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2023 CX1, CRONACA INTERNAZIONALE DI UN IMPATTO: PRIMA, DURANTE E DOPO
Per la prima volta un asteroide è stato seguito dall’osservazione nello spazio fino al recupero delle meteoriti al suolo. Lo studio, a cui partecipa anche l’INAF, apre nuove prospettive per la difesa planetaria.

Un asteroide scoperto appena sette ore prima di colpire la Terra è oggi al centro del primo studio che ne ricostruisce in modo completo la traiettoria, la disintegrazione in atmosfera e il recupero delle meteoriti al suolo. Si tratta di 2023 CX1, esploso nei cieli della Normandia nella notte del 13 febbraio 2023. La ricerca, a guida del Fireball Recovery and InterPlanetary Observation Network, Planetario di Montréal e Università dell’Ontario Occidentale (University of Western Ontario), e realizzata da un centinaio di scienziati in tutto il mondo – con la partecipazione anche dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – è stata pubblicata oggi sulla rivista Nature Astronomy.

Fotografia scattata da Gijs de Reijke, ripresa dalla riserva naturale di Kampina nei Paesi Bassi
Fotografia scattata da Gijs de Reijke, ripresa dalla riserva naturale di Kampina nei Paesi Bassi

Scoperto il 12 febbraio 2023 alle 20:18 ora universale (o anche UTC in breve) alla stazione di Piszkéstető del Konkoly Observatory (Ungheria), 2023 CX1 è soltanto il settimo asteroide mai individuato prima di un impatto. Subito dopo la scoperta è stato seguito da una vasta rete di osservatori professionali e amatoriali in tutto il mondo, che hanno contribuito a definirne orbita, forma e moto di rotazione. L’orario e la zona dell’impatto sono stati stimati con uno scarto di meno di 20 metri: un’accuratezza senza precedenti.

Con un diametro appena inferiore al metro e una massa di circa 650 chilogrammi, l’asteroide è entrato nell’atmosfera terrestre sul Canale della Manica a una velocità superiore a 14 chilometri al secondo – oltre 50 mila chilometri l’ora – riscaldandosi e trasformandosi in un bolide, ovvero una meteora estremamente luminosa. Durante questa fase è stato osservato da numerose reti di sorveglianza del cielo (meteor e fireball network), tra cui FRIPON/Vigie-Ciel, alla quale partecipa anche la rete PRISMA (Prima Rete Italiana per la Sorveglianza sistematica di Meteore e Atmosfera), coordinata dall’INAF e secondo partner internazionale del programma.

L’asteroide si è disintegrato il 13 febbraio 2023 alle 02:59 UTC a circa 28 chilometri di quota, liberando il 98% della sua energia cinetica in un’unica esplosione e generando una potente onda d’urto sferica. Il fenomeno ha disperso oltre un centinaio di meteoriti, recuperate nei giorni successivi nell’area di caduta predetta e classificate sotto il nome ufficiale Saint-Pierre-Le-Viger (SPLV), località in cui è stato trovato il primo campione.

Lo studio analizza in dettaglio sia le osservazioni dell’asteroide in orbita sia il bolide atmosferico e, infine, le meteoriti recuperate, rappresentando un caso unico: è infatti la prima volta che il materiale di un asteroide viene studiato lungo l’intero percorso, dallo spazio al laboratorio. Le analisi indicano che 2023 CX1 era un frammento di un asteroide della Fascia Principale interna degli asteroidi, collocata tra Marte e Giove, da cui si è staccato circa 30 milioni di anni fa.

“L’impatto di 2023 CX1 in Normandia non è stato un episodio isolato”, sottolinea Dario Barghini ricercatore INAF, membro del Project Office di PRISMA e tra i co-autori dello studio. “Nei giorni immediatamente successivi si sono verificati altri due eventi che hanno portato al recupero di meteoriti al suolo: il 14 febbraio 2023 la rete PRISMA ha registrato un brillante bolide sopra i cieli di Puglia e Basilicata. L’analisi delle traiettorie da parte del nostro team ha permesso di individuare rapidamente l’area di caduta e, appena tre giorni più tardi, il 17 febbraio, è stata recuperata la meteorite Matera, una condrite ordinaria. Il giorno successivo, il 15 febbraio, un altro bolide è stato osservato sopra il Texas, dove le ricerche sul campo hanno portato al ritrovamento di meteoriti”.

Nonostante abbia resistito a pressioni oltre 40 volte superiori a quelle che sperimentiamo al livello del mare, l’oggetto si è disintegrato improvvisamente, producendo un’onda d’urto sferica e compatta. Le simulazioni condotte nello studio mostrano che una frammentazione di questo tipo può avere effetti al suolo più gravi rispetto a eventi come quello di Čeljabinsk nel 2013, caratterizzati invece da una frammentazione graduale.

Per determinare con precisione l’area di dispersione dei frammenti, tipicamente estesa per alcuni chilometri quadrati, i ricercatori hanno utilizzato sia i dati della rete FRIPON sia le immagini raccolte da camere di sorveglianza e strumenti di cittadini e osservatori non professionisti. La triangolazione della traiettoria atmosferica ha dato il via, il 15 febbraio, alle ricerche sul terreno in Normandia da parte di ricercatori e volontari, inclusi i partecipanti al programma di citizen science Vigie-Ciel.

Questo ha portato al recupero dopo poche ore di ricerca di una prima meteorite di circa 100 grammi a Saint-Pierre-Le-Viger, tra Dieppe e Doudeville, in Francia, nella zona indicata dalle previsioni. Le ricerche sono proseguite nelle settimane successive, portando al recupero di oltre un centinaio di frammenti, per un peso complessivo di diversi chilogrammi.

Le meteoriti SPLV sono state classificate come condriti ordinarie di tipo L6, con struttura petrografica e contenuto ferroso tipici di questa classe. Le abbondanze isotopiche confermano la provenienza da un corpo progenitore di Fascia Principale. Sebbene si tratti della classe più comune di meteoriti terrestri, è la prima volta che una condrite L viene collegata direttamente a un asteroide osservato in orbita prima dell’impatto.

L’analisi di 2023 CX1 rappresenta dunque un’opportunità senza precedenti sia per la scienza sia per la difesa planetaria. Lo studio mostra che, per asteroidi con caratteristiche simili, non basta prevedere tempo e luogo dell’impatto: è cruciale valutare anche il modo in cui esploderanno. Una frammentazione improvvisa e concentrata, come quella osservata in Normandia, può infatti amplificare i danni al suolo e rendere necessarie misure straordinarie di protezione civile, come l’evacuazione preventiva delle aree più a rischio.

Tre eventi ravvicinati che hanno offerto alla comunità scientifica e amatoriale un’occasione senza precedenti per confrontare osservazioni e risultati, e che al tempo stesso hanno evidenziato l’importanza crescente delle reti di sorveglianza e della collaborazione internazionale.

“In questo contesto reti di sorveglianza come PRISMA sono fondamentali non solo per il recupero di meteoriti, ma anche per ricostruire l’orbita del corpo progenitore e modellizzarne le modalità di impatto”, conclude Daniele Gardiol, primo tecnologo INAF e coordinatore del progetto PRISMA.

I ricercatori INAF Dario Barghini e Daniele Gardiol. Crediti: Chiara Lamberti (PRISMA / INAF)
I ricercatori INAF Dario Barghini e Daniele Gardiol. Crediti: Chiara Lamberti (PRISMA / INAF)

Riferimenti bibliografici:

Egal, A., Vida, D., Colas, F. et al., Catastrophic disruption of asteroid 2023 CX1 and implications for planetary defence, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02659-8

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

INDIVIDUATE NUOVE TRACCE DI SOSTANZE ORGANICHE NEI SOLFATI SU MARTE

Tracce di composti organici associati a solfati sono state individuate sulla superficie di Marte. A riportare la scoperta è un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy, basato su dati raccolti dallo spettrometro Sherloc a bordo del rover Perseverance della NASA, in campioni prelevati nel cratere marziano Jezero. Non è possibile escludere che queste molecole organiche siano residui derivanti dalla degradazione di materia microbica antica, sebbene l’origine più probabile sia considerata abiotica, più specificamente attraverso reazioni di gas magmatici con ossidi di ferro presenti nelle rocce vulcaniche. A guidare il team è Teresa Fornaro, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: "M2020 WATSON -- Pilot Mountain, sol 874" (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)
Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: “M2020 WATSON — Pilot Mountain, sol 874” (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)

La ricerca di molecole organiche su Marte è centrale per capire se il pianeta abbia mai offerto condizioni favorevoli alla vita. Alcuni composti organici possono infatti rappresentare nutrienti, mentre altri, più complessi, potrebbero costituire vere e proprie biofirme. Nonostante in passato siano già state individuate molecole organiche, la loro origine e conservazione restano ancora poco chiare.

Proprio per questo il cratere Jezero, antica area deltizia che un tempo ospitava un lago e che potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità, è oggi uno dei luoghi più interessanti da studiare. Qui, lo strumento Sherloc (Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals) a bordo del rover Perseverance ha rilevato segnali Raman forti e complessi associati a solfati, in particolare nelle aree denominate Quartier e Pilot Mountain, rispettivamente sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio.

“Quando Sherloc ha rivelato forti segnali Raman nella regione spettrale degli organici nel target Quartier, ci siamo entusiasmati. Questi segnali erano associati spazialmente a solfati di magnesio e calcio, che sulla Terra mostrano grandi capacità di preservazione della materia organica”, sottolinea Teresa Fornaro. “L’associazione con i solfati era davvero un enigma affascinante e mi ha spinta a esaminare uno per uno gli 839 spettri acquisiti da Sherloc in cui sono stati rilevati solfati sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio di Jezero, alla ricerca di segnali potenzialmente indicativi di composti organici. In questo modo, ho scoperto che il target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio, mostra segnali Raman simili a quelli osservati in Quartier”.

Per verificare l’ipotesi che i segnali osservati sono effettivamente dovuti a molecole organiche, il team ha condotto esperimenti nel Laboratorio di Astrobiologia dell’INAF a Firenze. Sono stati utilizzati materiali analoghi marziani e strumenti simili a Sherloc, riproducendo processi naturali in condizioni controllate. Il confronto con i dati acquisiti in situ ha permesso di consolidare l’interpretazione organica.

“Il Laboratorio di Astrobiologia di Arcetri, grazie al supporto dell’INAF e dell’Agenzia Spaziale Italiana, ha acquisito nel corso degli anni strumentazioni all’avanguardia che ci hanno permesso di ritagliarci un ruolo di rilievo nel contesto internazionale per quanto riguarda i temi dell’astrobiologia” spiega John Brucato dell’INAF, responsabile del laboratorio e coautore dello studio. “Siamo in grado di caratterizzare i composti organici presenti nei materiali che ci giungono dallo spazio, come le meteoriti o i campioni riportati a terra dalle missioni, e di simulare le condizioni e i processi chimico-fisici che possono verificarsi sulla superficie di Marte. Grazie alla partecipazione alle missioni marziane con i rover Perseverance della NASA e Rosalind Franklin dell’ESA, il nostro ambizioso obiettivo è riuscire a trovare le biofirme di una vita extraterrestre”.

“Nello specifico, abbiamo mescolato minerali solfati con molecole organiche aromatiche facilmente rilevabili da Sherloc, utilizzando metodi che imitano processi naturali potenzialmente avvenuti in passato in un ambiente acquoso a Jezero, seguiti da essiccazione. Successivamente, abbiamo analizzato i campioni preparati con strumenti analoghi a Sherloc”, spiega ancora Fornaro. “Questo metodo ci ha permesso di acquisire un set di dati di riferimento da confrontare direttamente con le osservazioni in situ, essenziali per interpretare correttamente i complessi segnali provenienti da Marte. Sulla base di queste indagini, abbiamo potuto attribuire questi segnali a idrocarburi policiclici aromatici preservati all’interno dei solfati”.

Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin
Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin

Il rilevamento in rocce vulcaniche suggerisce che gli idrocarburi policiclici aromatici possano essersi formati attraverso processi magmatici e, in seguito, essere stati mobilizzati dall’acqua e intrappolati nei solfati. I fluidi circolanti, comprese possibili acque idrotermali, avrebbero favorito il loro accumulo selettivo e la conservazione nelle rocce del cratere Jezero. Questi risultati si aggiungono a precedenti evidenze da meteoriti e dal cratere Gale, rafforzando il ruolo dei solfati nella conservazione della materia organica marziana.

“Sebbene non siano state trovate prove che questa materia organica sia di origine biologica, non è possibile escludere completamente che le sostanze organiche rilevate in queste rocce possano derivare dall’alterazione chimica di antichi composti biotici” conclude Fornaro“In attesa di un possibile futuro ritorno di questi campioni marziani per analisi più dettagliate sulla Terra, stiamo continuando a indagare sulla natura delle altre componenti di questi segnali complessi, la cui origine è ancora da chiarire del tutto”.

Riferimenti bibliografici:
L’articolo Evidence for polycyclic aromatic hydrocarbons detected in sulfates at Jezero crater by the Perseverance rover, di Teresa Fornaro, Sunanda Sharma, Ryan S. Jakubek, Giovanni Poggiali, John Robert Brucato, Rohit Bhartia, Andrew Steele, Ashley E. Murphy, Mike Tice, Mitchell D. Schulte, Kevin P. Hand, Marc D. Fries, William J. Abbey, Andrew Alberini, Daniela Alvarado-Jiménez, Kathleen C. Benison, Eve L. Berger, Sole Biancalani, Adrian J. Brown, Adrian Broz, Wayne P. Buckley, Denise K. Buckner, Aaron S. Burton, Sergei V. Bykov, Emily L. Cardarelli, Edward Cloutis, Stephanie A. Connell, Cristina Garcia-Florentino, Felipe Gómez, Nikole C. Haney, Carina Lee, Valeria Lino, Paola Manini, Francis M. McCubbin, Michelle Minitti, Richard V. Morris, Yu Yu Phua, Nicolas Randazzo, Joseph Razzell Hollis, Francesco Renzi, Sandra Siljeström, Justin I. Simon, Anushree Srivastava, Nicola Tasinato, Kyle Uckert, Roger C. Wiens, Amy J. Williams, è stato pubblicato su Nature Astronomy.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

QUANDO UN BUCO NERO SI È RISVEGLIATO: LAMPI DI RAGGI X DA ANSKY

Un buco nero supermassiccio si è recentemente risvegliato, emettendo potenti lampi di raggi X. Grazie alle osservazioni del telescopio XMM-Newton, un team internazionale a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica, ha studiato questo raro fenomeno, offrendo nuove e preziose informazioni sul comportamento dei buchi neri supermassicci.

Un buco nero supermassiccio al centro della galassia SDSS1335+0728, situata a 300 milioni di anni luce dalla Terra, ha recentemente iniziato a rilasciare intensi e regolari lampi di raggi X, attirando l’attenzione degli astrofisici. Dopo decenni di inattività, questo colosso dalla smisurata forza di attrazione gravitazionale si è improvvisamente “risvegliato”, dando vita a un fenomeno raro che offre una straordinaria opportunità per studiare il comportamento di un buco nero in tempo reale. L’osservazione di questi lampi, resa possibili grazie al telescopio spaziale XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), ha portato a scoperte senza precedenti sugli eventi energetici generati dai buchi neri supermassicci. I risultati del lavoro condotto da un team di ricercatrici e ricercatori internazionali, di cui fa parte anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è stato pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy.

Sebbene i buchi neri supermassicci (con masse di milioni o addirittura miliardi pari a quella del nostro Sole) siano noti per nascondersi al centro della maggior parte delle galassie, la loro stessa natura li rende difficili da individuare e quindi studiare. In contrasto con l’idea popolare che i buchi neri “divorino” continuamente materia, questi mostri gravitazionali possono passare lunghi periodi in una fase dormiente. Questo è stato il caso del buco nero al centro di SDSS1335+0728, soprannominato Ansky, che per decenni è rimasto inattivo. Nel 2019 qualcosa cambia, quando gli astronomi osservano un’improvvisa “accensione” della galassia, seguita da straordinari lampi di raggi X. Questi segnali hanno portato alla conclusione che il buco nero fosse entrato in una nuova fase attiva, trasformando la galassia che lo ospita in un nucleo galattico attivo.

Nel febbraio 2024, il team di ricerca guidato da Lorena Hernández-García, ricercatrice presso l’Università di Valparaíso in Cile, ha iniziato a osservare i lampi regolari di raggi X provenienti da Ansky.

“Questo raro evento ci permette di osservare il comportamento di un buco nero in tempo reale, utilizzando i telescopi spaziali XMM-Newton e quelli della NASA NICER, Chandra e Swift”, spiega. “Questo fenomeno è conosciuto come eruzione quasi periodica (in inglese Quasiperiodic Eruption, QPE) di breve durata ed è la prima volta che osserviamo un tale evento in un buco nero che sembra essersi risvegliato”.

Tali fenomeni sono stati finora associati a piccole stelle od oggetti che interagiscono con la materia in orbita attorno al buco nero stesso, il cosiddetto disco di accrescimento, ma nel caso di Ansky, non ci sono prove che una stella sia stata distrutta. Gli astronomi ipotizzano che i lampi possano derivare da oggetti più piccoli che disturbano ripetutamente il materiale del disco di accrescimento, generando potenti shock che liberano enormi quantità di energia. Ognuna di queste eruzioni sta rilasciando cento volte più energia rispetto alle eruzioni quasi periodiche tipiche: sono infatti dieci volte più lunghe e luminose, e con una cadenza mai osservata prima di circa 4,5 giorni, che mette alla prova i modelli teorici esistenti sui buchi neri.

Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno al buco nero massiccio Ansky e della sua interazione con un piccolo oggetto celeste (crediti ESA)
Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno al buco nero massiccio Ansky e della sua interazione con un piccolo oggetto celeste (crediti ESA)

Osservare l’evoluzione di Ansky in tempo reale offre agli astronomi un’opportunità unica per approfondire la comprensione dei buchi neri e degli eventi energetici che li alimentano. Attualmente, esistono ancora più modelli che dati sulle eruzioni quasi periodiche, e saranno quindi necessarie ulteriori osservazioni per comprendere a pieno il fenomeno.

“Nonostante la notevole attività nella banda dei raggi X, Ansky risulta ancora sopito nella banda radio”, commenta Gabriele Bruni, ricercatore dell’INAF e co-autore del lavoro pubblicato. “Infatti, né le nostre osservazioni con il radiotelescopio australiano ATCA, né le campagna osservativa radio che hanno osservato la sua regione di cielo negli ultimi anni hanno rilevato emissione dalla sua direzione, escludendo così la presenza di un getto relativistico prodotto durante la riattivazione del buco nero. Nei prossimi mesi continueremo a tenere d’occhio Ansky per scovare la possibile nascita di un getto come già verificato in altri casi di nuclei galattici attivi riattivati”.

Le eruzioni ripetitive di Ansky potrebbero anche essere associate alle onde gravitazionali, obiettivo dalla futura missione LISA dell’ESA. L’analisi di questi dati nei raggi X, insieme agli studi sulle onde gravitazionali, aiuterà a risolvere il mistero di come i buchi neri massicci evolvono e interagiscono con l’ambiente circostante.


Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Discovery of extreme Quasi-Periodic Eruptions in a newly accreting massive black hole”, di Lorena Hernández-García, Joheen Chakraborty, Paula Sánchez-Sáez, Claudio Ricci, Jorge Cuadra, Barry McKernan, K.E. Saavik Ford, Arne Rau, Riccardo Arcodia, Patricia Arevalo, Erin Kara, Zhu Liu,Andrea Merloni, Gabriele Bruni, Adelle Goodwin, Zaven Arzoumanian, Roberto Assef, Pietro Baldini, Amelia Bayo, Franz Bauer, Santiago Bernal, Murray Brightman, Gabriela Calistro Rivera, Keith Gendreau,  David Homan, Mirko Krumpe, Paulina Lira, Mary Loli Martínez-Aldama, Mara Salvato e Belén Sotomayor è stato pubblicato online sulla rivista Nature Astronomy, (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02523-9

Testo e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Grazie ai venti da loro generati, che accelerano improvvisamente a grandi distanze, i buchi neri non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie

Ricerca internazionale su Nature Astronomy guidata dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri

Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate
Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate

buchi neri che si trovano al centro delle galassie non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici.

È la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricercatori internazionali guidati dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri, protagonisti di un lavoro pubblicato su Nature Astronomy (“Evidence of the Fast Acceleration of AGN-Driven Winds at Kiloparsec Scales” https://www.nature.com/articles/s41550-025-02518-6). Lo studio ha dimostrato per la prima volta che i venti generati dai buchi neri subiscono un’improvvisa accelerazione quando si allontanano dal centro galattico, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie.

“Ogni galassia ospita al centro un buco nero supermassiccio”, spiegano i primi firmatari dell’articolo Cosimo Marconcini e Alessandro Marconi, rispettivamente dottorando e docente di Astrofisica del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Firenze. “Questi nuclei galattici attivi (AGN) mentre «mangiano» materia, generano forti venti di gas che si diffondono nello spazio circostante”.

Gli scienziati hanno scoperto un comportamento sorprendente: nei primi 3.000 anni luce (1 kiloparsec) dalla sorgente, i venti si muovono a velocità costante o addirittura rallentano un po’; in seguito, subiscono una drastica espansione, si riscaldano e accelerano, raggiungendo velocità tali da espellere dalla galassia tutto il gas che incontrano lungo la strada. A questo risultato i ricercatori sono arrivati analizzando i venti di 10 galassie osservate con il Very Large Telescope (VLT – European Southern Observatory) in Cile – la più importante struttura al mondo per l’astronomia – e con un nuovo strumento per la modellizzazione 3D dei dati, chiamato MOKA3D e da loro sviluppato.

Perché questa acquisizione è così importante? Perché i buchi neri supermassivi possono spingere il gas fuori dalle galassie, fermando la formazione stellare e influenzando la loro evoluzione.

“Infatti – spiegano i due ricercatori – i venti generati dagli AGN regolano la nascita delle stelle, perché se il vento spazza via troppo gas, la galassia avrà meno «carburante» per formarne di nuove. Possono, quindi, influenzare la distribuzione del gas e degli elementi chimici e addirittura fermare la crescita della galassia: se il vento è abbastanza forte da espellere il gas nello spazio intergalattico, la galassia stessa potrebbe smettere di crescere”.

La prossima frontiera consisterà nello studiare altre galassie, anche molto lontane, per capire se nell’universo è comune questo fenomeno, che fa dei buchi neri i modellatori delle galassie in cui vivono.

Immagine RGB della galassia Circinus
Immagine RGB della galassia Circinus (un’immagine RGB è anche detta immagine a falsi colori, in cui si evidenzia l’emissione di componenti diversi della galassia con colori diversi: blu=gas ionizzato che traccia i venti emessi dai buchi neri; rosso=emissione da parte di stelle giovani e parzialmente anche i venti provenienti dai buchi neri; verde=emissione diffusa delle stelle nella galassia)

Riferimenti bibliografici:

Marconcini, C., Marconi, A., Cresci, G. et al., Evidence of the fast acceleration of AGN-driven winds at kiloparsec scales, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02518-6

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Unità funzionale comunicazione esterna dell’Università degli studi di Firenze

Big Wheel” (Ruota Panoramica), scoperta una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale

In un articolo su “Nature Astronomy”, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang, professore e post-doc del gruppo di ricerca “Cosmic Web” dell’Università di Milano-Bicocca, descrivono la rapida e inaspettata crescita di un enorme disco galattico nelle prime fasi di sviluppo dell’universo. Uno studio condotto grazie ai dati ricevuti dal James Webb Space Telescope e che apre una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie.

La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico
La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico. La galassia è un gigantesco disco rotante a redshift z = 3,25, con chiari bracci a spirale. È finora unica per le sue grandi dimensioni del disco, che si estende per più di 30 kpc, più grande di qualsiasi altro disco di galassia confermato in questa epoca dell’universo

Milano, 17 marzo 2025 – Una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale, ovvero in un periodo cosmico iniziale – circa due miliardi di anni dopo il Big Bang – e che presenta quindi dimensioni più tipiche dei dischi galattici giganti dell’Universo attuale. È la scoperta del gruppo di ricerca “Cosmic Web”, nato all’interno dell’Unità di Astrofisica del dipartimento di Fisica dell’Università di Milano-Bicocca, riportata in un articolo pubblicato oggi su “Nature Astronomy” (“A giant disk galaxy two bilion years after the Big Bang”, DOI: 10.1038/s41550-025-02500-2), a firma di Weichen Wang e Sebastiano Cantalupo, rispettivamente assegnista di ricerca (post-doc) e professore ordinario dell’ateneo, oltre agli altri membri del gruppo “Cosmic Web” e collaboratori internazionali. Una scoperta basata sui dati ottenuti dai ricercatori di Milano-Bicocca dal James Webb Space Telescope (JWST), l’osservatorio spaziale più grande e potente mai costruito finora, erede di Hubble, frutto di una partnership tra la NASA, l’ESA e l’Agenzia spaziale canadese (Canadian Space Agency).

«Quando e come si formano i dischi galattici è ancora un enigma nell’astronomia moderna – afferma Sebastiano Cantalupo – I primi anni di osservazioni del James Webb Space Telescope hanno rivelato una pletora di dischi galattici nell’Universo primordiale, che corrisponde a un’epoca cosmica di undici miliardi di anni fa, o due miliardi di anni dopo il Big Bang. Prima della nostra osservazione, erano tuttavia stati scoperti da JWST solo dischi galattici molto più piccoli di quelli che vediamo nell’universo locale. Per questo motivo, si pensava fino ad ora che la formazione dei dischi più grandi avesse richiesto la maggior parte dell’età dell’universo. Per poter fare nuova luce sulla questione, abbiamo rivolto la nostra attenzione all’Universo primordiale e, in particolare, ad uno speciale ambiente cosmico».

Gli studiosi del Cosmic Web Group, hanno condotto il loro studio utilizzando nuove osservazioni dal JWST, integrate da dati provenienti da altre strutture come il telescopio spaziale Hubble, il Very Large Telescope (VLT) e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA). Queste osservazioni erano mirate verso una specifica regione del cielo, che si trova a 11-12 miliardi di anni luce di distanza da noi e che è incorporata in una struttura su larga scala che probabilmente evolverà in un ammasso di galassie, una regione quasi unica nell’universo, eccezionalmente densa, con un’alta concentrazione di galassie, gas e buchi neri. «Un laboratorio nel quale si possono studiare i meccanismi di formazione delle galassie. Infatti, grazie alla velocità finita della luce, osservazioni e immagini del telescopio sono una foto di quella regione di cielo quando l’universo aveva “solo” 2 miliardi di anni».

«Utilizzando i dati di due strumenti – prosegue Weichen Wang – la Near-Infrared Camera e il Near-Infrared Spectrograph, a bordo del JWST, abbiamo identificato le galassie all’interno di questa regione iperdensa e abbiamo analizzato i loro redshift, la loro morfologia e la loro cinematica, tutti necessari per l’identificazione dei dischi galattici. Le osservazioni ci hanno portato alla scoperta di un disco sorprendentemente grande nella struttura su larga scala. Questa galassia, che abbiamo chiamato “Big Wheel”, o “Ruota Panoramica” in italiano date le sue enormi dimensioni (Figura 1), ha un raggio effettivo (cioè il raggio che contiene metà della luce totale) di circa 10 kiloparsec. “Big Wheel” è circa tre volte più grande delle galassie scoperte in precedenza con masse stellari e tempi cosmici simili, ed è anche almeno tre volte più grande di quanto previsto dalle attuali simulazioni cosmologiche. È invece paragonabile alle dimensioni della maggior parte dei dischi massicci visti nell’attuale Universo».

Ulteriori analisi spettroscopiche hanno confermato che “Big Wheel” è un disco che ruota come una galassia a spirale, ovvero come la Via Lattea, la nostra galassia».

La crescita precoce e rapida di questo disco potrebbe essere correlata al suo ambiente altamente sovradenso, che, a differenza di quanto dicano i modelli di formazione galattica più diffusi, potrebbe offrire condizioni fisiche favorevoli a questa formazione precoce.

«Ambienti eccezionalmente densi come quello che ospita la Big Wheel rimangono un territorio relativamente inesplorato – conclude Sebastiano Cantalupo –. Sono necessarie ulteriori osservazioni mirate per costruire un campione statistico di dischi giganti nell’Universo primordiale e aprire così una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie».

Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang
Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang

Sebastiano Cantalupo, Weichen Wang e il Cosmic Web Group

Classe 1980, Sebastiano Cantalupo è professore ordinario di Astrofisica all’Università di Milano-Bicocca. Vincitore di un finanziamento ERC (European Research Council) nel 2020, rientra in Italia dopo 17 anni all’estero (Politecnico di Zurigo,Università di CambridgeUniversità della California a Santa Cruz), scegliendo l’Università di Milano-Bicocca per proseguire le sue linee di ricerca. Cantalupo guida un team chiamato “Cosmic Web”, dal nome del suo progetto di ricerca, formato da otto ricercatori e, oltre all’ERC, ha ricevuto nel 2020 un finanziamento da Fondazione Cariplo (bando “Attrattività e competitività su strumenti dell’European Research Council”) e un ulteriore supporto, nel 2021, dal bando Fare, il programma MUR (Ministero Università e Ricerca) per la ricerca di eccellenza.

Weichen Wang è nato nel 1994. Si è laureato (bachelor degree) in Fisica nel 2016 alla Tsinghua University di Pechino e ha conseguito nel 2022 un dottorato in Astrofisica alla Johns Hopkins University di Baltimora. Dal 2022 è assegnista di ricerca (post-doc) all’Università di Milano-Bicocca.

Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang
Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

La “ragnatela cosmica” della materia oscura che forma l’Universo fotografata da ricercatori di Milano-Bicocca

Grazie a uno studio dell’Università di Milano-Bicocca, ottenute le prime immagini del filamento cosmico che unisce due galassie in formazione, risalente a quando l’Universo aveva solo 2 miliardi di anni

Milano, 30 gennaio 2025 – Le prime immagini ad alta definizione della “ragnatela cosmica” che struttura l’Universo sono state ottenute grazie a uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Grazie a MUSE (Multi-Unit Spectroscopic Explorer), innovativo spettrografo installato presso il Very Large Telescope dell’European Southern Observatory, in Cile, il team ha catturato una struttura cosmica risalente a un Universo molto giovane. La scoperta è stata recentemente pubblicata su Nature Astronomy nell’articolo “High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z=3” e apre una nuova prospettiva per comprendere l’essenza della materia oscura.

Sfruttando le capacità offerte dal sofisticato strumento, il gruppo di ricerca coordinato da Michele Fumagalli e Matteo Fossati, professori nell’unità di Astrofisica dell’Università di Milano-Bicocca, ha condotto una delle più ambiziose campagne di osservazione con MUSE mai completata in una singola regione di cielo, acquisendo dati per centinaia di ore. 

Un solido pilastro della cosmologia moderna è l’esistenza della materia oscura che, costituendo circa il 90% di tutta la materia presente nell’Universo, determina la formazione e l’evoluzione di tutte le strutture che osserviamo su grandi scale nel Cosmo.

«Sotto l’effetto della forza di gravità, la materia oscura disegna un’intricata trama cosmica composta da filamenti, alle cui intersezioni si formano le galassie più brillanti», ha spiegato Michele Fumagalli. «Questa ragnatela cosmica è l’impalcatura su cui si creano tutte le strutture visibili nell’Universo: all’interno dei filamenti il gas scorre per raggiungere e alimentare la formazione di stelle nelle galassie».

«Per molti anni, le osservazioni di questa ragnatela cosmica sono state impossibili: il gas presente in questi filamenti è infatti così diffuso da emettere solo un tenue bagliore, indistinguibile dagli strumenti allora disponibili», commenta Matteo Fossati.

MUSE, grazie alla sua elevata sensibilità alla luce, ha consentito agli scienziati di ottenere immagini dettagliate di questa ragnatela cosmica. Lo studio – guidato da Davide Tornotti, dottorando dell’Università di Milano-Bicocca, e collaboratori – ha utilizzato questi dati ultrasensibili per produrre l’immagine più nitida mai ottenuta di un filamento cosmico che si estende su una distanza di 3 milioni di anni luce attraverso due galassie che ospitano ciascuna un buco nero supermassiccio.

«Catturando la debole luce proveniente da questo filamento, che ha viaggiato per poco meno di 12 miliardi di anni prima di giungere a Terra, siamo riusciti a caratterizzarne con precisione la forma e abbiamo tracciato, per la prima volta con misure dirette, il confine tra il gas che risiede nelle galassie e il materiale contenuto nella ragnatela cosmica», spiega Davide Tornotti. «Attraverso alcune simulazioni dell’Universo con i supercomputer, abbiamo inoltre confrontato le previsioni del modello cosmologico attuale con i nuovi dati, trovando un sostanziale accordo tra la teoria corrente e le osservazioni».

«Quando quasi 10 anni fa Michele Fumagalli mi ha proposto di partecipare a queste osservazioni ultra-profonde con lo strumento MUSE ho accettato con grande entusiasmo perché le potenzialità dello studio erano veramente moltissime», commenta Valentina D’Odorico, ricercatrice INAF e co-autrice del lavoro. «Abbiamo già pubblicato vari lavori basati su questi dati, ma il risultato ottenuto nell’articolo guidato da Tornotti può essere considerato il coronamento del progetto. Infatti, non solo vengono identificate le sovradensità occupate dai nuclei galattici attivi presenti nel campo e il filamento che li unisce, ma tali strutture confrontate in modo quantitativo con le predizioni di simulazioni numeriche sono in accordo con un modello di formazione delle strutture cosmiche che adotta materia oscura fredda».

La ricerca è stata supportata da Fondazione Cariplo e dal Ministero dell’Università e Ricerca attraverso il Progetto Dipartimenti di Eccellenza 2023-2027 (BiCoQ, Bicocca Centre for Quantitative Cosmology).

Riferimenti bibliografici:

Tornotti, D., Fumagalli, M., Fossati, M. et al. High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z = 3, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-024-02463-w

Testo e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica

IDENTIFICATO UN ALONE MAGNETICO NELLA VIA LATTEA: RIVELAZIONI SUI DEFLUSSI GALATTICI E SULL’ORIGINE DELLE BOLLE eROSITA
Un team guidato dall’INAF ha scoperto strutture magnetizzate su larga scala attorno alla Via Lattea, la nostra Galassia, probabilmente causate da flussi galattici provenienti da regioni attive di formazione stellare. Queste strutture sono allineate con le bolle eROSITA, suggerendo un’origine comune e collegando gli aloni magnetizzati all’attività di formazione stellare nelle galassie.

Una vista schematica dell'alone della Via Lattea. I deflussi del Centro Galattico corrispondono alle bolle di Fermi. Tuttavia, le bolle eROSITA corrispondono ai deflussi esterni che hanno origine dall'anello di formazione stellare nel disco, a più di diecimila anni luce dal Centro Galattico. Crediti: H.-S. Zhang (INAF) et al. 2024, Nature Astronomy
Una vista schematica dell’alone della Via Lattea. I deflussi del Centro Galattico corrispondono alle bolle di Fermi. Tuttavia, le bolle eROSITA corrispondono ai deflussi esterni che hanno origine dall’anello di formazione stellare nel disco, a più di diecimila anni luce dal Centro Galattico. Crediti: H.-S. Zhang (INAF) et al. 2024, Nature Astronomy

Un nuovo studio guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha rivelato importanti novità che potrebbero riscrivere la nostra conoscenza della Via Lattea: un alone galattico magnetizzato. Questa scoperta mette in discussione i modelli precedenti sulla struttura ed evoluzione della nostra Galassia. I ricercatori hanno identificato diverse strutture magnetizzate che si estendono ben oltre il piano galattico, raggiungendo altezze superiori a 16 mila anni luce. Tali strutture rivelano una delle origini delle cosiddette bolle di eROSITA, alimentate su scala galattica da intensi flussi di gas ed energia, generati dalla fine esplosiva delle stelle di grande massa come supernove. Sorprendentemente, queste bolle — osservate dal satellite eROSITA (un telescopio a raggi X a bordo della missione spaziale russo-tedesca Spectr-Roentgen-Gamma SRG) — si estendono da un orizzonte all’altro, offrendo le prime misurazioni dettagliate dell’alone magnetico della Via Lattea. I risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature Astronomy.

Questa immagine confronta le bolle eROSITA a raggi X (in verde) e il campo magnetico nell'alone (in bianco). L'intensità polarizzata per la radiazione di sincrotrone è in rosso. I cerchi celesti sono le bolle di Fermi a raggi gamma. Le creste magnetiche associate alle bolle di Fermi sembrano emanare dal Centro Galattico. Al contrario, le creste nella regione esterna hanno origine nel disco galattico, a più di diecimila anni luce dal Centro Galattico. Crediti: H.-S. Zhang (INAF) et al. 2024, Nature Astronomy
Questa immagine confronta le bolle eROSITA a raggi X (in verde) e il campo magnetico nell’alone (in bianco). L’intensità polarizzata per la radiazione di sincrotrone è in rosso. I cerchi celesti sono le bolle di Fermi a raggi gamma. Le creste magnetiche associate alle bolle di Fermi sembrano emanare dal Centro Galattico. Al contrario, le creste nella regione esterna hanno origine nel disco galattico, a più di diecimila anni luce dal Centro Galattico. Crediti: H.-S. Zhang (INAF) et al. 2024, Nature Astronomy

Lo studio rivela che i campi magnetici all’interno di queste bolle formano strutture filamentose che si estendono per una distanza pari a circa 150 volte il diametro della Luna piena, dimostrando la loro immensa scala. I filamenti sono correlati a venti caldi, con una temperatura di 3,5 milioni kelvin, espulsi dal disco galattico e alimentati dalle regioni di formazione stellare.

He-Shou Zhang, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’INAF di Milano sottolinea: “I nostri risultati indicano che l’intensa formazione stellare alla fine del Centro Galattico contribuisce in modo significativo a questi ampi deflussi multifase”. Aggiunge inoltre: “Questo lavoro fornisce le prime misurazioni dettagliate dei campi magnetici nell’alone della Via Lattea, che emette raggi X e svela nuove connessioni tra le attività di formazione stellare e i deflussi galattici. I nostri risultati mostrano che le creste magnetiche osservate non sono semplici strutture casuali, ma sono strettamente legate alle regioni di formazione stellare della nostra Galassia”.

Il team di ricerca ha sfruttato l’intero spettro elettromagnetico, coprendo frequenze dalle onde radio ai raggi gamma, per analizzare queste strutture usando più di dieci diverse indagini all-sky. Un approccio così dettagliato ha permesso di confermare la natura estesa di queste strutture magnetiche. In particolare, lo studio rappresenta la prima evidenza osservativa che collega l’anello di formazione stellare della Via Lattea, situato alla fine del Centro Galattico, alla produzione di deflussi su larga scala.

“Questo studio rappresenta un significativo passo avanti nella nostra comprensione della Via Lattea”, afferma Gabriele Ponti, ricercatore INAF a Milano. “È ormai ben noto che una piccola frazione di galassie ‘attive’ può generare deflussi di materia alimentati dall’accrescimento su buchi neri supermassicci o da eventi di formazione stellare intensi, che influenzano profondamente la loro galassia ospite. Si ritiene che tali deflussi siano elementi fondamentali per regolare la crescita delle galassie e dei buchi neri al loro centro. Ciò che trovo affascinante in questo caso è notare che anche la Via Lattea, una galassia quiescente come molte altre, può espellere potenti deflussi, e in particolare che l’anello di formazione stellare alla fine del centro rotazionale contribuisce significativamente al flusso galattico. Forse la Via Lattea ci sta svelando un fenomeno comune nelle galassie simili alla nostra, aiutandoci così a far luce sulla crescita ed evoluzione di questi oggetti”.

Ettore Carretti, ricercatore INAF a Bologna, spiega il metodo di ricerca: “i nostri primi tentativi di confrontare le emissioni dell’intera volta celeste non hanno avuto successo, poiché le emissioni provenienti dalle strutture locali spesso si sovrapponevano a queste strutture più grandi. Tuttavia, abbiamo dedicato molto tempo all’uso di osservazioni multi-lunghezza d’onda per misurare le distanze delle creste magnetiche e delle bolle di eROSITA che emettono raggi X. L’analisi teorica per comprendere queste strutture, che emettono in modo termico e non-termico nell’alone galattico, è stata anch’essa molto complessa, richiedendo conoscenze sui deflussi galattici, sui campi magnetici e sul trasporto e l’accelerazione dei raggi cosmici. Fortunatamente, la nostra collaborazione include esperti di livello mondiale in tutti questi campi”.

L’INAF ha giocato un ruolo cruciale in questa scoperta, in collaborazione con molte istituzioni internazionali, tra cui gli Istituti Max Planck per la Fisica Extraterrestre e per la Fisica Nucleare, l’Università della California, la Scuola di Astronomia e Scienza Spaziale dell’Università di Nanchino, il Dipartimento di Astrofisica/IMAPP dell’Università di Radboud, l’Istituto di Dublino per gli Studi Avanzati, l’Università Statale di Yerevan, l’Università di Guangxi e l’Università dell’Insubria. Oltre al team di autori principali dell’INAF sopra menzionato, anche Ruoyu Liu (Università di Nanchino, Cina) e Mark Morris (UCLA, Stati Uniti) hanno contribuito in modo sostanziale a questo lavoro.

He-Shou Zhang conclude: “Il nostro lavoro è il primo studio multi-lunghezza d’onda completo sulle bolle di eROSITA dalla loro scoperta nel 2020. Lo studio apre nuove frontiere nella nostra comprensione dell’alone galattico e contribuirà ad approfondire la nostra conoscenza del complesso e impetuoso ecosistema di formazione stellare della Via Lattea”.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A magnetised Galactic halo from inner Galaxy outflows“, di He-Shou Zhang, Gabriele Ponti, Ettore Carretti, Ruo-Yu Liu, Mark R. Morris, Marijke Haverkorn, Nicola Locatelli, Xueying Zheng, Felix Aharonian, Haiming Zhang, Yi Zhang, Giovanni Stel, Andrew Strong, Micheal Yeung, Andrea Merloni, pubblicato sulla rivista Nature Astronomy.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

GRB220101A, IL GRB PIÙ BRILLANTE IN OTTICO RILEVATO FINORA: UN CASO ESTREMO

Un team di ricerca a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) è riuscito a osservare le primissime fasi di un lampo di raggi gamma (GRB, dall’inglese gamma-ray burst) risultato essere il più luminoso nelle bande ottiche rilevato finora. I GRB sono fenomeni transienti esplosivi al centro di continue rivoluzioni scientifiche e INAF è impegnato sia sul piano osservativo-interpretativo che con la partecipazione a grandi missioni dallo spazio per rilevarli e studiarli. I lampi di raggi gamma sono eventi tra i più violenti dell’universo, a distanza di miliardi di anni luce da noi. La loro energia viene trasferita in potentissimi getti collimati che emettono la radiazione che osserviamo. Nello specifico, i ricercatori hanno studiato GRB220101A, il cui segnale – come dice la sigla – è stato rilevato per la prima volta nel capodanno del 2022.

Gli esperti, guidati dal Purple Mountain Observatory (Cina), hanno utilizzato un nuovo metodo sviluppato per ricavare una fotometria affidabile da fonti “catturati” dall’Ultraviolet and Optical Telescope (UVOT), uno dei tre strumenti a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory, osservatorio spaziale della NASA con una importante partecipazione italiana dell’ASI e dell’INAF.

Stefano Covino, ricercatore presso l’INAF di Milano e unico italiano tra gli autori dello studio, spiega che

“questa scoperta rivela le diverse origini dei brillamenti ultravioletti/ottici estremamente energetici e dimostra la necessità dell’osservazione ad alta risoluzione temporale nei primi istanti di evoluzione del fenomeno”. E aggiunge: “Ogni evento GRB mostra dei comportamenti originali, ma in generale troviamo che anche i casi più estremi rientrano comunque nella stessa fenomenologia. GRB220101A non fa eccezione. Non si tratta quindi di una nuova categoria di GRB ma plausibilmente di un caso estremo fra quelli già noti”.

Perché allora è un caso “monstre”? Covino osserva che

“il motivo è probabilmente duplice. Da una parte semplicemente accumulando più osservazioni si possono identificare casi più rari che normalmente ci sarebbe bassa probabilità di poter osservare. E in aggiunta c’è una questione tecnica che consiste nell’avere definito una procedura per poter ottenere informazioni affidabili dalle osservazioni da satellite anche quando, come in questo caso, i dati sono, come si dice tecnicamente, saturi. Questo ci ha permesso di poter avere informazioni nella primissima fase di questo evento e quindi identificare l’impressionante picco in luminosità di cui parliamo”.

GRB220101A è stato osservato da Swift, ma anche da altri telescopi spaziali come Fermi e Agile.

“Come sempre quando Swift identifica un GRB si ripuntano gli strumenti di bordo, come UVOT, e si ottengono dati pochi secondi dall’identificazione dell’evento di alte energie (il GRB vero e proprio). Un ottimo risultato per uno strumento che ormai vola dal 2004! Non appena l’alert per l’identificazione è arrivato a terra anche i telescopi “ground-based” hanno cominciato ad osservare ed il telescopio cinese di Xinglong, da 2,2 metri, ha ottenuto la misura di distanza, tramite uno spettro, che è risultata essere il notevole valore di z=4,6. All’epoca dell’evento che ha generato questo GRB l’universo aveva poco più di un miliardo d’anni”, dice Covino.

Il ricercatore sottolinea il grande lavoro tecnico fatto su questo GRB:

“Dobbiamo prima di tutto immaginare che un telescopio ottico, qualunque, riceve la radiazione luminosa da un oggetto celeste e la converte in un’immagine sul suo rivelatore. Ora, quello che accade è che, in dipendenza dalle caratteristiche del telescopio, l’immagine che si crea per un oggetto puntiforme, come le stelle o anche un GRB a distanze cosmologiche, ha una forma matematica ben precisa (tecnicamente è la PSF). Per visualizzarla possiamo immaginare un cappello a punta, tipo quello dei maghi, con la punta in alto e delle larghe falde intorno. Fare “fotometria” significa misurare bene l’estensione e l’altezza di questo ipotetico cappello! In pratica però, per eventi così brillanti, la parte centrale del “cappello” è cancellata, come tagliata, e quindi non è possibile ottenere le informazioni necessarie. Tuttavia esistono delle relazioni ben precise fra l’altezza del “cappello” e le faglie, che dipendono per telescopi nello spazio (cioè senza l’effetto dell’atmosfera) solo dalle caratteristiche tecniche del telescopio stesso. Con un lavoro davvero certosino siamo riusciti a misurare i parametri di queste relazioni e quindi a ricostruire a posteriori la forma del “cappello” in modo da ottenere le informazioni fotometriche complete. Anche questo può essere un esempio di come, anche con uno strumento che vola dal 2004, non si smetta mai di migliorare”.

Nonostante i decenni di studio, i GRB continuano a mostrare sorprese. Covino conclude dicendo:

“sembra quasi che siano un serbatoio inesauribile di comportamenti estremi ed ovviamente grandemente interessanti. Dal punto vista più modellistico ci mostrano come determinate combinazioni di parametri che portano alla prodigiosa luminosità in ottico osservata sono realmente possibili nel mondo reale. Questo ha importanti conseguenze ad esempio nel valutare l’impatto dei GRB nell’ambiente delle galassie che li ospitano”.

Uno dei co-autori del paper, Hao Zhou, e il primo autore, Zhi-Ping Jin, del Purple Mountain Observatory, hanno un forte legame con l’Italia. Jin è stato postdoc a Merate proprio con Covino, mentre Zhou, un giovane alla fine del suo dottorato, è attualmente in visita nella sede INAF di Merate dove lavora con Covino.


Rappresentazione artistica di un lampo di raggi gamma GRB220101A
Immagine artistica di un Gamma Ray Burst e dei suoi due getti che si propagano in direzioni opposte. Quando vediamo il Grb è grazie al fatto che il getto, che ha un angolo di apertura di pochi gradi, punta in direzione della terra. La bolla di luce che si vede al centro è la stella di grande massa che sta scoppiando, al cui centro si è appena formato il buco nero da cui hanno origine i due getti. Crediti: Eso/A. Roquette

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “An optical/ultraviolet flare with absolute AB magnitude of -39.4 detected in GRB 220101A”, di Zhi-Ping Jin, Hao Zhou, Yun Wang, Jin-Jun Geng, Stefano Covino, Xue-Feng Wu, Xiang Li, Yi-Zhong Fan, Da-Ming Wei e Jian-Yan Wei è stato pubblicato su pubblicato sulla rivista Nature Astronomy.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

SCOPERTO UN DISCO PROTOSTELLARE A QUATTRO BRACCI, G358-MM1

In un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy, un gruppo di ricercatori – tra cui anche quattro dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), esperti in emissione maser (intense emissioni radio nelle microonde, focalizzate in modo analogo a come avviene per i laser), hanno mappato un disco protostellare di grande massa con un dettaglio maggiore rispetto a quanto ottenuto in precedenza. Grazie all’utilizzo combinato di antenne radio dislocate in varie parti del mondo con la tecnica VLBI (Very Long Baseline Interferometry) nell’ambito di una collaborazione internazionale, il team è stato in grado di scoprire i quattro bracci a spirale nel disco di gas e polveri in rotazione attorno alla protostella di grande massa G358.93-0.03MM1 (in breve G358-MM1), già avvistata nel 2019. La scoperta mette insieme le prove di molti degli aspetti della teoria dell’accrescimento episodico: un disco rotante, episodi di accrescimento e una struttura a spirale che aiuta ad alimentare la crescente protostella di grande massa.

La mappa spot dei set di dati combinati di sei epoche, centrata sulla posizione della protostella G358-MM1. La mappa mostra la posizione di tutti i singoli maser rilevati nel tempo. I colori indicano la velocità dell’emissione, il blu in avvicinamento e il rosso in allontanamento rispetto alla velocità sistemica. La linea nera indica la direzione del gradiente di velocità maggiore. I bracci siprali identificati in questo lavoro sono mostrati come spesse linee grigie. Crediti: Burns et al. 2023, Nature Astronomy

Nello studio sono stati raccolti anche i dati ottenuti dal radiotelescopio a parabola singola di 32 metri della Stazione radioastronomica di Medicina (Bologna) dell’INAF, che ha monitorato l’emissione tra febbraio e ottobre 2019, e come parte dell’EVN (European VLBI Network) durante le osservazioni ad alta risoluzione angolare (marzo 2019). Anche il Sardinia Radio Telescope (SRT) dell’INAF ha partecipato alle osservazioni EVN di marzo 2019.

Le stelle sono considerate di grande massa se sono almeno otto volte più massicce del Sole. Agiscono come fabbriche atomiche per generare molti dei mattoni necessari per la vita nell’universo e alterano l’aspetto e l’evoluzione delle galassie. Le stelle più massicce diventano enigmatici buchi neri quando concludono il loro ciclo evolutivo. Nonostante la loro importanza nell’universo, il processo attraverso il quale si formano stelle di grande massa è stato un mistero per molti decenni. Recentemente si è scoperto che questi oggetti celesti si formano al centro di dischi rotanti di gas e polvere, noti come dischi protostellari, che hanno un raggio di circa 1000 unità astronomiche  (una unità astronomica è la distanza media che separa la Terra dal Sole).

Scoperto un disco protostellare a quattro bracci, G358-MM1
Rappresentazione artistica del disco a spirale a 4 bracci che ospita la protostella di grande massa ad accrescimento episodico G358-MM1. Crediti: Charles Willmott & Ross Burns

Una teoria che sta emergendo nella ricerca sulla formazione stellare di massa elevata è quella dell’”accrescimento episodico”, per cui ammassi di gas ricchi di polveri si riversano occasionalmente dal disco protostellare sulla stella in accrescimento, o “protostella”, al centro. Questi avvenimenti forniscono alla protostella più della metà della massa che guadagna durante la sua fase di crescita e ne aumentano temporaneamente la sua luminosità. Tuttavia, questi episodi di accrescimento si verificano su scale temporali da centinaia a migliaia di anni e, durando solo pochi mesi o anni, sono eventi molto rari da studiare. Gli astronomi hanno catturato solo pochi lampi di accrescimento nelle protostelle di massa elevata. Il più recente e il più intensamente studiato risale al 2019 e ha come protagonista la protostella di grande massa G358-MM1. La teoria dell’accrescimento episodico propone che i dischi protostellari siano grumosi e che i bracci a spirale possano emergere nel disco per effetto della forza di attrazione gravitazionale della protostella.

L’osservazione dei dischi protostellari attorno alle protostelle di grande massa, per non parlare di qualsiasi struttura a spirale o grumo, è stata una sfida per gli astronomi. Le protostelle di grande massa si formano all’interno di dense nubi di gas e polvere in turbolenti vivai stellari, che sono per lo più invisibili ai telescopi ottici attualmente disponibili.

Il team ha utilizzato una nuova tecnica chiamata “mappatura dell’onda di calore”: si sfrutta il lampo di radiazione, conseguenza dell’accrescimento, per mappare la superficie del disco utilizzando l’emissione maser del metanolo. In totale sono stati utilizzati 24 radiotelescopi, in Oceania, Asia, Europa e America. Tutti i dati sono stati combinati per produrre un’immagine del disco a spirale di G358-MM1 con una risoluzione di milliarcosecondi (1/3600000 di grado). Il primo autore dello studio, Ross Burns del National Astronomical Observatory of Japan e del Korea Astronomy and Space Science Institute, afferma:

“I dati delle osservazioni di radiotelescopi in tutto il mondo hanno contribuito a questa scoperta. Tali dati sono stati accuratamente elaborati in data center in tre diversi continenti. Queste attività da sole comportano lo sforzo di oltre 150 persone”.

G358-MM1 ha quattro bracci a spirale che avvolgono la protostella. I bracci a spirale aiutano a trasportare il materiale del disco fino al centro del sistema dove può raggiungere la protostella e alimentarla. Se in altre protostelle di grande massa verranno scoperti più sistemi a spirale ed episodi di accrescimento, utilizzando la mappatura delle onde di calore o altre tecniche di osservazione, allora gli astronomi saranno in grado di fornire una migliore comprensione della formazione delle stelle di grande massa.

Jan Brand, ricercatore presso l’INAF di Bologna e tra gli autori dell’articolo, spiega: “L’antenna da 32 metri di Medicina ha risposto ad un cosiddetto flare alert (allerta di improvviso incremento di emissione maser) emesso dal Maser Monitoring Organisation, in cui si indicava che G358.93-0.03, una delle sorgenti regolarmente monitorate da un altro osservatorio, mostrava elevata emissione del maser del metanolo – un possibile indicatore di un evento di accrescimento di materia su una protostella di alta massa. Il monitoraggio del target con l’antenna da 32 metri ha confermato l’aumento di attività anche dell’emissione del maser dell’acqua, come confermato anche da altre antenne della collaborazione scientifica a varie frequenze radio. Sulla base di questi dati sono state condotte osservazioni ad alta risoluzione angolare con vari network di antenne,  tra i quali l’EVN, in cui hanno preso parte sia l’antenna di Medicina che l’SRT da 64 metri”. E continua: “Interessante notare che una delle prime indicazioni della presenza di struttura a spirale nel disco attorno a questa sorgente è stata trovata in uno studio col VLA guidato da Olga Bayandina (postdoc all’INAF di Firenze, e coautrice di questo lavoro)”.

 

Il team continuerà a cercare questi fenomeni nelle protostelle di grande massa, tramite una rete internazionale di astronomi, la Maser Monitoring Organization (M2O), che ha come missione la condivisione di informazioni in tempi scala brevissimi. Finora sono stati osservati solo tre casi di accrescimento episodico associato a protostelle di grande massa, per la prima volta in S255IR-NIRS3 da Alessio Caratti o Garatti (INAF di Napoli, coautore nel presente lavoro) e collaboratori nel 2017. Il team spera di trovarne molte altre.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “A Keplerian disk with a four-arm spiral birthing an episodically accreting high-mass protostar”, di R. A. Burns, Y. Uno, N. Sakai, J. Blanchard, Z. Fazil, G. Orosz, Y. Yonekura, Y. Tanabe, K. Sugiyama, T. Hirota, Kee-Tae Kim, A. Aberfelds, A. E. Volvach, A. Bartkiewicz, A. Caratti o Garatti, A. M. Sobolev, B. Stecklum, C. Brogan, C. Phillips, D. A. Ladeyschikov, D. Johnstone, G. Surcis, G. C. MacLeod, H. Linz, J. O. Chibueze, J. Brand, J. Eislöffel, L. Hyland, L. Uscanga, M. Olech, M. Durjasz, O. Bayandina, S. Breen, S. P. Ellingsen, S. P. van den Heever, T. R. Hunter, X. Chen, è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

GW190521: SCOPERTO UN SEGNALE GRAVITAZIONALE ANOMALO GENERATO DALLA FUSIONE “ISTANTANEA” DI DUE BUCHI NERI

Il risultato potrebbe fornire un nuovo strumento per l’interpretazione dei segnali gravitazionali, aumentando la comprensione delle configurazioni che caratterizzano i sistemi binari di buchi neri

Il 21 maggio 2019 i due interferometri LIGO, negli USA, e Virgo, in Italia, hanno rivelato un segnale gravitazionale straordinariamente intenso, ma estremamente breve. Una sorta di potentissimo gong cosmico, chiamato GW190521, dalla data della sua rivelazione. L’onda gravitazionale era stata generata dalla fusione di due buchi neri a miliardi di anni luce di distanza dalla Terra e, in seguito a quel fragoroso scontro, è stato prodotto un buco nero di oltre 150 masse solari, il buco nero più massiccio osservato fino ad oggi da LIGO e Virgo.

GW190521: scoperto segnale gravitazionale anomalo generato dalla fusione “istantanea” di due buchi neri

GW190521 è stata un’osservazione eccezionale e per molti versi enigmatica, che ha stimolato gli astrofisici a immaginare possibili scenari cosmici che spieghino il meccanismo di formazione della coppia binaria e le caratteristiche della sua violenta fusione. Giovedì 17 novembre, un gruppo di ricerca composto da scienziati della sezione di Torino dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, insieme ai colleghi dell’Università di Torino e dell’Università Friedrich Schiller di Jena (Germania), ha pubblicato un importante studio su Nature Astronomy, intitolato ‘GW190521 as a dynamical capture of two nonspinning black holes’, in cui prova a interpretare la natura enigmatica di questo segnale gravitazionale anomalo.

Attraverso simulazioni effettuate tramite calcolatore, gli scienziati hanno appurato come un modello che preveda l’esistenza di sistemi binari composti da coppie di buchi con orbite allungate, in grado di dare luogo a collisioni rapide e puntuali, sia compatibile con l’evento anomalo di breve durata osservato. Se confermato, il risultato potrebbe fornire un nuovo strumento per l’interpretazione dei segnali gravitazionali, aumentando la comprensione delle configurazioni che caratterizzano i sistemi binari di buchi neri.

Osservate per la prima volta nel 2015, le onde gravitazionali, impercettibili perturbazioni dello spaziotempo, sono in grado fornirci preziose informazioni sui corpi celesti che compongono i sistemi binari responsabili della loro emissione, nonché sull’evoluzione dinamica di questi stessi sistemi. Nel caso dei buchi neri, i segnali gravitazionali rivelati hanno trovato fino a oggi corrispondenza con le previsioni del modello utilizzato per interpretarli, che distingue tre diverse fasi nel processo di coalescenza: iniziale, caratterizzata dalla vorticosa rotazione dei buchi neri uno intorno all’altro (inspiral); centrale, relativa alla fusione (merger); e finale, durante la quale il nuovo corpo celeste venutosi a creare si espande e si contrae prima di stabilizzarsi (ringdown).

“L’analisi del segnale registrato il 21 maggio 2019 dalle collaborazioni LIGO e Virgo ha fatto emergere delle differenze rispetto ai dati su cui siamo abituati a confrontarci. La forma e la brevità – meno di un decimo di secondo – del segnale associato all’evento, inducono infatti a ipotizzare una fusione istantanea tra due buchi, avvenuta in mancanza di una fase di spiraleggiamento”, commenta Alessandro Nagar, ricercatore della sezione INFN di Torino.

“GW190521 è un segnale particolarmente enigmatico perché la sua forma e la sua natura esplosiva lo rendono estremamente diverso da quanto abbiamo osservato in passato. Inizialmente era stato analizzato come la fusione di due buchi neri pesanti in rapida rotazione che si avvicinano lungo orbite quasi circolari, ma le sue caratteristiche speciali ci hanno indotto a proporre altre possibili interpretazioni”, spiega Rossella Gamba, laureata all’Università di Torino, attualmente ricercatrice dell’Università di Jena e autrice principale della ricerca.

Secondo l’ipotesi proposta dagli autori dell’articolo di Nature Astronomy, a differenza delle sorgenti finora analizzate grazie alle osservazioni degli interferometri LIGO e Virgo, costituite da coppie di buchi neri formatisi a seguito del collasso di una stella in sistemi separati e caratterizzate da un’orbita circolare costante, GW190521 potrebbe essere stato originato dallo scontro di due buchi con orbite eccentriche, a seguito della formazione del sistema binario per mezzo della cattura dinamica di uno dei due corpi da parte dell’altro. Uno scenario contemplato anche dalla Relatività Generale.

“Per verificare l’ipotesi abbiamo elaborato un modello descrittivo avvalendoci di una combinazione di metodi analitici all’avanguardia e simulazioni numeriche, confrontando i dati ottenuti con il segnale. In questo modo abbiamo scoperto che una fusione altamente eccentrica spiega l’osservazione meglio di qualsiasi altra ipotesi avanzata in precedenza. Le probabilità di errore sono 1:4300”, commenta Matteo Breschi, ricercatore dell’Università di Jena e coautore dello studio.

Il modello impiegato per interpretare l’evento fornisce inoltre possibili indizi sulle condizioni alla base dell’eventuale nascita ed evoluzione dinamica della tipologia di sistema binario descritto. La cattura dinamica potrebbe infatti avvenire in ambienti molto densi, come gli ammassi stellari, dove i buchi neri binari possono formarsi.

“Uno dei due buchi neri situati in un simile ambiente, in possesso inizialmente di un’orbita non vincolata, potrebbe essere infatti catturato dal campo gravitazionale dell’altro, dando vita al sistema binario che porterà alla rapida fusione dei suoi componenti posti su traiettorie altamente eccentriche. L’ipotesi potrebbe inoltre spiegare le elevate masse dei due buchi neri progenitori coinvolti che, in ambiente stellare molto denso, potrebbero essere andati incontro a eventi di fusione precedenti. Sebbene i tassi di fusione siano attualmente molto incerti, le catture dinamiche dovrebbero essere molto rare. Ma questo rende i nostri risultati ancora più eccitanti”, illustra Gregorio Carullo, ricercatore del Niels Bohr Institute di Copenaghen.

Per effettuare l’analisi di GW190521 è stato necessario sviluppare un quadro di riferimento teorico nell’ambito della relatività generale, in grado di descrivere le fusioni di buchi neri altamente eccentrici, confrontando infine le previsioni del modello con le simulazioni.

“Il lavoro sviluppato dai gruppi di ricerca di Torino e Jena non ha precedenti, in quanto nessun modello di cattura dinamica era mai stato impiegato prima d’ora nell’analisi dei dati delle onde gravitazionali, che ha richiesto estrema attenzione e una notevole potenza di calcolo”, specifica Simone Albanesi, ricercatore dell’Università di Torino.

“Lo sviluppo del modello analitico per le binarie eccentriche e la cattura dinamica è stato avviato nel 2019, con diversi progressi teorici originali in quello che all’epoca era un territorio per lo più inesplorato”, conclude Piero Rettegno, laureato all’Università di Torino e attualmente ricercatore INFN della sezione di Torino.

 

GW190521 potrebbe dunque essere il primo incontro dinamico di buchi neri osservato. Si è sempre pensato che questi eventi fossero molto rari, ma ciò renderebbe la scoperta ancora più importante. Questa ipotesi potrebbe spiegare anche le masse insolitamente elevate dei buchi neri ‘progenitori’ osservati: in ambienti densi, i buchi neri potrebbero subire fusioni multiple e la loro massa crescere dopo ogni collisione.

Testo e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino