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UN PESCE FOSSILE DI 48 MILIONI DI ANNI RIVELA L’INASPETTATA STORIA EVOLUTIVA DEI PESCI LUNA

Lo studio, effettuato da un team italo-irlandese guidato da Valentina Rossi della University College Cork, Irlanda e da Giorgio Carnevale dell’Università di Torino, è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “Palaeontology”.ù

storia evolutiva pesce luna Bolca
Pesce fossile di 48 milioni di anni fa rivela la storia evolutiva dei pesci luna. Figura 1 – Mene rhombea (A) e ricostruzione schematica dell’anatomia (B)

Il recente ritrovamento di un nuovo esemplare di pesce luna (Mene rhombea – in figura 1) nei depositi fossiliferi di Bolca (Monti Lessini, Verona) ha stimolato un nuovo studio paleontologico che ha permesso di ricostruirne l’aspetto e determinarne la dieta e l’habitat. La ricerca, sviluppata da un team italo-irlandese guidato dalla ricercatrice Valentina Rossi della University College Cork, Irlanda e dal Prof. Giorgio Carnevale del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, è stato pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista scientifica “Palaeontology”.

I sedimenti fossiliferi di Bolca si sono accumulati nell’Eocene (circa 48 milioni di anni fa) in un mare tropicale che un tempo esisteva dove oggi sorgono i Monti Lessini, e sono ora conosciuti in tutto il mondo, da esperti e appassionati di paleontologia, per la straordinaria preservazione dei fossili che in essi sono conservati.

“I fossili rinvenuti dal sito della Pesciara sono definiti eccezionali in quanto presentano, oltre ai resti scheletrici, anche l’evidenza di tessuti non-mineralizzati come pelle, occhi, muscoli e organi interni”

ha dichiarato il Prof. Giorgio Carnevale, esperto delle faune di Bolca. L’esemplare studiato appartiene alla famiglia dei menidi, comunemente chiamati pesci luna per via del loro corpo appiattito, che al giorno d’oggi è rappresentata dalla sola Mene maculata, una specie che vive in acque poco profonde nell’Oceano Indo-Pacifico.

storia evolutiva pesce luna Bolca
Figura 2 – Mene maculata (A) e ricostruzione dell’aspetto del Mene rhombea, basata sui nuovi risultati scoperti dallo studio (B)

“Di esemplari di Mene rhombea ne sono stati trovati moltissimi, tanto che si può definire una vera e propria icona di questi giacimenti fossiliferi”, ha aggiunto Roberto Zorzin, “ma l’esemplare che abbiamo avuto l’opportunità di studiare è tra i meglio conservati mai rinvenuti”.

Sin dalle prime osservazioni effettuate presso il Museo Civico di Storia Naturale di Verona è stato chiaro per gli studiosi che si trattasse di un esemplare eccezionale (Fig. 1).

“Tre prominenti strie longitudinali di colore scuro alternate ad altrettante di colore più chiaro erano ben evidenti ad occhio nudo sui resti della pelle dell’animale. Grazie all’utilizzo di un microscopio ci siamo accorti che nell’addome erano presenti non solo i resti del suo ultimo pasto ma anche le tracce dell’intestino e altro materiale organico”, ha spiegato il Prof. Carnevale.

Ulteriori analisi morfologiche e chimiche di dettaglio hanno confermato la presenza di melanosomi nelle strie scure della pelle, nell’occhio e anche in alcune zone dell’addome. I melanosomi sono dei microscopici organelli cellulari contenti la melanina, il pigmento che dona il colore alla pelle, occhi, capelli e piume.

“Oggi sappiamo che nei vertebrati i melanosomi possono essere anche interni, ovvero contenuti all’interno degli organi, per esempio nel cuore, nel fegato e nei reni, per citarne alcuni” ha dichiarato la ricercatrice Valentina Rossi“trovarli in un fossile ci permette di ricostruirne il colore della pelle e l’anatomia interna”.

Lo studio comparativo con pesci attuali, la specifica distribuzione anatomica e la distinta geometria dei melanosomi nel fossile suggeriscono che questi organelli provengano da diversi tessuti, in particolare da pelle, rene, peritoneo e probabilmente cuore o fegato. L’analisi del contenuto dello stomaco invece ha rivelato la presenza di piccole ossa di pesce simili a quelle di una sardina, indicando che il M. rhombea avesse, almeno in parte, una dieta piscivora.

“Una dieta piscivora nei pesci attuali è spesso associata ad una livrea striata, con strie longitudinali con toni alternati chiari e scuri” ha aggiunto il Prof. Carnevale, “e questa informazione corrisponde perfettamente con i dati ottenuti dal nostro fossile confermando che in passato i pesci luna di Bolca preferivano mangiare piccoli pesci a differenza della specie attuale che invece si ciba di piccoli invertebrati e plancton”.

Un altro aspetto importante dello studio è la comparazione tra il pattern del colore della pelle osservabile nella specie vivente e quello rivenuto nel suo antenato fossile. Il primo è caratterizzato da una livrea maculata mentre il secondo da strie longitudinali e questo suggerisce che nel corso di quasi 50 milioni di anni la linea evolutiva dei menidi si sia diversificata e che le due specie avessero delle abitudini di vita diverse.

Nel Mene rhombea, le strie del dorso suggeriscono che l’animale abitasse ambienti di mare aperto. “È probabile che gli antichi pesci luna vivessero in banchi come gli attuali, ma preferissero nuotare in mare aperto, avvicinandosi alla costa solo per predare i piccoli pesci presenti in queste zone” ha spiegato il Prof. Carnevale.

Ma cosa ha portato a queste differenziazione delle livree? “Diverse modificazioni ambientali e genetiche hanno avuto un ruolo fondamentale nel cambiamento del pattern del colore nella linea evolutiva dei menidi”, ha aggiunto la ricercatrice Valentina Rossi. “Variazioni dei geni che controllano la formazione dei pattern della pelle possono avvenire molto rapidamente e sono osservabili nel giro di poche generazioni nei pesci; quindi, non è così strano ipotizzare gli stessi processi in due specie morfologicamente simili separate da ben 48 milioni di anni. La cosa incredibile è proprio che abbiamo potuto osservare direttamente un esemplare fossile così ben preservato da offrirci nuovi spunti per la ricerca dell’evoluzione del colore nelle specie ormai estinte. Rimango sempre affascinata dalla quantità di informazioni che possiamo estrarre dai fossili”.

Link all’articolo https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/pala.12600 

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino sul pesce luna fossile di Bolca che rivela la storia evolutiva dei pesci luna.

Da Napoli lo studio dell’equipe della Diabetologia della Federico II pubblicato su “Advances in Nutrition”

Mangiare pesce fa bene al cuore? Sì, ma solo se è grasso!

Il consumo di pesce azzurro, anche detto pesce grasso, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce bianco, identificato come pesce magro, non ha lo stesso potenziale.

Importante l’impatto che la ricerca avrà sulle scelte alimentari della popolazione adulta e sull’ecosistema marino.

acciughe pesce cuore
Mangiare pesce fa bene al cuore? Acciuga europea o alice (Engraulis encrasicolus). Acciughe fotografate nel Mar Ligure. Foto di Alessandro Duci, caricata da Massimiliano Marcelli, in pubblico dominio

Chi di noi, rivolgendosi ad un esperto, non ha ricevuto l’indicazione di consumare pesce almeno tre volte a settimana? Ebbene, da oggi qualcosa potrebbe cambiare.

Se, infatti, numerosi studi hanno dimostrato che il consumo di pesce si associa alla riduzione del rischio di malattie cardiovascolari ischemiche, come l’infarto del miocardio, sino ad ora nessuno aveva chiarito se i tipi di pesce fossero intercambiabili o se fosse meglio preferire le alici alla spigola, le sardine ai gamberi, in sintesi se fosse meglio il pesce azzurro, anche detto pesce grasso o il pesce bianco, noto come pesce magro.

La risposta è arrivata dallo studio dell’equipe della Diabetologia del Policlinico Federico II, guidata dalla professoressa Olga Vaccaro, che ha analizzato tutti i dati disponibili in letteratura sulla relazione tra il consumo di pesce e le malattie cardiovascolari.

Utilizzando una metodologia basata sulla sistematicità della ricerca, grazie a procedure statistiche in grado di combinare tutti i dati disponibili, abbiamo analizzato una popolazione di 1,320,509 individui, seguiti per un periodo di tempo che va dai 4 ai 40 anni. I risultati hanno mostrato, con estrema chiarezza, che il consumo di 1-2 porzioni di pesce grasso a settimana si associa ad una riduzione significativa del rischio di infarto e di altre patologie cardiache che, per i casi fatali, si colloca intorno al 17%. Al contrario, il consumo abituale di pesce magro, pur non aumentando il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, non si associa a questi benefici”, spiega la professoressa Vaccaro.

Vale a dire che il consumo di pesce grasso, come sardine, sgombri ed altri pesci azzurri, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce magro, come merluzzo, spigola, crostacei, molluschinon ha lo stesso potenziale.

I risultati di questo studio mettono in luce, per la prima volta, che l’effetto benefico sulla salute cardiovascolare attribuito finora al consumo di pesce in generale è in realtà limitato esclusivamente al pesce grasso. Questo ha una sua logica: il pesce grasso contiene, infatti, quantità fino a 10 volte più elevate di grassi cosiddetti omega-3, benefici per la salute, rispetto al pesce magro, inoltre, il pesce grasso è più ricco di molte altre sostanze salutari come calcio, potassio, ferro e Vitamina D, che possono contribuire all’impatto benefico del pesce azzurro sul cuore”, sottolinea il professore Gabriele Riccardi, già direttore della Diabetologia Federiciana.

Le conclusioni dello studio avranno implicazioni rilevanti per le scelte alimentari della popolazione adulta e per la preservazione dell’ecosistema marino.

La consapevolezza che bastano una o due porzioni di pesce azzurro a settimana per ridurre marcatamente il rischio di malattie cardiache facilita l’adesione alle raccomandazioni nutrizionali in confronto al generico consiglio di consumare ogni tipo di prodotto della pesca con una frequenza maggiore. Guardando agli aspetti ambientali, la scelta preferenziale di pesce azzurro di piccola taglia, e con un breve ciclo di vita come alici, sardine, sgombri, aringhe e molti altri pesci meno noti ma molto diffusi nel mar Mediterraneo, ha un impatto rilevante sull’ecosistema marino ed è molto più sostenibile dell’utilizzo di specie, ritenute più pregiate, che arrivano sulla nostra tavola grazie all’acquacultura o alla pesca intensiva”, conclude la professoressa Vaccaro.

All’innovativo studio, insieme ai professori Vaccaro e Riccardi, hanno preso parte le nutrizioniste Marilena Vitale e Ilaria Calabrese, la dottoranda di ricerca in “Nutraceuticals Functional Foods and Human Health” Annalisa Giosuè e la diabetologa Roberta Lupoli.

Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.

Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare: tra credenze e evidenze

Anche io, almeno fino a qualche tempo fa, cadevo nella facile conclusione che ci fosse una connessione tra Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e Vegetarianismo. D’altronde, entrambe condividono una tendenza a orientare le proprie scelte alimentari a favore di vegetali e frutta, cibi tendenzialmente ipocalorici. Poi a un certo punto, come mi accade per molte credenze, mi è venuta voglia di sbirciarci dentro e ho deciso di approfondire il tema, un po’ per curiosità personale, un po’ per “dovere” professionale. 

Spoiler per chi non vuole leggere fino in fondo: la letteratura scientifica esistente su questo argomento è molto intricata, un po’ per le diverse metodiche utilizzate, un po’ a causa della complessità nel definire il “vegetarianismo” in modo chiaro e ineluttabile. Insomma, trarre una conclusione univoca è difficile. Per chi invece si è incuriosito e vorrebbe saperne di più, andate avanti e godetevi la lettura, la ricompensa sarà l’averci capito qualcosa in più rispetto a chi si ferma qui!

vegetarianismo disturbi del comportamento alimentare DCA
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto PublicDomainPictures

Intanto, cosa sono i Disturbi del Comportamento Alimentare?

I DCA sono una serie di disturbi psichiatrici accomunati da due sintomi principali: l’alterazione delle abitudini alimentari e l’eccessiva preoccupazione per il peso e per la forma del corpo. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e ne soffrono soprattutto le donne. Sebbene ognuno di noi possa utilizzare strategie comportamentali o cognitive per cercare di limitare l’ingestione di cibo o controllare il proprio peso corporeo, non tutti soffrono di un DCA: ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa è patologico e cosa no, e sono ben descritti nel DSM-5 [1] e nell’ICD-11 [2].

 

Anoressia nervosa: fattori di rischio genetici e ambientali

I 3 principali DCA sono i) l’anoressia nervosa, caratterizzata da una costante ricerca della magrezza, da una paura patologica di prendere peso e da una distorta immagine corporea, le quali determinano un’assunzione di calorie insufficiente rispetto alle richieste fisiologiche, con conseguente perdita di peso che si attesta sotto la norma; ii) la bulimia nervosa, caratterizzata da abbuffate a cui seguono sensi di colpa legati alle preoccupazione per il peso e quindi condotte di eliminazione/compensatorie (vomito autoindotto, uso di lassativi, diuretici, pratica sportiva eccessiva ecc.) che dovrebbero placare l’ansia di prendere peso e iii) il disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder) in cui sono presenti abbuffate e sensi di colpa, ma mancano le condotte eliminatorie che caratterizzano la bulimia nervosa; spesso si associa a un peso sopra la norma.

anoressia nervosa fattori di rischio
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di StockSnap

 

E invece il vegetarianismo cos’è?

Qui iniziano i problemi, perché la prima vera difficoltà con cui si scontra la letteratura che indaga il rapporto tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare è la definizione stessa di vegetarianismo e il modo in cui questa variabile viene declinata nei diversi studi.
Partiamo col dire che il
vegetarianismo (o vegetarianesimo o vegetarismo) è un insieme di pratiche alimentari accomunate dal prevalente consumo di alimenti vegetali. Il fatto è che è possibile distinguere molti sottogruppi di vegetariani: i latto-ovo-vegetariani sono le persone che non assumono carne animale e prodotti della pesca, ma che assumono altri derivati animali come latticini e uova (esistono però anche i latto-vegetariani e gli ovo-vegetariani); i vegani, evitano anche tutti gli altri derivati animali come appunto latte e uova; i semi-vegetariani invece evitano solo alcune tipologie di carne oppure mangiano pesce ma non carne (pescetariani) oppure possono consumare carne, ma in modo saltuario (flexitariani).

Molti studi, per semplicità, raggruppano i “vegetariani” in un unico gruppo, confrontandoli con i non vegetariani; altri studi si sono sforzati di suddividerli nei vari sottogruppi, in modo da confrontarli tra di loro, oltre che con gli onnivori. Quest’ultimo approccio, probabilmente il migliore, è stato usato di rado, a causa della difficoltà a reclutare un numero sufficientemente grande di individui con i vari tipi di vegetarianismo, ma la comprensione della relazione tra alimentazione a base vegetale e DCA sembra passare di qui.

 

Un thali vegetariano dal Rajasthan. Foto di Simranjeet Sidhu, CC BY-SA 4.0

Come se non bastasse, la decisione di diventare vegetariani può originare da una infinità di motivi: ci sono persone che sono vegetariane perché richiesto dalla loro religione (in India, ad esempio, il vegetarianismo è una questione storicamente religiosa), vegetariani che semplicemente non possono permettersi la carne o vegetariani che rifiutano di consumare carne solo per le proprietà gustative.

Ciononostante, nelle società industrializzate e secolarizzate occidentali possiamo distinguere fondamentalmente tre motivazioni che spingono una persona a diventare vegetariana. La prima motivazione è quella di stampo etico-animalista, cioè i vegetariani che affermano di seguire una dieta a base vegetale allo scopo di ridurre lo sfruttamento e le pratiche crudeli che subiscono gli animali d’allevamento. Un’altra parte di vegetariani riferisce di evitare carne e derivati animali per ragioni salutistiche e nutrizionali, ed in effetti una dieta a base vegetale – se ben bilanciata – sembra ridurre l’incidenza di disturbi cardiovascolari e cancro (Campbell, 1998; Hart, 2009). Infine, una terza motivazione è quella etico-ecologista, legata alla problematiche che gli allevamenti determinano a livello ambientale, causate dal sovraconsumo di acqua o dall’eccessiva emissione di gas inquinanti.

Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Daniel Reche

Ora, quali sono le motivazioni più spesso addotte da chi ha deciso di seguire una dieta a base vegetale? Klopp e colleghi (2003) suggeriscono che la ragione più di frequente riportata da chi intraprende una dieta vegetariana è quella relativa alla maggior salubrità rispetto alla dieta onnivora (37,5%), Timko e collaboratori (2012) invece hanno trovato che le motivazioni più spesso richiamate dai vegetariani sono quelle di natura etico-animalista (50% del campione). A complicare il panorama ci pensa la ricerca di Baş e collaboratori (2005) che riportava come ragione più comune semplicemente le preferenze gustative (cioè il 58,1% del campione ha dichiarato di essere vegetariano semplicemente perché non apprezza a livello gustativo carne e/o derivati animali).

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di S. Hermann & F. Richter


Queste differenze sono in parte spiegate dalle caratteristiche sociodemografiche dei partecipanti, in prevalenza statunitensi sia nello studio di Klopp che in quello di Timko, ma in quest’ultimo caso più adulti (età media 26 contro i 19 del campione di Klopp). Nello studio di Baş invece i partecipanti erano turchi con un’età media di 21 anni. Queste differenze ci indicano che è fondamentale considerare gli aspetti sociodemografici, ma è invece trasversale la constatazione che molti dei vegetariani che parlano di motivazioni salutistiche/nutrizionali dietro alle loro scelte alimentari, fanno riferimento più o meno esplicito anche alla possibilità di poter controllare più facilmente il proprio peso e la forma del proprio corpo, escludendo i grassi animali dalla propria dieta (Bardone-Cone et al., 2012). Ed in effetti i vegetariani presentano un più accentuato tratto di ortoressia (fissazione sull’alimentazione salutare) rispetto agli onnivori (Barthels et al., 2018). È qui che nasce un primo collegamento con i DCA. 

 

Partiamo dagli stili alimentari…

Come abbiamo detto sopra, per fare diagnosi di DCA si deve soddisfare una serie di criteri. Questo non vuol dire che però ognuno di noi non possa presentare stili alimentari più o meno disfunzionali, senza per forza sfociare nella patologia. Uno di questi stili è il Restrained Eating, che potremmo tradurre come restrizione alimentare o dietetica. Per restrizione dietetica si intende il ricorso sistematico a diete o il tentativo di limitare il consumo di cibo in generale, al fine di controllare il proprio peso corporeo. Nella realtà dei fatti, le restrizioni dietetiche si manifestano come il ricorso a digiuni o, più frequentemente, come una riduzione nel consumo di specifici prodotti o macronutrienti, senza un reale riscontro sul peso, che è esattamente ciò che accade nel vegetarianismo. Inoltre, poiché a restrizioni croniche conseguono spesso abbuffate, elevati tratti di “restrained eating” sembrano predire la manifestazione di diversi DCA (Stiche, 2002; Polivy & Herman, 2002).

Dato che è possibile misurare le restrizioni dietetiche come fossero un tratto di personalità utilizzando specifici questionari, molti studi si sono concentrati su questo stile, per vedere se è più accentuato nei vegetariani che negli onnivori. I dati ci dicono che vegani e latto-ovo-vegetariani non si differenziano per questo tratto rispetto agli onnivori, ed anzi qualcuno suggerisce che una dieta vegana sia collegata a minori livelli di restrizioni alimentari (Janelle & Bar, 1995; Kahleova et al., 2013). Al contrario flexitariani e semi-vegetariani, che evitano quindi specifici tipi di carne o che cercano di limitare il consumo, mostrano un restrained eating più pronunciato rispetto agli onnivori (Forrestell et al., 2013; Timko et al., 2012). Questo lascerebbe ipotizzare che il vegetarianismo abbracciato da latto-ovo-vegetariani e vegani sia di fatto più di tipo morale ed etico, rispetto a quello dei flexitariani e semi-vegetariani, probabilmente più legato ad aspetti salutistici e di peso. Di conseguenza, questi ultimi sarebbero più a rischio di sviluppare un DCA o comunque comportamenti alimentari disfunzionali. 

Altri stili alimentari misurabili sono l’Emotional Eating (o alimentazione emotiva) ovvero la tendenza più o meno pronunciata a sovralimentarsi, in risposta ad emozioni stressanti e l’External Eating (o alimentazione disinibita), cioè la tendenza a cedere o meno a delle tentazioni alimentari che provengono dall’ambiente, indipendentemente dal nostro appetito fisiologico. Ad oggi non ci sono confronti tra vegetariani e onnivori in questi specifici tratti. D’altra parte alcuni studi hanno riportato una maggiore tendenza ad abbuffarsi da parte dei vegetariani rispetto agli onnivori (Robinson-O’Brien et al., 2009; MacLean et al., 2021). Questo risultato potrebbe avere tre cause: i) i vegetariani potrebbe essere più indulgenti con loro stessi in relazione alla quantità di cibo da consumare, essendo verdura e frutta prodotti sani; ii) una dieta a base vegetale non sempre potrebbe fornire un senso di pienezza o un apporto equilibrato di macronutrienti e questo potrebbe innescare episodi di abbuffate; iii) i vegetariani potrebbero anche avere una soglia più bassa relativa al concetto di “abbuffata” rispetto agli onnivori, a causa delle loro abitudini alimentari più ponderate. 

Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE

 

Ma i vegetariani presentano più spesso un DCA rispetto agli onnivori?

Gli studi che hanno utilizzato domande dicotomiche non standardizzate, per rilevare la presenza di DCA tra i vegetariani, non sono arrivati a conclusioni definitive. Tre revisioni retrospettive (Hadigan et al., 2000; O’Connor et al., 1987; Kadambari et al., 1986), hanno rilevato che circa la metà delle persone con diagnosi di anoressia nervosa riferiva di aver aderito a una dieta vegetariana. Purtroppo, in nessuno di questi studi era specificato il sottotipo di vegetarianismo. Al contrario, un altro studio non ha trovato differenze nella distribuzione di vegetariani e onnivori in partecipanti con diagnosi di DCA e partecipanti sani (Estima et al., 2012). Infine, una ricerca, ha rilevato la maggiore propensione da parte dei vegetariani ad abbuffarsi ed utilizzare misure di controllo del peso non salutari, come il vomito autoindotto o l’uso di lassativi (Robinson-O’Brien et al., 2009).

 

Atteggiamenti alimentari disfunzionali nei vegetariani: i campanelli d’allarme

Un altro metodo per capire se il vegetarianismo è più o meno correlato ai Disturbi del Comportamento Alimentare è quello di valutare i punteggi ottenuti ai questionari self-report che indagano aspetti comportamentali o cognitivi che caratterizzano i DCA. Se è vero che il vegetarianismo è collegato ai Disturbi del Comportamento Alimentare, allora i vegetariani dovrebbero ottenere punteggi maggiori (che corrispondono a tratti più pronunciati) nelle varie scale e sottoscale che valutano la sintomatologia DCA rispetto agli onnivori. Gli studi che hanno utilizzato questo metodo d’indagine sono stati condotti prevalentemente su studenti universitari, ed hanno mostrato che i vegetariani avevano punteggi più alti (rispetto agli onnivori) nelle sottoscale che valutano le preoccupazioni relative all’alimentazione, alla forma e al peso corporeo, ma non in quelle che valutano le restrizioni caloriche (Sieke et al., 2013). Inoltre quelli che riferivano di essere vegetariani per motivi di salute o di forma/peso mostravano in media punteggi più alti rispetto a quelli che dichiaravano di seguire questa dieta per motivi etico-morali. E mentre Zuromsky e collaboratori (2015) hanno osservato punteggi maggiori in tutte le sottoscale in chi riferiva una qualsiasi forma di vegetarianismo, Timko e collaboratori (2012) hanno evidenziato che i punteggi critici nella sottoscala “preoccupazioni per l’alimentazione” caratterizzava solo il sottogruppo dei semi-vegetariani. 

In definitiva anche in questo caso i vari studi mostrano risultati contrastanti: alcuni hanno trovato punteggi più alti (e quindi atteggiamenti alimentari più disfunzionali) nei vegetariani rispetto agli onnivori, altri studi non hanno trovato differenze se non nei semi-vegetariani, che sembrano essere anche in questo caso quelli con più problematiche alimentari (Timko et al., 2012; Forestell et al., 2012). Infine, ad oggi un solo studio ha indagato gli atteggiamenti riguardanti la propria immagine corporea, meno negativi nelle ragazze vegetariane rispetto a quelle onnivore. Questa minore preoccupazione per la propria immagine corporea potrebbe dipendere dal BMI generalmente inferiore dei vegetariani (Dorard & Mathiue, 2021). 

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Immagine di Oberholster Venita

Conclusioni

In linea generale, dunque, sembrerebbe che chi ha una diagnosi di DCA riferisca di essere vegetariano più spesso rispetto a chi non ha una diagnosi di DCA. Inoltre, i gruppi subclinici quindi con punteggi alti nelle scale che misurano la sintomatologia DCA ma senza diagnosi, riferiscono storie di vegetarianismo più di frequente rispetto a chi non presenta alcun sintomo. Questi dati forniscono un supporto almeno preliminare all’idea che ci sia una relazione tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Gli studi che hanno confrontato sottogruppi di vegetariani, però, hanno sottolineato la necessità di distinguere tra i diversi sottotipi, i quali mostrano punteggi molto diversi nelle scale che misurano i comportamenti alimentari patologici. 

In particolare, rispetto a ovo-latto-vegetariani, vegani e onnivori, sembra che i semi-vegetariani siano quelli che riportano un comportamento alimentare più disfunzionale (sono i “più patologici” secondo Heiss et al., 2017). I semi-vegetariani hanno maggiori probabilità di limitare l’assunzione di cibo a causa di preoccupazioni riguardo l’alimentazione (Timko et al., 2012), mentre gli ovo-latto-vegetariani e i vegani aderiscono a una dieta vegetariana principalmente per motivi etici (Forestell et al., 2012; Curtis e Comer , 2006). Non solo, i semi-vegetariani sono anche più suscettibili alle abbuffate rispetto agli altri vegetariani e agli onnivori. Queste conclusioni suggeriscono che i semi-vegetariani sono categoricamente diversi dagli altri vegetariani e questa distinzione dovrebbe essere considerata quando si valuta il comportamento alimentare (Robinson-O’Brien et al., 2009).

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Дарья Яковлева

Da questo punto di vista, sarebbe interessante se ci fossero più studi provenienti dai paesi mediterranei (come l’Italia), dove, se da una parte il vegetarianismo è abbastanza diffuso, dall’altra la dieta mediterranea prevede già di per sé un consumo di carne e di derivati animali moderato, a favore del consumo di vegetali (Willett et al., 1995). In un campione con tali abitudini alimentari, il sottogruppo semi-vegetariano potrebbe essere molto meno numeroso rispetto ad altri paesi occidentali, dove il consumo di carne e grassi animali è maggiore. In generale, la tipologia di vegetarianismo e i motivi che ne sono alla base non possono non prescindere dal campione di riferimento, ma ad oggi la maggior parte dei dati sul tema derivano dagli Stati Uniti e dai Paesi del Nord Europa.

Infine dobbiamo considerare che non solo il tipo di vegetarianismo, ma anche le tempistiche in cui vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare si sono avvicendati dovrebbero essere maggiormente approfonditi. Al momento non ci sono dati che indicano inequivocabilmente che il vegetarianismo sia di per sé un fattore di rischio dei DCA e che, quindi, potrebbe contribuire all’esordio di un DCA. Piuttosto, il vegetarianismo potrebbe essere un modo per limitare l’introito calorico e/o per “camuffare”, con un metodo socialmente accettabile, un DCA o comunque una sintomatologia alimentare tendente al patologico (Baş et al., 2005). È anche probabile che il vegetarianismo possa contribuire ad un prolungamento della patologia alimentare, rendendo più difficoltosa la guarigione e dunque configurarsi come un fattore di mantenimento più che come un fattore di rischio. 

Sono dunque necessarie ricerche ben progettate, con campioni variegati e attente alle numerose variabili relative alle due condizioni, per trarre conclusioni definitive. Ad oggi possiamo dire che sì, ci sono delle relazioni tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare, ma quale siano queste relazioni, è ancora tutt’altro che chiaro.

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Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE

 

[1] Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), edizione 5: sistema nosografico per i disturbi mentali o psicopatologici redatto dall’American Psychiatric Association

[2] Classificazione Internazionale delle Malattie (International Classification of Disease), edizione 11: sistema di classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità

Bibliografia:

Bardone-Cone, A. M., Fitzsimmons-Craft, E. E., Harney, M. B., Maldonado, C. R., Lawson, M. A., Smith, R., & Robinson, D. P. (2012). The inter-relationships between vegetarianism and eating disorders among females. Journal of the Academy of Nutrition and Dietetics, 112(8), 1247-1252.

Barthels, F., Meyer, F., & Pietrowsky, R. (2018). Orthorexic and restrained eating behaviour in vegans, vegetarians, and individuals on a diet. Eating and Weight Disorders-Studies on Anorexia, Bulimia and Obesity, 23(2), 159-166.

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