoscere e distruggere spontaneamente le cellule tumorali e inibire la formazione di metastasi. Nonostante ciò, rimane ancora poco chiaro il comportamento delle cellule “natural killer” a metastasi già formate, in particolare nel fegato.

In una ricerca sostenuta dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, l’immunologo Giovanni Bernardini e colleghi hanno studiato il ruolo specifico delle cellule NK nell’ambiente metastatico, per comprendere come proteggerne e preservarne meglio le capacità anti-tumorali. Coordinata dal Dipartimento di Medicina Molecolare della “Sapienza”, la ricerca è avvenuta in collaborazione con diversi gruppi nazionali e internazionali. I risultati, pubblicati sul Journal of Clinical Investigation, hanno mostrato un meccanismo naturale di difesa che può aiutare a rallentare la crescita delle metastasi epatiche.

In particolare il gruppo guidato da Bernardini, professore di Immunologia presso “Sapienza”, ha dimostrato che non tutte le metastasi al fegato sono uguali. Alcuni tipi formano dei microambienti in cui l’attività delle cellule NK è potenziata, grazie alla presenza di molecole in grado di promuovere la persistenza di queste cellule e la loro capacità di attaccare il tumore.

Nello studio i ricercatori hanno analizzato metastasi epatiche ottenute sia da topi sia da biopsie di pazienti, trovando in entrambi i casi che un tipo specifico di macrofagi, i cosiddetti “spazzini” del sistema immunitario, è in grado di insegnare alle cellule “natural killer” come attivarsi correttamente e attaccare le cellule tumorali.

“Per fare ciò – spiega Giovanni Bernardini – i macrofagi producono due chemochine. Si tratta di particolari proteine, chiamate CXCL9 e CXCL10, che, come dei messaggeri chimici, attirano le cellule NK all’interno delle metastasi e creano un ambiente che permette a queste cellule di attivarsi”.

Alcuni risultati raccolti evidenziano la notevole importanza delle chemochine CXCL9 e CXCL10. In particolare, in topi con un deficit del recettore CXCR3, che permette di “sentire” gli effetti di queste due proteine, si osserva una inibizione delle cellule “natural killer” e la successiva accelerazione della crescita delle metastasi.

Come CXCR3 rende possibile l’attivazione delle proteine e delle cellule NK nelle metastasi
Combattere le metastasi del tumore al colon-retto: dimostrato il ruolo dell’alleanza tra macrofagi e le cellule “natural killer”. Nell’immagine, come CXCR3 rende possibile l’attivazione delle proteine e delle cellule NK nelle metastasi

Nel complesso i dati pubblicati dimostrano che una corretta cooperazione tra macrofagi e cellule “natural killer” è fondamentale per attivare una risposta immunitaria in grado di limitare la diffusione del tumore del colon-retto, aprendo nuove prospettive terapeutiche basate sul potenziamento di questo network.

Riferimenti bibliografici:

Russo, C. D’Aquino, C. Di Censo, M. Laffranchi, L. Tomaipitinca, V. Licursi, S. Garofalo, J. Promeuschel, G. Peruzzi, F. Sozio, A. Kaffke, C. Garlanda, U. Panzer, C. Limatola, C.A.J. Vosshenrich, S. Sozzani, G. Sciumè, A. Santoni, G. Bernardini, Cxcr3 promotes protection from colorectal cancer liver metastasis by driving NK cell infiltration and plasticity, Journal of Clinical Investigation, 2025;135(11):e184036, DOI: https://doi.org/10.1172/JCI184036

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Proteine da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa rivoluzionano gli studi evoluzionistici

Una ricerca internazionale pubblicata su Nature ha recuperato sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte segnando una svolta nella ricostruzione dell’evoluzione delle specie estinte

Uno studio innovativo che sarà pubblicato in “Nature” annuncia il recupero di sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa, spingendo indietro di milioni di anni i confini della ricerca sulle proteine antiche. Questo risultato senza precedenti apre una nuova frontiera per la paleoproteomica, promettendo di svelare segreti dell’evoluzione risalenti a tempi remoti, ben oltre la portata del DNA antico.

Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature” il 9 luglio 2025, descrive l’estrazione e il sequenziamento di antiche proteine dello smalto da un dente di rinoceronte fossilizzato risalente a 21-24 milioni di anni fa, risalente al Miocene inferiore.

Questa straordinaria impresa, ottenuta a partire da un fossile rinvenuto nell’Alto Artico canadese, estende di ben dieci volte la scala temporale delle sequenze proteiche recuperabili e informative sull’evoluzione rispetto al più antico DNA conosciuto.

Questa ricerca segna un momento cruciale per la paleoproteomica, lo studio delle proteine antiche. Sebbene proteine antiche siano state trovate in fossili del Miocene medio-superiore (circa gli ultimi 10 milioni di anni), l’ottenimento di sequenze sufficientemente dettagliate per ricostruzioni robuste delle relazioni evolutive era precedentemente limitato a campioni non più vecchi di 4 milioni di anni. Questo nuovo studio amplia significativamente tale finestra temporale, dimostrando lo straordinario potenziale delle proteine di persistere su vaste scale temporali geologiche nelle giuste condizioni.

Lo studio, coordinato dal Globe Institute dell’Università di Copenaghen, ha ricostruito sequenze proteiche dallo smalto dentale di un rinoceronte vissuto nell’attuale Artico canadese durante il Miocene inferiore. Grazie alla stabilità dello smalto e alle condizioni ambientali estreme del cratere di Haughton — freddo costante e permafrost — le proteine sono risultate sorprendentemente ben conservate. Queste sequenze proteiche antiche hanno permesso di collocare con precisione evolutiva il rinoceronte all’interno del suo albero genealogico, e suggeriscono che la divergenza tra le sottofamiglie Elasmotheriinae e Rhinocerotinae sia avvenuta durante l’Oligocene (34–22 milioni di anni fa), più recentemente di quanto ipotizzato in precedenza.

Il progetto è stato guidato dal Dott. Ryan Sinclair Paterson e diretto dal Prof. Enrico Cappellini dell’Università di Copenaghen. All’interno di questo progetto, l’apporto del Dott. Gabriele Scorrano (Università di Tor Vergata), del Prof. Raffaele Sardella (Dipartimento di Scienze della Terra, Sapienza Università di Roma) e del Dott. Luca Bellucci (Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze) è stato fondamentale: hanno fornito e analizzato un esemplare di dente di rinoceronte di circa 400.000 anni fa, proveniente dal sito archeo-paleontologico di Fontana Ranuccio (Lazio, provincia di Frosinone).

La ricerca vede coinvolte anche due ricercatrici dell’Università di Torino: Meaghan Mackie, dottoranda del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi di UniTo e dell’University College Dublin, e la sua supervisor, la Prof.ssa Beatrice Demarchi, docente ordinaria presso l’Ateneo torinese ed esperta di biomolecole antiche.

 

In questo sito, insieme a una ricca fauna, sono stati rinvenuti alcuni tra i più antichi reperti del genere Homo in Italia. Il reperto ha funzionato da riferimento intermedio tra i campioni più recenti (esemplari medievali) e quello molto più antico analizzato in questo studio, offrendo un confronto diretto sulla conservazione proteica nel tempo.

Il contributo del team dell’Università di Torino è stato cruciale per la validazione dei dati e l’interpretazione dei processi di diagenesi proteica. “Abbiamo calcolato – spiega la Prof.ssa Beatrice Demarchi – che la bassa temperatura ha reso l’età termica del campione equivalente a quella di un reperto dieci volte più giovane in un luogo con temperatura media di 10°C, il che significa che le proteine erano significativamente meno danneggiate rispetto a quelle che si trovano in luoghi della stessa età geologica ma con clima più caldo”.

“È stato sorprendente”, commenta Meaghan Mackie. Il primo campione che ho analizzato pensavo non contenesse nulla, perché troppo antico! Sono rimasta a fissare lo schermo del computer per un minuto”. Questo risultato apre nuove prospettive per la ricerca evolutiva e la paleoproteomica perché permette di ricostruire la storia evolutiva di specie estinte da milioni di anni, ben oltre i limiti del DNA e, in prospettiva, potrebbe riaccendere le speranze per lo studio della biologia di specie dell’era Mesozoica. Indagini future su fossili della Formazione di Haughton e di altri contesti simili potrebbero far emergere ulteriori tracce di questa straordinaria conservazione biomolecolare.

“Si profila una nuova fase per la biologia evolutiva – aggiunge la Prof.ssa Demarchi – in cui le proteine antiche diventano preziosi testimoni della storia più remota della vita sulla Terra. Per l’Università di Torino, questo risultato conferma il ruolo di primo piano nell’ambito della paleobiologia molecolare internazionale”.

Vista del Cratere di Haughton sull'isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del "deserto polare" hanno contribuito a preservare l'antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman
Vista del Cratere di Haughton sull’isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del “deserto polare” hanno contribuito a preservare l’antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman

Riferimenti bibliografici:

Paterson, R. S., Mackie, M., Capobianco, A., Heckeberg, N. S., Fraser, D., Demarchi, B., Munir, F., Patramanis, I., Ramos-Madrigal, J., Liu, S., Ramsøe, A. D., Dickinson, M. R., Baldreki, C., Gilbert, M., Sardella, R., Bellucci, L., Scorrano, G., Leonardi, M., Manica, A., Racimo, F., Willerslev, E., Penkman, K. E. H., Olsen, J. V., MacPhee, R. D. E., Rybczynski, N., Höhna, S., Cappellini, E., Phylogenetically informative proteins from an Early Miocene rhinocerotid. Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09231-4

 

Testi dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dalla Sezione Comunicazione Digitale e Media Relations, Area Comunicazione dell’Università di Torino

Il “codice a barre” dei cromosomi: una nuova chiave per leggere il genoma umano; dal motivo centromerico alla mappa di centenia

I risultati di una ricerca della Sapienza Università di Roma hanno svelato la struttura organizzata dei centromeri, le regioni centrali dei cromosomi finora ritenute indecifrabili. Pubblicati sulla rivista “Science”, i dati offrono nuovi strumenti per lo studio dei tumori e delle malattie genetiche.

Ogni essere vivente cresce e si riproduce attraverso numerose divisioni delle proprie cellule. Affinché tale processo avvenga correttamente e senza complicazioni, è necessario che prima la cellula copi e organizzi precisamente le istruzioni genetiche che si trovano nel DNA.

Nella trasmissione delle informazioni ha un ruolo importante il centromero, ovvero la parte centrale di ogni cromosoma, costituito da due cromatidi che proprio lì si restringono. Il centromero, conosciuto anche come costrizione primaria, è costituito da DNA altamente ripetuto, cioè da sequenze di nucleotidi che si ripetono una di seguito all’altra molte volte.

In uno studio diretto da Simona Giunta, del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, il suo gruppo ha analizzato questa regione specifica del cromosoma, che da tempo si credeva costituita da un agglomerato oscuro di DNA. I ricercatori hanno scoperto che in realtà ogni centromero è portatore di un’organizzazione specifica per ogni cromosoma. I risultati, pubblicati sulla rivista “Science”, hanno permesso di indicizzare queste sequenze complesse, aprendo la strada a un confronto preciso tra individui e insorgenza di patologie specifiche.

“Utilizzando nuove tecnologie di sequenziamento e algoritmi computazionali – spiega Simona Giunta, docente presso la Sapienza e direttrice del laboratorio Giunta Lab – siamo riusciti non solo a leggere queste sequenze per la prima volta, ma abbiamo anche scoperto che ogni cromosoma possiede un proprio schema unico, come una sorta di codice a barre, che si dimostra coerente anche osservandolo in persone diverse”.

In particolare, i ricercatori hanno scoperto che il motivo centromerico – una sequenza di DNA originariamente considerata confinata al centromero – si trova anche al di fuori di esso, distribuito in modo conservato e organizzato lungo i bracci dei cromosomi. Come la sintenia che usa la posizione dei geni lungo il cromosoma, la specifica organizzazione di questo motivo, definito “centenia” dai ricercatori, permette di generare codici a barre specifici per ogni cromosoma.

La mappa di centenia umana fornisce uno strumento fondamentale per studiare e confrontare la struttura genomica ad alta risoluzione, comprese di quelle regioni – come i centromeri e altri elementi ripetitivi – che finora erano rimaste in gran parte escluse dalle analisi genomiche classiche.

“Proprio come si può scansionare un codice a barre per ottenere informazioni su un prodotto – specifica Luca Corda, primo autore dell’articolo e dottorando in Genetica e Biologia Molecolare alla Sapienza – sarà in futuro possibile scansionare i codici dei centromeri per conoscerne l’evoluzione e comprenderne il comportamento in patologie specifiche”.

Lo studio si inserisce in un progetto più ampio, sostenuto dalla Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro e, più recentemente, dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC), volto a indagare il ruolo dei centromeri nel cancro e nelle malattie genetiche. La ricerca nel campo della genetica sta subendo un cambiamento di paradigma: non ci si interessa più solo dei geni, ma anche delle regioni complesse e ripetitive del genoma – come i centromeri – rimasti finora ai margini.

“Queste regioni stanno diventando finalmente esplorabili, con strumenti nuovi e portando nuove domande che saranno al centro della ricerca del futuro”, afferma Simona Giunta. Comprendere i centromeri rappresenta una nuova frontiera per rivelare aspetti ancora inesplorati del nostro patrimonio genetico.

Riferimenti bibliografici:

Luca Corda, Simona Giunta, Chromosome-specific centromeric patterns define the centeny map of the human genome, Science 389, ads3484 (2025), DOI:10.1126/science.ads3484

microscopio Progeria trattamento leucemia acuta linfoblastica Philadelphia-positiva
Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

COME GLI UCCELLI SI ADATTANO ALL’URBANIZZAZIONE DEI TERRITORI: TORINO È UN RIFUGIO VERDE PER I VOLATILI FORESTALI

Uno studio condotto in sei città italiane da parte dell’Università di Torino e appena pubblicato su Scientific Reports rivela come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione in maniera differente in base alle stagioni.

L’espansione delle città è una delle principali cause del declino globale della biodiversità, ma le comunità di uccelli possono rispondere in modo sorprendentemente diverso a questa minaccia nei vari periodi dell’anno. È quanto emerge dalla ricerca “Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons”, pubblicata oggi sulla prestigiosa rivista Scientific Reports e frutto di una collaborazione tra ricercatori di diverse università italiane e straniere, sotto la guida del National Biodiversity Future Center (NBFC).

Coordinato da Riccardo Alba, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino e del Bird Lab Torino, lo studio ha analizzato come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione lungo un gradiente che va dai centri cittadini fino alle periferie rurali. La ricerca, che ha coinvolto le città italiane di Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli e Campobasso, ha adottato un approccio multi-stagionale, includendo sia il periodo riproduttivo che quello invernale, per cogliere appieno la complessità delle dinamiche ecologiche urbane. Una particolare attenzione è stata posta ai tratti funzionali delle specie – come dieta, strategia riproduttiva, comportamento sociale e modalità di nidificazione – per comprendere quali caratteristiche favoriscano o penalizzino le diverse specie in ambienti urbanizzati.

I risultati mostrano come alcune specie, definite “winners”, riescano a prosperare in città grazie alla nidificazione coloniale, un’elevata numero di covate o una lunga durata della vita. In inverno, invece, prevalgono le specie solitarie e opportuniste, dotate di una dieta generalista. Al contrario, le specie “losers” tendono ad essere insettivore, migratrici e a nidificare al suolo – caratteristiche che le rendono vulnerabili alla perdita di habitat e alle pressioni dell’ambiente urbano. Tuttavia, la maggior parte delle specie rientra nella categoria degli “urban adapters”: non completamente favorite dagli ambienti urbani, ma comunque in grado di sfruttare efficacemente i contesti con un livello intermedio di urbanizzazione. Alcune specie, inoltre, mostrano però notevoli capacità di adattamento stagionale, frequentando aree urbane in inverno ma non durante la stagione riproduttiva e viceversa.

Torino si distingue tra le grandi città del Nord Italia per la sua eccezionale estensione di aree verdi e parchi urbani, che creano un mosaico urbano capace di ospitare una notevole diversità di uccelli, inclusi quelli tipici degli ambienti forestali. I grandi parchi urbani come il Parco della Colletta, il Meisino, il Valentino e la Pellerina offrono habitat idonei a molte specie sensibili, spesso rare in altri contesti metropolitani. In alcuni di questi parchi, ad esempio, si possono osservare specie come la cincia bigia, il rampichino comune e il picchio muratore, ma anche specie più rare nidificano, come il picchio rosso minore, il picchio nero, la colombella o il lodolaio.

Un ruolo chiave è svolto anche dalla collina di Torino, che con il Parco Naturale della Collina di Superga rappresenta un importante polmone verde a ridosso della città, fungendo da serbatoio di biodiversità e da zona di nidificazione per molte specie. Inoltre, il fiume Po, con le sue fasce perifluviali alberate, agisce come un vero e proprio corridoio ecologico, facilitando gli spostamenti e il collegamento tra le aree verdi urbane e quelle naturali circostanti. Questi elementi, inclusi i grossi viali alberati della città, rendono Torino un esempio virtuoso di come le città possano contribuire concretamente alla conservazione della biodiversità, anche di specie forestali più esigenti. Allo stesso tempo, la presenza di una fauna ricca e diversificata nelle aree verdi urbane migliora la qualità della vita dei cittadini, offrendo occasioni di contatto con la natura. Così la biodiversità urbana diventa un patrimonio sociale e culturale da valorizzare.

“Lo studio – dichiara Riccardo Alba – evidenzia la straordinaria capacità degli uccelli di adattarsi a una vasta gamma di condizioni ambientali, anche all’interno di paesaggi fortemente modificati dall’uomo. Considerare le variazioni stagionali è fondamentale per comprendere pienamente le risposte ecologiche delle specie all’urbanizzazione. Questo approccio può contribuire a migliorare la pianificazione del tessuto urbano, rendendolo più sensibile alle esigenze della fauna selvatica e più efficace nel promuovere città sostenibili e ricche di biodiversità”.

Riferimenti bibliografici:

Alba, R., Marcolin, F., Assandri, G. et al., Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons, Sci Rep 15, 16181 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-00350-6

un picchio rosso minore. Foto di Carlo Caimi, CC0
un picchio rosso minore. Foto di
Carlo Caimi, CC0

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

La via italiana ai chatbot del futuro: presentata Minerva 7B, l’ultima versione del modello linguistico IA targato Sapienza, addestrato con 1.5 trilioni di parole e che alza lo standard di sicurezza degli LLM italiani

Minerva 7B stata sviluppata in ambito FAIR (Future Artificial Intelligence Research) e in collaborazione con CINECA

Roma, 26 novembre 2024 – L’eccellenza della ricerca Sapienza nel campo dell’Intelligenza artificiale: è stato annunciato oggi il rilascio di Minerva 7B, l’ultima versione della famiglia dei modelli Minerva, i Large Language Model (LLM) addestrati “da zero” per la lingua italiana.
Il nuovo modello linguistico Minerva è stato realizzato dal gruppo di ricerca Sapienza NLP (Natural Language Processing), guidato dal Prof. Roberto Navigli, all’interno di FAIR (Future Artificial Intelligence Research), il progetto che realizza la strategia nazionale sull’intelligenza artificiale grazie ai fondi PNRR, e in collaborazione con CINECA che ha reso disponibile il supercomputer Leonardo.
Alla presentazione la Rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, il Presidente FAIR Giuseppe De Pietro, la Direttrice Generale CINECA Alessandra Poggiani e il docente alla guida del gruppo Sapienza NLP Roberto Navigli, che ha illustrato le caratteristiche della nuova versione, con il supporto di una demo.

Minerva 7B è una versione più potente di quella messa in rete lo scorso aprile, forte di 7 miliardi di parametri contro i 3 della precedente, e quindi con maggior capacità di memorizzazione e rielaborazione dei testi, sempre basata su fonti aperte di dati, elemento distintivo nel panorama degli LLM.
Dopo oltre 5 mesi di lavoro incessante, il team di ricerca è approdato a questa nuova versione per un totale di oltre 2 trilioni (migliaia di miliardi) di token, corrispondenti a circa 1,5 trilioni di parole. Mediante un nuovo mix di istruzioni create appositamente in italiano, Minerva 7B è stato sottoposto al cosiddetto processo di instruction tuning, una tecnica avanzata di addestramento per i modelli di intelligenza artificiale che mira a fornire la capacità di seguire le istruzioni e di colloquiare con l’utente in italiano.

Grazie appunto all’instruction tuning Minerva è in grado di interpretare meglio le richieste e di generare risposte più pertinenti, coerenti e adattate al contesto, evitando per quanto possibile le cosiddette allucinazioni e la generazione di contenuti di tipo volgare, sessuale, discriminatorio e sensibile. Si tratta di un tema cruciale che riguarda tutti i chatbot, particolarmente sentito dai ricercatori del team della Sapienza.
Il Prof. Navigli ha mostrato durante la demo diverse conversazioni con il modello, tra cui la richiesta di scrivere una favola, di tradurre e riassumere un breve testo, e ha mostrato la robustezza del modello a richieste che potrebbero generare contenuti sensibili o discriminatori.

“Il nostro impegno è continuare a lavorare per massimizzare la sicurezza e gli aspetti conversazionali in una sorta di laboratorio permanente, con la consapevolezza scientifica che il rilascio di oggi non è un traguardo ma un punto di partenza – sottolinea Roberto Navigli – La scarsità di dati di qualità in italiano, sia per il preaddestramento linguistico che per le conversazioni e le istruzioni, è uno dei temi chiave che intendiamo affrontare nei prossimi mesi. In quest’ottica auspichiamo che il progetto possa crescere aprendosi a nuove collaborazioni, coinvolgendo ad esempio il mondo editoriale ed enti pubblici per l’impiego di Minerva in ambiti istituzionali. Minerva è il primo – e a oggi unico – modello completamente aperto, che si presta a essere utilizzato dalle Pubbliche Amministrazioni, proprio per la trasparenza delle fonti e del processo di addestramento. Inoltre sono molto orgoglioso del trasferimento tecnologico che si realizza grazie a Babelscape – spin-off di successo di Sapienza – che sta lavorando alacremente a versioni industriali più potenti e sofisticate dell’LLM e alle sue applicazioni.”


Dichiara Antonella Polimeni, Rettrice di Sapienza Università di Roma:

“La Sapienza ha una lunga tradizione di eccellenza nell’ambito della ricerca tecnologica e scientifica. Negli ultimi anni, abbiamo rafforzato il nostro impegno nello sviluppo di competenze avanzate in settori strategici come l’intelligenza artificiale, promuovendo un approccio interdisciplinare che combina il rigore accademico con una visione orientata all’innovazione. Con il progetto Minerva, confermiamo la nostra missione: essere un motore di innovazione e progresso al servizio della società e del futuro.”


Dichiara Giuseppe De Pietro, Presidente di FAIR – Future AI Research:

“La realizzazione di Minerva, oltre a costituire un risultato scientifico di indubbio valore, rappresenta un’esperienza di successo del modello di cooperazione tra la Fondazione ed i propri soci. FAIR, infatti, ha tra i suoi compiti quello di  supportare le attività e i prodotti di eccellenza della ricerca svolta all’interno del partenariato, come Minerva e molti altri. Crediamo davvero che Minerva abbia tutte le potenzialità per diventare il Large Language Model di riferimento per la Pubblica Amministrazione e lavoreremo come Fondazione per valorizzarlo.”


Dichiara Alessandra Poggiani, Direttrice generale di Cineca:

“Siamo felici di mettere le nostre competenze e l’infrastruttura a disposizione di un progetto di ricerca d’avanguardia nel campo dell’intelligenza artificiale, che offre significativi potenziali benefici a tutto il sistema Paese – in particolare alla sua pubblica amministrazione. È un progetto che interpreta bene la vocazione di Cineca a creare le condizioni di contesto ideali verso una più compiuta e ampia cittadinanza digitale.”

Il modello è accessibile al pubblico all’indirizzo https://minerva-llm.org e sarà possibile scaricarlo nelle settimane successive. Questa fase di test permetterà di svolgere un ulteriore affinamento sulla base delle conversazioni effettuate nei prossimi giorni.

Il team che ha lavorato allo sviluppo di Minerva 7B include ben 15 ricercatori e dottorandi (in ordine alfabetico): Edoardo Barba, Tommaso Bonomo, Simone Conia, Pere-Lluís Huguet Cabot, Federico Martelli, Luca Moroni, Roberto Navigli, Riccardo Orlando, Alessandro Scirè, Simone Tedeschi; hanno anche contribuito Stefan Bejgu, Fabrizio Brignone, Francesco Cecconi, Ciro Porcaro, Simone Stirpe. Si ringraziano anche Giuseppe Fiameni (NVIDIA) e Sergio Orlandini (Cineca).

Simulare l’attività cerebrale con l’intelligenza artificiale
Immagine di Ahmed Gad

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE RESTITUISCONO AL NOBILE COLLEGIO CHIMICO FARMACEUTICO DI ROMA UN TESTO RARO DEL XVII SECOLO, UNIVERSALE THEATRO FARMACEUTICO DI ANTONIO DE SGOBBIS

Un importante testo raro del 1682 “Universale Theatro Farmaceutico” dell’autore Antonio De Sgobbis, farmacista veneziano, è stato recuperato dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza. Il bene era stato sottratto nell’anno 1985 dal Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma e da allora se ne erano perse le tracce, fino alla sua recente comparsa nel mercato antiquario.

La ricomparsa dell’opera non è passata inosservata al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, che quotidianamente svolge attività preventiva di controllo e monitoraggio del settore, avvalendosi del supporto tecnologico della Banca Dati dei Beni Culturali Illecitamente Sottratti.

Il riscontro positivo scaturito dalla verifica e la successiva attività d’indagine condotta dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como, hanno permesso il recupero dell’opera e la restituzione all’ente di provenienza.

L’Autore, Antonio De Sgobbis, nato e cresciuto a Montagnana intorno al 1600, è stato un importante speziale della Serenissima, diventato famoso farmacista a Venezia dove possedeva una spezieria all’insegna dello struzzo situata nella centralissima zona delle Mercerie.

La sua farmacia divenne un centro di sperimentazione della chimica farmaceutica veneziana che, grazie alla sua passione e curiosità, diede origine alla pubblicazione di diversi testi, fra i quali anche l’Universale Theatro Farmaceutico.

Il volume, che rese l’autore famoso in tutta Europa e di cui si conoscono pochissime copie, rappresenta un’opera strutturata e dettagliata molto rara per l’epoca, una specie di prototipo enciclopedico piuttosto che un manuale di uso pratico da riporre e consultare in farmacia.

Il testo, in folio, ricchissimo di riferimenti bibliografici che per la loro ampiezza e ponderatezza aiutano a comprendere l’arte farmaceutica seicentesca, si compone di più di 800 pagine, corredate da tavole e tabelle di considerevole valore e dal ritratto dell’autore insieme a quello dei colleghi Giorgio Melichio e Alberto Stecchini.

Inoltre, a rendere particolarmente pregevole tale opera fu anche la scelta dell’editore, la Stamperia Baglioni di Venezia divenuta molto famosa già nel 1607 per essere stata scelta da Galileo Galilei per la sua Difesa contro le accuse di Baldassare Capra e il Sidereus Nuncius. Un’opera, quindi, che nella sua monumentalità resta una testimonianza unica e originale dell’appassionato esercizio della farmacopea privata a Venezia che, dopo ben 39 anni e grazie all’attività del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, è potuta tornare al Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma.

Testo e immagini  dall’Ufficio Stampa Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale sull’Operazione Pandora VIII

Protesi e mani bioniche: se non assomigliano a mani umane funzionano meglio

Un nuovo studio pubblicato su iScience e condotto dal laboratorio di Neuroscienze Applicate e Tecnologie della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, in collaborazione con Sapienza Università di Roma e l’Università di Roma Tor Vergata, ha dimostrato che una protesi non antropomorfa è più funzionale e più facilmente accolta rispetto ad una protesi che mima l’estetica umana.

Se una mano bionica non sembra umana, l’utente la riesce ad usare meglio, migliorando anche la sua capacità di identificarla come propria (processo noto come incorporazione o embodiment). Questo è il risultato dello studio, pubblicato sulla rivista scientifica iScience e condotto dal laboratorio di Neuroscienze Applicate e Tecnologie della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, in collaborazione con Sapienza Università di Roma e Università di Roma Tor Vergata.

I ricercatori hanno utilizzato la realtà virtuale per valutare la destrezza nell’esecuzione di un compito motorio svolto usando due diversi effettori: una mano virtuale che riproduce le sembianze reali di un arto e una protesi bionica simile ad un paio di pinzette. Lo studio, condotto su individui sani, ha dimostrato come i partecipanti siano più precisi e più bravi a svolgere il compito richiesto, che consisteva nello scoppiare pizzicandole delle bolle virtuali di un colore specifico.

L’équipe di ricerca, ha anche proseguito l’esperimento misurando il livello di incorporazione: la persona riceveva una stimolazione tattile su un dito della mano reale e, contemporaneamente, osservava uno stimolo visivo che compariva su un dito virtuale che poteva essere o meno corrispondente al dito reale.

Quando la posizione dello stimolo tattile e di quello visivo coincideva, i partecipanti erano più veloci nell’identificare il dito sul quale avevano sentito la vibrazione. In caso contrario c’era un aumento dei tempi di risposta dovuto alla discrepanza di localizzazione tra i due stimoli.

“Questo avviene quando il cervello elabora come proprio l’effttore che vede nella realtà virtuale. Se l’embodiment è avvenuto il soggetto impiega più tempo per rispondere perché più esposto agli effetti dell’incongruenza tra stimolo tattile e visivo” afferma Ottavia Maddaluno, una delle ricercatrici.

I risultati dell’esperimento hanno mostrato che i partecipanti incorporano meglio (o allo stesso livello) la mano bionica rispetto a quella antropomorfa. Per spiegare la maggiore incorporazione dell’arto bionico potremmo ricorrere alla teoria dell’“uncanny valley” o “valle perturbante”.

“Secondo questa teoria – prosegue Maddaluno – quando i robot umanoidi raggiungono un grado di somiglianza troppo alto con un vero essere umano, il cervello riconosce l’umanoide come strano ed estraneo, complicando il processo di riconoscimento”.

Lo stimolo tattile dell’esperimento, progettato per permettere una esperienza vivida e chiaramente identificabile, è stato messo a punto presso il gruppo di Fisiologia del Dipartimento di Medicina dei sistemi dell’Università di Roma Tor Vergata.

“Per somministrare uno stimolo tattile che sia preciso e sincrono con gli stimoli visivi – spiega Alessandro Moscatelli dell’Università di Roma Tor Vergata – sono stati appositamente realizzati dispositivi indossabili (wearable haptics): all’interno del dispositivo sono stati posizionati degli attuatori di tipo “voice coil” che hanno consentito di modulare l’ampiezza e la frequenza dello stimolo vibrotattile”.

Secondo le conclusioni dell’equipe di ricerca, il cervello trova più semplice utilizzare la pinza bionica rispetto alla mano virtuale. Nel caso della mano, infatti, il cervello si trova a confrontarsi con un oggetto che produce una stimolazione molto complessa, mentre la pinza bionica è funzionalmente simile ad una mano e può riprodurne i movimenti (ad esempio la chiusura e apertura di indice e pollice) in modo più semplice. La maggiore semplicità si traduce in una minore necessità di elaborazione da parte del cervello e, quindi, in maggiore destrezza e facilità d’uso. Questa evidenza potrà aprire la strada a nuove concezioni nello sviluppo di protesi robotiche.

“Nell’ambito della neuroriabilitazione stiamo già applicando le conoscenze di questo studio per migliorare le protesi oggi disponibili per persone che, a causa di un’amputazione non hanno un arto”,

spiega Viviana Betti del Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma e direttrice del laboratorio di ricerca presso IRCCS Fondazione Santa Lucia.

“Le evidenze con i pazienti che stiamo conducendo confermano quanto emerso su persone sane con la realtà virtuale e saranno oggetto di future pubblicazioni.”

 

Lo studio è stato finanziato dallo European Research Council progetto HANDmade (G.A. n. 759651) attribuito a Viviana Betti.

 

 

Riferimenti bibliografici:

Rewiring the evolution of the human hand: How the embodiment of a virtual bionic tool improves behavior

M. Marucci, O. Maddaluno, C. P. Ryan, C. Perciballi, S. Vasta, S. Ciotti, A. Moscatelli, V. Betti

iScience – doi.org/10.1016/j.isci.2024.109937

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia

Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza e dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma e pubblicato su Nature Communications ha individuato in un farmaco impiegato in terapie sperimentali contro il cancro un possibile approccio terapeutico per il trattamento della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è una malattia neurodegenerativa causata dalla progressiva perdita di motoneuroni, le cellule predisposte al controllo dei movimenti volontari dei muscoli.  A oggi non esiste una cura efficace per questa rara patologia.

In un recente studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma e dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Roma, pubblicato sulla rivista Nature Communications e finanziato da un progetto ERC-Synergy, è stato scoperto che un farmaco già impiegato in terapie sperimentali contro il cancro potrebbe avere effetti benefici anche sulla SLA, aprendo nuove importanti prospettive terapeutiche.

I ricercatori, coordinati da Irene Bozzoni del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e del centro CLNS2 di IIT di Roma, sono partiti dallo studio di specifiche condizioni che determinano la formazione nelle cellule di strutture chiamate granuli da stress. La funzione di tali strutture è quella di proteggere temporaneamente le molecole di RNA e di proteine fino alla risoluzione dello stato di stress. Circa il 10% dei casi totali di SLA sono causati da mutazioni in proteine che in molti casi sono componenti dei granuli da stress. Queste alterazioni provocano la produzione di proteine aberranti che trasformano i granuli in aggregati tossici per i motoneuroni. In particolare nella SLA, così come in altre malattie neurodegenerative, ciò che risulta alterato sono il numero, la composizione e le dinamiche di formazione e dissociazione di questi granuli.

Il gruppo di ricercatori ha scoperto che una specifica modifica chimica dell’RNA, nota come N6-metiladenosina (m6A), ha un ruolo cruciale nell’alterazione delle dinamiche di formazione e dissociazione dei granuli in forme particolarmente aggressive di SLA: la malattia è caratterizzata da livelli di m6A aumentati e il loro ripristino a livelli fisiologici è in grado di ristabilire le normali proprietà dei granuli da stress.

“Siamo riusciti a diminuire i livelli di m6A utilizzando una molecola (STM2457) attualmente impiegata nella sperimentazione clinica per la cura di tumori leucemici – spiega Irene Bozzoni – Questa scoperta apre alla possibilità di utilizzarla anche come nuovo approccio terapeutico per il trattamento della SLA”.

I risultati dello studio rappresentano un prezioso contributo per la comprensione dei meccanismi cellulari alla base della patologia e, soprattutto, individuano nelle modifiche dell’RNA promettenti target terapeutici per contrastare la SLA.

Riferimenti bibliografici:

M6A reduction relieves FUS-associated ALS granules – Di Timoteo et al.

Nature Communications – DOI: 10.1038/s41467-024-49416-5

microscopio cellule invecchiamento
Sclerosi Laterale Amiotrofica – SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia. Foto PublicDomainPictures

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma