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Proteine da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa rivoluzionano gli studi evoluzionistici

Uno studio innovativo che sarà pubblicato in “Nature” annuncia il recupero di sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa, spingendo indietro di milioni di anni i confini della ricerca sulle proteine antiche. Questo risultato senza precedenti apre una nuova frontiera per la paleoproteomica, promettendo di svelare segreti dell’evoluzione risalenti a tempi remoti, ben oltre la portata del DNA antico.

Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature” il 9 luglio 2025, descrive l’estrazione e il sequenziamento di antiche proteine dello smalto da un dente di rinoceronte fossilizzato risalente a 21-24 milioni di anni fa, risalente al Miocene inferiore.

Questa straordinaria impresa, ottenuta a partire da un fossile rinvenuto nell’Alto Artico canadese, estende di ben dieci volte la scala temporale delle sequenze proteiche recuperabili e informative sull’evoluzione rispetto al più antico DNA conosciuto.

Questa ricerca segna un momento cruciale per la paleoproteomica, lo studio delle proteine antiche. Sebbene proteine antiche siano state trovate in fossili del Miocene medio-superiore (circa gli ultimi 10 milioni di anni), l’ottenimento di sequenze sufficientemente dettagliate per ricostruzioni robuste delle relazioni evolutive era precedentemente limitato a campioni non più vecchi di 4 milioni di anni. Questo nuovo studio amplia significativamente tale finestra temporale, dimostrando lo straordinario potenziale delle proteine di persistere su vaste scale temporali geologiche nelle giuste condizioni.

Il progetto è stato guidato dal Dott. Ryan Sinclair Paterson e diretto dal Prof. Enrico Cappellini dell’Università di Copenaghen. All’interno di questo progetto, l’apporto del Dott. Gabriele Scorrano (Università di Tor Vergata), del Prof. Raffaele Sardella (Dipartimento di Scienze della Terra, Sapienza Università di Roma) e del Dott. Luca Bellucci (Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze) è stato fondamentale: hanno fornito e analizzato un esemplare di dente di rinoceronte di circa 400.000 anni fa, proveniente dal sito archeo-paleontologico di Fontana Ranuccio (Lazio, provincia di Frosinone).

In questo sito, insieme a una ricca fauna, sono stati rinvenuti alcuni tra i più antichi reperti del genere Homo in Italia. Il reperto ha funzionato da riferimento intermedio tra i campioni più recenti (esemplari medievali) e quello molto più antico analizzato in questo studio, offrendo un confronto diretto sulla conservazione proteica nel tempo.

Vista del Cratere di Haughton sull'isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del "deserto polare" hanno contribuito a preservare l'antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman
Vista del Cratere di Haughton sull’isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del “deserto polare” hanno contribuito a preservare l’antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman

Riferimenti bibliografici:

Paterson, R. S., Mackie, M., Capobianco, A., Heckeberg, N. S., Fraser, D., Demarchi, B., Munir, F., Patramanis, I., Ramos-Madrigal, J., Liu, S., Ramsøe, A. D., Dickinson, M. R., Baldreki, C., Gilbert, M., Sardella, R., Bellucci, L., Scorrano, G., Leonardi, M., Manica, A., Racimo, F., Willerslev, E., Penkman, K. E. H., Olsen, J. V., MacPhee, R. D. E., Rybczynski, N., Höhna, S., Cappellini, E., Phylogenetically informative proteins from an Early Miocene rhinocerotid. Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09231-4

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il “codice a barre” dei cromosomi: una nuova chiave per leggere il genoma umano; dal motivo centromerico alla mappa di centenia

I risultati di una ricerca della Sapienza Università di Roma hanno svelato la struttura organizzata dei centromeri, le regioni centrali dei cromosomi finora ritenute indecifrabili. Pubblicati sulla rivista “Science”, i dati offrono nuovi strumenti per lo studio dei tumori e delle malattie genetiche.

Ogni essere vivente cresce e si riproduce attraverso numerose divisioni delle proprie cellule. Affinché tale processo avvenga correttamente e senza complicazioni, è necessario che prima la cellula copi e organizzi precisamente le istruzioni genetiche che si trovano nel DNA.

Nella trasmissione delle informazioni ha un ruolo importante il centromero, ovvero la parte centrale di ogni cromosoma, costituito da due cromatidi che proprio lì si restringono. Il centromero, conosciuto anche come costrizione primaria, è costituito da DNA altamente ripetuto, cioè da sequenze di nucleotidi che si ripetono una di seguito all’altra molte volte.

In uno studio diretto da Simona Giunta, del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, il suo gruppo ha analizzato questa regione specifica del cromosoma, che da tempo si credeva costituita da un agglomerato oscuro di DNA. I ricercatori hanno scoperto che in realtà ogni centromero è portatore di un’organizzazione specifica per ogni cromosoma. I risultati, pubblicati sulla rivista “Science”, hanno permesso di indicizzare queste sequenze complesse, aprendo la strada a un confronto preciso tra individui e insorgenza di patologie specifiche.

“Utilizzando nuove tecnologie di sequenziamento e algoritmi computazionali – spiega Simona Giunta, docente presso la Sapienza e direttrice del laboratorio Giunta Lab – siamo riusciti non solo a leggere queste sequenze per la prima volta, ma abbiamo anche scoperto che ogni cromosoma possiede un proprio schema unico, come una sorta di codice a barre, che si dimostra coerente anche osservandolo in persone diverse”.

In particolare, i ricercatori hanno scoperto che il motivo centromerico – una sequenza di DNA originariamente considerata confinata al centromero – si trova anche al di fuori di esso, distribuito in modo conservato e organizzato lungo i bracci dei cromosomi. Come la sintenia che usa la posizione dei geni lungo il cromosoma, la specifica organizzazione di questo motivo, definito “centenia” dai ricercatori, permette di generare codici a barre specifici per ogni cromosoma.

La mappa di centenia umana fornisce uno strumento fondamentale per studiare e confrontare la struttura genomica ad alta risoluzione, comprese di quelle regioni – come i centromeri e altri elementi ripetitivi – che finora erano rimaste in gran parte escluse dalle analisi genomiche classiche.

“Proprio come si può scansionare un codice a barre per ottenere informazioni su un prodotto – specifica Luca Corda, primo autore dell’articolo e dottorando in Genetica e Biologia Molecolare alla Sapienza – sarà in futuro possibile scansionare i codici dei centromeri per conoscerne l’evoluzione e comprenderne il comportamento in patologie specifiche”.

Lo studio si inserisce in un progetto più ampio, sostenuto dalla Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro e, più recentemente, dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC), volto a indagare il ruolo dei centromeri nel cancro e nelle malattie genetiche. La ricerca nel campo della genetica sta subendo un cambiamento di paradigma: non ci si interessa più solo dei geni, ma anche delle regioni complesse e ripetitive del genoma – come i centromeri – rimasti finora ai margini.

“Queste regioni stanno diventando finalmente esplorabili, con strumenti nuovi e portando nuove domande che saranno al centro della ricerca del futuro”, afferma Simona Giunta. Comprendere i centromeri rappresenta una nuova frontiera per rivelare aspetti ancora inesplorati del nostro patrimonio genetico.

Riferimenti bibliografici:

Luca Corda, Simona Giunta, Chromosome-specific centromeric patterns define the centeny map of the human genome, Science 389, ads3484 (2025), DOI:10.1126/science.ads3484

microscopio Progeria trattamento leucemia acuta linfoblastica Philadelphia-positiva
Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

COME GLI UCCELLI SI ADATTANO ALL’URBANIZZAZIONE DEI TERRITORI: TORINO È UN RIFUGIO VERDE PER I VOLATILI FORESTALI

Uno studio condotto in sei città italiane da parte dell’Università di Torino e appena pubblicato su Scientific Reports rivela come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione in maniera differente in base alle stagioni.

L’espansione delle città è una delle principali cause del declino globale della biodiversità, ma le comunità di uccelli possono rispondere in modo sorprendentemente diverso a questa minaccia nei vari periodi dell’anno. È quanto emerge dalla ricerca “Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons”, pubblicata oggi sulla prestigiosa rivista Scientific Reports e frutto di una collaborazione tra ricercatori di diverse università italiane e straniere, sotto la guida del National Biodiversity Future Center (NBFC).

Coordinato da Riccardo Alba, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino e del Bird Lab Torino, lo studio ha analizzato come le specie di uccelli rispondano all’urbanizzazione lungo un gradiente che va dai centri cittadini fino alle periferie rurali. La ricerca, che ha coinvolto le città italiane di Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli e Campobasso, ha adottato un approccio multi-stagionale, includendo sia il periodo riproduttivo che quello invernale, per cogliere appieno la complessità delle dinamiche ecologiche urbane. Una particolare attenzione è stata posta ai tratti funzionali delle specie – come dieta, strategia riproduttiva, comportamento sociale e modalità di nidificazione – per comprendere quali caratteristiche favoriscano o penalizzino le diverse specie in ambienti urbanizzati.

I risultati mostrano come alcune specie, definite “winners”, riescano a prosperare in città grazie alla nidificazione coloniale, un’elevata numero di covate o una lunga durata della vita. In inverno, invece, prevalgono le specie solitarie e opportuniste, dotate di una dieta generalista. Al contrario, le specie “losers” tendono ad essere insettivore, migratrici e a nidificare al suolo – caratteristiche che le rendono vulnerabili alla perdita di habitat e alle pressioni dell’ambiente urbano. Tuttavia, la maggior parte delle specie rientra nella categoria degli “urban adapters”: non completamente favorite dagli ambienti urbani, ma comunque in grado di sfruttare efficacemente i contesti con un livello intermedio di urbanizzazione. Alcune specie, inoltre, mostrano però notevoli capacità di adattamento stagionale, frequentando aree urbane in inverno ma non durante la stagione riproduttiva e viceversa.

Torino si distingue tra le grandi città del Nord Italia per la sua eccezionale estensione di aree verdi e parchi urbani, che creano un mosaico urbano capace di ospitare una notevole diversità di uccelli, inclusi quelli tipici degli ambienti forestali. I grandi parchi urbani come il Parco della Colletta, il Meisino, il Valentino e la Pellerina offrono habitat idonei a molte specie sensibili, spesso rare in altri contesti metropolitani. In alcuni di questi parchi, ad esempio, si possono osservare specie come la cincia bigia, il rampichino comune e il picchio muratore, ma anche specie più rare nidificano, come il picchio rosso minore, il picchio nero, la colombella o il lodolaio.

Un ruolo chiave è svolto anche dalla collina di Torino, che con il Parco Naturale della Collina di Superga rappresenta un importante polmone verde a ridosso della città, fungendo da serbatoio di biodiversità e da zona di nidificazione per molte specie. Inoltre, il fiume Po, con le sue fasce perifluviali alberate, agisce come un vero e proprio corridoio ecologico, facilitando gli spostamenti e il collegamento tra le aree verdi urbane e quelle naturali circostanti. Questi elementi, inclusi i grossi viali alberati della città, rendono Torino un esempio virtuoso di come le città possano contribuire concretamente alla conservazione della biodiversità, anche di specie forestali più esigenti. Allo stesso tempo, la presenza di una fauna ricca e diversificata nelle aree verdi urbane migliora la qualità della vita dei cittadini, offrendo occasioni di contatto con la natura. Così la biodiversità urbana diventa un patrimonio sociale e culturale da valorizzare.

“Lo studio – dichiara Riccardo Alba – evidenzia la straordinaria capacità degli uccelli di adattarsi a una vasta gamma di condizioni ambientali, anche all’interno di paesaggi fortemente modificati dall’uomo. Considerare le variazioni stagionali è fondamentale per comprendere pienamente le risposte ecologiche delle specie all’urbanizzazione. Questo approccio può contribuire a migliorare la pianificazione del tessuto urbano, rendendolo più sensibile alle esigenze della fauna selvatica e più efficace nel promuovere città sostenibili e ricche di biodiversità”.

Riferimenti bibliografici:

Alba, R., Marcolin, F., Assandri, G. et al., Different traits shape winners and losers in urban bird assemblages across seasons, Sci Rep 15, 16181 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-025-00350-6

un picchio rosso minore. Foto di Carlo Caimi, CC0
un picchio rosso minore. Foto di
Carlo Caimi, CC0

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

La via italiana ai chatbot del futuro: presentata Minerva 7B, l’ultima versione del modello linguistico IA targato Sapienza, addestrato con 1.5 trilioni di parole e che alza lo standard di sicurezza degli LLM italiani

Minerva 7B stata sviluppata in ambito FAIR (Future Artificial Intelligence Research) e in collaborazione con CINECA

Roma, 26 novembre 2024 – L’eccellenza della ricerca Sapienza nel campo dell’Intelligenza artificiale: è stato annunciato oggi il rilascio di Minerva 7B, l’ultima versione della famiglia dei modelli Minerva, i Large Language Model (LLM) addestrati “da zero” per la lingua italiana.
Il nuovo modello linguistico Minerva è stato realizzato dal gruppo di ricerca Sapienza NLP (Natural Language Processing), guidato dal Prof. Roberto Navigli, all’interno di FAIR (Future Artificial Intelligence Research), il progetto che realizza la strategia nazionale sull’intelligenza artificiale grazie ai fondi PNRR, e in collaborazione con CINECA che ha reso disponibile il supercomputer Leonardo.
Alla presentazione la Rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, il Presidente FAIR Giuseppe De Pietro, la Direttrice Generale CINECA Alessandra Poggiani e il docente alla guida del gruppo Sapienza NLP Roberto Navigli, che ha illustrato le caratteristiche della nuova versione, con il supporto di una demo.

Minerva 7B è una versione più potente di quella messa in rete lo scorso aprile, forte di 7 miliardi di parametri contro i 3 della precedente, e quindi con maggior capacità di memorizzazione e rielaborazione dei testi, sempre basata su fonti aperte di dati, elemento distintivo nel panorama degli LLM.
Dopo oltre 5 mesi di lavoro incessante, il team di ricerca è approdato a questa nuova versione per un totale di oltre 2 trilioni (migliaia di miliardi) di token, corrispondenti a circa 1,5 trilioni di parole. Mediante un nuovo mix di istruzioni create appositamente in italiano, Minerva 7B è stato sottoposto al cosiddetto processo di instruction tuning, una tecnica avanzata di addestramento per i modelli di intelligenza artificiale che mira a fornire la capacità di seguire le istruzioni e di colloquiare con l’utente in italiano.

Grazie appunto all’instruction tuning Minerva è in grado di interpretare meglio le richieste e di generare risposte più pertinenti, coerenti e adattate al contesto, evitando per quanto possibile le cosiddette allucinazioni e la generazione di contenuti di tipo volgare, sessuale, discriminatorio e sensibile. Si tratta di un tema cruciale che riguarda tutti i chatbot, particolarmente sentito dai ricercatori del team della Sapienza.
Il Prof. Navigli ha mostrato durante la demo diverse conversazioni con il modello, tra cui la richiesta di scrivere una favola, di tradurre e riassumere un breve testo, e ha mostrato la robustezza del modello a richieste che potrebbero generare contenuti sensibili o discriminatori.

“Il nostro impegno è continuare a lavorare per massimizzare la sicurezza e gli aspetti conversazionali in una sorta di laboratorio permanente, con la consapevolezza scientifica che il rilascio di oggi non è un traguardo ma un punto di partenza – sottolinea Roberto Navigli – La scarsità di dati di qualità in italiano, sia per il preaddestramento linguistico che per le conversazioni e le istruzioni, è uno dei temi chiave che intendiamo affrontare nei prossimi mesi. In quest’ottica auspichiamo che il progetto possa crescere aprendosi a nuove collaborazioni, coinvolgendo ad esempio il mondo editoriale ed enti pubblici per l’impiego di Minerva in ambiti istituzionali. Minerva è il primo – e a oggi unico – modello completamente aperto, che si presta a essere utilizzato dalle Pubbliche Amministrazioni, proprio per la trasparenza delle fonti e del processo di addestramento. Inoltre sono molto orgoglioso del trasferimento tecnologico che si realizza grazie a Babelscape – spin-off di successo di Sapienza – che sta lavorando alacremente a versioni industriali più potenti e sofisticate dell’LLM e alle sue applicazioni.”


Dichiara Antonella Polimeni, Rettrice di Sapienza Università di Roma:

“La Sapienza ha una lunga tradizione di eccellenza nell’ambito della ricerca tecnologica e scientifica. Negli ultimi anni, abbiamo rafforzato il nostro impegno nello sviluppo di competenze avanzate in settori strategici come l’intelligenza artificiale, promuovendo un approccio interdisciplinare che combina il rigore accademico con una visione orientata all’innovazione. Con il progetto Minerva, confermiamo la nostra missione: essere un motore di innovazione e progresso al servizio della società e del futuro.”


Dichiara Giuseppe De Pietro, Presidente di FAIR – Future AI Research:

“La realizzazione di Minerva, oltre a costituire un risultato scientifico di indubbio valore, rappresenta un’esperienza di successo del modello di cooperazione tra la Fondazione ed i propri soci. FAIR, infatti, ha tra i suoi compiti quello di  supportare le attività e i prodotti di eccellenza della ricerca svolta all’interno del partenariato, come Minerva e molti altri. Crediamo davvero che Minerva abbia tutte le potenzialità per diventare il Large Language Model di riferimento per la Pubblica Amministrazione e lavoreremo come Fondazione per valorizzarlo.”


Dichiara Alessandra Poggiani, Direttrice generale di Cineca:

“Siamo felici di mettere le nostre competenze e l’infrastruttura a disposizione di un progetto di ricerca d’avanguardia nel campo dell’intelligenza artificiale, che offre significativi potenziali benefici a tutto il sistema Paese – in particolare alla sua pubblica amministrazione. È un progetto che interpreta bene la vocazione di Cineca a creare le condizioni di contesto ideali verso una più compiuta e ampia cittadinanza digitale.”

Il modello è accessibile al pubblico all’indirizzo https://minerva-llm.org e sarà possibile scaricarlo nelle settimane successive. Questa fase di test permetterà di svolgere un ulteriore affinamento sulla base delle conversazioni effettuate nei prossimi giorni.

Il team che ha lavorato allo sviluppo di Minerva 7B include ben 15 ricercatori e dottorandi (in ordine alfabetico): Edoardo Barba, Tommaso Bonomo, Simone Conia, Pere-Lluís Huguet Cabot, Federico Martelli, Luca Moroni, Roberto Navigli, Riccardo Orlando, Alessandro Scirè, Simone Tedeschi; hanno anche contribuito Stefan Bejgu, Fabrizio Brignone, Francesco Cecconi, Ciro Porcaro, Simone Stirpe. Si ringraziano anche Giuseppe Fiameni (NVIDIA) e Sergio Orlandini (Cineca).

Simulare l’attività cerebrale con l’intelligenza artificiale
Immagine di Ahmed Gad

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE RESTITUISCONO AL NOBILE COLLEGIO CHIMICO FARMACEUTICO DI ROMA UN TESTO RARO DEL XVII SECOLO, UNIVERSALE THEATRO FARMACEUTICO DI ANTONIO DE SGOBBIS

Un importante testo raro del 1682 “Universale Theatro Farmaceutico” dell’autore Antonio De Sgobbis, farmacista veneziano, è stato recuperato dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza. Il bene era stato sottratto nell’anno 1985 dal Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma e da allora se ne erano perse le tracce, fino alla sua recente comparsa nel mercato antiquario.

La ricomparsa dell’opera non è passata inosservata al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, che quotidianamente svolge attività preventiva di controllo e monitoraggio del settore, avvalendosi del supporto tecnologico della Banca Dati dei Beni Culturali Illecitamente Sottratti.

Il riscontro positivo scaturito dalla verifica e la successiva attività d’indagine condotta dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como, hanno permesso il recupero dell’opera e la restituzione all’ente di provenienza.

L’Autore, Antonio De Sgobbis, nato e cresciuto a Montagnana intorno al 1600, è stato un importante speziale della Serenissima, diventato famoso farmacista a Venezia dove possedeva una spezieria all’insegna dello struzzo situata nella centralissima zona delle Mercerie.

La sua farmacia divenne un centro di sperimentazione della chimica farmaceutica veneziana che, grazie alla sua passione e curiosità, diede origine alla pubblicazione di diversi testi, fra i quali anche l’Universale Theatro Farmaceutico.

Il volume, che rese l’autore famoso in tutta Europa e di cui si conoscono pochissime copie, rappresenta un’opera strutturata e dettagliata molto rara per l’epoca, una specie di prototipo enciclopedico piuttosto che un manuale di uso pratico da riporre e consultare in farmacia.

Il testo, in folio, ricchissimo di riferimenti bibliografici che per la loro ampiezza e ponderatezza aiutano a comprendere l’arte farmaceutica seicentesca, si compone di più di 800 pagine, corredate da tavole e tabelle di considerevole valore e dal ritratto dell’autore insieme a quello dei colleghi Giorgio Melichio e Alberto Stecchini.

Inoltre, a rendere particolarmente pregevole tale opera fu anche la scelta dell’editore, la Stamperia Baglioni di Venezia divenuta molto famosa già nel 1607 per essere stata scelta da Galileo Galilei per la sua Difesa contro le accuse di Baldassare Capra e il Sidereus Nuncius. Un’opera, quindi, che nella sua monumentalità resta una testimonianza unica e originale dell’appassionato esercizio della farmacopea privata a Venezia che, dopo ben 39 anni e grazie all’attività del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, è potuta tornare al Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma.

Testo e immagini  dall’Ufficio Stampa Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale sull’Operazione Pandora VIII

Protesi e mani bioniche: se non assomigliano a mani umane funzionano meglio

Un nuovo studio pubblicato su iScience e condotto dal laboratorio di Neuroscienze Applicate e Tecnologie della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, in collaborazione con Sapienza Università di Roma e l’Università di Roma Tor Vergata, ha dimostrato che una protesi non antropomorfa è più funzionale e più facilmente accolta rispetto ad una protesi che mima l’estetica umana.

Se una mano bionica non sembra umana, l’utente la riesce ad usare meglio, migliorando anche la sua capacità di identificarla come propria (processo noto come incorporazione o embodiment). Questo è il risultato dello studio, pubblicato sulla rivista scientifica iScience e condotto dal laboratorio di Neuroscienze Applicate e Tecnologie della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, in collaborazione con Sapienza Università di Roma e Università di Roma Tor Vergata.

I ricercatori hanno utilizzato la realtà virtuale per valutare la destrezza nell’esecuzione di un compito motorio svolto usando due diversi effettori: una mano virtuale che riproduce le sembianze reali di un arto e una protesi bionica simile ad un paio di pinzette. Lo studio, condotto su individui sani, ha dimostrato come i partecipanti siano più precisi e più bravi a svolgere il compito richiesto, che consisteva nello scoppiare pizzicandole delle bolle virtuali di un colore specifico.

L’équipe di ricerca, ha anche proseguito l’esperimento misurando il livello di incorporazione: la persona riceveva una stimolazione tattile su un dito della mano reale e, contemporaneamente, osservava uno stimolo visivo che compariva su un dito virtuale che poteva essere o meno corrispondente al dito reale.

Quando la posizione dello stimolo tattile e di quello visivo coincideva, i partecipanti erano più veloci nell’identificare il dito sul quale avevano sentito la vibrazione. In caso contrario c’era un aumento dei tempi di risposta dovuto alla discrepanza di localizzazione tra i due stimoli.

“Questo avviene quando il cervello elabora come proprio l’effttore che vede nella realtà virtuale. Se l’embodiment è avvenuto il soggetto impiega più tempo per rispondere perché più esposto agli effetti dell’incongruenza tra stimolo tattile e visivo” afferma Ottavia Maddaluno, una delle ricercatrici.

I risultati dell’esperimento hanno mostrato che i partecipanti incorporano meglio (o allo stesso livello) la mano bionica rispetto a quella antropomorfa. Per spiegare la maggiore incorporazione dell’arto bionico potremmo ricorrere alla teoria dell’“uncanny valley” o “valle perturbante”.

“Secondo questa teoria – prosegue Maddaluno – quando i robot umanoidi raggiungono un grado di somiglianza troppo alto con un vero essere umano, il cervello riconosce l’umanoide come strano ed estraneo, complicando il processo di riconoscimento”.

Lo stimolo tattile dell’esperimento, progettato per permettere una esperienza vivida e chiaramente identificabile, è stato messo a punto presso il gruppo di Fisiologia del Dipartimento di Medicina dei sistemi dell’Università di Roma Tor Vergata.

“Per somministrare uno stimolo tattile che sia preciso e sincrono con gli stimoli visivi – spiega Alessandro Moscatelli dell’Università di Roma Tor Vergata – sono stati appositamente realizzati dispositivi indossabili (wearable haptics): all’interno del dispositivo sono stati posizionati degli attuatori di tipo “voice coil” che hanno consentito di modulare l’ampiezza e la frequenza dello stimolo vibrotattile”.

Secondo le conclusioni dell’equipe di ricerca, il cervello trova più semplice utilizzare la pinza bionica rispetto alla mano virtuale. Nel caso della mano, infatti, il cervello si trova a confrontarsi con un oggetto che produce una stimolazione molto complessa, mentre la pinza bionica è funzionalmente simile ad una mano e può riprodurne i movimenti (ad esempio la chiusura e apertura di indice e pollice) in modo più semplice. La maggiore semplicità si traduce in una minore necessità di elaborazione da parte del cervello e, quindi, in maggiore destrezza e facilità d’uso. Questa evidenza potrà aprire la strada a nuove concezioni nello sviluppo di protesi robotiche.

“Nell’ambito della neuroriabilitazione stiamo già applicando le conoscenze di questo studio per migliorare le protesi oggi disponibili per persone che, a causa di un’amputazione non hanno un arto”,

spiega Viviana Betti del Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma e direttrice del laboratorio di ricerca presso IRCCS Fondazione Santa Lucia.

“Le evidenze con i pazienti che stiamo conducendo confermano quanto emerso su persone sane con la realtà virtuale e saranno oggetto di future pubblicazioni.”

 

Lo studio è stato finanziato dallo European Research Council progetto HANDmade (G.A. n. 759651) attribuito a Viviana Betti.

 

 

Riferimenti bibliografici:

Rewiring the evolution of the human hand: How the embodiment of a virtual bionic tool improves behavior

M. Marucci, O. Maddaluno, C. P. Ryan, C. Perciballi, S. Vasta, S. Ciotti, A. Moscatelli, V. Betti

iScience – doi.org/10.1016/j.isci.2024.109937

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia

Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza e dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma e pubblicato su Nature Communications ha individuato in un farmaco impiegato in terapie sperimentali contro il cancro un possibile approccio terapeutico per il trattamento della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è una malattia neurodegenerativa causata dalla progressiva perdita di motoneuroni, le cellule predisposte al controllo dei movimenti volontari dei muscoli.  A oggi non esiste una cura efficace per questa rara patologia.

In un recente studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma e dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Roma, pubblicato sulla rivista Nature Communications e finanziato da un progetto ERC-Synergy, è stato scoperto che un farmaco già impiegato in terapie sperimentali contro il cancro potrebbe avere effetti benefici anche sulla SLA, aprendo nuove importanti prospettive terapeutiche.

I ricercatori, coordinati da Irene Bozzoni del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e del centro CLNS2 di IIT di Roma, sono partiti dallo studio di specifiche condizioni che determinano la formazione nelle cellule di strutture chiamate granuli da stress. La funzione di tali strutture è quella di proteggere temporaneamente le molecole di RNA e di proteine fino alla risoluzione dello stato di stress. Circa il 10% dei casi totali di SLA sono causati da mutazioni in proteine che in molti casi sono componenti dei granuli da stress. Queste alterazioni provocano la produzione di proteine aberranti che trasformano i granuli in aggregati tossici per i motoneuroni. In particolare nella SLA, così come in altre malattie neurodegenerative, ciò che risulta alterato sono il numero, la composizione e le dinamiche di formazione e dissociazione di questi granuli.

Il gruppo di ricercatori ha scoperto che una specifica modifica chimica dell’RNA, nota come N6-metiladenosina (m6A), ha un ruolo cruciale nell’alterazione delle dinamiche di formazione e dissociazione dei granuli in forme particolarmente aggressive di SLA: la malattia è caratterizzata da livelli di m6A aumentati e il loro ripristino a livelli fisiologici è in grado di ristabilire le normali proprietà dei granuli da stress.

“Siamo riusciti a diminuire i livelli di m6A utilizzando una molecola (STM2457) attualmente impiegata nella sperimentazione clinica per la cura di tumori leucemici – spiega Irene Bozzoni – Questa scoperta apre alla possibilità di utilizzarla anche come nuovo approccio terapeutico per il trattamento della SLA”.

I risultati dello studio rappresentano un prezioso contributo per la comprensione dei meccanismi cellulari alla base della patologia e, soprattutto, individuano nelle modifiche dell’RNA promettenti target terapeutici per contrastare la SLA.

Riferimenti bibliografici:

M6A reduction relieves FUS-associated ALS granules – Di Timoteo et al.

Nature Communications – DOI: 10.1038/s41467-024-49416-5

microscopio cellule invecchiamento
Sclerosi Laterale Amiotrofica – SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia. Foto PublicDomainPictures

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Progetto ASCenSIon: veicoli orbitali che utilizzano propellenti “verdi”, ecco il futuro delle esplorazioni spaziali

Lo studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Acta Astronautica realizzato nell’ambito del progetto europeo ASCenSIon

Pisa, 12 giugno 2024 – La sostenibilità può arrivare anche nello spazio grazie ad uno studio su nuova classe di veicoli orbitali che per muoversi nello spazio utilizzano propellenti “verdi”. La notizia arriva da uno studio del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Acta Astronautica e realizzato nell’ambito di ASCenSIon, un progetto europeo che ha visto la partecipazione di molti partner nazionali e internazionali, tra cui il Politecnico di Milano e Università La Sapienza di Roma in Italia, e numerose altre realtà in Germania, Francia, Belgio e Spagna. La ricerca pubblicata nell’articolo è stata svolta da Alberto Sarritzu sotto la supervisione del professore Angelo Pasini; il team del progetto all’Università di Pisa include anche la dottoranda Lily Blondel-Canepari.

“I nuovi propellenti “verdi” potranno certamente sostituire i propellenti tossici oggi prevalentemente usati – spiega Alberto Sarritzu – Questo permetterà da un lato di migliorare l’efficienza della propulsione e rendere possibili missioni che al momento non lo sono, dall’altro di semplificare le operazioni a terra in preparazione dei veicoli orbitali, che oggi sono lunghe, complicate e costose”.

Lo studio di propellenti verdi è uno sforzo internazionale che va avanti da decenni, con l’Università Pisa che negli anni ha ricoperto un ruolo chiave. I propellenti verdi sono generalmente composti chimici a basso impatto ambientale e tossicità, come acqua ossigenata ad alte concentrazioni o protossido d’azoto, comunemente conosciuto come anestetico. Rientrano tra questi anche il comune cherosene e altri idrocarburi, che rappresentano comunque un enorme passo avanti rispetto ai tradizionali composti utilizzati che invece contengono idrazina o tetrossido di azoto, sostanze estremamente tossiche e dannose per l’ambiente e la salute umana. La gestione di questi componenti è non solo potenzialmente dannosa per il personale coinvolto, ma anche estremamente costosa, per cui il settore da anni cerca di trovare delle valide alternative.

L’Ateneo, nell’ambito del progetto ASCenSIon, si è occupato di studiare sistemi propulsivi compatibili con i propellenti “verdi”. I sistemi propulsivi sono uno degli elementi più cruciali per il corretto funzionamento dei veicoli orbitali ed hanno un ruolo chiave per il successo delle missioni, regolando sia il movimento dei veicoli in orbita che il controllo d’assetto.

“La nuova classe di veicoli spaziali che abbiamo studiato promette di portare innovazioni che possono avere ricadute per tutti noi – sottolinea Angelo Pasini– come ad esempio un accesso più facile e sostenibile allo spazio, la rimozione attiva dei detriti spaziali causati da decenni di utilizzo incontrollato delle nostre orbite e lo sviluppo di nuove missioni per l’esplorazione spaziale”.

Progetto ASCenSIon foto del team di ricerca propellenti verdi per veicoli orbitali da sinistra verso destra Lily Blondel-Canepari, Alberto Sarritzu, Angelo Pasini
il team del Progetto ASCenSIon, appena uscito con uno studio su una nuova classe di veicoli orbitali che per muoversi nello spazio utilizzano propellenti “verdi”: da sinistra verso destra Lily Blondel-Canepari, Alberto Sarritzu, Angelo Pasini

Alberto Sarritzu sta terminando il suo dottorato all’Università di Pisa. Ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo diversi anni di lavoro in multinazionali all’estero. Ha deciso di intraprendere la ricerca per avere un impatto sull’industria, in particolare per provare a rendere più sostenibile e attraente un ambito in forte crescita come quello dello spazio. Lily Blondel-Canepari è una studentessa di dottorato all’Università di Pisa. È laureata in fisica alla EPFL di Losanna in Svizzera e ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo aver lavorato presso il CERN e precedentemente l’Agenzia Spaziale Europea. Il suo lavoro è improntato sulla ricerca di una nuova definizione all’aggettivo “verde” per quanto riguarda i propellenti spaziali in modo da valutare il reale impatto delle scelte future. Angelo Pasini è ricercatore di propulsione aerospaziale al dipartimento di ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa dal 2016. Prima di intraprendere la carriera accademica, ha lavorato per oltre dieci anni nel settore della propulsione verde, inizialmente presso l’azienda ALTA, spin-off dell’università, e successivamente presso l’azienda Sitael.

 

LInk articolo scientifico: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0094576524000407

 

Testo e foto dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura
dell’Università di Pisa.

Una nuova legge termodinamica, la Bose-Einstein pesata (wBE), un nuovo modello di termodinamica ottica – Lo studio pubblicato su Nature Communications dalla Sapienza Università di Roma permette di descrivere sistemi ottici multimodali attraverso una nuova legge termodinamica in grado di riprodurre i dati con grande accuratezza. I risultati del lavoro hanno importanti ricadute tecnologiche nella progettazione di sistemi di trasmissione in fibra ottica di nuova generazione.

Uno studio condotto presso il laboratorio di Fotonica Nonlineare del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, elettronica e telecomunicazioni (DIET) della Sapienza ha analizzato per la prima volta strutture ottiche complesse come quelle multimodali – un particolare tipo di fibra ottica, impiegate soprattutto per le comunicazioni a breve distanza – utilizzando semplici leggi termodinamiche ottiche.

Fino ad oggi queste strutture venivano progettate con complesse equazioni nonlineari.

I ricercatori invece sono partiti da nuovi risultati sperimentali su lunghe tratte di fibra multimodale, giungendo a identificare una nuova legge termodinamica in grado di riprodurre i dati con grande accuratezza. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Nature Communications, hanno importanti ricadute tecnologiche nella progettazione di sistemi di trasmissione in fibra ottica di nuova generazione.

“Abbiamo trovato – spiega Mario Zitelli della Sapienza, primo autore dello studio – una nuova legge termodinamica, la Bose-Einstein pesata (wBE), che descrive le distribuzioni di fotoni nelle strutture multimodali meglio della legge precedentemente nota, la Rayleigh-Jeans (RJ). Abbiamo visto poi che le distribuzioni di fotoni, man mano che si aumenta la potenza ottica che viaggia in fibra, passano attraverso stati di condensazione locale dove i fotoni si addensano in gruppi di modi intermedi, per poi formare condensati globali, dove tutti i fotoni tendono a concentrarsi nel modo fondamentale della struttura sotto forma di solitoni ottici”.

Lo studio ha quindi identificato una analogia fra gli stati della materia e quelli dei fotoni nelle strutture multimodali, misurando stati gassosi, vetrosi e solidi dei fotoni: le distribuzioni di fotoni osservate nelle fibre multimodo possono essere interpretate in termini termodinamici, dove il regime di propagazione lineare corrisponde ad un gas di fotoni; nel regime di potenza intermedia il sistema evolve verso stati vetrosi condensati localmente (glassy states), mentre ad alta potenza si formano solitoni ottici condensati nel modo fondamentale, simile ad un solido.

“L’analogia fra stati della materia e quelli dei fotoni nelle strutture multimodali – commenta Zitelli – è affascinante, oltre che utile sul piano progettuale. L’estensione della termodinamica nel dominio dell’ottica è un argomento che attrae i fisici e gli ingegneri ottici da qualche anno e sono numerosi gli esperimenti in corso nel tentativo di progettare macchine ottiche termodinamiche”.

Riferimenti:

Statistics of modal condensation in nonlinear multimode fibers – Zitelli, M., Mangini, F. & Wabnitz, S. – Nature Communication (2024). https://doi.org/10.1038/s41467-024-45185-3

Una nuova legge termodinamica, la Bose-Einstein pesata (wBE), che descrive le distribuzioni di fotoni nelle strutture multimodali meglio della legge precedentemente nota, la Rayleigh-Jeans (RJ). Foto di Андрей Баклан 

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Cambiano i social media, ma le dinamiche delle conversazioni online restano

Un nuovo studio della Sapienza, pubblicato su Nature, rivela una notevole coerenza nelle interazioni online tra gli utenti di diverse piattaforme e la persistenza di quelle tossiche all’interno delle comunità digitali

Un nuovo studio, coordinato da Walter Quattrociocchi del Centro per la Data Science e la complessità per la società presso il Dipartimento di Informatica della Sapienza Università di Roma, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, ha rivelato una costante nelle dinamiche di interazione online tra gli utenti su diverse piattaforme, includendo anche un confronto con piattaforme del passato. L’analisi suggerisce la natura persistente delle interazioni “tossiche” all’interno delle comunità digitali, che evidenziando una componente umana che rimane costante a dispetto delle variazioni delle piattaforme, delle mutevoli norme sociali e del passare dei decenni.

“Lo studio della comunicazione digitale e delle dinamiche che ruotano attorno ai nuovi media è un tema di forte attualità che richiede un’analisi rigorosa, viste le numerose implicazioni che ne derivano – dichiara la rettrice Antonella Polimeni – Sapienza può vantare ricercatori di altissimo profilo che studiano i molteplici aspetti della comunicazione. Questa pubblicazione, su una rivista prestigiosa come Nature, conferma e consolida la qualità delle attività di ricerca dell’Ateneo anche in questo campo: un riconoscimento importante per il team coordinato da Walter Quattrociocchi e per tutto l’Ateneo”.

La ricerca, focalizzata sulle dinamiche delle conversazioni online e condotta dalla Sapienza, ha identificato modelli comportamentali ricorrenti all’interno dei vari social media, dimostrando una notevole coerenza nelle interazioni tra gli utenti nonostante l’evoluzione delle piattaforme e delle norme sociali. In particolare, lo studio ha utilizzato un approccio comparativo su varie piattaforme – da Facebook, Reddit, Gab, YouTube fino alla meno recente USNET su più di 500 milioni di commenti – per esplorare gli aspetti cruciali relativi alla persistenza delle interazioni “tossiche” nelle comunità digitali.

Elementi chiave identificati dai ricercatori includono la lunghezza delle conversazioni, con discussioni prolungate più inclini alla tossicità, e la polarizzazione, ovvero quando punti di vista divergenti conducono a un’escalation del disaccordo online.

Sorprendentemente, le interazioni tossiche non fungono da deterrente sull’engagement degli utenti, i quali continuano a partecipare attivamente alle conversazioni. Questo indica una complessa interazione tra contenuti dannosi e la partecipazione ai dibattiti online, suggerendo una resilienza degli utenti alla negatività negli ambienti digitali.

“Questa ricerca rappresenta un significativo progresso nella comprensione delle dinamiche sociali online – spiega Walter Quattrociocchi – e di come queste vengano influenzate dagli algoritmi, superando il focus su singole piattaforme. I risultati sottolineano le ampie implicazioni dell’influenza algoritmica sulle interazioni sociali. Lo studio – conclude Quattrociocchi – evidenzia l’importanza fondamentale della data science nell’analizzare e interpretare il comportamento umano online, confermando che il comportamento tossico è un aspetto profondamente radicato nelle interazioni digitali”.

social media conversazioni online
Immagine di Gordon Johnson

Riferimenti bibliografici: 

Persistent interaction patterns across social media platforms and over time – Michele Avalle, Niccolò Di Marco, Gabriele Etta, Emanuele Sangiorgio, Shayan Alipour, Anita Bonetti, Lorenzo Alvisi, Antonio Scala, Andrea Baronchelli, Matteo Cinelli & Walter Quattrociocchi, Nature (2024), DOI:  https://doi.org/10.1038/s41586-024-07229-y

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma