News
Ad
Ad
Ad
Tag

Roma

Browsing

La via italiana ai chatbot del futuro: presentata Minerva 7B, l’ultima versione del modello linguistico IA targato Sapienza, addestrato con 1.5 trilioni di parole e che alza lo standard di sicurezza degli LLM italiani

Minerva 7B stata sviluppata in ambito FAIR (Future Artificial Intelligence Research) e in collaborazione con CINECA

Roma, 26 novembre 2024 – L’eccellenza della ricerca Sapienza nel campo dell’Intelligenza artificiale: è stato annunciato oggi il rilascio di Minerva 7B, l’ultima versione della famiglia dei modelli Minerva, i Large Language Model (LLM) addestrati “da zero” per la lingua italiana.
Il nuovo modello linguistico Minerva è stato realizzato dal gruppo di ricerca Sapienza NLP (Natural Language Processing), guidato dal Prof. Roberto Navigli, all’interno di FAIR (Future Artificial Intelligence Research), il progetto che realizza la strategia nazionale sull’intelligenza artificiale grazie ai fondi PNRR, e in collaborazione con CINECA che ha reso disponibile il supercomputer Leonardo.
Alla presentazione la Rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, il Presidente FAIR Giuseppe De Pietro, la Direttrice Generale CINECA Alessandra Poggiani e il docente alla guida del gruppo Sapienza NLP Roberto Navigli, che ha illustrato le caratteristiche della nuova versione, con il supporto di una demo.

Minerva 7B è una versione più potente di quella messa in rete lo scorso aprile, forte di 7 miliardi di parametri contro i 3 della precedente, e quindi con maggior capacità di memorizzazione e rielaborazione dei testi, sempre basata su fonti aperte di dati, elemento distintivo nel panorama degli LLM.
Dopo oltre 5 mesi di lavoro incessante, il team di ricerca è approdato a questa nuova versione per un totale di oltre 2 trilioni (migliaia di miliardi) di token, corrispondenti a circa 1,5 trilioni di parole. Mediante un nuovo mix di istruzioni create appositamente in italiano, Minerva 7B è stato sottoposto al cosiddetto processo di instruction tuning, una tecnica avanzata di addestramento per i modelli di intelligenza artificiale che mira a fornire la capacità di seguire le istruzioni e di colloquiare con l’utente in italiano.

Grazie appunto all’instruction tuning Minerva è in grado di interpretare meglio le richieste e di generare risposte più pertinenti, coerenti e adattate al contesto, evitando per quanto possibile le cosiddette allucinazioni e la generazione di contenuti di tipo volgare, sessuale, discriminatorio e sensibile. Si tratta di un tema cruciale che riguarda tutti i chatbot, particolarmente sentito dai ricercatori del team della Sapienza.
Il Prof. Navigli ha mostrato durante la demo diverse conversazioni con il modello, tra cui la richiesta di scrivere una favola, di tradurre e riassumere un breve testo, e ha mostrato la robustezza del modello a richieste che potrebbero generare contenuti sensibili o discriminatori.

“Il nostro impegno è continuare a lavorare per massimizzare la sicurezza e gli aspetti conversazionali in una sorta di laboratorio permanente, con la consapevolezza scientifica che il rilascio di oggi non è un traguardo ma un punto di partenza – sottolinea Roberto Navigli – La scarsità di dati di qualità in italiano, sia per il preaddestramento linguistico che per le conversazioni e le istruzioni, è uno dei temi chiave che intendiamo affrontare nei prossimi mesi. In quest’ottica auspichiamo che il progetto possa crescere aprendosi a nuove collaborazioni, coinvolgendo ad esempio il mondo editoriale ed enti pubblici per l’impiego di Minerva in ambiti istituzionali. Minerva è il primo – e a oggi unico – modello completamente aperto, che si presta a essere utilizzato dalle Pubbliche Amministrazioni, proprio per la trasparenza delle fonti e del processo di addestramento. Inoltre sono molto orgoglioso del trasferimento tecnologico che si realizza grazie a Babelscape – spin-off di successo di Sapienza – che sta lavorando alacremente a versioni industriali più potenti e sofisticate dell’LLM e alle sue applicazioni.”


Dichiara Antonella Polimeni, Rettrice di Sapienza Università di Roma:

“La Sapienza ha una lunga tradizione di eccellenza nell’ambito della ricerca tecnologica e scientifica. Negli ultimi anni, abbiamo rafforzato il nostro impegno nello sviluppo di competenze avanzate in settori strategici come l’intelligenza artificiale, promuovendo un approccio interdisciplinare che combina il rigore accademico con una visione orientata all’innovazione. Con il progetto Minerva, confermiamo la nostra missione: essere un motore di innovazione e progresso al servizio della società e del futuro.”


Dichiara Giuseppe De Pietro, Presidente di FAIR – Future AI Research:

“La realizzazione di Minerva, oltre a costituire un risultato scientifico di indubbio valore, rappresenta un’esperienza di successo del modello di cooperazione tra la Fondazione ed i propri soci. FAIR, infatti, ha tra i suoi compiti quello di  supportare le attività e i prodotti di eccellenza della ricerca svolta all’interno del partenariato, come Minerva e molti altri. Crediamo davvero che Minerva abbia tutte le potenzialità per diventare il Large Language Model di riferimento per la Pubblica Amministrazione e lavoreremo come Fondazione per valorizzarlo.”


Dichiara Alessandra Poggiani, Direttrice generale di Cineca:

“Siamo felici di mettere le nostre competenze e l’infrastruttura a disposizione di un progetto di ricerca d’avanguardia nel campo dell’intelligenza artificiale, che offre significativi potenziali benefici a tutto il sistema Paese – in particolare alla sua pubblica amministrazione. È un progetto che interpreta bene la vocazione di Cineca a creare le condizioni di contesto ideali verso una più compiuta e ampia cittadinanza digitale.”

Il modello è accessibile al pubblico all’indirizzo https://minerva-llm.org e sarà possibile scaricarlo nelle settimane successive. Questa fase di test permetterà di svolgere un ulteriore affinamento sulla base delle conversazioni effettuate nei prossimi giorni.

Il team che ha lavorato allo sviluppo di Minerva 7B include ben 15 ricercatori e dottorandi (in ordine alfabetico): Edoardo Barba, Tommaso Bonomo, Simone Conia, Pere-Lluís Huguet Cabot, Federico Martelli, Luca Moroni, Roberto Navigli, Riccardo Orlando, Alessandro Scirè, Simone Tedeschi; hanno anche contribuito Stefan Bejgu, Fabrizio Brignone, Francesco Cecconi, Ciro Porcaro, Simone Stirpe. Si ringraziano anche Giuseppe Fiameni (NVIDIA) e Sergio Orlandini (Cineca).

Simulare l’attività cerebrale con l’intelligenza artificiale
Immagine di Ahmed Gad

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE RESTITUISCONO AL NOBILE COLLEGIO CHIMICO FARMACEUTICO DI ROMA UN TESTO RARO DEL XVII SECOLO, UNIVERSALE THEATRO FARMACEUTICO DI ANTONIO DE SGOBBIS

Un importante testo raro del 1682 “Universale Theatro Farmaceutico” dell’autore Antonio De Sgobbis, farmacista veneziano, è stato recuperato dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza. Il bene era stato sottratto nell’anno 1985 dal Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma e da allora se ne erano perse le tracce, fino alla sua recente comparsa nel mercato antiquario.

La ricomparsa dell’opera non è passata inosservata al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, che quotidianamente svolge attività preventiva di controllo e monitoraggio del settore, avvalendosi del supporto tecnologico della Banca Dati dei Beni Culturali Illecitamente Sottratti.

Il riscontro positivo scaturito dalla verifica e la successiva attività d’indagine condotta dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como, hanno permesso il recupero dell’opera e la restituzione all’ente di provenienza.

L’Autore, Antonio De Sgobbis, nato e cresciuto a Montagnana intorno al 1600, è stato un importante speziale della Serenissima, diventato famoso farmacista a Venezia dove possedeva una spezieria all’insegna dello struzzo situata nella centralissima zona delle Mercerie.

La sua farmacia divenne un centro di sperimentazione della chimica farmaceutica veneziana che, grazie alla sua passione e curiosità, diede origine alla pubblicazione di diversi testi, fra i quali anche l’Universale Theatro Farmaceutico.

Il volume, che rese l’autore famoso in tutta Europa e di cui si conoscono pochissime copie, rappresenta un’opera strutturata e dettagliata molto rara per l’epoca, una specie di prototipo enciclopedico piuttosto che un manuale di uso pratico da riporre e consultare in farmacia.

Il testo, in folio, ricchissimo di riferimenti bibliografici che per la loro ampiezza e ponderatezza aiutano a comprendere l’arte farmaceutica seicentesca, si compone di più di 800 pagine, corredate da tavole e tabelle di considerevole valore e dal ritratto dell’autore insieme a quello dei colleghi Giorgio Melichio e Alberto Stecchini.

Inoltre, a rendere particolarmente pregevole tale opera fu anche la scelta dell’editore, la Stamperia Baglioni di Venezia divenuta molto famosa già nel 1607 per essere stata scelta da Galileo Galilei per la sua Difesa contro le accuse di Baldassare Capra e il Sidereus Nuncius. Un’opera, quindi, che nella sua monumentalità resta una testimonianza unica e originale dell’appassionato esercizio della farmacopea privata a Venezia che, dopo ben 39 anni e grazie all’attività del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Monza, è potuta tornare al Nobile Collegio Chimico Farmaceutico di Roma.

Testo e immagini  dall’Ufficio Stampa Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale sull’Operazione Pandora VIII

Protesi e mani bioniche: se non assomigliano a mani umane funzionano meglio

Un nuovo studio pubblicato su iScience e condotto dal laboratorio di Neuroscienze Applicate e Tecnologie della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, in collaborazione con Sapienza Università di Roma e l’Università di Roma Tor Vergata, ha dimostrato che una protesi non antropomorfa è più funzionale e più facilmente accolta rispetto ad una protesi che mima l’estetica umana.

Se una mano bionica non sembra umana, l’utente la riesce ad usare meglio, migliorando anche la sua capacità di identificarla come propria (processo noto come incorporazione o embodiment). Questo è il risultato dello studio, pubblicato sulla rivista scientifica iScience e condotto dal laboratorio di Neuroscienze Applicate e Tecnologie della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, in collaborazione con Sapienza Università di Roma e Università di Roma Tor Vergata.

I ricercatori hanno utilizzato la realtà virtuale per valutare la destrezza nell’esecuzione di un compito motorio svolto usando due diversi effettori: una mano virtuale che riproduce le sembianze reali di un arto e una protesi bionica simile ad un paio di pinzette. Lo studio, condotto su individui sani, ha dimostrato come i partecipanti siano più precisi e più bravi a svolgere il compito richiesto, che consisteva nello scoppiare pizzicandole delle bolle virtuali di un colore specifico.

L’équipe di ricerca, ha anche proseguito l’esperimento misurando il livello di incorporazione: la persona riceveva una stimolazione tattile su un dito della mano reale e, contemporaneamente, osservava uno stimolo visivo che compariva su un dito virtuale che poteva essere o meno corrispondente al dito reale.

Quando la posizione dello stimolo tattile e di quello visivo coincideva, i partecipanti erano più veloci nell’identificare il dito sul quale avevano sentito la vibrazione. In caso contrario c’era un aumento dei tempi di risposta dovuto alla discrepanza di localizzazione tra i due stimoli.

“Questo avviene quando il cervello elabora come proprio l’effttore che vede nella realtà virtuale. Se l’embodiment è avvenuto il soggetto impiega più tempo per rispondere perché più esposto agli effetti dell’incongruenza tra stimolo tattile e visivo” afferma Ottavia Maddaluno, una delle ricercatrici.

I risultati dell’esperimento hanno mostrato che i partecipanti incorporano meglio (o allo stesso livello) la mano bionica rispetto a quella antropomorfa. Per spiegare la maggiore incorporazione dell’arto bionico potremmo ricorrere alla teoria dell’“uncanny valley” o “valle perturbante”.

“Secondo questa teoria – prosegue Maddaluno – quando i robot umanoidi raggiungono un grado di somiglianza troppo alto con un vero essere umano, il cervello riconosce l’umanoide come strano ed estraneo, complicando il processo di riconoscimento”.

Lo stimolo tattile dell’esperimento, progettato per permettere una esperienza vivida e chiaramente identificabile, è stato messo a punto presso il gruppo di Fisiologia del Dipartimento di Medicina dei sistemi dell’Università di Roma Tor Vergata.

“Per somministrare uno stimolo tattile che sia preciso e sincrono con gli stimoli visivi – spiega Alessandro Moscatelli dell’Università di Roma Tor Vergata – sono stati appositamente realizzati dispositivi indossabili (wearable haptics): all’interno del dispositivo sono stati posizionati degli attuatori di tipo “voice coil” che hanno consentito di modulare l’ampiezza e la frequenza dello stimolo vibrotattile”.

Secondo le conclusioni dell’equipe di ricerca, il cervello trova più semplice utilizzare la pinza bionica rispetto alla mano virtuale. Nel caso della mano, infatti, il cervello si trova a confrontarsi con un oggetto che produce una stimolazione molto complessa, mentre la pinza bionica è funzionalmente simile ad una mano e può riprodurne i movimenti (ad esempio la chiusura e apertura di indice e pollice) in modo più semplice. La maggiore semplicità si traduce in una minore necessità di elaborazione da parte del cervello e, quindi, in maggiore destrezza e facilità d’uso. Questa evidenza potrà aprire la strada a nuove concezioni nello sviluppo di protesi robotiche.

“Nell’ambito della neuroriabilitazione stiamo già applicando le conoscenze di questo studio per migliorare le protesi oggi disponibili per persone che, a causa di un’amputazione non hanno un arto”,

spiega Viviana Betti del Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma e direttrice del laboratorio di ricerca presso IRCCS Fondazione Santa Lucia.

“Le evidenze con i pazienti che stiamo conducendo confermano quanto emerso su persone sane con la realtà virtuale e saranno oggetto di future pubblicazioni.”

 

Lo studio è stato finanziato dallo European Research Council progetto HANDmade (G.A. n. 759651) attribuito a Viviana Betti.

 

 

Riferimenti bibliografici:

Rewiring the evolution of the human hand: How the embodiment of a virtual bionic tool improves behavior

M. Marucci, O. Maddaluno, C. P. Ryan, C. Perciballi, S. Vasta, S. Ciotti, A. Moscatelli, V. Betti

iScience – doi.org/10.1016/j.isci.2024.109937

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia

Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza e dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma e pubblicato su Nature Communications ha individuato in un farmaco impiegato in terapie sperimentali contro il cancro un possibile approccio terapeutico per il trattamento della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è una malattia neurodegenerativa causata dalla progressiva perdita di motoneuroni, le cellule predisposte al controllo dei movimenti volontari dei muscoli.  A oggi non esiste una cura efficace per questa rara patologia.

In un recente studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma e dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Roma, pubblicato sulla rivista Nature Communications e finanziato da un progetto ERC-Synergy, è stato scoperto che un farmaco già impiegato in terapie sperimentali contro il cancro potrebbe avere effetti benefici anche sulla SLA, aprendo nuove importanti prospettive terapeutiche.

I ricercatori, coordinati da Irene Bozzoni del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e del centro CLNS2 di IIT di Roma, sono partiti dallo studio di specifiche condizioni che determinano la formazione nelle cellule di strutture chiamate granuli da stress. La funzione di tali strutture è quella di proteggere temporaneamente le molecole di RNA e di proteine fino alla risoluzione dello stato di stress. Circa il 10% dei casi totali di SLA sono causati da mutazioni in proteine che in molti casi sono componenti dei granuli da stress. Queste alterazioni provocano la produzione di proteine aberranti che trasformano i granuli in aggregati tossici per i motoneuroni. In particolare nella SLA, così come in altre malattie neurodegenerative, ciò che risulta alterato sono il numero, la composizione e le dinamiche di formazione e dissociazione di questi granuli.

Il gruppo di ricercatori ha scoperto che una specifica modifica chimica dell’RNA, nota come N6-metiladenosina (m6A), ha un ruolo cruciale nell’alterazione delle dinamiche di formazione e dissociazione dei granuli in forme particolarmente aggressive di SLA: la malattia è caratterizzata da livelli di m6A aumentati e il loro ripristino a livelli fisiologici è in grado di ristabilire le normali proprietà dei granuli da stress.

“Siamo riusciti a diminuire i livelli di m6A utilizzando una molecola (STM2457) attualmente impiegata nella sperimentazione clinica per la cura di tumori leucemici – spiega Irene Bozzoni – Questa scoperta apre alla possibilità di utilizzarla anche come nuovo approccio terapeutico per il trattamento della SLA”.

I risultati dello studio rappresentano un prezioso contributo per la comprensione dei meccanismi cellulari alla base della patologia e, soprattutto, individuano nelle modifiche dell’RNA promettenti target terapeutici per contrastare la SLA.

Riferimenti bibliografici:

M6A reduction relieves FUS-associated ALS granules – Di Timoteo et al.

Nature Communications – DOI: 10.1038/s41467-024-49416-5

microscopio cellule invecchiamento
Sclerosi Laterale Amiotrofica – SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia. Foto PublicDomainPictures

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Progetto ASCenSIon: veicoli orbitali che utilizzano propellenti “verdi”, ecco il futuro delle esplorazioni spaziali

Lo studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Acta Astronautica realizzato nell’ambito del progetto europeo ASCenSIon

Pisa, 12 giugno 2024 – La sostenibilità può arrivare anche nello spazio grazie ad uno studio su nuova classe di veicoli orbitali che per muoversi nello spazio utilizzano propellenti “verdi”. La notizia arriva da uno studio del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Acta Astronautica e realizzato nell’ambito di ASCenSIon, un progetto europeo che ha visto la partecipazione di molti partner nazionali e internazionali, tra cui il Politecnico di Milano e Università La Sapienza di Roma in Italia, e numerose altre realtà in Germania, Francia, Belgio e Spagna. La ricerca pubblicata nell’articolo è stata svolta da Alberto Sarritzu sotto la supervisione del professore Angelo Pasini; il team del progetto all’Università di Pisa include anche la dottoranda Lily Blondel-Canepari.

“I nuovi propellenti “verdi” potranno certamente sostituire i propellenti tossici oggi prevalentemente usati – spiega Alberto Sarritzu – Questo permetterà da un lato di migliorare l’efficienza della propulsione e rendere possibili missioni che al momento non lo sono, dall’altro di semplificare le operazioni a terra in preparazione dei veicoli orbitali, che oggi sono lunghe, complicate e costose”.

Lo studio di propellenti verdi è uno sforzo internazionale che va avanti da decenni, con l’Università Pisa che negli anni ha ricoperto un ruolo chiave. I propellenti verdi sono generalmente composti chimici a basso impatto ambientale e tossicità, come acqua ossigenata ad alte concentrazioni o protossido d’azoto, comunemente conosciuto come anestetico. Rientrano tra questi anche il comune cherosene e altri idrocarburi, che rappresentano comunque un enorme passo avanti rispetto ai tradizionali composti utilizzati che invece contengono idrazina o tetrossido di azoto, sostanze estremamente tossiche e dannose per l’ambiente e la salute umana. La gestione di questi componenti è non solo potenzialmente dannosa per il personale coinvolto, ma anche estremamente costosa, per cui il settore da anni cerca di trovare delle valide alternative.

L’Ateneo, nell’ambito del progetto ASCenSIon, si è occupato di studiare sistemi propulsivi compatibili con i propellenti “verdi”. I sistemi propulsivi sono uno degli elementi più cruciali per il corretto funzionamento dei veicoli orbitali ed hanno un ruolo chiave per il successo delle missioni, regolando sia il movimento dei veicoli in orbita che il controllo d’assetto.

“La nuova classe di veicoli spaziali che abbiamo studiato promette di portare innovazioni che possono avere ricadute per tutti noi – sottolinea Angelo Pasini– come ad esempio un accesso più facile e sostenibile allo spazio, la rimozione attiva dei detriti spaziali causati da decenni di utilizzo incontrollato delle nostre orbite e lo sviluppo di nuove missioni per l’esplorazione spaziale”.

Progetto ASCenSIon foto del team di ricerca propellenti verdi per veicoli orbitali da sinistra verso destra Lily Blondel-Canepari, Alberto Sarritzu, Angelo Pasini
il team del Progetto ASCenSIon, appena uscito con uno studio su una nuova classe di veicoli orbitali che per muoversi nello spazio utilizzano propellenti “verdi”: da sinistra verso destra Lily Blondel-Canepari, Alberto Sarritzu, Angelo Pasini

Alberto Sarritzu sta terminando il suo dottorato all’Università di Pisa. Ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo diversi anni di lavoro in multinazionali all’estero. Ha deciso di intraprendere la ricerca per avere un impatto sull’industria, in particolare per provare a rendere più sostenibile e attraente un ambito in forte crescita come quello dello spazio. Lily Blondel-Canepari è una studentessa di dottorato all’Università di Pisa. È laureata in fisica alla EPFL di Losanna in Svizzera e ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo aver lavorato presso il CERN e precedentemente l’Agenzia Spaziale Europea. Il suo lavoro è improntato sulla ricerca di una nuova definizione all’aggettivo “verde” per quanto riguarda i propellenti spaziali in modo da valutare il reale impatto delle scelte future. Angelo Pasini è ricercatore di propulsione aerospaziale al dipartimento di ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa dal 2016. Prima di intraprendere la carriera accademica, ha lavorato per oltre dieci anni nel settore della propulsione verde, inizialmente presso l’azienda ALTA, spin-off dell’università, e successivamente presso l’azienda Sitael.

 

LInk articolo scientifico: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0094576524000407

 

Testo e foto dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura
dell’Università di Pisa.

Una nuova legge termodinamica, la Bose-Einstein pesata (wBE), un nuovo modello di termodinamica ottica – Lo studio pubblicato su Nature Communications dalla Sapienza Università di Roma permette di descrivere sistemi ottici multimodali attraverso una nuova legge termodinamica in grado di riprodurre i dati con grande accuratezza. I risultati del lavoro hanno importanti ricadute tecnologiche nella progettazione di sistemi di trasmissione in fibra ottica di nuova generazione.

Uno studio condotto presso il laboratorio di Fotonica Nonlineare del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, elettronica e telecomunicazioni (DIET) della Sapienza ha analizzato per la prima volta strutture ottiche complesse come quelle multimodali – un particolare tipo di fibra ottica, impiegate soprattutto per le comunicazioni a breve distanza – utilizzando semplici leggi termodinamiche ottiche.

Fino ad oggi queste strutture venivano progettate con complesse equazioni nonlineari.

I ricercatori invece sono partiti da nuovi risultati sperimentali su lunghe tratte di fibra multimodale, giungendo a identificare una nuova legge termodinamica in grado di riprodurre i dati con grande accuratezza. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Nature Communications, hanno importanti ricadute tecnologiche nella progettazione di sistemi di trasmissione in fibra ottica di nuova generazione.

“Abbiamo trovato – spiega Mario Zitelli della Sapienza, primo autore dello studio – una nuova legge termodinamica, la Bose-Einstein pesata (wBE), che descrive le distribuzioni di fotoni nelle strutture multimodali meglio della legge precedentemente nota, la Rayleigh-Jeans (RJ). Abbiamo visto poi che le distribuzioni di fotoni, man mano che si aumenta la potenza ottica che viaggia in fibra, passano attraverso stati di condensazione locale dove i fotoni si addensano in gruppi di modi intermedi, per poi formare condensati globali, dove tutti i fotoni tendono a concentrarsi nel modo fondamentale della struttura sotto forma di solitoni ottici”.

Lo studio ha quindi identificato una analogia fra gli stati della materia e quelli dei fotoni nelle strutture multimodali, misurando stati gassosi, vetrosi e solidi dei fotoni: le distribuzioni di fotoni osservate nelle fibre multimodo possono essere interpretate in termini termodinamici, dove il regime di propagazione lineare corrisponde ad un gas di fotoni; nel regime di potenza intermedia il sistema evolve verso stati vetrosi condensati localmente (glassy states), mentre ad alta potenza si formano solitoni ottici condensati nel modo fondamentale, simile ad un solido.

“L’analogia fra stati della materia e quelli dei fotoni nelle strutture multimodali – commenta Zitelli – è affascinante, oltre che utile sul piano progettuale. L’estensione della termodinamica nel dominio dell’ottica è un argomento che attrae i fisici e gli ingegneri ottici da qualche anno e sono numerosi gli esperimenti in corso nel tentativo di progettare macchine ottiche termodinamiche”.

Riferimenti:

Statistics of modal condensation in nonlinear multimode fibers – Zitelli, M., Mangini, F. & Wabnitz, S. – Nature Communication (2024). https://doi.org/10.1038/s41467-024-45185-3

Una nuova legge termodinamica, la Bose-Einstein pesata (wBE), che descrive le distribuzioni di fotoni nelle strutture multimodali meglio della legge precedentemente nota, la Rayleigh-Jeans (RJ). Foto di Андрей Баклан 

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Cambiano i social media, ma le dinamiche delle conversazioni online restano

Un nuovo studio della Sapienza, pubblicato su Nature, rivela una notevole coerenza nelle interazioni online tra gli utenti di diverse piattaforme e la persistenza di quelle tossiche all’interno delle comunità digitali

Un nuovo studio, coordinato da Walter Quattrociocchi del Centro per la Data Science e la complessità per la società presso il Dipartimento di Informatica della Sapienza Università di Roma, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, ha rivelato una costante nelle dinamiche di interazione online tra gli utenti su diverse piattaforme, includendo anche un confronto con piattaforme del passato. L’analisi suggerisce la natura persistente delle interazioni “tossiche” all’interno delle comunità digitali, che evidenziando una componente umana che rimane costante a dispetto delle variazioni delle piattaforme, delle mutevoli norme sociali e del passare dei decenni.

“Lo studio della comunicazione digitale e delle dinamiche che ruotano attorno ai nuovi media è un tema di forte attualità che richiede un’analisi rigorosa, viste le numerose implicazioni che ne derivano – dichiara la rettrice Antonella Polimeni – Sapienza può vantare ricercatori di altissimo profilo che studiano i molteplici aspetti della comunicazione. Questa pubblicazione, su una rivista prestigiosa come Nature, conferma e consolida la qualità delle attività di ricerca dell’Ateneo anche in questo campo: un riconoscimento importante per il team coordinato da Walter Quattrociocchi e per tutto l’Ateneo”.

La ricerca, focalizzata sulle dinamiche delle conversazioni online e condotta dalla Sapienza, ha identificato modelli comportamentali ricorrenti all’interno dei vari social media, dimostrando una notevole coerenza nelle interazioni tra gli utenti nonostante l’evoluzione delle piattaforme e delle norme sociali. In particolare, lo studio ha utilizzato un approccio comparativo su varie piattaforme – da Facebook, Reddit, Gab, YouTube fino alla meno recente USNET su più di 500 milioni di commenti – per esplorare gli aspetti cruciali relativi alla persistenza delle interazioni “tossiche” nelle comunità digitali.

Elementi chiave identificati dai ricercatori includono la lunghezza delle conversazioni, con discussioni prolungate più inclini alla tossicità, e la polarizzazione, ovvero quando punti di vista divergenti conducono a un’escalation del disaccordo online.

Sorprendentemente, le interazioni tossiche non fungono da deterrente sull’engagement degli utenti, i quali continuano a partecipare attivamente alle conversazioni. Questo indica una complessa interazione tra contenuti dannosi e la partecipazione ai dibattiti online, suggerendo una resilienza degli utenti alla negatività negli ambienti digitali.

“Questa ricerca rappresenta un significativo progresso nella comprensione delle dinamiche sociali online – spiega Walter Quattrociocchi – e di come queste vengano influenzate dagli algoritmi, superando il focus su singole piattaforme. I risultati sottolineano le ampie implicazioni dell’influenza algoritmica sulle interazioni sociali. Lo studio – conclude Quattrociocchi – evidenzia l’importanza fondamentale della data science nell’analizzare e interpretare il comportamento umano online, confermando che il comportamento tossico è un aspetto profondamente radicato nelle interazioni digitali”.

social media conversazioni online
Immagine di Gordon Johnson

Riferimenti bibliografici: 

Persistent interaction patterns across social media platforms and over time – Michele Avalle, Niccolò Di Marco, Gabriele Etta, Emanuele Sangiorgio, Shayan Alipour, Anita Bonetti, Lorenzo Alvisi, Antonio Scala, Andrea Baronchelli, Matteo Cinelli & Walter Quattrociocchi, Nature (2024), DOI:  https://doi.org/10.1038/s41586-024-07229-y

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un cloud quantistico sicuro: da oggi è possibile proteggere la privacy di gruppi di utenti che effettuano calcoli contemporaneamente su server distanti  

Un gruppo di ricerca internazionale ha ideato e dimostrato che è possibile effettuare calcoli da remoto su processori quantistici mantenendo intatta la privacy di tutti gli utenti coinvolti. I risultati dell’esperimento, condotto presso il Quantum Lab dell’Università Sapienza di Roma, sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications e costituiscono un passo in avanti fondamentale verso la realizzazione di reti quantistiche sicure.

Un numero crescente di aziende e laboratori in tutto il mondo sta mettendo a disposizione degli utenti diverse tipologie di prototipi di processori quantistici. Infatti, con le tecnologie attuali, i costi di acquisto e manutenzione di questi dispositivi sono inaccessibili per utenti comuni. Invece, tramite un approccio di cloud computing, chiunque può “mettersi in fila” per prenotare l’utilizzo di un piccolo processore e poter fare il proprio esperimento di calcolo quantistico. Il problema di mantenere la privacy di questi utenti costituisce di conseguenza un’importante sfida da affrontare.

Nonostante fosse già noto come mantenere la privacy di un singolo utente connesso a un server remoto, rimaneva comunque aperto il problema di proteggere la privacy di un gruppo di utenti che collaborino allo stesso calcolo. Questo potrebbe essere il caso, ad esempio, di un gruppo di banche che puntano ad elaborare in modo congiunto i dati dei propri clienti per sviluppare un modello finanziario comune, ma senza che né le altre banche partecipanti, né i gestori del processore remoto possano carpire alcuna informazione sui dati dei loro clienti.

In un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, è stato dimostrato un protocollo di crittografia adattabile a piattaforme di crescente complessità e grandezza, che permette a più utenti di portare avanti un calcolo in comune mantenendo intatta la sicurezza dei loro dati e proteggendo tutti i dettagli del calcolo.

Questo è stato il risultato di una collaborazione scientifica nel campo di protocolli di computazione e crittografia quantistica tra la Sapienza Università di Roma, l’università La Sorbona di Parigi, il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica (CNRS) francese e l’impresa VeriQloud.

Le piattaforme basate su stati di luce quantistica sono tra le principali candidate per la realizzazione di reti quantistiche densamente interconnesse, che possano mettere in comunicazione più utenti, sia tra di loro che con server dotati di potenza di calcolo. Infatti, le sue proprietà fisiche la rendono un sistema molto promettente per la trasmissione di informazioni su lunga distanza, come hanno dimostrato alcuni esperimenti di comunicazione quantistica tra stazioni terrestri e satelliti in orbita.

L’esperimento guidato da Fabio Sciarrino e condotto presso il Quantum Lab del Dipartimento di Fisica della Sapienza ha dimostrato, per la prima volta, un protocollo in cui due utenti elaborano un calcolo quantistico su un server distante, pur assicurando la totale sicurezza dei dati relativi al calcolo. La piattaforma sperimentale sfrutta fibre ottiche per collegare i clienti tra loro e con il server, dimostrando la sicurezza e l’efficacia del protocollo anche nel caso in cui i partecipanti al protocollo si trovino a distanza.

Il protocollo e la sua sicurezza sono stati ideati e dimostrati da gruppi di ricerca diretti da Elham Kashefi e Marc Kaplan ed affiliati rispettivamente all’Università La Sorbona di Parigi e all’azienda VeriQloud.

“Il nostro lavoro – commenta Beatrice Polacchi, dottoranda del team Quantum Lab – è la prima dimostrazione sperimentale di un protocollo sicuro di delegazione di calcolo quantistico che coinvolge più di un cliente, e costituisce pertanto un mattoncino per la costruzione di reti quantistiche più grandi e sicure.”

Un altro importante risultato di questa collaborazione è la possibilità di continuare su questa strada per dimostrare protocolli di computazione sempre più sicuri e investigare reti quantistiche di crescente dimensione e connettività.

“I nostri risultati – conclude Fabio Sciarrino, responsabile del Quantum Lab – motivano la ricerca volta ad identificare nuovi protocolli sicuri calcolo quantistico delegato e nuove architetture modulari per le reti quantistiche. Ci aspettiamo che questo lavoro fornirà uno stimolo significativo alla ricerca sulla futura realizzazione di un cloud quantistico”.

Questa linea di ricerca è supportata dal programma europeo per la ricerca e l’innovazione “European Union’s Horizon 2020” attraverso il progetto FET “PHOQUSING”: www.phoqusing.eu.

Riferimenti bibliografici: 

Multi-client distributed blind quantum computation with the Qline architecture – Beatrice Polacchi, Dominik Leichtle, Leonardo Limongi, Gonzalo Carvacho, Giorgio Milani, Nicolò Spagnolo, Marc Kaplan, Fabio Sciarrino & Elham Kashefi – Nature Communications 14, 7743 (2023). https://doi.org/10.1038/s41467-023-43617-0

cloud computing quantistico privacy
Immagine di Pete Linforth

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Migliorare l’architettura dei computer con la biomimetica

Una ricerca, coordinata dal Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, ha sviluppato un nuovo dispositivo nanofluidico sul modello del funzionamento dei canali ionici cerebrali, essenziali per la propagazione ed elaborazione dei segnali elettrici, a basso consumo energetico. Il progetto, che ha ottenuto un finanziamento dal Consiglio europeo della ricerca (ERC), è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications.

Rappresentazione schematica di un canale ionico: 1 - subunità proteiche (tipicamente 4 o 5 per canale), 2 - vestibolo esterno, 3 - filtro selettivo, 4 - diametro del filtro selettivo, 5 - sito di fosforilazione, 6 - membrana cellulare.
Rappresentazione schematica di un canale ionico: 1 – subunità proteiche (tipicamente 4 o 5 per canale), 2 – vestibolo esterno, 3 – filtro selettivo, 4 – diametro del filtro selettivo, 5 – sito di fosforilazione, 6 – membrana cellulare.
Immagine di Paweł Tokarz, in pubblico dominio

Il cervello è particolarmente efficiente dal punto di vista energetico, in quanto elabora le informazioni memorizzandole negli stessi elementi che le processano. Invece per i computer il modo in cui vengono eseguiti i calcoli richiede attualmente la memorizzazione e l’elaborazione delle informazioni in parti diverse del calcolatore, rendendo il processo poco efficiente energeticamente. La costruzione di dispositivi neuromorfici, ovvero ispirati alle componenti del cervello umano, può rappresentare un importante passo avanti nelle applicazioni di intelligenza artificiale.

Uno studio coordinato da Alberto Giacomello del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, in collaborazione con il Istituto di Scienze Biomolecolari e Biotecnologia di Groningen (Paesi Bassi), l’Università del Sichuan e Centro di Innovazione Collaborativa (Cina) e l’Università di Roma Tor Vergata, prende ispirazione dai canali ionici che controllano il passaggio degli ioni nel cervello e sono essenziali per la propagazione ed elaborazione dei segnali elettrici nel sistema nervoso. Questo lavoro fa parte del progetto HyGate sul gating idrofobo finanziato dal Consiglio europeo della ricerca (ERC).

Il lavoro, pubblicato sulla rivista Nature Communications, si è basato sull’ingegnerizzazione di un particolare canale transmembrana – un nanoporo – che, sfruttando l’idrofobicità e la formazione di nanobolle, riesce a riprodurre il comportamento elettrico dei canali ionici naturali, pur funzionando mediante processi più semplici.

Era già noto che i nanopori idrofobi, tipicamente non conduttivi, possono diventare conduttivi quando viene applicato un voltaggio (electrowetting). Questo nuovo studio sviluppa una teoria quantitativa per questo fenomeno, dimostrando, per la prima volta, che in particolari condizioni, può essere usato per memorizzare informazioni. La teoria è stata testata realizzando sperimentalmente il singolo dispositivo “memristivo” ed implementando questo elemento in applicazioni neuromorfiche dimostrative.

“Eravamo interessati – afferma Alberto Giacomello – a progettare un nano-interruttore controllato dal voltaggio, ovvero in cui il cambiamento delle proprietà di conduzione è dovuto al gating idrofobo, meccanismo mediante cui bolle di dimensioni nanometriche, dette nanobolle, bloccano il passaggio degli ioni attraverso i canali. Abbiamo poi sfruttato il fenomeno dell’elettrowetting per causare il riempimento del nanoporo idrofobo e renderlo quindi conduttivo in maniera controllata”.

Il singolo dispositivo è stato progettato a partire da un particolare nanoporo biologico che poteva essere modificato e bioingegnerizzato seguendo i criteri suggeriti dalla teoria e dalle simulazioni, portate avanti dallo studio in questione. Tale dispositivo è stato realizzato grazie alla collaborazione con i partner sperimentali che lavorano con questi canali e hanno potuto studiarne la risposta al voltaggio.

La ricerca ha così dimostrato un nuovo modo di costruire dispositivi memristivi iontronici, basato sul gating idrofobo, contribuendo a costruire basi più concrete per studiare l’effetto della tensione sulla conduzione in nanopori idrofobi.

Inoltre, nuove architetture neuromorfiche potrebbero potenziare gli attuali algoritmi e i sistemi di intelligenza artificiale, rendendoli energeticamente più efficienti e sostenibili. Fra queste la iontronica che utilizzando gli ioni al posto degli elettroni come elementi conduttori apre a nuove prospettive anche in campo medico.

Riferimenti bibliografici:

Hydrophobically gated memristive nanopores for neuromorphic applications – Gonçalo Paulo, Ke Sun, Giovanni di Muccio, Alberto Gubbiotti, Blasco Morozzo della Rocca, Jia Geng, Giovanni Maglia, Mauro Chinappi, Alberto Giacomello – Nature Communications (2023). DOI: 10.1038/s41467-023-44019-y

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Scoperta in Messico una specie unica di lucertola spinosa, Sceloporus geminus 

Una ricerca, pubblicata sulla rivista Amphibia-Reptilia e frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza e l’Università nazionale autonoma del Messico, ha individuato nella lucertola Sceloporus geminus una nuova specie caratterizzata da una combinazione unica di diversi caratteri tra i quali un particolare pattern cromatico del collare di squame presente alla base della testa.

Sceloporus geminus Paratype
Crediti della foto: Gustavo Campillo-García

Una ricerca nata dalla collaborazione tra la Sapienza e l’Università nazionale autonoma del Messico ha individuato una nuova specie di lucertola spinosa denominata Sceloporus geminus caratterizzata da una combinazione unica di diversi caratteri, tra i quali un particolare pattern cromatico del collare di squame presente alla base della testa. Questa specie, che in passato era stata confusa con altre, è stata scoperta nella regione più meridionale della catena montuosa Sierra Madre Orientale in Messico.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Amphibia-Reptilia è il frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza e l’Università nazionale autonoma del Messico.

Il team di ricerca, che ha portato avanti per 15 anni missioni sul campo finalizzate a studi sulla biologia sistematica dei rettili messicani negli stati di Chiapas e Jalisco, ha confrontato gli individui oggetto dello studio con oltre 160 esemplari di altre specie del genere Sceloporus conservati in 15 diversi musei, analizzandone le caratteristiche genetiche e morfologiche.

“Lo studio morfologico – spiega Riccardo Castiglia della Sapienza – si è basato su 30 diverse caratteristiche e su una analisi filogenetica che ha incluso l’esame di marcatori genetici mitocondriali e nucleari evidenziando l’unicità della nuova specie rispetto alle altre specie affini. La sua accesa colorazione ventrale invece è presente anche in altre specie del genere Sceloporus e ha la funzione di comunicare lo stato di salute individuale essendo indicativa della forza fisica e della capacità competitiva dei maschi. In questo modo le femmine possono scegliere un maschio in migliori condizioni fisiche”.

Come anche altre specie affini, Sceloporus geminus è una specie vivipara, in quanto la femmina non depone uova ma partorisce piccoli già formati. Questa particolare strategia sembra essere vantaggiosa per prevenire un aumento della mortalità delle uova a causa delle basse temperature.

Grazie a questo studio si aggiunge una nuova specie di vertebrato alla fauna messicana confermando la ricca e ancora in parte inesplorata biodiversità di questa regione.

 

Riferimenti bibliografici:

More cryptic diversity among spiny lizards of the Sceloporus torquatus complex discovered through a multilocus approach – Gustavo Campillo-García, Oscar Alberto Flores-Villela, Brett Oliver Butler, Miriam Benabib, and Riccardo Castiglia – Amphibia-Reptilia 2023 DOI:10.1163/15685381-bja10163

Sceloporus geminus
Crediti della foto: Gustavo Campillo-García

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma