Su Age and Ageing (British Geriatrics Society) i risultati del progetto My-AHA finanziato dall’Unione Uuropea e coordinato dall’Università di Torino
DALLE APP UN AIUTO PER PREVENIRE IL DECLINO COGNITIVO
Prevenire la fragilità aiuta a mantenere una buona qualità di vita: lo conferma uno studio di 18 mesi su 200 persone over 65
Prevenire e arrestare la fragilità e il declino cognitivo, garantendo una buona qualità della vita nell’invecchiamento. È questa una delle maggiori sfide per la sanità del 21° secolo: la maggiore aspettativa di vita degli ultimi decenni si traduce infatti in un significativo aumento del numero di persone affette da demenza che, com’è noto, si manifesta soprattutto negli anziani. In Europa sono quasi 9 milioni i pazienti con demenza di cui 1.200.00 in Italia, paese che presenta un’elevata prevalenza di soggetti anziani. Nel 2015 i pazienti con malattia di Alzheimer e demenze correlate erano circa 47 milioni nel mondo, un numero destinato a triplicarsi nel 2050 in mancanza di strategie efficaci per prevenire il deficit cognitivo e rallentarne la progressione.
Le malattie neurodegenerative che causano demenza sono caratterizzate da una lunga fase preclinica – che può durare anche 20 anni– in cui i meccanismi responsabili delle lesioni cerebrali sono già attivi ma causano sintomi modesti, che non interferiscono in modo significativo sulla vita quotidiana. Con il passare degli anni, tuttavia, questi deficit si aggravano fino a evolvere in una demenza conclamata. Negli ultimi anni, l’interesse di ricercatori e medici per questa fase preclinica è cresciuto in modo esponenziale, nella speranza di prevenire la comparsa di demenza.
Un aiuto importante arriva dalle nuove tecnologie digitali, efficaci nel monitorare primi sintomi di deficit cognitivo e attuare quanto prima le strategie di prevenzione. Lo dimostrano i risultati – pubblicati sulla prestigiosa rivista Age and Ageingdella British Geriatrics Society – del progetto di ricerca My-AHA – My Active and Healthy Aging, coordinato dal prof. Alessandro Vercelli, Dipartimento di Neuroscienze Rita Levi Montalcini e direttore del NICO Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino, e finanziato dalla Comunità europea nell’ambito del Programma Horizon 2020.
Il progetto My-AHA, forte della sinergia di 15 centri di ricerca e aziende ICT europei ed extra-UE (Australia, Giappone e Corea del Sud), ha portato in 4 anni allo sviluppo e validazione di una piattaforma tecnologica che – integrando una serie app – è in grado di monitorare lo stato di salute, rilevando precocemente il rischio di fragilità, e suggerire – in parallelo – attività utili per prevenire il deficit cognitivo e mantenere una buona qualità di vita nei soggetti anziani.
Valore aggiunto di My-AHA l’approccio integrato che ha unito le competenze multidisciplinari di medici, ingegneri ed esperti di informatica, questi ultimi – afferenti all’Istituto di Biomeccanica di Valencia, all’Università di Siegen (Germania), all’Istituto Fraunhofer (Portogallo) e ad alcune piccole imprese europee – coordinati dall’ing. Marco Bazzani della Fondazione LINKS di Torino. Le attività psicologiche e fisiche sono state invece monitorate e stimolate mediante protocolli disegnati dalle Università di Loughborough e di Siegen.
LO STUDIO CLINICO DI VALIDAZIONE DELLA PIATTAFORMA MY-AHA
Dopo uno screening iniziale di alcune migliaia di persone in Italia (Università di Torino), Giappone (Università di Tohoku), Spagna (Istituto GESMED di Valencia), Austria (Johanniter Inst. di Vienna) e Australia (Università della Sunshine Coast), sono stati selezionati 200 soggetti di età maggiore di 65 anni in condizione di pre-fragilità fisica, cognitiva o psicosociale.
Le persone selezionate, divise in due gruppi, hanno partecipato per un periodo complessivo di 18 mesi allo studio clinico di validazione della piattaforma My-AHA, coordinato dal prof. Innocenzo Rainero, della Clinica Neurologica del Dipartimento di Neuroscienze UniTo, Città della Salute e della Scienza di Torino, responsabile del workpackage clinico del progetto.
I partecipanti di entrambi i gruppi hanno caricato sui loro smartphone le app My-AHA, e sono stati costantemente monitorati mediante la piattaforma tecnologica sviluppata per il progetto e delle visite regolari per valutarne l’attività fisica, cognitiva e sociale, l’alimentazione e il sonno.
Il primo gruppo (di controllo) è stato seguito secondo i normali standard assistenziali, mentre il secondo ha ricevuto anche l’intervento multifattoriale della piattaforma My-AHA: 100 soggetti hanno quindi utilizzato delle app con “giochi” per stimolare le funzioni cognitive e programmi per incoraggiare l’attività fisica. Inoltre, i partecipanti del secondo gruppo sono stati coinvolti in attività sociali (gite, visite ai musei, occasioni conviviali) e incentivati ad adottare una corretta alimentazione e una appropriata igiene del sonno.
“Dopo 12 mesi abbiamo comparato i risultati dei soggetti che usavano regolarmente le diverse app con quelli del gruppo di controllo. Questi ultimi – spiega il prof. Innocenzo Rainero – hanno dimostrato al termine dello studio un peggioramento significativo della qualità di vita, misurato con una apposita scala dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Al contrario, i soggetti nel gruppo ‘attivo’ hanno mantenuto una buona qualità di vita e la differenza tra i due gruppi, come indicano i dati pubblicati su Age and Ageing, è risultata statisticamente significativa. Inoltre – continua il prof. Rainero – i soggetti che hanno utilizzato la piattaforma e gli interventi suggeriti da My-AHA dimostrano un significativo miglioramento del tono dell’umore e del comportamento alimentare: due parametri molto importanti per la prevenzione delle patologie correlate all’età”.
“Questo studio – aggiunge il prof. Alessandro Vercelli – conferma che, se si interviene precocemente, è possibile mantenere una buona qualità di vita nelle persone anziane, prevenendo o rallentando l’evoluzione delle malattie neurodegenerative che causano demenza. Ancora, conferma che per prevenire la malattia di Alzheimer e le demenze correlate è necessario intervenire su diversi fattori di rischio, inclusi l’attività fisica, la funzione cognitiva, lo stato psicologico ma anche l’isolamento sociale. Un precoce intervento su più ambiti – conclude il coordinatore del progetto My-AHA – sembra essere la strada maestra per prevenire le demenze. Lo studio dimostra inoltre che la tecnologia della informazione e comunicazione (ICT) può essere di grande aiuto nell’assistenza dell’anziano”.
Sulla base di tali premesse, l’Università di Torino, in particolare il gruppo di ricerca del professor Lorys Castelli del Dipartimento di Psicologia, ha condotto due studi: il primo si è concentrato sulla popolazioneitaliana ed il secondo sugli operatori sanitari. Questi due studi si sono posti come obiettivo quello di indagare l’impatto psicologico che il Covid-19 ha avuto su questi due tipi di popolazione. In particolare, il focus è stato posto sull’insorgenza e sull’eventuale aggravamento di psicopatologie legate allo stress derivante da questa situazione di emergenza, quali ansia, depressione e sintomi da stress post-traumatico (PTSS).
È stato dimostrato come gli operatori sanitari impegnati nei reparti Covid-19 vadano in maggior misura incontro a sintomi depressivi e sintomi da stress post-traumatico, rispetto ad altri operatori sanitari impegnati in altri reparti, che non trattano pazienti Covid-19. Questo dato è spiegato da alcune caratteristiche del lavoro dei primi, come: l’esposizione al virus, lo scarso riposo, la scarsità di Dispositivi di Protezione individuale (DPI) e lo sforzo impiegato nel cercar di tenere in vita i pazienti; si ritiene che tali caratteristiche possano incidere pesantemente sullo sviluppo delle psicopatologie correlate allo stress precedentemente accennate. Per quanto riguarda, invece, lo studio sull’impatto psicologico del Covid-19 sulla popolazione italiana, quest’ultimo si è posto come scopo quello di analizzare le variabili socio-demografiche, biomediche e di qualità della vita nel ruolo di predittori dei sintomi da stress post-traumatico. I risultati hanno dimostrato come i fattori di rischio di sviluppo di sintomi da stress post traumatico, che potrebbero evolversi in Disturbo da Stress Post-Traumatico, siano stati: sesso femminile, basso livello di educazione e contatto con persone affette da Covid-19. Sulla base dei risultati di questi due studi si potrebbe giungere ad uno screening psicologico più efficiente, che permetterebbe un intervento più rapido e specifico, anche e soprattutto nei confronti degli individui più svantaggiati.
Abbiamo intervistato il professor Lorys Castelli e la dott.ssa Agata Benfante, entrambi dell’Università degli studi di Torino, che hanno risposto alle domande di ScientifiCult.
L’intervista
Impatto psicologico della pandemia: soggetti a rischio
Nello studio da voi condotto sulla popolazione generale il ruolo dell’età sui PTSS e sulla sintomatologia depressiva e ansiosa è risultato marginale. Al contrario, nello studio condotto sul personale sanitario è emerso un trend che correla la maggiore età ad un maggior rischio di sviluppare PTSS. Nella vostra opinione, in generale, qual è il ruolo che gioca l’età nello sviluppo di queste sintomatologie in risposta all’emergenza COVID-19? E a cosa potrebbe essere dovuta la differenza di significatività di questo predittore fra i due studi?
Nella letteratura riguardante lo sviluppo di PTSD è noto come l’età, a cui viene vissuto l’evento traumatico, influisca sullo sviluppo successivo della sintomatologia, benché essa possa presentarsi in qualunque fase della vita e sia anche strettamente connessa alla portata dell’evento in sé e alle risorse del soggetto. Negli studi sugli operatori sanitari, i risultati riguardo alla significatività dell’età non sono sempre concordi. Infatti, alcuni studiosi hanno riscontrato piu’ PTSS tra gli operatori più giovani, mentre in altri studi sono stati ottenuti risultati in linea con il nostro. Le spiegazioni addotte sono molteplici e riguardano aspetti inerenti alle condizioni stesse di lavoro: essere più giovani può significare avere minori anni d’esperienza, che rendono le condizioni di emergenza più difficili da gestire; essere più anziani può comportare maggiori difficoltà a sostenere i ritmi e i lunghi turni di lavoro. Uno studio sugli operatori sanitari ha anche messo in luce come la fascia di età studiata può influenzare in modo diverso l’oggetto della preoccupazione: i soggetti più giovani erano maggiormente preoccupati di trasmettere il virus Sars-Cov-2 ai familiari, mentre nel personale più anziano causava maggiore stress la morte dei pazienti e dei colleghi. La differenza di significatività di questo predittore fra i due studi da noi condotti potrebbe, quindi, ricollegarsi al differente carico fisico e psicologico tra la popolazione generale e gli operatori sanitari. (Tang et al., 2017; Cai et al., 2020; Spoorthy, 2020)
Nella Vostra ricerca riguardante gli operatori sanitari, come anche nella ricerca sulla popolazione generale, è emerso che le donne sono molto più predisposte a sviluppare PTSS. Come si potrebbe spiegare questo risultato da un punto di vista psicologico?
In linea sia con gli studi sugli effetti psicologici di precedenti epidemie sia con quelli relativi al COVID-19 dai nostri risultati emerge una più elevata prevalenza di PTSS tra le donne. Le spiegazioni potrebbero essere molteplici e su queste gli studiosi continuano ad indagare. Alcuni autori avanzano ipotesi connesse a differenze di genere psicofisiologiche, ormonali e di reattività delle reti neurali associate alla paura e alle risposte di arousal (Liu et al., 2020). Inoltre, per entrambi i nostri studi bisogna tener conto anche della più elevata percentuale di donne partecipanti, rispetto agli uomini. Nello studio sulla popolazione generale il 69% dei rispondenti erano donne, in quello rivolto agli operatori sanitari il 72%. Questo “bias”, presente in molti altri, studi non permette di trarre conclusioni definitive a riguardo.
Tra chi ha una probabilità più alta di sviluppare PTSS vi sono persone con un grado di educazione basso. Ritenete che questo derivi dalla difficoltà di quest’ultime di accedere ai servizi di supporto psicologico offerti alle persone? Quanto può essere importante l’informazione sui rischi per la salute mentale (e non solo su quella fisica) in questa situazione di pandemia?
Si può ipotizzare che soggetti con un grado di istruzione inferiore abbiano maggiori difficoltà a discriminare tra le molteplici e spesso contrastanti informazioni. A ciò si potrebbe aggiungere la possibilità di un mancato riconoscimento di malessere psicologico e una mancata informazione sui servizi disponibili ed accessibili. È fondamentale fornire adeguata informazione, a più livelli, sui rischi per la salute non solo fisica, ma anche psicologica. Nel nostro Paese, la necessità di servizi psicologici è ancora molto spesso disconosciuta tanto a livello istituzionale, quanto a livello individuale. Su questo fronte l’Ordine degli Psicologi è costantemente impegnato, conquistando anno dopo anno riconoscimenti e offrendo sempre maggiori servizi per il benessere di tutti i cittadini. Inoltre, è importante sensibilizzare l’opinione pubblica contro lo stigma della malattia mentale, fornendo una visione più completa di salute e malattia, in accordo con le più recenti definizioni a livello mondiale.
L’impatto e i numeri relativi all’emergenza COVID-19 sono stati notevolmente differenziati fra le regioni d’Italia, in particolare in riferimento alla differenza fra Nord e Sud. All’interno della vostra analisi, tuttavia, la posizione geografica non è risultata un predittore sociodemografico significativo della presenza di PTSS. In quale maniera è stato configurato il fattore “posizione geografica” all’interno della regressione logistica? A cosa pensate sia dovuta la mancanza di significatività di questo fattore? Inoltre, pensate che confrontando il fattore su diversi livelli di analisi (es: provincia, regione, parte d’Italia) si possano rilevare significatività interessanti rappresentative dei fenomeni osservati nei media durante il lockdown (es: gli eventi di Bergamo)?
Nelle nostre analisi abbiamo considerato due aree geografiche, Nord e Centro/Sud; questo per poter distinguere le zone inizialmente più colpite, da quelle in cui si registrava un numero inferiore di casi. Il 71% circa del campione totale ha riportato di vivere in una regione del Nord Italia. Ulteriori confronti rispetto a provincia o regione avrebbero richiesto un campione più ampio e maggiormente rappresentativo di queste realtà. Benché non sia possibile rintracciare una spiegazione certa alla mancanza di significatività del fattore geografico, si può pensare che il lockdown, esteso già a tutto il territorio nazionale da circa 10 giorni al momento dell’avvio dello studio, avesse procurato degli effetti psicologici significativi su tutta la popolazione. Inoltre, si potrebbe anche considerare che i soggetti residenti in regioni meno colpite abbiano, attraverso i media, vissuto comunque il dramma che stava più intensamente colpendo il Nord, analogamente a ciò che emerge in uno studio sulla cosiddetta traumatizzazione vicaria, che potrebbe in alcuni casi risultare peggiore nella popolazione generale, rispetto agli operatori sanitari impegnati in prima linea nella lotta al COVID-19 come evidenzia lo studio di Li et al., 2020.
Alcuni operatori sanitari, nel corso dell’emergenza, hanno ricevuto supporto psicologico mirato per meglio sostenere le gravose condizioni di lavoro relative all’emergenza COVID-19. Quanto ritenete che questo genere di interventi abbiano influenzato gli esiti del vostro studio? Ritenete che possa essere interessante andare ad indagare l’efficacia di tali interventi nel determinare la risposta degli operatori all’emergenza?
Considerando il periodo temporale in cui lo studio è stato condotto, si può ragionevolmente supporre che fossero pochi gli operatori sanitari coinvolti che avessero già fatto ricorso a servizi di supporto psicologico. Sicuramente sarà importante indagare l’efficacia degli interventi proposti e le conseguenze nel determinare la risposta degli operatori all’emergenza. Tale filone di ricerca trova già degli esempi nella valutazione dell’efficacia di interventi psicologici e di supporto agli operatori sanitari durante le passate epidemie che hanno interessato alcuni Paesi del mondo. Questi studi hanno riscontrato sia miglioramenti nella salute mentale degli operatori, sia miglioramenti secondari sulla qualità del lavoro svolto dagli stessi operatori, inserendosi nel solco degli studi più generali sul burn-out.
Prospettive per il futuro: pandemia, intervento psicologico e ricerca
Entrambi gli studi condotti presentano importanti implicazioni cliniche potenziali, in particolare per il trattamento dei PTSS, dove l’intervento precoce può risultare determinante nella prevenzione dello sviluppo del PTSD. Fra gli interventi da voi suggeriti a tal fine viene proposta in particolare un’intensificazione degli screening; se volessimo riferirci ad interventi psicosociali su larga scala, quali potrebbero essere altri interventi di prevenzione e di supporto volti alla popolazione per prevenire l’intensificarsi e lo stabilizzarsi dei PTSS?
L’intensificazione dello screening psicologico nella popolazione generale e, in particolare, negli operatori sanitari consentirebbe un’individuazione precoce di condizioni di maggiore rischio per lo sviluppo di disturbi psicopatologici. Un esempio di intervento virtuoso è certamente rappresentato dall’attivazione dei servizi di supporto psicologico telefonico, che l’Ordine degli Psicologi, le Università e le associazioni hanno predisposto ed offerto già nei mesi di lockdown. Probabilmente l’implementazione e la diffusione capillare di informazioni relative a questo genere di servizi consentirebbero di agire simultaneamente su più fronti: quello dello screening, del supporto nelle situazioni più favorevoli e dell’eventuale invio a servizi più specifici nei casi più critici. È necessario fare corretta informazione sui possibili effetti psicologici degli eventi stressanti (come la pandemia e le condizioni di restrizioni in cui ci siamo trovati e ci troviamo a vivere), sui servizi già attivi e su quelli che dovrebbero essere attivati sulla base proprio delle necessità che sono emerse dagli studi. La situazione vissuta ha messo ulteriormente in luce la necessità di realizzare, su tutto il territorio italiano, l’implementazione di servizi psicologici che potrebbero avere come compito inziale quello di mettere in atto uno screening su larga scala.
Come da voi riportato nei limiti di entrambi gli studi, a partire dai risultati rilevati non è possibile escludere la pre-esistenza di sintomatologia depressiva o ansiosa nei soggetti prima dell’arrivo del Sars-Cov-2 in Italia. Né tantomeno è possibile prevedere la potenziale evoluzione dei PTSS in PTSD o la loro eventuale recessione spontanea nel futuro prossimo. La naturale prosecuzione degli studi da voi condotti sarebbe quindi, come da voi suggerito, il ricorso ad analisi di tipo longitudinale. Avete in piano di svolgere tali tipi di studi in futuro? Nell’esecuzione di studi di questo tipo quali altri aspetti potrebbero essere eventualmente indagati?
Gli studi pubblicati hanno avuto l’intento di fornire una fotografia della sintomatologia ansiosa, depressiva e post-traumatica nella popolazione italiana e negli operatori sanitari, durante le prime settimane di lockdown. L’obiettivo più generale del nostro progetto di ricerca è quello di rivalutare a distanza di tempo i soggetti, facendo ricorso ad analisi di tipo longitudinale. Questo permetterà di valutare come tale sintomatologia si sarà evoluta nel corso del tempo anche in funzione degli sviluppi dell’emergenza pandemica. La rivalutazione dei soggetti consentirà, inoltre, di indagare altri aspetti connessi all’impatto di eventi traumatici. Negli ultimi anni ci si è interessati non solo agli aspetti psicopatologici conseguenti all’esposizione a un trauma, come lo sviluppo del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e di sintomi dissociativi, ma anche ai cambiamenti positivi che possono farvi seguito determinando una crescita psicologica del soggetto. La crescita post-traumatica (PTG) implica il manifestarsi di cambiamenti positivi in ambito personale, relazionale, spirituale ed un maggior apprezzamento per la vita, determinati da processi emotivi e cognitivi di ri-attribuzione di significato e di ristrutturazione delle convinzioni sul sé e il mondo. Sarà, quindi, nostro interesse comprendere in che modo vari costrutti esaminati impattino sui processi di elaborazione di eventi stressanti, così da implementare le conoscenze relative ai fenomeni di cambiamenti post-traumatici, sia negativi sia positivi.
Si ringraziano il professor Lorys Castelli e la dott.ssa Agata Benfante.
Bibliografia:
Cai, W., Lian, B., Song, X., Hou, T., Deng, G., & Li, H. (2020). A cross-sectional study on mental health among health care workers during the outbreak of Corona Virus Disease 2019.Asian Journal Of Psychiatry, 51, 102111. doi: 10.1016/j.ajp.2020.102111
Castelli, L., Di Tella, M., Benfante, A., & Romeo, A. (2020). The Spread of COVID-19 in the Italian Population: Anxiety, Depression, and Post-traumatic Stress Symptoms.The Canadian Journal Of Psychiatry, 65(10), 731-732. doi: 10.1177/0706743720938598
Di Tella, M., Romeo, A., Benfante, A., & Castelli, L. (2020). Mental health of healthcare workers during the COVID ‐19 pandemic in Italy.Journal Of Evaluation In Clinical Practice. doi: 10.1111/jep.13444
Li, Z., Ge, J., Yang, M., Feng, J., Qiao, M., & Jiang, R. et al. (2020). Vicarious traumatization in the general public, members, and non-members of medical teams aiding in COVID-19 control.Brain, Behavior, And Immunity, 88, 916-919. doi: 10.1016/j.bbi.2020.03.007
Liu, N., Zhang, F., Wei, C., Jia, Y., Shang, Z., & Sun, L. et al. (2020). Prevalence and predictors of PTSS during COVID-19 outbreak in China hardest-hit areas: Gender differences matter.Psychiatry Research, 287, 112921. doi: 10.1016/j.psychres.2020.112921
Spoorthy, M., Pratapa, S., & Mahant, S. (2020). Mental health problems faced by healthcare workers due to the COVID-19 pandemic–A review.Asian Journal Of Psychiatry, 51, 102119. doi: 10.1016/j.ajp.2020.102119
Tang, L., Pan, L., Yuan, L., & Zha, L. (2017).Prevalence and related factors of post-traumatic stress disorder among medical staff members exposed to H7N9 patients.International Journal Of Nursing Sciences, 4(1), 63-67. doi: 10.1016/j.ijnss.2016.12.002
Riaperture scolastiche: in un documento congiunto le indicazioni
agli istituti perla gestione di casi e focolai di Covid-19
Identificare un referente scolastico per il Covid-19 adeguatamente formato, tenere un registro degli eventuali contatti tra alunni e/o personale di classi diverse, richiedere la collaborazione dei genitori per misurare ogni giorno la temperatura del bambino e segnalare eventuali assenze per motivi di salute riconducibili al Covid-19.
Sono alcune delle raccomandazioni contenute nel rapporto “Indicazioni operative per la gestione di casi e focolai di SARS-CoV-2 nelle scuole e nei servizi educativi dell’infanzia” messo a punto da ISS, Ministero della Salute, Ministero dell’Istruzione, INAIL, Fondazione Bruno Kessler, Regione Veneto e Regione Emilia-Romagna, che contiene anche i comportamenti da seguire e le precauzioni da adottare nel momento in cui un alunno o un operatore risultino casi sospetti o positivi.
“Questo documento è il frutto di un impegno condiviso tra molte istituzioni nazionali e Regioni e Province Autonome. La necessità di riprendere le attività scolastiche è indicata da tutte le agenzie internazionali, tra le quali l’Oms, come una priorità ed è tale anche per il nostro Paese.– commenta il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro –. Pertanto, in una prospettiva di possibile circolazione del virus a settembre e nei prossimi mesi, è stato necessario sviluppare una strategia nazionale di risposta a eventuali casi sospetti e confermati in ambito scolastico o che abbiano ripercussioni su di esso, per affrontare le riaperture con la massima sicurezza possibile e con piani definiti per garantire la continuità”.
Il documento, di taglio operativo, descrive le azioni da intraprendere nel caso un alunno o un operatore scolastico abbia dei sintomi compatibili con il Covid-19, sia a scuola che a casa. Ad essere attivati saranno il referente scolastico, i genitori, il pediatra di libera scelta o il medico di medicina generale e il dipartimento di Prevenzione. Se ad esempio un alunno manifesta la sintomatologia a scuola, le raccomandazioni prevedono che questo vada isolato in un’area apposita assistito da un adulto che indossi una mascherina chirurgica e che i genitori vengano immediatamente allertati ed attivati. Una volta riportato a casa i genitori devono contattare il pediatra di libera scelta o medico di famiglia, che dopo avere valutato la situazione, deciderà se è necessario contattare il Dipartimento di prevenzione (DdP) per l’esecuzione del tampone. Se il test è positivo il DdP competente condurrà le consuete indagini sull’identificazione dei contatti e valuterà le misure più appropriate da adottare tra le quali, quando necessario, l’implementazione della quarantena per i compagni di classe, gli insegnanti e gli altri soggetti che rientrano nella definizione di contatto stretto. La scuola in ogni caso deve effettuare una sanificazione straordinaria. Fra i compiti degli istituti il documento prevede anche il monitoraggio delle assenze, per individuare ad esempio casi di classi con molti alunni mancanti che potrebbero essere indice di una diffusione del virus e che potrebbero necessitare di una indagine mirata da parte del DdP.
Il documento sottolinea che è difficile stimare al momento quanto la riapertura delle scuole possa incidere su una ripresa della circolazione del virus in Italia. “In primo luogo – scrivono gli esperti –, non è nota la trasmissibilità di SARS-COV-2 nelle scuole. Più in generale, non è noto quanto i bambini, prevalentemente asintomatici, trasmettano SARS-COV-2 rispetto agli adulti, anche se la carica virale di sintomatici e asintomatici, e quindi il potenziale di trasmissione, non è statisticamente differente. Questo non permette una realistica valutazione della trasmissione di SARS-COV-2 all’interno delle scuole nel contesto italiano. Non è inoltre predicibile il livello di trasmissione (Rt) al momento della riapertura delle scuole a settembre”. È previsto che il documento venga aggiornato per rispondere alle esigenze della situazione e alle conoscenze scientifiche man mano acquisite.
Con le riaperture scolastiche, grande attenzione al COVID-19. Foto di Alexandra Koch
Testo dall’Ufficio Stampa Istituto Superiore di Sanità (www.iss.it) sul documento relativo alla gestione di casi e focolai di COVID-19 dopo le riaperture scolastiche.
L’IMPATTO PSICOLOGICO DEL COVID-19 SULLA POPOLAZIONE ITALIANA E SUGLI OPERATORI SANITARI
Due studi coordinati dall’Università di Torino hanno indagato i sintomi depressivi e da stress post-traumatico in seguito alla diffusione del Covid-19 in Italia e i loro possibili fattori di rischio
Due studi, condotti durante la pandemia, tra il 19 marzo e il 5 Aprile 2020, e recentemente pubblicati su riviste scientifiche internazionali, hanno indagato i livelli di ansia, depressione e di sintomi da stress post-traumatico (PTSS) nella popolazione generale e negli operatori sanitari (medici e infermieri). I due studi sono stati condotti dal gruppo di ricerca “ReMind the Body” coordinato dal Prof. Lorys Castelli del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino.
Il primo studio, pubblicato sulla rivista The Canadian Journal of Psychiatry, è stato condotto su 1321 partecipanti provenienti da diverse zone d’Italia. Ai partecipanti è stato richiesto di compilare una serie di questionari, attraverso una survey online anonima.
I risultati hanno messo in luce non solo un’elevata percentuale di individui che presentano sintomi di ansia e depressione clinicamente rilevanti, rispettivamente 69% e 31%, ma anche un’elevata prevalenza di sintomi da stress post-traumatico. Il 20 % del campione riferisce infatti la presenza di significativi PTSS che, come evidenzia la letteratura scientifica, tendono ad aggravarsi nel tempo e che possono sfociare in veri e propri disturbi da stress post-traumatico. Dalla analisi effettuate emerge che i soggetti più a rischio per lo sviluppo di PTSS sono le donne, i soggetti con bassi livelli di scolarità e coloro che sono entrati in contatto con pazienti Covid-19 positivi.
Il secondo studio, condotto sugli operatori sanitari e pubblicato sul Journal of Evaluation in Clinical Practice, è stato condotto su 145 operatori sanitari (72 medici e 73 infermieri), confrontando i sintomi psicopatologici (ansia, depressione e PTSS) tra gli operatori sanitari che stavano lavorando nei reparti Covid-19 (63), vale a dire con pazienti Covid positivi, e quelli che lavoravano in altre unità ospedaliere (82) e non erano quindi a contatto con pazienti Covid positivi. I risultati hanno messo in luce che i primi riportano livelli significativamente più elevati sia di depressione sia di PTSS rispetto ai secondi. Inoltre, tra i professionisti sanitari impegnati nei reparti Covid-19, l’essere donna e l’essere single rappresentano fattori di rischio per i sintomi depressivi mentre l’essere donna e avere un’età più avanzata sono associati a maggiori livelli di PTSS.
Questi risultati, oltre a evidenziare l’impatto drammatico dell’epidemia in atto sulla salute mentale della popolazione italiana e in particolare sugli operatori sanitari impegnati in prima linea nella lotta al Covid-19, evidenziano la necessità di mettere in atto tempestivi programmi di screening, volti a identificare le persone con livelli di psicopatologia clinicamente rilevanti.
È infatti noto che i disturbi psicologici/psichiatrici, come la depressione, possano avere un peso importante anche sulla salute fisica. Le persone che sviluppano depressione, ad esempio, hanno maggiori probabilità di andare incontro a determinate patologie mediche, come l’infarto del miocardio. La presenza di sintomi psicopatologici clinicamente rilevanti non rappresenta quindi solamente un problema di per sé ma ha ampie ricadute a lungo termine sulla salute psico-fisica dell’individuo.
Gli strumenti di screening psicologico permettono di identificare i soggetti che presentano una sintomatologia clinicamente rilevante e, attraverso successive valutazioni, di monitorarne l’andamento nel tempo. Tale procedura, qualora venisse applicata su larga scala, renderebbe possibile proporre degli interventi psicologici mirati (sportelli di ascolto, sostegno psicologico, psicoterapia) che si tradurrebbero in un beneficio per i soggetti che presentano disagio psicologico e in un risparmio economico per il sistema sanitario sul lungo periodo, in termini di minori ricadute psicofisiche e minor richiesta di cure.
Il celebre “motto” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) “There is no health without mental health”, “non c’è salute senza salute mentale”, ben fotografa la necessità di prendersi carico oggi di questo disagio, affinché non si cronicizzi e non si traduca nel tempo in un più generale peggioramento della salute psicofisica, con i costi umani, sociali ed economici che ne conseguirebbero. Lo Spazio di Ascolto dell’Ateneo torinese, promosso e coordinato dal dipartimento di Psicologia, rappresenta un utile esempio di questo modello, che andrebbe valorizzato ed esteso.
Testo dall’Università degli Studi di Torino sui due studi relativi all’impatto psicologico sulla popolazione e sugli operatori sanitari a seguito della diffusione del Covid-19 in Italia.
Un lavoro dei ricercatori di Università Politecnica delle Marche, Statale di Milano e Università di Brescia formula un’ipotesi sull’associazione tra obesità e conseguenze dell’infezione COVID-19.
Obesità e sovrappeso colpiscono oltre il 50% della popolazione europea e circa il 70% di quella degli Stati Uniti, configurandosi come una vera e propria pandemia che l’Organizzazione Mondiale della Sanità reputa responsabile di più di 3 milioni di morti all’anno. Questo dato impressionante merita oggi di essere letto in relazione all’epidemia di COVID-19. Proprio nelle regioni del mondo dove l’obesità è più diffusa, infatti, la malattia che consegue all’infezione è caratterizzata da un elevato indice di mortalità. Inoltre, è stato osservato che nelle persone obese, anche in giovane età, questa nuova malattia infettiva ha un decorso più grave e comporta più frequentemente il ricorso alla terapia intensiva.
Il team guidato dal professor Saverio Cinti dell’Università Politecnica delle Marche (Ancona), un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano, guidati da Enzo Nisoli, docente del dipartimento di Biotecnologie Mediche e Medicina Traslazionale e i ricercatori dell’Università degli Studi di Brescia hanno proposto una nuova ipotesi patogenetica che può spiegare questa associazione non casuale. Il loro lavoro è stato pubblicato su International Journal of Obesity, del gruppo Nature.
L’ipotesi degli studiosi fa riferimento a decenni di studio condotti dagli stessi ricercatori sul tessuto adiposo dei soggetti obesi, studi dai quali sono scaturite interpretazioni fisiopatologiche e cliniche oggi accettate a livello internazionale. Ma soprattutto, gli studiosi hanno potuto formulare la loro nuova ipotesi grazie alle osservazioni al microscopio di campioni polmonari ottenuti da soggetti sovrappeso recentemente deceduti per COVID-19.
I campioni esaminati infatti presentavano evidenti embolie “grassose” – cioè costituite da gocce lipidiche – nel microcircolo polmonare. Questo tipo di embolia, nota anche con il termine inglese “fat embolism” è più frequentemente riscontrabile in soggetti politraumatizzati per gravi incidenti stradali, e deriva dalla fuoriuscita nel sangue di gocce lipidiche dalle ossa fratturate. Le embolie grassose possono interessare anche il microcircolo di altri organi e tessuti, oltre che i polmoni, provocando sintomi neurologici, cutanei o sistemici, fino a determinare una vera e propria “sindrome da embolia grassosa” o FES (Fat Embolism Syndrome).
“Come dimostrato dal nostro gruppo nel 2005 – afferma Saverio Cinti – il tessuto adiposo dei soggetti con obesità contiene molte cellule adipose morte, così che il grasso in esse contenuto fuoriesce nella matrice extracellulare e, almeno all’inizio, viene smaltito da cellule “spazzino” denominate macrofagi. I macrofagi non sono altro che cellule infiammatorie; dunque, il tessuto adiposo del soggetto obeso è un tessuto infiammato, caratterizzato da goccioline grasse che si accumulano nello spazio intracellulare e stimolano una risposta infiammatoria che cerca di eliminare le gocce stesse e riportare il tessuto alle condizioni normali“.
“Gli adipociti – aggiunge Alessandra Valerio dell’Università degli Studi di Brescia – esprimono sulla propria membrana cellulare il recettore ACE2 che favorisce l’entrata del virus SARS-CoV-2 e, per motivi ancora sconosciuti, tale recettore aumenta negli adipociti ipertrofici (giganti), tipici dei soggetti con obesità”. Tale entrata del virus favorirebbe la morte di un numero ancora maggiore di cellule adipose. Quindi, quello che sembra succedere è che oltre all’infiammazione del tessuto adiposo tipica dell’obesità, nel paziente COVID-19 si aggiungerebbe quella promossa dal virus; tale meccanismo amplificherebbe la fuoriuscita dalle cellule di residui grassi e, quindi, il rischio di embolie grassose.
Infatti, “i quadri polmonari che si trovano nei pazienti COVID-19 si manifestano spesso con lesioni bilaterali, proprio come quelle causate dalle embolie grassose che possono far seguito alle fratture multiple” commentano Antonio Giordano e Laura Graciotti dell’Università politecnica delle Marche. Tale ipotesi potrebbe avere importanti ripercussioni terapeutiche, oltre che patogenetiche.
“A questo proposito – aggiunge Enzo Nisoli dell’Università Statale di Milano – le nostre evidenze suggeriscono estrema cautela nell’affrontare terapeuticamente la polmonite da SARS-CoV-2 – particolarmente nei soggetti con sovrappeso e obesità”.
Gli interventi comunemente adottati nei pazienti con la sindrome da embolismo grassoso (tra cui l’ossigeno-terapia, l’eparina a basso peso molecolare, i cortisonici e altri farmaci antiinfiammatori) sono in parte sovrapponibili a quelli variamente messi in atto su base sperimentale in caso di COVID-19. In particolare, l’eparina è stata utilizzata nella FES con risultati contraddittori. Oltre all’effetto anticoagulante (arma a doppio taglio in quanto espone a rischio di emorragie, maggiormente in soggetti obesi con alterata coagulabilità del sangue) il farmaco stimola la lipasi, un enzima che favorisce il metabolismo dei grassi. Questo meccanismo potrebbe favorire lo scioglimento delle gocce lipidiche depositate nel polmone e in altri organi, ma anche liberare acidi grassi che peggiorerebbero lo stato infiammatorio. “Il quadro è molto complesso e la nostra ipotesi merita di essere ulteriormente approfondita” conclude Cinti.