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LA “DIETA” DEGLI ELEFANTI NANI DELLA SICILIA, PALAEOLOXODON FALCONERI E PALAEOLOXODON MNAIDRIENSIS

Il Palaeoloxodon falconeri e il Palaeoloxodon mnaidriensis erano pascolatori: la loro dieta era basata su un alto consumo di materiale erbaceo abrasivo. La scoperta dei ricercatori dell’Università di Padova e Saragozza grazie all’analisi dell’usura dentaria prodotta dal cibo consumato e rinvenuta sui reperti fossili conservati al Museo della Natura e dell’Uomo

Pubblicata su «Papers in Palaeontolgy» con il titolo “Feeding strategies of the Pleistocene insular dwarf elephants Palaeoloxodon falconeri and Palaeoloxodon mnaidriensis from Sicily (Italy)” la ricerca delle Università di Padova e Saragozza sulle abitudini alimentari degli elefanti nani della Sicilia, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis, vissuti nel Pleistocene Medio (tra gli 800 e i 100 mila anni fa). È la prima volta che viene fatta un’ipotesi sulla loro dieta grazie all’analisi, sui reperti presenti nella sezione di Geologia e Paleontologa del Museo della Natura e dell’Uomo (MNU) dell’Università di Padova, dell’usura dentaria prodotta dal cibo consumato dall’animale.

Gli elefanti nani in Sicilia nel Pleistocene Medio

Il MNU dell’Università di Padova custodisce numerosi resti di elefanti nani fossili della Sicilia, provenienti da quattro località del palermitano. Si tratta di due specie estinte, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis, che derivano da uno stesso antenato comune continentale, Palaeoloxodon antiquus, arrivato sull’isola a seguito di diversi episodi indipendenti di dispersione con successiva diminuzione della taglia corporea. Il Palaeoloxodon falconeri (800-400 mila anni fa) è la specie più piccola fino ad ora conosciuta, con una altezza al garrese di circa 1 m nei maschi adulti e 0,9 m nelle femmine; il Palaeoloxodon mnaidriensis (400-100 mila anni fa) è andato incontro ad una minor riduzione di taglia ma, con i suoi 1,8-2,0 m al garrese, è sostanzialmente alto la metà dell’antenato continentale che raggiungeva i 4 m di statura

Nel Pleistocene Medio la Sicilia era probabilmente frammentata in isole più piccole e la fauna a mammiferi era estremamente impoverita. Il Palaeoloxodon falconeri era l’unico mammifero di taglia medio-grande: non aveva altre specie con cui competere per il cibo e nemmeno predatori da cui difendersi, fattore questo, che ne ha consentito l’estrema riduzione di taglia. Al contrario il Palaeoloxodon mnaidriensis viveva in una Sicilia con dimensioni prossime alle attuali e coabitava con una fauna che comprendeva ippopotami, quattro grossi ruminanti e carnivori che ne giustificano una riduzione di taglia meno marcata.

ricostruzione dei due elefanti nani di Sicilia, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis
ricostruzione dei due elefanti nani di Sicilia, Palaeoloxodon falconeri e Palaeoloxodon mnaidriensis. Raffigurazione artistica © Simone Zoccante (2025)

Analisi dei denti e abitudini alimentari

I ricercatori si sono concentrati sull’usura dentaria prodotta dal cibo consumato dall’animale per ricostruirne la dieta. Gli studiosi si sono chiesti se gli animali prediligessero la vegetazione erbacea tendenzialmente più abrasiva (pascolatori) oppure più tenera e nutriente come foglie, frutti e germogli (brucatori) o ancora se avesse una dieta mista.

«In questo studio abbiamo condotto per la prima volta un’analisi della dieta delle due specie nane utilizzando due tecniche di analisi dell’usura dentaria: quella della microusura (microwear) e della mesousura (mesowear)», dice Marzia Breda del Centro di Ateneo per i Musei dell’Università di Padova. «Il risultato più interessante è la convergenza in termini di dieta dei due elefanti in risposta a diverse pressioni ecologiche».

Marzia Breda
Marzia Breda

L’analisi della microusura dentaria studia le tracce microscopiche che il cibo ingerito dall’animale durante gli ultimi pasti prima della morte lascia sulla superficie occlusale dello smalto dei denti. I mammiferi erbivori con una dieta costituita da materiale vegetale molto abrasivo (graminacee) presentano dei pattern composti da abbondanti striature prodotte durante la masticazione. L’analisi della mesousura dentaria studia invece come le abitudini alimentari modificano la superficie occlusale del dente durante un periodo di tempo relativamente lungo rispetto alla vita dell’animale stesso (mesi o anni). Negli elefanti, i cui denti sono costituiti da un insieme di lamelle allineate, questa analisi tiene conto del rilievo tra le creste di smalto e la dentina racchiusa al loro interno. L’angolo tra il fondo della “valle” di dentina e il rilievo delle creste di smalto che le delimitano si correlano con abitudini alimentari distinte: angoli chiusi indicano diete caratterizzate da maggior consumo di materiale vegetale tenero, mentre angoli più aperti si associano a una dieta più abrasiva che, con il tempo, “appiattisce” la superficie occlusale del dente.

«Per i piccoli denti, di Palaeoloxodon falconeri,siè dovuto procedere – aggiunge Breda – alla scansione 3D del dente con un microscopio e poi estrarre digitalmente gli angoli, mettendo a punto un nuovo protocollo di riferimento per studi futuri».

Strie di microusura in tre denti di Palaeoloxodon falconeri sopra e tre di Palaeoloxodon mnaidriensis sotto.
Strie di microusura in tre denti di Palaeoloxodon falconeri sopra e tre di Palaeoloxodon mnaidriensis sotto.

I risultati

Nonostante la riduzione/assenza di competitori per l’accesso alle limitate risorse vegetali che avrebbe potuto consentire quindi la selezione di materiale vegetale più tenero e digeribile, i risultati dimostrano, per entrambe le specie, un alto consumo di materiale abrasivo tipico di una dieta di tipo pascolatore.

«Nel caso di Palaeoloxodon mnaidriensis, probabilmente si trattava di un adattamento all’espansione delle zone a prateria avvenuto durante le fasi finali del Pleistocene Medio e di una spartizione delle nicchie ecologiche con gli altri mammiferi di taglia medio-grande presenti sull’isola», sottolinea Flavia Strani, Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Saragozza. «Per Palaeoloxodon falconeri si può invece ipotizzare che l’assenza della pressione predatoria abbia portato ad un aumento della popolazione e quindi ad un sovra sfruttamento delle risorse vegetali, di per sé già limitate in ambiente insulare, spingendo le piante a “difendersi” con l’aumento di deposizioni di silice amorfa nelle cellule vegetali e con una maggior lignificazione, da cui l’usura riscontrata nelle nostre analisi».

Flavia Strani
Flavia Strani

«Si tratta di un risultato estremamente importante – puntualizza Marzia Breda dell’Università di Padova – che dimostra ancora una volta come le isole siano dei veri e propri laboratori naturali dell’evoluzione, perché in esse l’isolamento geografico e le variate condizioni ecologiche – risorse limitate, pressione predatoria ridotta o assente, e competizione ridotta o assente – forniscono le condizioni ideali per osservare e comprendere processi evolutivi che, nel più ricco e vario ambiente continentale, vengono talvolta oscurati».

«Questo studio dimostra come il MNU non sia solo un moderno centro espositivo e didattico, ma anche un vivo laboratorio di ricerca», conclude Fabrizio Nestola, Presidente del Centro di Ateneo per i Musei e Direttore del Museo della Natura e dell’Uomo. «Si tratta ancora una volta di nuovi studi su vecchi esemplari, fossili che, nonostante facciano parte delle collezioni storiche, hanno ancora tanto da raccontare e mantengono quindi un alto valore scientifico. Il nostro compito è preservarli per le generazioni future».

Riferimenti bibliografici:

Flavia Strani, Simone Rebuffi, Manuela Gialanella, Daniel DeMiguel, Stefano Castelli, Mariagabriella Fornasiero, Gilberto Artioli, Gregorio Dal Sasso, Claudio Mazzoli, Giuseppe Fusco, Marzia Breda, Feeding strategies of the Pleistocene insular dwarf elephants Palaeoloxodon falconeri and Palaeoloxodon mnaidriensis from Sicily (Italy)” – «Papers in Palaeontology» 2025, DOI: https://doi.org/10.1002/spp2.70036

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Le più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili, provenienti dalla Cina, riscrivono la storia dell’oceano moderno

I ricercatori dell’Università Statale di Milano, analizzando campioni fossili provenienti dalla Cina, hanno identificato le più antiche tracce di alghe coccolitoforidi (un tipo di fitoplancton) finora note, risalenti a circa 250 milioni di anni fa. La scoperta anticipa di 40 milioni di anni le stime sulla nascita dell’oceano come lo conosciamo oggi. Le coccolitoforidi, infatti, contribuiscono alla rimozione della CO₂ e sono parte dei produttori primari che influiscono tutta la biosfera marina. Questo suggerisce che già all’alba del Mesozoico ha avuto inizio la transizione ecologica che ha portato alla nascita di una fauna marina moderna segnando l’inizio dell’oceano attuale. Lo studio è stato pubblicato sulla Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia.

più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili

Milano, 18 agosto 2025 – L’oceano, l’ecosistema più antico e vasto del nostro pianeta, nel corso del tempo ha subito profonde trasformazioni. Ma quando ha assunto l’aspetto che conosciamo oggi?

Una nuova ricerca condotta dall’Università Statale di Milano in collaborazione con l’Università di Pechino, l’Università della California e del Centro di Geoscienze Marine (GEOMAR) di Kiel (Germania), suggerisce che la risposta vada cercata molto più indietro nel tempo di quanto si pensasse finora.

I ricercatori, analizzando campioni fossili provenienti dalla Cina meridionale, archiviati nel Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano (raccolti e studiati in precedenza per i vertebrati marini), hanno identificato tracce di coccolitoforidi scoprendo che queste alghe unicellulari marine (fitoplancton calcareo) di dimensioni comprese tra 3 e 40 micron (1 micron = 1/1000 mm) risalgono a circa 250 milioni di anni. Si tratta delle più antiche coccolitoforidi finora note, che anticipano di circa 40 milioni di anni le precedenti stime sull’origine di questi organismi.

Questa scoperta, pubblicata sulla Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia, è significativa perché identificare quando comparvero le prime coccolitoforidi ci aiuta a datare la nascita dell’oceano moderno.

Infatti, questi organismi, attraverso un processo chiamato coccolitogenesi, producono minuscole piastre di calcite (i coccoliti) che formano un guscio protettivo attorno alla cellula detto coccosfera. Alla morte dell’alga, coccoliti e coccosfere cadono attraverso la colonna d’acqua e si depositano come sedimenti marini sui fondali oceanici (diventando nannofossili calcarei). Questo meccanismo contribuisce all’assorbimento della CO₂ sia tramite la fotosintesi sia attraverso la produzione di calcite e (nell’arco di centinaia di milioni di anni) ha avuto un ruolo chiave nel creare un ambiente favorevole alla comparsa della fauna marina moderna e di conseguenza dell’oceano attuale.

più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili
Le più antiche tracce di alghe coccolitoforidi fossili, provenienti dalla Cina, riscrivono la storia dell’oceano moderno

L’origine della calcificazione da parte delle coccolitoforidi è stata studiata da un punto di vista biologico e molecolare, ma le analisi geologico-micropaleontologiche dei sedimenti marini rimangono l’unico modo diretto per datare l’origine e lo sviluppo della coccolitogenesi cioè l’inizio della produzione di calcite da parte di un gruppo di fitoplancton.

Fino ad oggi, i nannofossili calcarei più antichi conosciuti, rinvenuti in sedimenti della Tetide (Alpi austriache e lombarde) e della Pantalassa (Australia, Canada occidentale, Argentina, Perù) erano datati al Triassico Superiore (~210 milioni di anni fa).

Ora però le nuove ricerche indicano la comparsa dei coccoliti più antichi poco dopo l’estinzione di massa di fine Permiano, all’Inizio del Triassico. In un contesto oceanico estremo (acido e povero di ossigeno) causato dalle imponenti eruzioni vulcaniche che alterarono il clima globale e le condizioni chimico-fisiche oceaniche, l’aumento di temperatura e CO₂ atmosferica ebbe tra le sue conseguenze l’accelerazione del dilavamento delle terre emerse riversando grandi quantità di nutrienti nei mari e innalzando così la fertilità degli oceani. Questo aumento di nutrienti favorì l’evoluzione del fitoplancton calcificato con la comparsa di coccolitoforidi primitivi di piccole dimensioni.

La scoperta di coccoliti e coccosfere risalenti a circa 249 milioni di anni fa, in sedimenti marini del Triassico Inferiore della Cina meridionale, rappresenta un punto di svolta per la paleontologia e la storia degli oceani. Questi coccoliti primitivi, piccoli (2–2,5 micron) e semplici, suggeriscono che la calcificazione sia emersa subito dopo l’estinzione di massa di fine Permiano, favorita da nuove condizioni ambientali e da nicchie ecologiche libere che hanno spinto le alghe coccolitoforidi verso innovazioni adattive. Si tratta quindi di un indizio cruciale per comprendere come, già all’alba del Mesozoico, si stessero gettando le basi degli ecosistemi marini dell’oceano attuale

spiega Elisabetta Erba, professoressa di Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano e prima autrice dello studio.

Infatti, i nannofossili calcarei del Triassico Inferiore (249 – 245 milioni di anni fa circa) sono correlati con la comparsa di molti altri nuovi gruppi marini, indicando l’instaurarsi di un’importante diversificazione della biosfera dalla base al vertice della catena alimentare.

Poi, durante il Triassico Medio (245 e 228 milioni di anni fa), le associazioni di nannofossili calcarei diventano sempre più abbondanti e diversificate, parallelamente all’espansione di pesci e rettili marini verso ambienti pelagici. Questo rafforza l’idea di un legame tra le coccolitoforidi calcificanti (o fitoplancton calcareo) e la ristrutturazione degli ecosistemi dopo l’estinzione di massa del Permiano e l’affermarsi di una fauna marina moderna.

“In sintesi, le nostre scoperte datano la nascita dell’oceano moderno all’alba del Mesozoico e sottolineano le profonde interconnessioni tra processi geologici, chimica oceanica e innovazione biologica. L’emergere della coccolitogenesi subito dopo l’estinzione di massa di fine Permiano è uno spettacolare esempio di stretta correlazione tra processi geologici ed evoluzione della vita

conclude Cinzia Bottini professoressa di Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università degli Studi di Milano.

Riferimenti bibliografici:

ERBA, E. et al. 2025, EARLY TRIASSIC ORIGIN OF COCCOLITHOGENESIS. RIVISTA ITALIANA DI PALEONTOLOGIA E STRATIGRAFIA, 131, 2 (Jul. 2025), DOI: https://doi.org/10.54103/2039-4942/29160

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Proteine da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa rivoluzionano gli studi evoluzionistici

Una ricerca internazionale pubblicata su Nature ha recuperato sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte segnando una svolta nella ricostruzione dell’evoluzione delle specie estinte

Uno studio innovativo che sarà pubblicato in “Nature” annuncia il recupero di sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa, spingendo indietro di milioni di anni i confini della ricerca sulle proteine antiche. Questo risultato senza precedenti apre una nuova frontiera per la paleoproteomica, promettendo di svelare segreti dell’evoluzione risalenti a tempi remoti, ben oltre la portata del DNA antico.

Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature” il 9 luglio 2025, descrive l’estrazione e il sequenziamento di antiche proteine dello smalto da un dente di rinoceronte fossilizzato risalente a 21-24 milioni di anni fa, risalente al Miocene inferiore.

Questa straordinaria impresa, ottenuta a partire da un fossile rinvenuto nell’Alto Artico canadese, estende di ben dieci volte la scala temporale delle sequenze proteiche recuperabili e informative sull’evoluzione rispetto al più antico DNA conosciuto.

Questa ricerca segna un momento cruciale per la paleoproteomica, lo studio delle proteine antiche. Sebbene proteine antiche siano state trovate in fossili del Miocene medio-superiore (circa gli ultimi 10 milioni di anni), l’ottenimento di sequenze sufficientemente dettagliate per ricostruzioni robuste delle relazioni evolutive era precedentemente limitato a campioni non più vecchi di 4 milioni di anni. Questo nuovo studio amplia significativamente tale finestra temporale, dimostrando lo straordinario potenziale delle proteine di persistere su vaste scale temporali geologiche nelle giuste condizioni.

Lo studio, coordinato dal Globe Institute dell’Università di Copenaghen, ha ricostruito sequenze proteiche dallo smalto dentale di un rinoceronte vissuto nell’attuale Artico canadese durante il Miocene inferiore. Grazie alla stabilità dello smalto e alle condizioni ambientali estreme del cratere di Haughton — freddo costante e permafrost — le proteine sono risultate sorprendentemente ben conservate. Queste sequenze proteiche antiche hanno permesso di collocare con precisione evolutiva il rinoceronte all’interno del suo albero genealogico, e suggeriscono che la divergenza tra le sottofamiglie Elasmotheriinae e Rhinocerotinae sia avvenuta durante l’Oligocene (34–22 milioni di anni fa), più recentemente di quanto ipotizzato in precedenza.

Il progetto è stato guidato dal Dott. Ryan Sinclair Paterson e diretto dal Prof. Enrico Cappellini dell’Università di Copenaghen. All’interno di questo progetto, l’apporto del Dott. Gabriele Scorrano (Università di Tor Vergata), del Prof. Raffaele Sardella (Dipartimento di Scienze della Terra, Sapienza Università di Roma) e del Dott. Luca Bellucci (Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze) è stato fondamentale: hanno fornito e analizzato un esemplare di dente di rinoceronte di circa 400.000 anni fa, proveniente dal sito archeo-paleontologico di Fontana Ranuccio (Lazio, provincia di Frosinone).

La ricerca vede coinvolte anche due ricercatrici dell’Università di Torino: Meaghan Mackie, dottoranda del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi di UniTo e dell’University College Dublin, e la sua supervisor, la Prof.ssa Beatrice Demarchi, docente ordinaria presso l’Ateneo torinese ed esperta di biomolecole antiche.

 

In questo sito, insieme a una ricca fauna, sono stati rinvenuti alcuni tra i più antichi reperti del genere Homo in Italia. Il reperto ha funzionato da riferimento intermedio tra i campioni più recenti (esemplari medievali) e quello molto più antico analizzato in questo studio, offrendo un confronto diretto sulla conservazione proteica nel tempo.

Il contributo del team dell’Università di Torino è stato cruciale per la validazione dei dati e l’interpretazione dei processi di diagenesi proteica. “Abbiamo calcolato – spiega la Prof.ssa Beatrice Demarchi – che la bassa temperatura ha reso l’età termica del campione equivalente a quella di un reperto dieci volte più giovane in un luogo con temperatura media di 10°C, il che significa che le proteine erano significativamente meno danneggiate rispetto a quelle che si trovano in luoghi della stessa età geologica ma con clima più caldo”.

“È stato sorprendente”, commenta Meaghan Mackie. Il primo campione che ho analizzato pensavo non contenesse nulla, perché troppo antico! Sono rimasta a fissare lo schermo del computer per un minuto”. Questo risultato apre nuove prospettive per la ricerca evolutiva e la paleoproteomica perché permette di ricostruire la storia evolutiva di specie estinte da milioni di anni, ben oltre i limiti del DNA e, in prospettiva, potrebbe riaccendere le speranze per lo studio della biologia di specie dell’era Mesozoica. Indagini future su fossili della Formazione di Haughton e di altri contesti simili potrebbero far emergere ulteriori tracce di questa straordinaria conservazione biomolecolare.

“Si profila una nuova fase per la biologia evolutiva – aggiunge la Prof.ssa Demarchi – in cui le proteine antiche diventano preziosi testimoni della storia più remota della vita sulla Terra. Per l’Università di Torino, questo risultato conferma il ruolo di primo piano nell’ambito della paleobiologia molecolare internazionale”.

Vista del Cratere di Haughton sull'isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del "deserto polare" hanno contribuito a preservare l'antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman
Vista del Cratere di Haughton sull’isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del “deserto polare” hanno contribuito a preservare l’antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman

Riferimenti bibliografici:

Paterson, R. S., Mackie, M., Capobianco, A., Heckeberg, N. S., Fraser, D., Demarchi, B., Munir, F., Patramanis, I., Ramos-Madrigal, J., Liu, S., Ramsøe, A. D., Dickinson, M. R., Baldreki, C., Gilbert, M., Sardella, R., Bellucci, L., Scorrano, G., Leonardi, M., Manica, A., Racimo, F., Willerslev, E., Penkman, K. E. H., Olsen, J. V., MacPhee, R. D. E., Rybczynski, N., Höhna, S., Cappellini, E., Phylogenetically informative proteins from an Early Miocene rhinocerotid. Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09231-4

 

Testi dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dalla Sezione Comunicazione Digitale e Media Relations, Area Comunicazione dell’Università di Torino

Un team di ricerca internazionale ha ricostruito le dimensioni e la forma del corpo del Megalodon

Un nuovo studio svela nuovi dettagli sulla morfologia e sullo stile di vita del più grande squalo della storia

Un dente fossile di Megalodon dal Miocene del Perù Otodus megalodon
Un dente fossile di Megalodon dal Miocene del Perù

Grazie a un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Palaeontologia Electronica” emergono nuovi indizi sulle dimensioni, la forma del corpo, la biologia e lo stile di vita del Megalodon, il leggendario squalo gigante che dominava gli oceani tra 15 e 3,6 milioni di anni fa. La ricerca, coordinata dal professor Kenshu Shimada dell’Università DePaul di Chicago, ha coinvolto esperti di nove paesi e quattro continenti, tra cui l’Università di Pisa – unica istituzione italiana a partecipare a tale studio.

Gli scienziati hanno analizzato un fossile straordinario: una colonna vertebrale parziale costituita da 141 vertebre, lunga circa 11 metri, rinvenuta in Belgio oltre un secolo fa. Lo studio delle proporzioni corporee in squali viventi ed estinti ha permesso di stimare che l’esemplare belga fosse lungo oltre 16 metri, mentre gli individui più grandi della specie avrebbero potuto superare i 24 metri, con una massa corporea massima di circa 94 tonnellate.

Ma la scoperta più sorprendente riguarda la forma del corpo del Megalodon: contrariamente alle precedenti ricostruzioni che lo immaginavano come una sorta di squalo bianco “ingigantito”, il team ha ipotizzato una somiglianza maggiore con lo squalo limone (Negaprion brevirostris), caratterizzato da un corpo più slanciato. Proprio una forma allungata avrebbe reso il Megalodon un nuotatore tutto sommato efficiente nonostante l’enorme taglia. I ricercatori hanno anche osservato come i più grandi squali moderni, come lo squalo balena (Rhincodon typus) e lo squalo elefante (Cetorhinus maximus), presentino un corpo relativamente snello, il che li rende nuotatori efficienti a dispetto delle ingenti dimensioni.

“Noto con il nome scientifico di Otodus megalodon (o Carcharocles megalodon), questo celeberrimo protagonista degli oceani del passato è noto soprattutto per i suoi grandi denti, triangolari e seghettati, mentre i resti scheletrici sono estremamente rari e frammentari – spiega il professor Alberto Collareta, paleontologo presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa – Proprio la mancanza di scheletri completi riferiti al Megalodon ha spesso indotto gli studiosi a ricostruire l’aspetto di questo antico gigante dei mari come simile a quello dell’attuale squalo bianco (Carcharodon carcharias). Questa nuova ricerca rappresenta un passo fondamentale nella comprensione della biologia di uno dei più grandi predatori della storia del nostro pianeta, sfidando le tradizionali ricostruzioni ed offrendo un’immagine ancora più affascinante del Megalodon”.

Un altro aspetto interessante emerso dalla ricerca riguarda la riproduzione del Megalodon. Gli studiosi hanno stimato che già alla nascita i piccoli di questa specie fossero lunghi più di 3 metri e mezzo. Questo suggerisce una strategia riproduttiva ovovivipara, in cui gli embrioni più sviluppati si nutrivano dei fratelli non ancora nati, un fenomeno noto come cannibalismo intrauterino.

Lo studio ipotizza inoltre che la progressiva scomparsa del Megalodon sia stata almeno in parte legata alla competizione con il moderno squalo bianco, comparso circa 5 milioni di anni fa. I due formidabili predatori, pur caratterizzati da differenti forme corporee, potrebbero aver avuto preferenze alimentari simili: insieme ad altri fattori ambientali, la competizione con lo squalo bianco per le medesime risorse avrebbe decretato l’estinzione del Megalodon.

 Ricostruzione schematica e ipotetica della forma del corpo di un Megalodon di 24,3 metri di lunghezza. Nonostante la silhouette di un nuotatore sia rappresentata accanto al disegno schematico dello squalo per dare un'idea della taglia di quest'ultimo, va enfatizzato il fatto che il Megalodon è una specie estinta che non è coesistita con l'uomo
Ricostruzione schematica e ipotetica della forma del corpo di un Megalodon di 24,3 metri di lunghezza. Nonostante la silhouette di un nuotatore sia rappresentata accanto al disegno schematico dello squalo per dare un’idea della taglia di quest’ultimo, va enfatizzato il fatto che il Megalodon è una specie estinta che non è coesistita con l’uomo

L’articolo “Reassessment of the possible size, form, weight, cruising speed, and growth parameters of the extinct megatooth shark, Otodus megalodon (Lamniformes: Otodontidae), and new evolutionary insights into its gigantism, life history strategies, ecology, and extinction” è liberamente accessibile online al seguente indirizzo internet: https://doi.org/10.26879/1502.

I suoi autori sono: Kenshu Shimada, Ryosuke Motani, Jake J. Wood, Phillip C. Sternes, Taketeru Tomita, Mohamad Bazzi, Alberto Collareta, Joel H. Gayford, Julia Türtscher, Patrick L. Jambura, Jürgen Kriwet, Romain Vullo, Douglas J. Long, Adam P. Summers, John G. Maisey, Charlie Underwood, David J. Ward, Harry M. Maisch IV, Victor J. Perez, Iris Feichtinger, Gavin J.P. Naylor, Joshua K. Moyer, Timothy E. Higham, João Paulo C.B. da Silva, Hugo Bornatowski, Gerardo González-Barba, Michael L. Griffiths, Martin A. Becker e Mikael Siversson.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Corna, zanne e palchi: un innovativo protocollo per la ricostruzione digitale 3D di crani complessi apre nuove frontiere 

Un team di ricercatori della Sapienza ha sviluppato un innovativo protocollo per la ricostruzione digitale 3D di crani complessi, offrendo nuove opportunità per la ricerca e per l’insegnamento. La procedura è stata pubblicata sulla rivista “STAR Protocols”.

Ricostruzione del Cranio del Damaliscus lunatus (AN.CO.ac331) dopo il processo di fotogrammetria
Ricostruzione del Cranio del Damaliscus lunatus (AN.CO.ac331) dopo il processo di fotogrammetria

Un team di ricercatori della Sapienza Università di Roma ha sviluppato un innovativo protocollo finalizzato alla digitalizzazione morfologica di crani. La procedura, pubblicata sulla rivista “STAR Protocols” del gruppo “CellPress”, permette di creare modelli tridimensionali altamente accurati, e di superare le sfide legate alla ricostruzione digitale di strutture complesse come corna, zanne e palchi.

La pubblicazione di questo protocollo e il suo approccio innovativo forniscono una guida pratica e dettagliata per i ricercatori e aprono nuove prospettive nel campo della paleontologia, della zoologia e della conservazione museale.

Il protocollo fa uso della tecnica della fotogrammetria 3D, la quale permette con grande precisione di ricostruire digitalmente le dimensioni di un oggetto e la sua posizione nello spazio partendo da fotografie.

L’impiego di questo metodo permette di conservare e analizzare digitalmente campioni preziosi, riducendo al minimo sia il rischio di danneggiamento dovuto alla manipolazione fisica sia i costi, offrendo quindi un’alternativa accessibile e di alta precisione per musei, università e centri di ricerca.

“Grazie a questo protocollo ­– spiega Naomi De Leo, dottoranda di Sapienza e prima autrice dello studio – riusciamo a ottenere modelli tridimensionali fedeli alla realtà anche per strutture ossee particolarmente complesse, migliorando le possibilità di analisi morfologica e di collaborazione scientifica a livello internazionale”.

Una parte dei modelli esaminati è ospitata nelle collezioni del Polo Museale Sapienza, in particolare del Museo di Zoologia e del Museo di Anatomia comparata “B. Grassi”. L’analisi di queste collezioni, recentemente incluse in un ambizioso progetto di digitalizzazione museale con l’obiettivo di accrescere l’accessibilità delle collezioni naturalistiche, permette di condurre studi comparativi su larga scala e di rendere i reperti consultabili dalla comunità scientifica attraverso archivi digitali.

“Questo strumento – specifica Davide Tamagnini, ricercatore della Sapienza e co-autore dello studio – rappresenta un passo avanti nella conservazione e condivisione dei dati morfologici, offrendo nuove opportunità per la ricerca e per l’insegnamento”

Riferimenti bibliografici:

Protocol for 3D photogrammetry and morphological digitization of complex skulls / DE LEO, Naomi; Chimenti, Claudio; Maiorano, Luigi; Tamagnini, Davide. – In: STAR PROTOCOLS. – ISSN 2666-1667. – 6:1(2025). [10.1016/j.xpro.2024.103572]

Teschio di Damaliscus lunatus
Teschio di Damaliscus lunatus

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa

Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.

1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)
1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)

Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.

2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico
2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico

Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.

I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.

L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.

“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia
3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia

“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.

“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.

Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.

4. Un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman
4. I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico: un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman

 

Riferimenti bibliografici:

Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Scoperti i più antichi antenati del bue domestico: i resti di uro nella valle dell’Indo e in Mesopotamia risalgono a 10mila anni fa

La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, ha coinvolto il paleontologo dell’Università di Pisa, Luca Pandolfi

I più antichi antenati del bue domestico sono stati scoperti nella valle dell’Indo e nella mezzaluna fertile in Mesopotamia: si tratta di resti di uro (Bos primigenius) risalenti a circa 10mila anni fa. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature e condotta dal Trinity College di Dublino e dall’Università di Copenaghen, ha coinvolto Luca Pandolfi, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che da tempo si occupa dell’evoluzione e dell’estinzione dei grandi mammiferi continentali anche in relazione ai cambiamenti climatici.

Cranio di uro conservato al Museo di Storia Naturale dell'Università di Breslavia, Polonia (foto Luca Pandolfi)
Cranio di uro conservato al Museo di Storia Naturale dell’Università di Breslavia, Polonia (foto Luca Pandolfi)

Gli uri addomesticati erano animali abbastanza simili a quelli selvatici, ma un po’ più piccoli, soprattutto con corna meno sviluppate ad indicare una maggiore mansuetudine. Giulio Cesare nel De Bello Gallico (De Bello Gallico, 6-28) descrive infatti l’uro selvatico come un animale di dimensioni di poco inferiori all’elefante, veloce e di natura particolarmente aggressiva. Dai resti fossili emerge che gli uri selvatici potevano raggiungere un’altezza di poco meno di due metri, i 1000 kg di peso ed avere corna lunghe più di un metro. La loro presenza ha dominato le faune dell’Eurasia e del Nord Africa a partire da circa 650 mila anni fa, per poi subire un forte declino dalla fine del Pleistocene, circa 11mila anni fa, fino alla sua estinzione in età moderna. L’ultimo esemplare di cui si ha notizia fu abbattuto il Polonia nel 1627.

“Lo studio su Nature ha analizzato per la prima volta questa specie per comprenderne la storia evolutiva e genetica attraverso resti fossili rinvenuti in diversi di siti in Eurasia, Italia inclusa, e Nord Africa”, dice Luca Pandolfi.

Dai reperti, che includono scheletri completi e crani ben conservati, sono stati estratti campioni di DNA antico. La loro analisi ha quindi permesso di individuare quattro popolazioni ancestrali distinte che hanno risposto in modo diverso ai cambiamenti climatici e all’interazione con l’uomo. Gli uri europei, in particolare, subirono una diminuzione drastica sia in termini di popolazione che di diversità genetica durante l’ultima era glaciale, circa 20 mila anni fa. La diminuzione delle temperature ridusse infatti il loro habitat spingendoli verso la Penisola Italiana e quella Iberica da cui successivamente ricolonizzarono l’intera Europa.

“Nel corso del Quaternario, epoca che va da 2 milioni e mezzo di anni fa sino ad oggi, l’uro è stato protagonista degli ecosistemi del passato, contraendo ed espandendo il proprio habitat in relazione alle vicissitudine climatiche che hanno caratterizzato questo periodo di tempo – conclude Pandolfi – le ossa di questi maestosi animali raccontano ai paleontologi la storia del successo, adattamento e declino, di una specie di cui noi stessi abbiamo concorso all’estinzione e rivelano la complessità e fragilità delle relazioni che legano gli organismi viventi al clima del nostro Pianeta”.

Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Crediti per l'immagine: Prof. Saxx, CC BY-SA 3.0
Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Crediti per l’immagine: Prof. Saxx, CC BY-SA 3.0

Journal reference: The genomic natural history of the aurochs, Nature, 2024; DOI: 10.1038/s41586-024-08112-6

 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

Riprende lo scavo del Perucetus colossus, il cetaceo gigante scoperto in Perù

La ricerca, coordinata dall’Università di Pisa, ha l’obiettivo di riportare alla luce il resto dello scheletro, incluso il cranio

Nuova spedizione dei paleontologi dell’Università di Pisa nel deserto di Ica, in Perù, per ampliare lo scavo dove, nel 2023, è stato ritrovato parte dello scheletro di Perucetus colossus, il cetaceo vissuto circa 40 milioni di anni fa, che si stima possa essere stato l’animale più pesante mai esistito sulla Terra. Grazie all’uso di un grande escavatore, i ricercatori hanno potuto espandere significativamente l’area di ricerca: partendo dall’alto, sono stati rimossi parecchi metri cubi di roccia dalla collina, fino a giungere a circa un metro al di sopra dello strato fossilifero. In questo modo è stato creato un ampio terrazzo sul quale i paleontologi peruviani potranno lavorare con maggiore facilità, rimuovendo con martelli pneumatici gli strati di roccia che ancora celano il resto dello scheletro, incluso – si spera – il cranio.

Perucetus colossus: è un cetaceo l’animale più pesante mai vissuto

Alla spedizione, svolta nell’ambito del progetto ProArcheo cofinanziato dall’Università di Pisa, hanno partecipato il professor Giovanni Bianucci, coordinatore del progetto, e altri paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa (il professor Alberto Collareta, la dottoressa Giulia Bosio e il dottorando Francesco Nobile), insieme a geologi e micropaleontologi delle Università di Camerino e Milano Bicocca. Parte delle ricerche è stata svolta nell’ambito di un progetto PRIN coordinato da Alberto Collareta.

Ricostruzione artistica del Perucetus colossus: Credits: A. Gennari
Ricostruzione artistica del Perucetus colossus. Crediti per l’immagine: A. Gennari

Lo scorso anno, il ritrovamento dei resti del gigantesco mammifero aveva suscitato un grande clamore mediatico a livello mondiale, al punto da venir considerato una delle tre scoperte scientifiche più straordinarie del 2023Perucetus aveva catturato l’attenzione non solo per le sue imponenti dimensioni – si stima che potesse raggiungere i 20 metri di lunghezza – ma soprattutto perché potrebbe rappresentare l’animale più pesante mai esistito sulla Terra. La sua massa è stata infatti stimata poter raggiungere le 340 tonnellate, quasi il doppio di quella della più grande balenottera azzurra. I risultati dello studio del fossile erano stati pubblicati sulla rivista Nature.

“I precedenti scavi, andati avanti per oltre dieci anni, – spiega Bianucci – erano stati fortemente ostacolati dalle condizioni proibitive del sito. Il fossile era infatti parzialmente sepolto in una collina situata in una delle zone più inaccessibili e inospitali del deserto di Ica e la roccia che conteneva il fossile era estremamente dura. L’utilizzo dello scavatore – continua Bianucci – è stata pertanto una soluzione estrema dettata dall’eccezionale importanza del reperto e dall’impossibilità di procedere lo scavo con i mezzi tradizionali. Quando si recuperano i reperti fossili si fa infatti molta attenzione a limitare il più possibile l’impatto su queste aree desertiche, ancora incontaminate dall’uomo”.

“La frammentarietà dello scheletro ritrovato (composto da 13 vertebre, 4 costole e parte del bacino) – spiega Collareta – ha lasciato molti interrogativi aperti su vari aspetti della morfologia e dell’ecologia di Perucetus. In particolare, l’assenza del cranio e dei denti consente solo ipotesi speculative sulla sua alimentazione: era un erbivoro, come gli odierni lamantini, oppure uno spazzino che si nutriva di carcasse di vertebrati marini?”

“Il prossimo passo sarà dunque decisivo per ottenere nuovi indizi su come fosse fatto e su cosa si cibasse l’unico esemplare finora noto alla scienza di questo straordinario gigante marino di quasi 40 milioni di anni fa”, conclude Bianucci.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Fossili di grandi squali e mammiferi marini raccontano come è cambiato il Mediterraneo dopo la Crisi di Salinità del Messiniano

L’Università di Pisa ha partecipato a uno studio sulle conseguenze del “gigante salino” formatosi oltre cinque milioni di anni fa

Tra 7,2 e 5,3 milioni di anni fa, nell’intervallo di tempo che i geologi chiamano Messiniano, le specie marine del Mediterraneo furono decimate da un aumento vertiginoso di sale nelle acque del mare, con una perdita di biodiversità che riuscì a ricostituirsi solo nel corso di oltre un milione e mezzo di anni.  In uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Science, un gruppo internazionale di geologi e paleontologi composto da 29 scienziati di 25 università e istituti di ricerca europei è stato in grado di quantificare tale perdita di biodiversità nel Mar Mediterraneo in corrispondenza della Crisi di Salinità del Messiniano e il successivo recupero biotico.

Guidato da Konstantina Agiadi dell’Università di Vienna, tale team di ricerca ha visto la partecipazione dell’Università di Pisa nelle persone del professor Giovanni Bianucci e del ricercatore Alberto Collareta, paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa.

Sulla base di un estensivo censimento del registro fossile risalente al Miocene Superiore e al Pliocene Inferiore (da 12 a 3,6 milioni di anni fa), il team ha scoperto che i due terzi delle specie marine del Mar Mediterraneo del Pliocene Inferiore era differente da quelle presenti nel bacino precedentemente alla Crisi di Salinità del Messiniano. Solo 86 delle 779 specie endemiche del Mediterraneo (presenti, cioè, esclusivamente in tale bacino) sopravvissero agli sconvolgimenti ambientali conseguenti alla separazione dall’Oceano Atlantico.

In particolare, i due ricercatori dell’Università di Pisa hanno analizzato le evidenze paleontologiche dei popolamenti a squali e mammiferi marini del Mar Mediterraneo a cavallo di questo grande evento geologico.

“Mentre il registro fossile, nel suo complesso, suggerisce un drastico impatto della Crisi di Salinità del Messiniano sulle forme di vita presenti nel Mediterraneo – spiega Alberto Collareta – i fossili di squali offrono delle informazioni diverse e complementari. In particolare, il rinnovamento faunistico che si osserva nel Pliocene Inferiore – con la comparsa nel Mar Mediterraneo di forme moderne come lo squalo bianco (Carcharodon carcharias) e il declino di altri predatori apicali più tipici del Miocene (ad esempio il famoso ‘Megalodon’) – riflette fenomeni evolutivi e turnover faunistici osservabili alla scala globale più che eventi relativi dalla portata regionale. In questo senso, il biota mediterraneo che rinacque dalle ceneri della crisi messiniana fu dunque necessariamente altro rispetto a quello che aveva caratterizzato il bacino nel corso del Miocene”.

“Una dinamica simile si osserva anche nell’evoluzione della fauna a cetacei del Mediterraneo – osserva Giovanni Bianucci – con l’emergere e la rapida diversificazione dei delfini oceanici (famiglia Delphinidae) nel Pliocene Inferiore, come testimoniato da un eccezionale record fossile rinvenuto in Toscana, Piemonte ed Emilia-Romagna. Analogamente a quanto osservato per gli squali, la comparsa di forme moderne coincide con il declino di specie tipicamente mioceniche, come i grandi capodogli macropredatori. Il fatto che anche questo turnover tra i cetacei abbia avuto una portata globale suggerisce che la coincidenza temporale degli eventi non sia casuale: un fenomeno regionale, ma comunque catastrofico, come la Crisi di Salinità Messiniana, potrebbe infatti aver avuto ripercussioni su scala mondiale sugli ecosistemi marini”.

Nella foto: i due ricercatori, a sinistra Giovanni Bianucci, a destra Alberto Collareta
Nella foto: i due ricercatori, a sinistra Giovanni Bianucci, a destra Alberto Collareta

Questo nuovo studio apre a nuove prospettive sulla Crisi di Salinità Messiniana e provvede, per la prima volta, a una quantificazione sinottica delle conseguenze di tale crisi su molti gruppi di organismi marini. Allo stesso tempo, esso fornisce uno stimolo per ulteriori questioni di ricerca: dove si rifugiarono le poche specie endemiche del Mediterraneo miocenico che furono in grado di sopravvivere alla Crisi di Salinità Messiniana? Quale fu l’impatto dei molti altri “giganti salini” che punteggiano la crosta terrestre? Quale sono le lezioni che questo evento può insegnarci nell’attuale contesto di crisi biologica?

La Crisi di Salinità del Messiniano

Da oltre cinquant’anni la comunità scientifica si interroga sulle cause e le conseguenze della Crisi di Salinità del Messiniano, e soprattutto sull’impatto di un evento tanto eccezionale sugli ecosistemi mediterranei. Ipotesi contrastanti si sono confrontate – e talvolta scontrate – nel corso dei decenni: alcuni ricercatori hanno ipotizzato la quasi completa sterilizzazione di un Mar Mediterraneo divenuto eccessivamente salino, mentre altri hanno argomentato a favore della persistenza locale di corpi d’acqua a salinità normale e di ecosistemi francamente marini per tutta la durata della Crisi di Salinità del Messiniano.

Riconosciuto nelle sue proporzioni titaniche nei primi anni ’70 del secolo scorso, questo “gigante salino” si formò in un bacino in via di disseccamento a seguito dell’emersione dei corridoi marini che fino ad allora avevano connesso il Mediterraneo all’Oceano Atlantico nell’area ispano-marocchina garantendo l’afflusso costante di acque marine di origine atlantiche nell’arida regione mediterranea. Tali condizioni estreme si protrassero alcune centinaia di migliaia di anni: il ritorno a condizioni marine normali avvenne soltanto 5,3 milioni di anni fa, all’inizio dell’epoca pliocenica, in conseguenza dell’apertura dello Stretto di Gibilterra e a seguito di una breve fase in cui le acque mediterranee divennero salmastre.

Fossili di grandi squali e mammiferi marini raccontano come è cambiato il Mediterraneo dopo la Crisi di Salinità del Messiniano
Fossili di grandi squali e mammiferi marini raccontano come è cambiato il Mediterraneo dopo la Crisi di Salinità del Messiniano

 

Testo e immagini dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Analizzato per la prima volta il DNA delle iene fossili della Sicilia

Le iene siciliane, che abitavano l’isola prima dell’arrivo di Homo sapiens, appartengono a un gruppo diverso da quelle africane: si tratta di una popolazione “relitta” di iene insulari, caratteristica che le rende uniche al mondo, il cui DNA fossile nei resti biologici è sopravvissuto al clima caldo del Mediterraneo. La pubblicazione su Quaternary Science Reviews.

Palermo, Milano, Roma, Firenze, 28 agosto 2024. Prima ancora che Homo sapiens arrivasse in Sicilia, circa 16 mila anni fa, sull’isola erano molto diffuse le iene del genere Crocuta.

Tra i più iconici carnivori delle savane, la iena macchiata è oggi presente in buona parte dell’Africa sub-sahariana, ma durante il Pleistocene, tra 800 e 16 mila anni fa, era diffusa in territori molto più ampi che includevano l’Europa e l’Asia, mentre l’unica isola dove la presenza di questa specie è stata documentata dai fossili, è la Sicilia. Questa caratteristica rende le iene siciliane uniche da un punto di vista paleobiologico e offre agli studiosi una rara opportunità per comprendere meglio sia gli adattamenti che i processi evolutivi legati all’isolamento geografico di un grande carnivoro, estremamente raro in contesti insulari.

Grazie ai recenti avanzamenti nello studio del DNA antico, negli ultimi anni i paleogenetisti sono stati in grado di analizzare porzioni di DNA di alcune iene fossili, ad oggi tutte provenienti da siti nord europei o dal nord della Russia e della Cina, dove le temperature basse favoriscono la conservazione del materiale genetico. In ambienti a clima caldo, come quello mediterraneo, nei resti antichi il DNA si conserva con maggiori difficoltà.

In un recente studio condotto dai ricercatori delle Università di Palermo, Statale di Milano, Firenze, Roma Sapienza, di Bangor e Cambridge, pubblicato sulla rivista internazionale Quaternary Science Reviews, è stato analizzato per la prima volta il DNA di una iena fossile della Sicilia. 

Il DNA nucleare è stato estratto con successo da un frammento di coprolite, un escremento fossilizzato di iena di oltre 20 mila anni, proveniente dal sito della Grotta San Teodoro (Messina). I risultati delle analisi hanno svelato che le iene siciliane possedevano caratteristiche genetiche molto particolari, uniche tra tutte le iene fossili di cui si conosce il DNA.

DNA delle iene fossili della Sicilia

Giulio Catalano, paleogenetista dell’Università di Palermo e primo autore dello studio, commenta: “Le analisi ci suggeriscono che le iene siciliane siano appartenute a un gruppo genetico molto antico, distinto dalle attuali iene africane e peculiare rispetto alle altre iene fossili”. Prosegue il ricercatore: “Questo insieme di caratteristiche ci fa ipotizzare che un tempo la popolazione di queste iene fosse ampiamente distribuita sul continente, circa 500mila anni fa. Ma arrivate in Sicilia, grazie all’isolamento geografico, questa popolazione ha conservato le proprie caratteristiche genetiche mentre nel resto d’Europa si è invece persa nel corso del tempo. Questo grazie anche al contributo dei diversi scambi genetici avvenuti con le iene africane”.

Questo tipo di analisi permette di ipotizzare che le iene pleistoceniche siciliane possano far parte di una popolazione genetica “relitta”, sopravvissuta sull’isola fino a circa 20 mila anni fa”, sottolinea Raffaele Sardella, paleontologo dell’Università Sapienza di Roma che ha partecipato alla ricerca.

Dawid A. Iurino, paleontologo dell’Università Statale di Milano e coautore dello studio, aggiunge: “Oltre al DNA di iena, nel coprolite abbiamo individuato tracce di DNA equino che ci ha permesso di rivelare il contenuto del pasto di una iena di 20 mila anni fa, costituito da Equus hydruntinus, l’unico equide vissuto in passato sull’isola. La scoperta e l’analisi di questo DNA fossile rappresentano una fonte inesauribile di ispirazione per nuove ricerche che rende il patrimonio geo-paleontologico della Sicilia una risorsa da preservare e valorizzare, in quanto unico nel suo genere”.

Luca Sineo, docente dell’Università di Palermo e responsabile del progetto, commenta: “Grotta San Teodoro, con il suo enorme patrimonio, si conferma tra i più importanti siti europei per lo studio del Pleistocene, ovvero gli ultimi 2.5 milioni di anni. Questa ricerca ha coinvolto studiosi internazionali ed è stata possibili grazie alla collaborazione con il Parco Archeologico di Tindari, la Proloco di Acquedolci e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina”.

Questo studio dimostra come, ad oggi, lo sviluppo tecnologico consenta di ottenere informazioni genetiche anche da substrati biologici complessi, come i coproliti”, spiega la Dott.ssa Alessandra Modi dell’Università di Firenze che ha partecipato alla ricerca. “Grazie alla grande mole di dati che si possono ottenere da un numero sempre maggiore di resti appartenenti a specie diverse, siamo in grado di delineare con elevata precisione la storia evolutiva non solo dell’uomo, ma di molteplici forme viventi”, conclude David Caramelli, Professore Ordinario di Antropologia dell’Università di Firenze.

Testo e immagini dalla Direzione Comunicazione ed Eventi Istituzionali dell’Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano