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BENNU, UN ASTEROIDE DA MANEGGIARE CON CURA

Sulla superficie di Bennu si sprofonda, i massi che la compongono sono completamente slegati e il materiale che lo costituisce è molto simile a quello delle meteoriti carbonacee alterate dall’acqua. Sono questi alcuni dei principali risultati presentati in due articoli sulle riviste Science e Science Advances realizzati con tutti i dati raccolti durante il campionamento della sonda OSIRIS-REx sull’asteroide, avvenuto nel 2020. Nel team che ha condotto le analisi pubblicate su Science partecipa anche Maurizio Pajola, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

OSIRIS-REx è la missione della NASA che il 20 ottobre 2020 si è posata sulla superficie dell’asteroide Bennu e ne ha prelevato un consistente campione di rocce e polvere, il più grande per massa raccolta dopo le missioni Apollo. Oggi, tutti i risultati ottenuti da questo campionamento sono stati pubblicati in due articoli sulle riviste Science e Science Advances.

Bennu asteroide

Un asteroide di sorprese

Sin dal primo avvicinamento della sonda OSIRIS-REx, nel dicembre 2018, l’asteroide Bennu si è mostrato diverso da quello che gli scienziati del team si aspettavano. La superficie dell’asteroide, infatti, che secondo le previsioni doveva essere liscia e coperta di materiale fine come una distesa di sabbia, era invece disseminata di massi, ed era attiva: Bennu stava lanciando granelli di roccia nello spazio.

La seconda sorpresa, poi, c’è stata non appena la sonda ha trasmesso a Terra le immagini ravvicinate della superficie dell’asteroide scattate durante il campionamento, che mostravano una ampia e densa nube di detriti sollevati dal sito di raccolta. Vista la delicatezza con cui la sonda ha toccato la superficie, gli scienziati sono rimasti spiazzati dall’abbondanza di sassolini sparsi. Non solo: secondo i risultati pubblicati oggi, il processo di raccolta ha creato un cratere di forma ellittica con un semiasse maggiore largo 9 metri.

Cosa è successo durante il campionamento

“La superficie di Bennu ha risposto al contatto con il TAGSAM – ovvero il modulo all’estremità del braccio robotico deputato al campionamento –  come un fluido viscoso, ma con resistenza minima, come se le particelle presenti sulla superficie dell’asteroide avessero coesione tra di loro pari a zero” spiega Maurizio Pajola, ricercatore dell’INAF di Padova e membro italiano del team di OSIRIS-Rex, tra i coautori dell’articolo pubblicato oggi su Science a prima firma di Dante Lauretta, responsabile scientifico della missione.

L’operazione di raccolta del materiale sulla superficie di Bennu è durata 5 secondi e il TAGSAM era largo appena 30 cm. L’enorme cratere generato ha esposto, in parte, gli strati meno superficiali della superficie, che si sono mostrati più scuri, più arrossati e caratterizzati da particolato molto più fine rispetto a quello che si trova in superficie. Infine, gli scienziati hanno notato che l’impatto con il braccio robotico ha causato lo spostamento di un masso del diametro di 1,25 metri di circa 12 metri.

“Le difficoltà per arrivare a questo campionamento sono state estreme. La superficie è solo composta di massi. Ci si aspettava di trovare una zona di almeno 25-50 metri quadrati della superficie dell’asteroide ricche di polvere e prive di rischio. In realtà, di zone con quelle caratteristiche non ce ne sono proprio su Bennu. Ciononostante, sono stati raccolti ben oltre i 60 grammi minimi richiesti dalla NASA”, commenta Pajola. “Il veicolo spaziale ha recuperato circa 250 grammi di materiale. Molto molto di più se pensiamo ai 5 grammi raccolti su Ryugu dalla sonda Hayabusa 2”.

 

Di cos’è fatto Bennu

Dalle analisi effettuate, poi, il materiale che si è alzato dalla superficie e che in parte si è depositato sulla strumentazione di bordo assomiglia al materiale che ritroviamo dentro alle meteoriti carbonacee alterate dall’acqua.

“Bennu è un Near Earth Object di tipo B, e quindi ci aspettavamo che la sua superficie fosse caratterizzata dalla presenza di minerali idrati. Però è anche un oggetto particolarmente scuro, e quindi ricco di composti del carbonio” sottolinea Pajola. “Quel che non ci aspettavamo era che si depositasse abbondante polvere su alcune delle ottiche, e questo ha diminuito un po’ il segnale acquisito dalla strumentazione di bordo. I dati che abbiamo preso quando OSIRIS-REx si è avvicinato e poi allontanato dalla superficie comunque confermano quanto atteso: il materiale era ricco composti organici e minerali idrati. La prova definitiva di questo ce l’avremo quando potremo analizzare i campioni a Terra, anzi: come successo per Hayabusa-2, siamo sicuri che dentro ai grani ci sia molto di più di quel che abbiamo potuto vedere finora”.

Se Osiris-Rex si fosse posato sulla superficie

Il fatto che si sia creato un cratere così grande in seguito al campionamento sull’asteroide è la prima dimostrazione che le particelle che compongono l’esterno di Bennu sono così poco impacchettate e legate tra loro da opporre una resistenza minima alla pressione. Per fare un esempio, se una persona dovesse camminare su Bennu si troverebbe come se calpestasse una distesa di palline di plastica come quelle che si trovano nelle aree di gioco per bambini. Se quindi la sonda non avesse azionato i suoi propulsori per indietreggiare subito dopo aver afferrato polvere e roccia dalla superficie dell’asteroide, sarebbe sprofondata al suo interno.

È possibile che asteroidi come Bennu – solo debolmente tenuti insieme dalla gravità o dalla forza elettrostatica – possano disgregarsi in caso di ingresso nell’atmosfera terrestre e quindi rappresentare un tipo di pericolo diverso rispetto agli asteroidi solidi. La ricerca su questi corpi, comunque, è ancora all’inizio e le domande aperte sono ancora molte. Quel che è certo è che le informazioni precise ricavate dagli scienziati sulla superficie di Bennu possono aiutare gli scienziati a interpretare meglio le osservazioni a distanza di altri asteroidi, il che potrebbe essere utile per progettare future missioni e per sviluppare metodi per proteggere la Terra dalle collisioni con gli asteroidi.

I risultati sono stati pubblicati oggi negli articoli:

Spacecraft sample collection and subsurface excavation of asteroid (101955) Bennu di D.S. Lauretta, C. D. Adam, A. .J. Allen, R.-L. Ballouz, O. S. Barnouin, K. .J.Becker, T. Becker, C.A.Bennett, E. B.Bierhaus, B. .J. Bos, R. D. Burns, H. Campins, Y. Cho, P.R. Christensen, E. C. A. Church, B. E. Clark, H. C.Connolly .Jr.,M. G. Daly, D. N. DellaGiustina, C. Y. Drouetd’Aubigny, J.P. Emery, H. L. Enos, S.FreundKasper, J.B. Garvin, K. Getzandanner,D.R. Golish, V. E. Hamilton, C.W. Hergenrotber, H. H. Kaplan, L. P. Keller, E. .J. Lessac-Chenen, A. .J. Liounis, H. Ma, L. K.McCartby, B. D. Miller, M. C. Moreau, T. Morota, D.S. Nelson, J. O. Nolau, R. Olds, M. Pajola, J. Y. Pelgrift, A. T. Polit, M.A. Ravine, D. C. Reuter, B. Rizk, B. Rozitis, A. .J. Ryan, E. M. Sahr, N.Sakatani, J. A. Seabrook, S. H. Selznick,M.A. Skeen, A. A. Simon, S. Sugita, K. .J.Walsh, M. M.Westermann, C.W. V. Wolner e K.Yumoto (Science)

Near-zero cohesion and loose packing of Bennu’s near subsurface revealed by spacecraft contact di Kevin J. Walsh, Ronald-Louis Ballouz et al. (Science Advances)

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Un gruppo di ricerca internazionale rileva il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio del telescopio Hubble

Una collaborazione internazionale, che ha visto la partecipazione di astrofisici della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha scoperto un oggetto distante circa 13 miliardi di anni luce dalla Terra, estremamente compatto e arrossato dalla polvere stellare. La rilevazione, effettuata grazie all’utilizzo del telescopio spaziale Hubble, farà luce sul mistero della crescita dei buchi neri supermassicci nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Nature.

il precursore di un buco nero supermassiccio
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 1: GNz7q, un oggetto scoperto a circa 13,1 miliardi di anni luce dalla Terra che mostra segni di un buco nero in rapida crescita all’interno di una galassia in forte formazione stellare e ricca di polvere interstellare (starburst polverosa), colorato nell’immagine combinando i dati di tre osservazioni a colori del telescopio spaziale Hubble. Trovato nella regione GOODS-North[1], una delle regioni del cielo più studiate fino ad oggi, GNz7q è l’oggetto rosso al centro dell’immagine ingrandita (Credito: ESA/Hubble/Fujimoto et al.)

La scoperta di buchi neri supermassicci nell’universo primordiale, con masse fino a diverse centinaia di milioni di volte quella del sole, ha sollevato il problema di capire come oggetti di questa taglia siano stati in grado di formarsi e crescere nel breve periodo di tempo successivo alla nascita dell’Universo (meno di un miliardo di anni). Teoricamente, un buco nero inizia dapprima ad aumentare la sua massa accrescendo gas e polvere nel nucleo di una galassia ricca di polvere e caratterizzata da elevati tassi di formazione stellare (una cosiddetta galassia starburst polverosa). L’energia generata nel processo spazza via i materiali circostanti, trasformando il sistema in un quasar, una sorgente astrofisica molto luminosa e compatta.

Fino a oggi sono state scoperte galassie starburst polverose e quasar luminosi post-transizione ad appena 700-800 milioni di anni dopo il Big Bang, ma non è mai stato trovato un “giovane” quasar nella fase di transizione, la cui scoperta deterrebbe la chiave per la comprensione dei meccanismi di formazione dei buchi neri supermassicci nell’Universo primordiale.

Un gruppo di ricerca internazionale, coordinato dall’astronomo Seiji Fujimoto dell’Università di Copenaghen, con la partecipazione, fra gli altri, di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha rianalizzato una grande quantità di dati d’archivio estratti dal telescopio spaziale Hubble e ha scoperto un oggetto, denominato poi GNz7q, che è proprio l’anello mancante tra le galassie starburst e i quasar luminosi nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

Le osservazioni spettroscopiche con i radiotelescopi hanno mostrato che il giovane quasar è nato solo 750 milioni di anni dopo il Big Bang. Tali osservazioni, sono state poi confrontate con i modelli teorici. Questa importante fase del lavoro è stata svolta da Rosa Valiante dell’Inaf e Raffaella Schneider della Sapienza e ha mostrato come le caratteristiche dello spettro elettromagnetico di questo oggetto, dai raggi X alle onde radio, non si discostano dalle previsioni delle simulazioni teoriche.

“Questo suggerisce che GNz7q sia il primo esempio di buco nero in rapida crescita nel centro di una galassia starburst polverosa – commentano Schneider e Valiante. “Pensiamo che GNz7q sia un precursore dei buchi neri supermassicci trovati nell’universo primordiale”.

La scoperta di GNz7q non solo rappresenta un elemento importante per comprendere l’origine dei buchi neri supermassicci, ma anche un motivo di sorpresa per i ricercatori: la rilevazione infatti è stata fatta in una delle regioni più osservate nel cielo notturno – denominata GOODS, Great Observatories Origins Deep Survey, oggetto d’indagine astronomica dei telescopi più potenti mai costruiti (ovvero quelli operativi nello spazio come Hubble, Herschel e XMM-Newton dell’ESA, il telescopio Spitzer della NASA e l’Osservatorio a raggi X Chandra, oltre a potenti telescopi terrestri, compreso il telescopio Subaru) – suggerendo quindi che sorgenti di questo tipo possano essere più frequenti di quanto si pensasse in precedenza.

Il gruppo di ricerca si propone di condurre una ricerca sistematica di sorgenti simili utilizzando campagne osservative ad alta risoluzione e di sfruttare gli strumenti spettroscopici del telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA, una volta che sarà in regolare funzionamento, per studiare oggetti come GNz7q con una ricchezza di dettagli senza precedenti.

il precursore di un buco nero supermassiccio
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 2: un’impressione artistica di un giovane buco nero in crescita che emerge dal centro di una galassia starburst polverosa, mentre i materiali densi circostanti di gas e polvere vengono spazzati via dalla potente energia generata quando il buco nero evolve rapidamente accrescendo la materia circostante. (Credito: ESA/Hubble)

Riferimenti:

A dusty compact object bridging galaxies and quasars at cosmic dawn – S. Fujimoto, G. B. Brammer, D. Watson, G. E. Magdis, V. Kokorev, T. R. Greve, S. Toft, F. Walter, R. Valiante, M. Ginolfi, R. Schneider, F. Valentino, L. Colina, M. Vestergaard, R. Marques-Chaves, J. P. U. Fynbo, M. Krips, C. L. Steinhardt, I. Cortzen, F. Rizzo & P. A. Oesch – Nature https://doi.org/10.1038/s41586-022-04454-1 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La Grande macchia rossa di Giove: una tempesta anticiclonica dalla profondità “contenuta”

I nuovi risultati delle misurazioni di gravità del pianeta ottenute dalla sonda Juno rivelano, in uno studio pubblicato su Science, che la grande macchia rossa, pur molto estesa, non è profonda come si immaginava. Questa scoperta potrebbe spiegare i motivi della sua evoluzione e forse della possibile scomparsa.

grande macchia rossa Giove
L’animazione simula il moto delle nuvole della Grande Macchia Rossa di Giove. E’ stata creata applicando il modello del movimento dei venti ad un mosaico di immagini scattate dallo strumento. Credits: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Gerald Eichstadt/Justin Cowart

Giove è il più grande pianeta del sistema solare, con un raggio equatoriale di 71.492 km, ed è composto principalmente da idrogeno ed elio e per questo viene definito “gigante gassoso”.

La caratteristica forse più iconica del pianeta è la Grande macchia rossa, una tempesta anticiclonica scoperta probabilmente da Giandomenico Cassini nel 1665. Oggi questa assomiglia a un ovale di dimensioni approssimativamente pari a 16000 x 12000 km, che ne fanno la più grande tempesta del sistema solare, seppur negli ultimi 100 anni, per cause ancora ignote, si sia ridotta considerevolmente. La Grande macchia rossa porta con sé ancora molti interrogativi: uno di questi riguarda la profondità con cui questa tempesta si inabissa dentro Giove.

A questo come ad altri quesiti sulla dimensione del nucleo ha risposto la sonda Juno, realizzata dalla NASA con un importante contributo italiano.

Rappresentazione artistica di Juno in orbita attorno a Giove. Crediti: Nasa/JPL-Caltech

Durante due sorvoli ravvicinati di Giove (febbraio e luglio 2019), la missione Juno della NASA (in orbita intorno a Giove dal 5 luglio 2016 per studiare i meccanismi di formazione, la struttura interna, la magnetosfera e l’atmosfera del gigante gassoso) ha osservato per la prima volta da vicino la Grande macchia rossa. Poiché l’interno del pianeta non è direttamente osservabile, per comprenderne la struttura più intima si ricorre a misurazioni accurate del campo gravitazionale, che è espressione della distribuzione della massa all’interno del pianeta.

grande macchia rossa Giove
Geometria delle osservazioni di Juno della Grande Macchia Rossa (GRS). Il campo di velocità della Grande Macchia Rossa (frecce nere) e le tracce a terra di Juno durante PJ18 e PJ21 (linee colorate) sono sovrimposte a una immagine della Grande Macchia Rossa effettuata da JunoCam durante PJ21. La quota della sonda durante il passaggio ravvicinato con la Grande Macchia Rossa (latitudine 20°S) era, rispettivamente per PJ18 e PJ21, di 13,000 km e 19,000 km, con scostamenti longitudinali di 11° e 2° 

Le misure del campo gravitazionale del pianeta avevano mostrato che i forti venti est-ovest (con velocità fino a 360 km/h), visibili tracciando il moto delle nubi, si spingono alla profondità di circa 3000 km.

Gli strati inferiori della Grande Macchia Rossa di Giove sono stati osservati da Juno anche usando i dati del radiometro a microonde (MWR). Ognuno dei sei canali dello strumento osserva diverse profondità sotto le nuvole

Oggi, una nuova ricerca, finanziata in parte dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e coordinata da Marzia Parisi, ex-dottoranda della Sapienza, ora post-doc al California Institute of Technology/Jet Propulsion Laboratory, insieme a un gruppo internazionale di cui fanno parte Daniele Durante e Luciano Iess del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, mostra come invece i venti della Grande macchina rossa abbiano una profondità di penetrazione verticale piuttosto contenuta, pari a circa 300 km, assai inferiore a quella dei venti che soffiano nelle bande visibili del pianeta. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Science.

“I risultati del nostro studio – spiega Daniele Durante del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza – attestano una massa della tempesta pari a circa la metà dell’intera atmosfera terrestre e poco meno di quella di tutta l’acqua del Mar Mediterraneo, e rappresentano la Grande macchia rossa come un oggetto molto simile a un disco assai esteso (la sua dimensione minore è pari all’incirca al diametro della Terra) ma piuttosto sottile, con caratteristiche che ricordano quelle delle più grandi tempeste terrestri”.

grande macchia rossa Giove
Le dimensioni della Grande macchia rossa a confronto con la Terra. La profondità determinata dalle misure di gravità è di soli 300 km.

Con un’orbita molto eccentrica, la sonda Juno è riuscita ad avvicinarsi molto al gigante gassoso, fino a 4-5000 km al di sopra delle nubi: a queste distanze è possibile avere una elevata sensibilità all’accelerazione gravitazionale esercitata principalmente dalle strutture dell’atmosfera del pianeta. La sonda ha utilizzato lo strumento di radioscienza KaT (Ka-Band Translator, realizzato da Thales Alenia Space-I e finanziato dall’Agenzia spaziale italiana), il cuore dell’esperimento che ha permesso di determinare l’estensione verticale della Grande macchia rossa.

La Grande macchia rossa ha perturbato impercettibilmente l’orbita di Juno, ma l’estrema accuratezza della misura (fino a 0.01 mm/s) ha permesso di catturarne il debolissimo segnale gravitazionale e di stimare così la profondità a circa 300 km.

“Le misure di Juno – conclude Luciano Iess dello stesso Dipartimento – hanno fornito la terza dimensione a quel fenomeno dell’atmosfera di Giove che ha attratto l’attenzione di molti di noi, come anche quella degli astronomi da più di trecento anni, mostrando come sia una tempesta superficiale certamente molto estesa, ma ben poco profonda. Questa nuova misura contribuirà a capirne la natura, l’evoluzione e, forse, la sua possibile scomparsa”.

Riferimenti:

The depth of Jupiter’s Great Red Spot constrained by the Juno gravity overflights – Authors: M. Parisi, Y. Kaspi, E. Galanti, D. Durante, S. J. Bolton, S. M. Levin, D. R. Buccino, L. N. Fletcher, W. M. Folkner, T. Guillot, R. Helled, L. Iess, C. Li, K. Oudrhiri, M. H. Wong. Science 2021 DOI: 10.1126/science.abf1396

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Giove, il pianeta più grande del sistema solare

 

L’anima irrequieta dei pianeti

La NASA sceglie VERITAS: la Sapienza su Venere

La missione spaziale selezionata dalla Nasa per l’esplorazione di Venere vede coinvolto in maniera determinante il gruppo di ricerca della Sapienza guidato da Luciano Iess. VERITAS dovrà rispondere a molte domande sull’evoluzione di questo pianeta ancora misterioso che, da un passato molto simile a quello della Terra, è diventato uno dei luoghi più inospitali del sistema solare.

La missione spaziale VERITAS (Venus Emissivity, Radio Science, INSAR, Topography and Spectroscopy) a cui la Sapienza partecipa con un contributo fondamentale, è risultata vincitrice nella selezione delle missioni planetarie della Nasa. Lo ha comunicato la Nasa stessa il 2 giugno scorso nell’ambito della selezione delle prossime missioni di classe Discovery da 500 milioni di dollari.

VERITAS sarà lanciata tra il 2026 e il 2028 e ospiterà a bordo una strumentazione molto sofisticata finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI) a cui ha contribuito il gruppo di ricerca guidato da Luciano Iess, composto da giovani ricercatori della Sapienza.

“La forte presenza italiana nel team scientifico che ha portato alla selezione di VERITAS rappresenta un ulteriore esempio del ruolo della nostra università nella ricerca spaziale e nell’esplorazione del sistema solare – dichiara Luciano Iess, professore del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza – Questa missione ci permetterà di dare risposta a interrogativi che sono ormai rimasti aperti troppo a lungo”.

Veritas Venere
Un’immagine radar di quella che appare come una recente colata lavica, ripresa dalla sonda Magellan (NASA) piu’ di 25 anni fa

Venere infatti ha sempre suscitato grande interesse e fascino nella comunità scientifica. Gli unici dati globali sulla sua superficie e struttura interna sono stati forniti dalla sonda Magellan (NASA) più di 25 anni fa (1994-95). Da sempre indicato come il pianeta cugino della Terra per le dimensioni, massa e distanza dal Sole molto simili, Venere ha però intrapreso, per cause ancora ignote, un percorso evolutivo estremamente diverso da quello del nostro pianeta, al punto che oggi è uno dei luoghi più inospitali del sistema solare. La sua densa atmosfera, composta in gran parte di anidride carbonica e nubi di acido solforico, ha una pressione al suolo 90 volte maggiore di quella terrestre e temperature medie di 460 °C. Tuttavia studi recenti indicano per Venere un passato molto diverso e assai più simile a quello della Terra.

Veritas Terra Venere
La Terra e Venere fianco a fianco, viste dallo spazio (quest’ultima attraverso il radar della sonda Magellan)

VERITAS si propone di dare una risposta alle molte domande della comunità scientifica riguardanti non solo l’evoluzione passata, ma anche quella presente e futura, in particolare ricercando la presenza di vulcani attivi e di processi dinamici superficiali, quali la tettonica a placche. VERITAS sarà inoltre in grado di determinare la composizione e struttura interna del pianeta, fornendo ulteriori indizi per la comprensione non solo dei pianeti rocciosi, ma anche di una classe di esopianeti con caratteristiche simili.

La missione sarà coordinata da Suzanne E. Smrekar (Jet Propulsion Laboratory, California Institute of Technology) e costituisce, insieme a DaVinci+, che studierà l’atmosfera del pianeta, una delle due missioni della Nasa a Venere.

Nel team scientifico di VERITAS, il gruppo italiano, coordinato da Luciano Iess (Co-Lead dell’esperimento di gravità), è composto da giovani ricercatori del Centro di Ricerca Aerospaziale Sapienza (CRAS), del Dipartimento di Ingegneria meccanica aerospaziale (DIMA) e del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, Elettronica e Telecomunicazioni (DIET). I ricercatori del CRAS-DIMA (Gael Cascioli, Fabrizio De Marchi, Paolo Racioppa), hanno condotto, attraverso simulazioni numeriche, la definizione dell’esperimento di gravità, dedicato alla determinazione della struttura interna del pianeta. I ricercatori del DIET (Roberto Seu e Marco Mastrogiuseppe, Co-Lead del radar VISAR) hanno contribuito allo sviluppo di tecniche di elaborazione dei dati del radar ad apertura sintetica, con lo scopo di individuare la presenza di processi geologici superficiali recenti. Gaetano di Achille, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, completa la partecipazione italiana con le competenze sulla struttura geologica del pianeta.

“Il successo di VERITAS – commenta Gael Cascioli, dottorando in Ingegneria aeronautica e spaziale presso il DIMA – è passato anche attraverso la fiducia che è stata riposta nei giovani ricercatori e ricercatrici che, come me, hanno portato entusiasmo, competenza ed energia nel team scientifico internazionale”.

 

Link:

NASA: https://www.nasa.gov/press-release/nasa-selects-2-missions-to-study-lost-habitable-world-of-venus

ASI: https://www.asi.it/#divSlideshow

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

WFIRST (Wide Field InfraRed Survey Telescope) – da poco ribattezzato Roman Telescope in onore dell’astronoma statunitense Nancy Grace Roman, affettuosamente chiamata “la mamma di Hubble” – è un progetto NASA designato ad indagare su alcuni grandi misteri dell’Universo come la materia e l’energia oscura e per cercare nuovi mondi in orbita attorno ad altre stelle della nostra galassia.

ScientifiCult ha l’onore di poter intervistare il dott. Valerio Bozza, ricercatore presso l’Università degli Studi di Salerno e attualmente impegnato a collaborare con la NASA per la realizzazione del Telescopio Roman.

Valerio Bozza
Il dott. Valerio Bozza

Può raccontarci i momenti della Sua carriera professionale che ricorda con più piacere?

In vent’anni di ricerca ho avuto la fortuna di vivere tante soddisfazioni e di lavorare con le persone che hanno scritto i libri su cui ho studiato. Certamente, partecipare alle discussioni nello studio di Gabriele Veneziano al CERN con i cosmologi più importanti del mondo e poter assistere alla nascita di idee geniali su quella lavagna è stata un’esperienza formativa fondamentale. Quando ho avuto il mio primo invito a relazionare ad un workshop all’American Institute of Mathematics sul gravitational lensing di buchi neri e ho ricevuto i complimenti di Ezra T. Newman, ho capito che potevo davvero dire la mia anche io.

Ricordo ancora le notti di osservazioni allo European Southern Observatory a La Silla in Cile, sotto il cielo più bello del pianeta. Ricordo l’invito al Collège de France a Parigi da parte di Antoine Layberie per un seminario, che poi ho scoperto di dover tenere in francese! Poi non ci dimentichiamo la notizia della vittoria al concorso da ricercatore, che mi ha raggiunto mentre ero in Brasile per un altro workshop sulle perturbazioni cosmologiche. Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA per mettere su un programma di ricerca competitivo. Tutto è finito con la copertina di Nature sulla scoperta del pianeta KELT-9b, il più caldo mai visto, e la distruzione dell’Osservatorio nel febbraio 2019, una ferita ancora aperta.

Adesso, però, è ora di concentrarsi sullo sviluppo del nuovo telescopio spaziale WFIRST della NASA, che il 20 maggio scorso è stato rinominato Nancy Grace Roman Space Telescope (o semplicemente “Roman”, in breve), in onore della astronoma che ha contribuito alla nascita dei primi telescopi spaziali della NASA.

Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA con il Prof. Gaetano Scarpetta, per mettere su un programma di ricerca competitivo.

Ci sono degli aggiornamenti sulla data del lancio di Roman?

Il lancio del telescopio Roman era programmato per il 2025, ma diverse vicende hanno giocato contro in questi ultimi anni: il ritardo nel lancio del JWST, lo shutdown del governo americano ad inizio 2019 e soprattutto l’epidemia di COVID-19, che sta provocando ritardi su tutte le scadenze nella tabella di marcia. A questo punto, direi che uno slittamento all’anno successivo possa essere plausibile. Tuttavia, l’interesse verso questa missione sta continuando a crescere sia dentro che fuori l’ambito accademico, mettendola al riparo da eventuali tagli di budget.


Roman viene spesso paragonato al telescopio spaziale Hubble. Quali sono le differenze e le somiglianze? E con il JWST?

Si tratta di tre telescopi spaziali che spesso vengono citati insieme, ma sono tutti e tre profondamente diversi: Hubble opera nella banda del visibile e nell’ultravioletto, mentre non è molto sensibile all’infrarosso. Al contrario, sia JWST che Roman opereranno nel vicino infrarosso. JWST avrà un campo di vista molto più piccolo anche di Hubble, perché il suo scopo è fornirci immagini con dettagli mai visti prima di sistemi stellari e planetari in formazione. Roman, invece, avrà un campo di vista cento volte più grande di Hubble, perché il suo scopo è quello di scandagliare aree di cielo molto grandi alla ricerca di galassie o fenomeni transienti. La grande novità è che Roman condurrà queste survey a grande campo con una risoluzione di 0.1 secondi d’arco, simile a quella di Hubble! Quindi, avremo la possibilità di condurre la scienza di Hubble su enormi aree di cielo contemporaneamente. JWST, invece, condurrà osservazioni con un dettaglio molto migliore di Hubble e di Roman, ma su un singolo oggetto in un’area molto limitata.

Roman telescope Valerio Bozza
Immagine 3D del veicolo spaziale Roman (luglio 2018). Immagine NASA (WFIRST Project and Dominic Benford), adattata, in pubblico dominio


Quali sono i target scientifici della missione e come vengono raggiunti?

A differenza di Hubble e JWST, Roman avrà poco spazio per richieste estemporanee di osservazioni. Sarà un telescopio essenzialmente dedicato a due programmi principali: una survey delle galassie lontane e una survey del centro della nostra Galassia. La prima survey effettuerà delle immagini di tutto il cielo alla ricerca di galassie deboli e lontane. Queste immagini consentiranno di capire meglio la distribuzione della materia nel nostro Universo, fissare le tappe dell’espansione cosmologica e chiarire i meccanismi alla base dell’espansione accelerata, scoperta venti anni fa attraverso lo studio delle supernovae Ia. I cosmologi si aspettano che Roman possa fornirci risposte fondamentali sulla natura della cosiddetta Dark Energy, che è stata ipotizzata per spiegare l’accelerazione del nostro Universo, ma la cui natura è del tutto sconosciuta.

Il secondo programma osservativo è una survey delle affollatissime regioni centrali della nostra galassia. Monitorando miliardi di stelle, ci aspettiamo che, almeno per una frazione di queste, la loro luce verrà amplificata da effetti temporanei di microlensing dovuti a stelle che attraversano la linea di vista. Il microlensing è un’amplificazione dovuta al ben noto effetto “lente gravitazionale” previsto dalla relatività generale di Einstein. Se la stella che fa da lente è anche accompagnata da un pianeta, l’amplificazione riporterà delle “anomalie” che potranno essere utilizzate per studiare e censire i sistemi planetari nella nostra galassia. Roman sarà così sensibile da rivelare anche pianeti piccoli come Marte o Mercurio!

microlensing
Il fenomeno del microlensing: la sorgente (in alto) appare più brillante quando una stella lente passa lungo la linea di vista. Se la lente è accompagnata da un pianeta, la luminosità mostra anche una breve anomalia. Credits: © ESA


Quali differenze tra le caratteristiche dei pianeti extrasolari che andrà a scoprire
Roman e quelle dei pianeti che ha osservato Kepler e che osserva TESS?

Il metodo del microlensing, utilizzato da Roman, è in grado di scoprire pianeti in orbite medio-larghe intorno alle rispettive stelle. Al contrario, sia Kepler che TESS, utilizzano il metodo dei transiti, in cui si misura l’eclisse parziale prodotta dal pianeta che oscura parte della sua stella. Questi due satelliti, quindi, hanno scoperto tipicamente pianeti molto vicini alle rispettive stelle.

Ipotizzando di osservare una copia del Sistema Solare, Kepler e TESS potrebbero vedere Mercurio o Venere, nel caso di un buon allineamento. Roman, invece, avrebbe ottime probabilità di rivelare tutti i pianeti da Marte a Nettuno.

Un’altra differenza è che Roman scoprirà pianeti distribuiti lungo tutta la linea di vista fino al centro della Galassia, consentendo un’indagine molto più ampia della distribuzione dei pianeti di quanto si possa fare con altri metodi, tipicamente limitati al vicinato del Sole. Purtroppo, però, i pianeti scoperti col microlensing non si prestano ad indagini approfondite, poiché, una volta terminato l’effetto di amplificazione, i pianeti tornano ad essere inosservabili e sono perduti per sempre.

In definitiva, la conoscenza dei pianeti nella nostra Galassia passa per il confronto tra diversi metodi di indagine complementari. Ognuno ci aiuta a comprendere una parte di un puzzle che si rivela sempre più complesso, mano mano che scopriamo mondi sempre più sorprendenti.

 

Nancy Grace Roman, in una foto NASA del 2015, in pubblico dominio

I buchi neri come fari sulla materia oscura

Una nuova luce sulla strada della ricerca della materia ultraleggera dell’Universo arriva dai buchi neri. È quanto suggerisce lo studio del Dipartimento di Fisica della Sapienza pubblicato sulla rivista Physical Review Letters

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Il buco nero supermassiccio nel nucleo della galassia ellittica Messier 87 nella costellazione della Vergine. Si tratta della prima foto diretta di un buco nero, realizzata dal progetto internazionale Event Horizon Telescope. Foto modificata Event Horizon Telescope, CC BY 4.0

Le osservazioni sulla cosiddetta materia oscura del nostro Universo sono sempre più numerose e significative, ma sono ancora tante le incognite in questo affascinante campo della fisica moderna.

La particella elementare massiccia più leggera conosciuta in natura è il neutrino, con una massa qualche milione di volte più piccola di quella di un elettrone. Alcuni modelli di materia oscura hanno però suggerito l’esistenza di particelle elementari anche molto più leggere, le cui masse che possono essere miliardi di volte più piccole di quella di un neutrino.

Rilevare queste sfuggenti particelle è impossibile sulla Terra, a causa delle loro debolissime interazioni con la materia “conosciuta”, cosiddetta ordinaria.

In un nuovo lavoro recentemente pubblicato sulla rivista Physical Review Letters, il team di ricercatori coordinato da Paolo Pani del Dipartimento di Fisica della Sapienza, ha identificato nei buchi neri un metodo innovativo per la ricerca di questa materia oscura ultraleggera.

I buchi neri possono amplificare radiazione in un certo range di frequenze generando un sorprendente effetto chiamato superradianza. Finora la superradianza e il suo segnale emesso in onde gravitazionali sono stati studiati solo per una certa famiglia di particelle con proprietà simili al fotone, per riprodurre onde elettromagnetiche, qui, per la prima volta sono stati applicati a particelle con proprietà simili al gravitone, trasformando i buchi neri in veri e propri “fari di onde gravitazionali”.

Secondo i ricercatori, se tali particelle esistono in natura e hanno una massa minuscola, potenzialmente qualsiasi buco nero nell’universo potrebbe emettere periodicamente onde gravitazionali a una data frequenza (direttamente correlata alla massa delle particelle di materia oscura), analogamente a uno strumento musicale che ripete sempre la stessa singola nota con cadenza regolare.

“Cercando questo segnale – commenta Paolo Pani – i rivelatori di onde gravitazionali come LIGO e Virgo (e la futura missione spaziale LISA, supportata da ESA e NASA) cercheranno la materia oscura ultraleggera in un nuovo regime, finora praticamente inesplorato. E forse, dopo tutto, la risposta al problema della materia oscura verrà proprio dai buchi neri”.

Lo studio è parte del progetto Marie Skłodowska Curie “FunGraW” (PI: Richard Brito) e del progetto ERC DarkGRA (PI: Paolo Pani) entrambi ospitati presso il Dipartimento di Fisica della Sapienza.

 

Riferimenti:

Black Hole Superradiant Instability from Ultralight Spin-2 Fields – Richard Brito, Sara Grillo, and Paolo Pani – Phys. Rev. Lett. 124, 211101 – Published 27 May 2020 DOI:https://doi.org/10.1103/PhysRevLett.124.211101

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

CONDIZIONATORE GONFIA LA BOLLETTA DEL 42%,

AUMENTA IL RISCHIO DI POVERTÀ ENERGETICA

 

Studio di Ca’ Foscari e CMCC combina dati Ocse e Nasa di 8 paesi scoprendo una incidenza del raffrescamento sulle spese familiari superiore a quanto previsto da studi precedenti

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Immagine di Mohamed Hassan

VENEZIA, 03/06/2020 – L’uso del condizionatore gonfia notevolmente le bollette elettriche delle famiglie, con importanti conseguenze sulla loro “povertà energetica”. Lo rivela uno studio condotto da un gruppo di ricerca dell’Università Ca’ Foscari Venezia e del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), appena pubblicato sulla rivista scientifica Economic Modeling.

Studi precedenti realizzati negli Stati Uniti stimano un incremento della spesa familiare per l’energia elettrica legata ai condizionatori intorno all’11%. Analizzando i dati socio-economici di famiglie residenti in altri paesi OCSE (Australia, Canada, Francia, Giappone, Olanda, Spagna, Svezia e Svizzera) e dati climatici della NASA, gli autori di questo nuovo studio hanno calcolato che, in media, l’uso del condizionatore porta a spendere fino al 42% in più per l’energia elettrica, rispetto a chi non ha il condizionatore.

Gli aumenti effettivi dipenderanno da quanti gradi centigradi in più le famiglie dovranno affrontare per via del cambiamento climatico. I consumi elettrici per raffrescamento saranno quindi un nuovo fattore destinato ad aumentare la povertà energetica legata all’elettricità, condizione in cui si trovano le famiglie che spendono più del 5% del loro reddito annuale in bollette elettriche.

Secondo il Buildings Performance Institute Europe, nel 2014 la povertà energetica toccava già il 10-15% delle famiglie europee. Lo studio appena pubblicato delinea invece una situazione ancor più preoccupante.

“Il concetto di povertà energetica, già oggetto di attenzione in Europa, è di norma legato alla possibilità di assicurarsi un livello adeguato di riscaldamento durante i mesi più freddi – spiega Enrica De Cian, professoressa di Economia ambientale a Ca’ Foscari e responsabile del team di ricerca del progetto ERC Energya che ha svolto lo studio. – I nostri dati, tuttavia, suggeriscono di allargare il concetto includendo il ruolo sempre più determinante del raffrescamento estivo. I nuclei familiari più poveri spendono già di norma una porzione ampia del loro budget in beni essenziali, come il cibo e l’elettricità. Quest’ultima voce dovrà aumentare per proteggere i più vulnerabili dal rischio di mortalità o da altri gravi problemi di salute durante le ondate di calore”.

Possedere l’aria condizionata comporta importanti conseguenze sia per la spesa energetica delle famiglie che dei Paesi, anche se permangono grandi differenze: negli Stati Uniti rappresenta l’11% del consumo energetico negli edifici mentre in Europa è solo l’1,2%.

“I dati che abbiamo analizzato rivelano che in Spagna il 18.5% delle famiglie spende più del 5% del proprio budget in elettricità – afferma l’economista cafoscarina. Queste percentuali sono generalmente più alte nei paesi freddi, arrivando al 24.2% in Svezia. In Francia e Svizzera troviamo numeri più bassi: 8% e 5% rispettivamente”. L’Italia non è stata analizzata perché non compresa nel dataset OCSE considerato in questo studio, ma “ci aspettiamo un andamento simile a Francia e Spagna, e lo stiamo verificando negli studi che stiamo svolgendo”.

Chi usa il condizionatore e perché

“L’elemento innovativo di questo lavoro – afferma l’economista Teresa Randazzo, prima autrice dello studio – è che la nostra analisi empirica permette di tenere conto di fattori di scelta che sono di norma difficili da osservare e misurare, come la percezione personale del comfort termico, l’avversione al rischio o la consapevolezza ambientale”.

Lo studio evidenzia in effetti come varie caratteristiche degli individui e dei nuclei familiari portino – o meno – all’adozione dell’aria condizionata nelle case. Ad esempio, la presenza di minori in casa induce ad adottare e ad usare di più i condizionatori.

Ancora, gli individui più istruiti tendono a usare meno i condizionatori, suggerendo che sono più consapevoli dell’impatto dei loro consumi sull’ambiente. Allo stesso modo, le famiglie che sono più inclini al risparmio energetico tendono ad usare meno l’aria condizionata. Viceversa, le famiglie che posseggono numerosi elettrodomestici tendono ad usare di più i condizionatori.

Vivere in aree urbane aumenta la probabilità che si adotti un condizionatore di 9 punti percentuali, un contributo importante, se paragonato al ruolo del clima o del reddito familiare, probabilmente dovuto al fenomeno delle isole di calore urbane”, spiega Malcolm Mistry, responsabile dei dati climatici per il progetto Energy-a, e coautore della ricerca.

L’analisi dei dati su famiglie e clima

Per capire meglio le dinamiche di adozione dell’aria condizionata nei paesi industrializzati e il suo impatto sul bilancio delle famiglie, anche alla luce dei cambiamenti climatici, i ricercatori di Energya hanno esaminato otto paesi OCSE di diverse latitudine: Australia, Canada, Francia, Giappone, Paesi Bassi, Spagna, Svezia e Svizzera.

I ricercatori hanno combinato le informazioni geo-codificate su 3.615 famiglie provenienti da dati dell’OCSE raccolti nel 2011, con dati storici sul clima. “La nostra rielaborazione dei dati climatici NASA-GLDAS calcola i cosiddetti Cooling Degree Days per gli ultimi 49 anni, un indicatore comunemente usato in letteratura per catturare l’intensità e la durata dei periodi particolarmente caldi e i corrispondenti bisogni di raffreddamento”, spiega Malcolm Mistry.

I trend nel mercato dei condizionatori

Spinte in gran parte dal settore residenziale, dal 1990 le vendite annuali dei condizionatori d’aria  sono più che triplicate a livello mondiale, raggiungendo 135 milioni unità nel 2016, secondo gli ultimi dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia. La Cina è in testa, con 41 milioni di condizionatori nelle case private, seguita da 16 milioni negli Stati Uniti e circa 9 milioni sia in Giappone che in Europa. “Secondo il nostro studio, oltre al ruolo determinante del miglioramento del tenore di vita, i cambiamenti climatici aumenteranno i tassi di adozione dell’aria condizionata anche in Europa, con incrementi fino al 21% in Spagna e al 35% in Francia tra soli 20 anni” conclude la professoressa De Cian.

 

Riferimenti

Link all’articolo su Economic Modeling: https://doi.org/10.1016/j.econmod.2020.05.001

 

Testo e grafico dall’Ufficio Comunicazione e Promozione di Ateneo Università Ca’ Foscari Venezia

Marte, il pianeta rosso. Gli antichi Greci lo identificarono col dio Ares, corrispondente a sua volta al romano Marte: il rosso dio della guerra pare una scelta certo appropriata. Lo si rappresenta con scudo e lancia, i quali vennero stilizzati per formare il simbolo astronomico del pianeta (e pure del sesso maschile).

 

Tra i sette pianeti del sistema solare, è quello più simile alla nostra Terra; sebbene più piccolo (il diametro è circa la metà di quello terrestre), il giorno solare marziano, detto sol, dura poco più di 24 h e l’asse di rotazione è inclinato di circa 25° sul piano dell’orbita, vicino al valore dei 23° di quella terrestre. Per via della somiglianza nel valore dell’angolo di inclinazione dell’asse, anche Marte sperimenta il susseguirsi delle quattro stagioni che, assieme alla latitudine, producono una variazione di temperatura da un minimo di circa -140° C ad un massimo di una ventina di gradi.

Il Monte Olimpo. Foto Nasa, mosaico di altre dal Viking, ritoccata da Seddon, pubblico dominio

Pure la morfologia della superficie è simile a quella del nostro pianeta: su Marte ci sono valli, pianure e montagne. Tra queste ultime, spicca il Monte Olimpo, la vetta più alta del sistema solare, con i suoi 27 km. Degna di nota è anche la Valles Marineris, un solco analogo al nostro Grand Canyon, ma decisamente più lungo, largo e profondo.

Marte
La Valles Marineris, foto mosaico di altre dal Viking, courtesy NASA/JPLCaltech, attribuzione

Nel cielo di Marte potremmo scorgere due piccole lune, Phobos e Deimos, dei grossi sassi per nulla sferici e molto scuri che, in un lasso di tempo superiore alle centinaia di milioni di anni, abbandoneranno il loro pianeta, il primo precipitandovi sopra, il secondo allontanandosene definitivamente.

Forse, però, l’aspetto più intrigante di Marte è la ricerca di forme di vita.

La mappa di Marte di Giovanni Schiaparelli, dalla Meyers Konversations-Lexikon (1888). Pubblico dominio

Già nel 1877, l’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, osservando Marte, notò delle strutture simili ai fiumi terrestri che chiamò canali. Da un’errata traduzione di “canale” in canal si originò e diffuse l’affascinante idea di un Marte popolato da una civiltà intelligente e avanzata, in grado di progettare una rete idraulica di canali per sopperire all’aridità del pianeta. Questa convinzione era corroborata anche dall’osservazione delle frequenti variazioni nell’aspetto di Marte dovute a fenomeni meteorologici, ma interpretate allora come movimento di una copertura boschiva. La distruzione del mito fantascientifico dei marziani arriva solo nella seconda metà del ‘900 grazie alle esplorazioni spaziali. Come per la corsa alla Luna, i primi protagonisti della corsa alla scoperta di Marte furono USA e URSS e, analogamente, fu un susseguirsi di insuccessi cominciati nel 1960 con le sonde sovietiche Marsnik e Sputnik. La prima foto arriva nel 1964 con la Mariner 4 della NASA che fornisce l’immagine di un pianeta morto, molto simile alla Luna. Dunque i marziani non esistevano, ma le immagini della Mariner 9 del 1971 fecero intuire la presenza di antichi mari e fiumi e risorgere la speranza della presenza di forme di vita, almeno in passato.

Francobollo da 6 copechi dell’Unione Sovietica (1964), ritraente la sonda Mars 1/Sputnik23. Pubblico dominio

Grande successo ebbero poi le due missioni, nel 1975, del programma Viking della NASA che inviarono più di 50000 foto a colori; tra queste anche la famosa “faccia” che alimentò la fantasia degli ufologi. Nel Dicembre del 1996 partì la missione Mars Pathfinder che trasportava Sojourner, il primo rover a muoversi su Marte, a cui seguirono i due rover gemelli Spirit ed Opportunity nel 2003, del programma Mars Exploration Rover, tutti sotto guida NASA. Nel 2003 scese in campo anche l’ESA, con Mars Express che prevedeva anche un lander andato, purtroppo, perduto. L’orbiter, tutt’oggi in funzione, scovò, invece, ghiaccio d’acqua e di anidride carbonica nel polo Sud del pianeta. La presenza di ghiaccio al polo Nord era già stata accertata nel 2008 dal lander della missione NASA Phoenix.

Marte
Il programma Viking col suo lander nella Chryse Planitia. Foto realizzata da Roel van der Hoorn sulla base di scatti (1977) NASA Viking image archive, pubblico dominio

Nel 2011, il programma Mars Science Laboratory con il rover Curiosity, si è rivelato indubbiamente una delle missioni di maggior successo per l’esplorazione di Marte. Atterrato nell’Agosto del 2012 nel mezzo del cratere Gale, Curiosity ha superato di gran lunga i due anni di durata nominale della missione ed è tuttora attivo. L’obiettivo principale della missione era proprio determinare l’“abitabilità” di Marte. Nel suo viaggio dal cratere Gale al monte Sharp, Curiosity ha collezionato numerosi risultati scientifici; tra di essi ricordiamo la conferma della presenza di antichi laghi che hanno ospitato l’acqua per decine di migliaia di anni e, dall’analisi delle rocce, la scoperta di composti organici. Curiosity ci ha anche rivelato che Marte, in passato, possedeva un’atmosfera molto più spessa nella quale c’era una maggiore percentuale di ossigeno. Ha trovato una variazione ciclica del metano in atmosfera attribuibile all’interazione tra rocce ed acqua oppure a microrganismi. Ci ha descritto, in conclusione, un ambiente compatibile con la vita.

Il cratere Korolev ripreso dal Mars Express dell’ESA. Foto ESA/DLR/FU Berlin, CC BY-SA 3.0

Ancora in corso sono anche InSight (NASA) e ExoMars (ESA). A quest’ultima, di cui l’Italia attraverso l’ASI è il principale sostenitore con il 40% dell’investimento totale, si deve la scoperta di un bacino di acqua salata sotterraneo nei pressi del polo Sud di Marte.

Il futuro dell’esplorazione del pianeta rosso è in mano alle numerose nuove spedizioni, a partire dal diretto successore di Curiosity, il rover Perseverance, a cui si affiancherà il Mars Helicopter nell’ambito della missione Mars 2020, la cui partenza è stata programmata per questa estate. Per non parlare delle missioni con equipaggio umano…

Video a cura di Inter Nos: Silvia Giomi e Marco Merico

Anche se sommassimo le masse di tutti i pianeti del sistema solare, non riusciremmo a formare quella di Giove. Gli antichi Romani lo associarono al dio più potente, il sovrano di tutti gli dei, il padrone del cielo, come ci ricorda il simbolo astronomico del pianeta, una rappresentazione del fulmine.

Per via della sua massa, la forza di gravità di Giove è pari a 2.6 volte quella terrestre, ciò significa che per calcolare il vostro peso su Giove dovete moltiplicare il vostro peso attuale per 2.6. Si, saremmo tutti “ingrassati”! La densità del pianeta, però, è di poco superiore a quella dell’acqua: Giove è un’immensa palla di gas.

La composizione è stratificata: al centro è (forse) presente un nucleo roccioso coperto da un mantello di idrogeno metallico liquido su cui grava un pesante strato di atmosfera. Partendo dalla superficie e addentrandoci verso il cuore del pianeta, temperatura e pressione vanno via via aumentando sino ad arrivare, nel nucleo, a valori di temperatura superiori a 35000° C e pressioni di circa 4 milioni di volte quella terrestre.

La Grande macchia rossa, tempesta dalla profondità “contenuta”

Caratteristica di Giove è il bandeggio: nubi di ammoniaca ghiacciata disposte in fasce orizzontali di vari colori che si muovono in direzioni opposte e, in alcuni punti, si invorticano, formando immensi cicloni. Nell’atmosfera gioviana si possono contare centinaia di queste masse gassose vorticanti che, come sulla Terra, si distinguono in cicloni (stesso verso di rotazione del pianeta) e anticicloni (verso di rotazione opposto). Si formano e disfano in tempi che vanno dal giorno alle centinaia di anni, come la grande macchia rossa. Osservata probabilmente per la prima volta da Cassini nel 1664, è la tempesta più longeva conosciuta, nonché la più violenta del sistema solare: come dimensioni potrebbe contenere quasi tre Terre e si innalza per circa 8 km dalla superficie del pianeta. La temperatura arriva a -160° C ed è solcata da venti tremendi che sfiorano i 600 km/h. Il diametro della grande macchia sta, però, diminuendo, mentre è in aumento l’estensione di un altro anticiclone, la cosiddetta piccola macchia rossa che si trova vicina, appena sotto la grande macchia. Formatasi nel 2000 dall’unione di tre tempeste distinte, nel 2008 aveva già raggiunto le dimensioni della Terra.

Foto NASA, ESA, and J. Nichols (University of Leicester), in pubblico dominio

Per via del core di idrogeno metallico liquido, il campo magnetico di Giove è il più intenso del sistema solare (centinaia di volte più intenso di quello terrestre) e, interagendo con i venti solari, forma una vastissima magnetosfera, un oggetto di studio estremamente interessante per gli astronomi. Un fenomeno spettacolare dovuto al campo magnetico è quello delle aurore polari di Giove: molto più energetiche ed estese delle terrestri e, per di più, perenni. La loro straordinaria potenza non è alimentata solo dalla nostra stella, ma anche da Io, uno dei quattro satelliti galileiani, nonché tra gli oggetti più attivi del sistema solare, che rifornisce il campo magnetico del pianeta di particelle provenienti dai suoi numerosi vulcani.

Giove
Giove e e la sua luna Io visti dalla sonda Cassini (2001). Foto NASA/JPL/University of Arizona, pubblico dominio

Come gli altri tre giganti gassosi, anche Giove possiede un sistema di anelli, sebbene meno vistoso di quello di Saturno, tanto che fu osservato per la prima volta solo nel 1979 dalle missioni Voyager della NASA.

Galileo e Juno sono altre due missioni dell’agenzia spaziale americana che hanno dato un importante contributo alla scoperta di Giove. Juno, partita nel 2011, è tuttora in corso, mentre Galileo è terminata nel 2003 con un impatto guidato sul pianeta. La sonda Galileo ha avuto l’occasione di osservare un altro e ben più significativo impatto su Giove, quello avvenuto nel 1994 con la cometa Shoemaker-Levy 9. L’impatto avvenne in 6 giorni, tra il 16 e il 22 Luglio, poiché la cometa si era sbriciolata in 21 frammenti, divenendo simile ad una “collana di perle” e sprigionò una potenza di 6 miliardi di kt (per confronto, la bomba che distrusse Hiroshima era di soli 16 kt). Fu un evento scientifico e mediatico molto significativo: diversi telescopi furono puntati sul gigante gassoso e tanti esperti e non seguirono con trepidazione la diretta. Sulla superficie di Giove rimasero le tracce del bombardamento: vaste macchie circolari, la più grossa del diametro di 12000 km (quello terrestre è di 12742 km), che, come ferite scure, perdurarono un paio di mesi per poi sparire definitivamente.

Il luogo dell’impatto del frammento G della cometa Shoemaker-Levy 9. Foto Hubble Space Telescope Jupiter Imaging Team, in pubblico dominio

Video a cura di Inter Nos: Silvia Giomi e Marco Merico

Cominciamo dando qualche dato fisico del secondo pianeta del sistema solare: Venere.

12103 km e 12742 km. Sono, rispettivamente, i valori dei diametri di Venere e Terra: come vedete, molto simili, ma le somiglianze terminano qua. L’asse di rotazione del pianeta è inclinato di 177°, ciò rende la rotazione di Venere retrograda: su Venere vedremmo sorgere il Sole a Ovest e tramontare ad Est! La rotazione del pianeta su se stesso è molto lenta: il giorno sidereo dura ben 243 giorni terrestri, ma, per via del moto retrogrado, il giorno solare è più corto: 117 giorni terrestri. Il periodo siderale (l’anno venusiano) conta 225 giorni terrestri. Su Venere è interessante anche riportare il valore di un altro dato, il periodo sinodico, ovvero il tempo che impiega il pianeta a ritornare nella stessa posizione rispetto al Sole per noi che lo osserviamo dalla Terra. Esso è di 584 giorni.

Un pianeta osservato da sempre

E proprio i 584 giorni del periodo sinodico di Venere li ritroviamo nel Codice di Dresda, uno dei documenti astronomici più importanti dell’antica civiltà Maya. Osservatori meticolosi del cielo, i Maya avevano calcolato con estrema precisione il moto celeste del pianeta; per loro Venere era una divinità di grande importanza, giocando un ruolo importante nelle vite materiali e spirituali: ad essa offrivano notevoli sacrifici. Anche per i Mexica, altro popolo mesoamericano, questo pianeta aveva un ruolo centralissimo: la leggenda narra che il potente Quetzalcoatl si buttò in una pira, divenendo parte del cielo e una divinità, Venere come stella del mattino, appunto. Nel Mar Mediterraneo, Venere era invece spesso associato ad una divinità femminile, Afrodite per gli antichi Greci, Venere per i Romani; il simbolo astronomico del pianeta è anche quello utilizzato per il sesso femminile; spesso lo si intende come una stilizzazione della mano della dea che regge uno specchio anche se non sarebbe quella la sua vera origine.

Venere è il pianeta più vicino alla Terra, dunque ben visibile nel nostro cielo. È perciò naturale che fosse un punto di riferimento importante per i popoli antichi. Per via della sua vicinanza al Sole, Venere si rende visibile in alcuni periodi dell’anno solo dopo il tramonto e in altri poco prima dell’alba. Questa dualità la ritroviamo presso i popoli antichi, che attribuirono due divinità differenti alle due apparizioni di Venere sin quando i pitagorici arrivarono a capire che le due manifestazioni erano riconducibili allo stesso oggetto celeste. Per esempio, secondo i Mexica, Quetzalcoatl era Venere mattutino, mentre il fratello Xolotl impersonificava Venere della sera. Similmente, presso i latini vi erano Lucifero e Vespero.

Il transito di Venere

Il fatto che Venere sia un pianeta interno dà origine a due fenomeni ben visibili dalla Terra:

  • Venere, come la Luna, ha le fasi. Lo sapeva bene Galileo Galilei, che fu il primo ad osservarle nel 1610.
  • Possiamo ammirarne il transito, ossia il passaggio del disco nero di Venere sulla superficie del Sole.

I transiti di Venere avvengono a coppie, distanziati di 8 anni; ogni coppia si ripresenta a intervalli di 121,5 e 105,5 anni (l’ultimo fu il 6 giugno del 2012 e il prossimo sarà l’11 dicembre 2117). Il grande astronomo Edmund Halley, nel 1691, calcolò le epoche dei successivi 29 transiti di Mercurio e Venere, sino al 2004. Purtroppo, il primo transito di Venere, secondo i suoi calcoli, sarebbe stato nel 1761, quando Halley avrebbe avuto quasi 105 anni… immaginate il suo dispiacere per non poter assistere all’evento!

Perché era così importante il transito di Venere? Secondo il metodo sviluppato da Halley stesso, osservando tale evento da due luoghi diversi (e possibilmente piuttosto distanti), si poteva determinare la distanza Terra-Sole.

Venere
Il transito di Venere nel 2004. Foto di Jan Herold/Klingon, CC BY-SA 3.0

Quando finalmente arrivò il tanto atteso transito, il 6 giugno 1761, le principali nazioni europee organizzarono importanti spedizioni scientifiche per l’osservazione. Fu un’impresa ardua: qualcuno perse la vita nel lungo viaggio in nave per via di naufragi o della guerra tra Francia e Inghilterra, qualcun altro rimase disperso e chi arrivò incolume a destinazione ebbe magari la sfortuna di trovare un cielo nuvoloso.

Alla fine, solo 120 astronomi riuscirono nell’impresa e poterono svolgere il calcolo di Halley, in maniera piuttosto imprecisa, trovando un valore compreso tra 123 e 157 milioni di km (il valore oggi accettato è pari a 149.57 milioni di km).

Un inferno affascinante

Venere
Cratere da impatto nella Lavinia Planitia di Venere. I colori non corrispondono a quelli reali. Foto NASA/JPL, in pubblico dominio

Ma com’è questo pianeta? La definizione più appropriata è “un inferno”. La temperatura media è di 460° C, l’atmosfera è “pesante” (la pressione è quella che potremmo sperimentare a 1000 m sott’acqua), tossica (il 96% è anidride carbonica) e corrosiva (sono presenti nuvole di anidride solforosa che generano piogge acide). La presenza di una spessa coltre di nubi che riflette la luce del Sole rende il pianeta molto brillante, ma ostacola l’osservazione della superficie. Solo nel 1990, con la sonda NASA Magellano, fu possibile vedere attraverso le dense nubi per scoprire un mondo per lo più pianeggiante, con pochissimi crateri da impatto e con più di 1500 vulcani.

L’esplorazione spaziale di Venere cominciò, però, molto prima. La Russia dedicò un intero programma al pianeta, cominciando nel 1961 con la sonda Venera 1. Per alcune delle sedici missioni Venera, era previsto anche un lander, ma, per via delle condizioni estreme del pianeta, la permanenza sul suolo venusiano fu molto breve. Fu il lander della Venera 13 a battere il record di durata, con ben 127 minuti!

Venere
Dalla Terra, Venere è sempre il più brillante dei pianeti del sistema solare. Foto Brocken Inaglory, CC BY-SA 3.0

Video a cura di Inter Nos: Silvia Giomi e Marco Merico