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DOPO DART-LICIACUBE, SU DIDYMOS E DIMORPHOS ANCHE I MASSI PARLANO: DUE STUDI A GUIDA INAF NELL’EDIZIONE SPECIALE DI OGGI DI NATURE COMMUNICATIONS

 Difesa planetaria, detriti spaziali e asteroidi Near-Earth: questo il tema dell’edizione speciale pubblicata oggi da Nature Communications, e nella quale rientra una serie di cinque articoli – due dei quali a guida INAF – che analizzano le caratteristiche della coppia di asteroidi Didymos e Dimorphos, osservati da vicino dagli strumenti della sonda DART prima dell’impatto sul secondo dei due, in un primo esperimento di difesa planetaria realizzato da NASA e ASI.

 immagine di Dimorphos. Il conteggio dei massi e la misura delle loro dimensioni su Dimorphos, e sull’asteroide principale Didymos, ha permesso di comprendere che essi hanno origine da un progenitore comune e che Dimorphos ha ereditato i propri massi dal compagno più grande. Crediti: NASA/Johns Hopkins APL
immagine di Dimorphos. Il conteggio dei massi e la misura delle loro dimensioni su Dimorphos, e sull’asteroide principale Didymos, ha permesso di comprendere che essi hanno origine da un progenitore comune e che Dimorphos ha ereditato i propri massi dal compagno più grande. Crediti: NASA/Johns Hopkins APL

Dopo l’impatto della sonda della NASA DART il 26 settembre 2022 contro Dimorphos, la luna del sistema binario di asteroidi Near-Earth (65803) Didymos, gli occhi degli esperti si sono concentrati sugli effetti dell’esperimento di difesa planetaria. L’obiettivo era testare la possibilità di deviare un corpo vagante come un asteroide nel caso in cui costituisca una minaccia per il nostro pianeta. Eventualità, questa, che dipende anche dalle caratteristiche geologiche del corpo, dalla sua dinamica, e più in generale dalla sua storia. Nature Communications ha pubblicato oggi un’edizione speciale a tema “Difesa planetaria, detriti spaziali e asteroidi Near-Earth” contenente, fra gli altri, cinque articoli che analizzano le caratteristiche e la storia geologica dei due asteroidi Near-Earth di tipo S osservati dalla missione DART-LICIACube, Didymos e Dimorphos. Coautori di tutti, e primi autori di due, Alice Luchetti e Maurizio Pajola dell’INAF di Padova. Agli articoli hanno partecipato anche ulteriori ricercatrici e ricercatori dell’INAF, dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), di IFAC-CNR, del Politecnico di Milano e delle Università di Bologna e Parthenope. I due articoli a guida INAF si focalizzano, rispettivamente, sull’analisi delle fratture presenti nei massi dell’asteroide Dimorphos – causate da shock termici fra il giorno e la notte – e sul processo di formazione dei due asteroidi, tramite l’identificazione e l’analisi dei massi sulla loro superficie.

LICIACube analizza i lunghi pennacchi di Dimorphos

Anamnesi e storia famigliare di Didymos e Dimorphos

Osservare da vicino la superficie di un asteroide e analizzarne la geologia può dire molto sulla sua storia di formazione. Utilizzando le immagini ad alta risoluzione di Didymos e Dimorphos riprese dalla missione della NASA DART pochi istanti prima dello schianto su Dimorphos, Pajola e il suo team hanno identificato tutti i massi visibili sulla superficie dell’asteroide primario Didymos (per un totale di 169) e dell’asteroide secondario Dimorphos (per un totale di 4734), ricavandone le dimensioni. Hanno poi studiato la distribuzione in taglia di questi massi (in gergo scientifico chiamata SFD, dall’inglese Size-Frequency Distribution) contando quanti massi più grandi di una data dimensione ci sono, in vari intervalli di “taglia”, e collegato questa stima con la distribuzione delle taglie in latitudine, longitudine, pendenza superficiale, accelerazione gravitazionale e insolazione.

“Lo studio della distribuzione in taglia dei massi più grandi di 5 metri su Dimorphos, e di quelli più grandi di 22,8 metri su Didymos, ci ha permesso di dire che questi si sono formati a seguito di un singolo evento di frammentazione – un impatto catastrofico – di un asteroide padre”,

spiega Maurizio Pajola, ricercatore all’INAF di Padova e primo autore dello studio. I due corpi sarebbero, secondo i risultati, aggregati di frammenti rocciosi formatisi a seguito della distruzione catastrofica di un unico genitore comune. Scoperta, questa, confermata anche dalle simulazioni di impatti iperveloci svolte in laboratorio, nonché dall’identificazione dei massi più grandi presenti sui due corpi: 16 metri quello su Dimorphos, e 93 metri quello su Didymos, valori che equivalgono a circa un decimo della dimensione dell’asteroide su cui si trovano. Massi così grandi, infatti, non potrebbero essersi formati a seguito di impatti sulle superfici dei due corpi, che sarebbero rimasti disintegrati nello scontro.

a) Mosaico ad alta risoluzione di Dimorphos in cui il riquadro rosa mostra l'area analizzata nell’articolo di Lucchetti et al. (2024); b) Primo piano dell'immagine acquisita 1,818 s prima dell'impatto del DART in cui sono visibili e identificabili le fratture dei massi; c) Fratture dei massi mappate da Lucchetti et al. (2024). Il masso più grande della scena (6,62 m di diametro), Atabaque Saxum, presenta 6 fratture sulla sua superficie. Crediti: NASA/Johns Hopkins APL; 10.1038/s41467-024-50145-y
a) Mosaico ad alta risoluzione di Dimorphos in cui il riquadro rosa mostra l’area analizzata nell’articolo di Lucchetti et al. (2024); b) Primo piano dell’immagine acquisita 1,818 s prima dell’impatto del DART in cui sono visibili e identificabili le fratture dei massi; c) Fratture dei massi mappate da Lucchetti et al. (2024). Il masso più grande della scena (6,62 m di diametro), Atabaque Saxum, presenta 6 fratture sulla sua superficie. Crediti: NASA/Johns Hopkins APL; 10.1038/s41467-024-50145-y

L’eredità di Dimorphos

Due asteroidi, un genitore comune, dunque. Non solo: la distribuzione in taglia dei massi sui due corpi si è rivelata molto simile, cosa che fa pensare che Dimorphos, il più piccolo dei due, in orbita attorno a Didymos, abbia ereditato i propri massi dal compagno. Come? Attraverso il cosiddetto effetto YORP. In pratica, mentre un asteroide ruota su sé stesso, la sua superficie viene illuminata dal Sole in maniera disomogenea, dal momento che la sua geologia è complessa e irregolare. Il risultato è che diverse regioni vengono riscaldate e si raffreddano a velocità differenti, creando una differenza di temperatura che a sua volta può far accelerare o rallentare la rotazione. Un effetto apprezzabile per asteroidi di dimensioni chilometriche o sub-chilometriche, come nel caso di Didymos. L’asteroide attualmente ha un periodo di rotazione di 2,26 ore, ma secondo le simulazioni numeriche basterebbe una lievissima accelerazione che riduca il periodo di rotazione a 2,2596 ore per causare l’eiezione di massi dalla regione equatoriale. È possibile, dunque, secondo i ricercatori, che in passato Didymos ruotasse più velocemente a causa dell’effetto YORP, e che abbia eiettato alcuni massi formando Dimorphos. Scenario, questo, che sarebbe supportato da almeno due evidenze osservative: la prima su Dimorphos, che presenta una distribuzione in taglia simile all’asteroide primario; la seconda su Didymos, che conta una minore densità di massi all’equatore.

 

Fratture termiche

L’immagine acquisita dallo strumento DRACO (Didymos Reconnaissance and Asteroid Camera for Optical navigation) a bordo di DART poco prima dell’impatto, con la sua risoluzione di 5,5 cm sulla superficie di Dimorphos, ha infatti permesso di vedere fratture sulle rocce di Dimorphos con lunghezze variabili da 0,4 a 3 metri, secondo quanto riportato nello studio guidato da Alice Lucchetti, ricercatrice all’INAF di Padova.

“La domanda di partenza è stata: Come si formano le fratture che vediamo sui massi di Dimorphos?” dice Lucchetti. “Abbiamo mappato manualmente le fratture, misurato la loro lunghezza e orientazione, notando che esse sembrano puntare quasi tutte verso la stessa direzione (nordovest-sudest), un dato indicativo dell’azione dello stress termico su queste rocce. Infatti, se queste fossero causate da frane o impatti, punterebbero tutte in direzioni diverse”.

Tramite l’applicazione di un modello termofisico che ha determinato la variazione di temperatura fra giorno e notte sull’asteroide, gli autori sono quindi stati in grado di affermare che il calore del Sole è effettivamente in grado di fratturare le rocce di Dimorphos e, in particolare, che gli stress termici generano la formazione di fratture superficiali che si propagano più rapidamente nella direzione orizzontale al masso stesso rispetto a quella verticale. Ciò avviene in un arco di tempo compreso tra 10mila e 100mila anni, e questa è la prima volta che viene effettuata una simile analisi per un asteroide di tipo S, silicatico.

“Capire come la fatica termica (questo il nome in gergo del fenomeno) agisca su piccoli corpi di diversa composizione è importante non solo per avanzare la conoscenza riguardo la formazione ed evoluzione del Sistema Solare – continua Lucchetti –, ma anche nell’ambito della difesa planetaria. Per predire la risposta e l’efficacia di un impattore cinetico, come la sonda DART su Dimorphos, bisogna conoscere bene il comportamento dei massi presenti sulla superficie dell’asteroide”.

Un fenomeno, questo della fatica termica, che sarebbe avvenuto in situ su Dimorphos dopo la formazione del corpo, e quindi dopo il trasferimento dei massi dall’asteroide Didymos. A dimostrarlo, l’orientazione delle crepe coordinata nei diversi massi: se la frattura termica fosse avvenuta sui massi di Dydimos, poi eiettati su Dimorphos, la direzione delle fratture risulterebbe disordinata e casuale.

“La fatica termica sarebbe quindi in grado di provocare crepe nelle rocce che la subiscono, fino a frantumarle”, conclude Lucchetti.

“Il problema, però – aggiunge Pajola – è che non riusciamo a identificare la polvere causata dal processo di frammentazione. Ciò suggerisce che Dimorphos sia talmente giovane che quelle che stiamo vedendo siano le prima fratture formatisi sui massi dell’asteroide. Capire questo aspetto sarà fra gli obiettivi di studio principali della missione dell’ESA HERA, che entrerà in orbita attorno al sistema binario a fine 2026”.

Riferimenti Bibliografici:

 L’articolo Evidence for multi-fragmentation and mass shedding of boulders on rubble-pile binary asteroid system (65803) Didymos di  M. Pajola, F. Tusberti, A. Lucchetti, O. Barnouin, S. Cambioni, C. M. Ernst, E. Dotto, R. T. Daly, G. Poggiali, M. Hirabayashi, R. Nakano, E. Mazzotta Epifani, N. L. Chabot, V. Della Corte, A. Rivkin, H. Agrusa, Y. Zhang, L. Penasa, R.-L. Ballouz, S. Ivanovski, N. Murdoch, A. Rossi, C. Robin, S. Ieva, J. B. Vincent, F. Ferrari, S. D. Raducan, A. Campo-Bagatin, L. Parro, P. Benavidez, G. Tancredi, Ö. Karatekin, J. M. Trigo-Rodriguez, J. Sunshine, T. Farnham, E. Asphaug, J. D. P. Deshapriya, P. H. A. Hasselmann, J. Beccarelli, S. R. Schwartz, P. Abell, P. Michel, A. Cheng, J. R. Brucato, A. Zinzi, M. Amoroso, S. Pirrotta, G. Impresario, I. Bertini, A. Capannolo, S. Caporali, M. Ceresoli, G. Cremonese, M. Dall’Ora, I. Gai, L. Gomez Casajus, E. Gramigna, R. Lasagni Manghi, M. Lavagna, M. Lombardo, D. Modenini, P. Palumbo, D. Perna, P. Tortora, M. Zannoni e G. Zanotti  è stato pubblicato all’indirizzo https://doi.org/10.1038/s41467-024-50148-9  sulla rivista Nature Communications.

 

L’articolo Fast boulder fracturing by thermal fatigue detected on stony asteroids di A. Lucchetti, S. Cambioni, R. Nakano, O. S. Barnouin, M. Pajola, L. Penasa, F. Tusberti, K. T. Ramesh, E. Dotto, C. M. Ernst, R. T. Daly, E. Mazzotta Epifani, M. Hirabayashi, L. Parro, G. Poggiali, A. Campo Bagatin, R.-L. Ballouz, N. L. Chabot, P. Michel, N. Murdoch, J. B. Vincent, Ö. Karatekin, A. S. Rivkin, J. M. Sunshine, T. Kohout, J.D.P. Deshapriya, P.H.A. Hasselmann, S. Ieva, J. Beccarelli, S. L. Ivanovski, A. Rossi, F. Ferrari, C. Rossi, S. D. Raducan, J. Steckloff, S. Schwartz, J. R. Brucato, M. Dall’Ora, A. Zinzi, A. F. Cheng, M. Amoroso, I. Bertini, A. Capannolo, S. Caporali, M. Ceresoli, G. Cremonese, V. Della Corte, I. Gai, L. Gomez Casajus, E. Gramigna, G. Impresario, R. Lasagni Manghi, M. Lavagna, M. Lombardo, D. Modenini, P. Palumbo, D. Perna, S. Pirrotta, P. Tortora, M. Zannoni e G. Zanotti è stato pubblicato all’indirizzo https://doi.org/10.1038/s41467-024-50145-y sulla rivista Nature Communications.

 

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Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

JWST CATTURA IL QUASAR DEL SISTEMA PJ308–21 E GALASSIE IN RAPIDA CRESCITA NELL’UNIVERSO LONTANO

Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha utilizzato lo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec a bordo del James Webb Space Telescope (JWST di NASA, ESA e CSA) per osservare la drammatica interazione tra un quasar all’interno del sistema PJ308–21 e due galassie satelliti massicce nell’universo lontano. Le osservazioni, realizzate a settembre 2022, hanno rivelato dettagli senza precedenti fornendo nuove informazioni sulla crescita delle galassie nell’universo primordiale. I risultati sono stati riportati in un recente articolo in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics e presentati oggi durante il meeting della Società Astronomica Europea (European Astronomical Society – EAS) a Padova.

Il quasar in questione (già descritto dagli stessi autori in un altro studio pubblicato lo scorso maggio), uno dei primi osservati con il Near Infrared Spectrograph (NIRSpec) quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni (redshift z = 6,2342), ha rivelato dati di una qualità sensazionale: lo strumento ha “catturato” il suo spettro con un’incertezza inferiore all’1% per pixel. La galassia ospite del quasar PJ308–21 mostra un’alta metallicità e condizioni di fotoionizzazione tipiche di un nucleo galattico attivo (AGN), mentre una delle galassie satelliti presenta una bassa metallicità e fotoionizzazione indotta dalla formazione stellare; la seconda galassia satellite è caratterizzata invece da una metallicità più elevata ed è parzialmente fotoionizzata dal quasar. Per metallicità si intende l’abbondanza di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. La scoperta ha permesso di determinare la massa del buco nero supermassiccio al centro del sistema (circa 2 miliardi di masse solari) e di confermare che sia il quasar che le galassie circostanti sono altamente evolute, in termini di massa e di arricchimento metallico, e in costante crescita.

 Mappa delle emissioni di riga dell'idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale ("QSO"). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / INAF / A&A 2024
Mappa delle emissioni di riga dell’idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale (“QSO”). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / INAF / A&A 2024

Roberto Decarli, ricercatore presso l’INAF di Bologna e primo autore dell’articolo, spiega:

“Il nostro studio rivela che sia i buchi neri al centro di quasar ad alto redshift, sia le galassie che li ospitano, attraversano una crescita estremamente efficiente e tumultuosa già nel primo miliardo di anni di storia cosmica, coadiuvata dal ricco ambiente galattico in cui queste sorgenti si formano”.

I dati sono stati ottenuti a settembre 2022 nell’ambito del Programma 1554, uno dei nove progetti a guida italiana del primo ciclo osservativo di JWST. Decarli è alla guida di questo programma che ha come obiettivo osservare proprio la fusione fra la galassia che ospita il quasar (PJ308-21) e due sue galassie satelliti.

Le osservazioni sono state realizzate in modalità di spettroscopia a campo integrale: per ogni pixel dell’immagine si ottiene l’intero spettro della banda ottica nel sistema di riferimento delle sorgenti osservate, che a causa dell’espansione dell’universo viene osservato nell’infrarosso. Ciò consente di studiare vari traccianti del gas (righe di emissione) con un approccio 3D. Grazie a questa tecnica il team (formato da 34 istituti di ricerca e università di tutto il mondo) ha rilevato emissioni spazialmente estese di diverse righe di emissione, che sono state utilizzate per studiare le proprietà del mezzo interstellare ionizzato, comprese la fonte e la durezza del campo di radiazione fotoionizzante, la metallicità, l’oscuramento della polvere, la densità elettronica e la temperatura, e il tasso di formazione stellare. Inoltre, è stata rilevata marginalmente l’emissione di luce stellare continua associata alle sorgenti compagne.

Federica Loiacono, astrofisica, assegnista di ricerca in forze all’INAF di Bologna, commenta entusiasta i risultati:

“Grazie a NIRSpec, possiamo per la prima volta studiare, nel sistema PJ308-21, la banda ottica ricca di preziosi dati diagnostici sulle proprietà del gas vicino al buco nero nella galassia che ospita il quasar e nelle galassie circostanti. Possiamo vedere, per esempio, l’emissione degli atomi di idrogeno e confrontarla con quella degli elementi chimici prodotti dalle stelle, per stabilire quanto sia ricco di metalli il gas nelle galassie. L’esperienza ottenuta nella riduzione e calibrazione di questi dati, alcuni dei primi collezionati con NIRSpec in modalità di spettroscopia a campo integrale, ha assicurato un vantaggio strategico per la comunità italiana rispetto alla gestione di dati simili”.

Loiacono è la referente italiana per la riduzione dei dati NIRSpec al JWST Support Centre dell’INAF, che assiste la comunità astronomica italiana nell’uso dei dati provenienti dal potente osservatorio spaziale.

Loiacono aggiunge: “Grazie alla sensibilità del James Webb Space Telescope nel vicino e medio infrarosso, è stato possibile studiare lo spettro del quasar e delle galassie compagne con una precisione senza precedenti nell’universo lontano. Solo l’eccellente ‘vista’ offerta da JWST è in grado di assicurare queste osservazioni”. Il lavoro ha rappresentato un vero e proprio “rollercoaster emotivo”, continua Decarli, “con la necessità di sviluppare soluzioni innovative per superare le difficoltà iniziali nella riduzione dei dati”.

Decarli conclude sottolineando la straordinaria importanza degli strumenti a bordo del telescopio Webb:

“Fino a un paio di anni fa, dati sull’arricchimento dei metalli (indispensabile per capire l’evoluzione chimica delle galassie) erano quasi al di là della nostra portata, soprattutto a queste distanze. Ora possiamo mappare in dettaglio con poche ore di osservazione anche in galassie osservate quando l’universo era agli albori”.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A quasar-galaxy merger at z ∼ 6.2: rapid host growth via accretion of two massive satellite galaxies“, di Roberto Decarli, Federica Loiacono, Emanuele Paolo Farina, Massimo Dotti, Alessandro Lupi, Romain A. Meyer, Marco Mignoli, Antonio Pensabene, Michael A. Strauss, Bram Venemans, Jinyi Yang, Fabian Walter, Julien Wolf, Eduardo Bañados, Laura Blecha, Sarah Bosman, Chris L. Carilli, Andrea Comastri, Thomas Connor, Tiago Costa, Anna-Christina Eilers, Xiaohui Fan, Roberto Gilli, Hyunsung D. Jun, Weizhe Liu, Madeline A. Marshall, Chiara Mazzucchelli, Marcel Neeleman, Masafusa Onoue, Roderik Overzier, Maria Anne Pudoka, Dominik A. Riechers, Hans-Walter Rix, Jan-Torge Schindler, Benny Trakhtenbrot, Maxime Trebitsch, Marianne Vestergaard, Marta Volonteri, Feige Wang, Huanian Zhang, Siwei Zou, in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

 

Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

VLT E ALMA CATTURANO RAFFICHE DI VENTO RELATIVISTICO DAL QUASAR DELLA GALASSIA J0923+0402, IN PIENA ATTIVITÀ

Un team di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dall’Università degli studi di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar lontano ma decisamente attivo (uno dei più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’Universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli esperti hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.

alone quasar della galassia J0923+0402 Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti
Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti

La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi, per la precisione a redshift z = 6.632 (ossia la sua radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni) con al centro un quasar. La luce dei quasar (o quasi-stellar radio source) viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.

“L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso rilevato in epoche remote (circa 50 mila anni luce)”, spiega Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’INAF e l’Università degli studi di Trieste.

I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, ha captato raffiche di materia, in gergo BAL winds (dall’inglese venti con righe di assorbimento larghe o broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array sempre dell’ESO), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del Cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti BAL e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.

La ricercatrice sottolinea: “I BAL sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, osserviamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso. Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il BAL di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento BAL è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di ALMA ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia”.

La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (HSC), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dall’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone (National Astronomical Observatory of Japan – NAOJ), e – con una misura molto più accurata – dalla NIRCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (JWST delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA).

“Questo quasar verrà osservato nuovamente dal JWST in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone”, annuncia Bischetti.

La ricercatrice prosegue spiegando il perché di questa survey: “Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia”. Le misure effettuate “sono di routine nell’Universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z>6”, aggiunge.

“Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’Universo che vediamo oggi”, conclude Bischetti.


 

Per altre informazioni:

L’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin, Yongda Zhu, è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

NANE BIANCHE E PIANETI DISTRUTTI: GLI INDIZI TROVATI DAL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE

Il telescopio spaziale James Webb (JWST) delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA ci regala nuove immagini mozzafiato del nostro vicinato galattico. Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) ha sfruttato le enormi potenzialità di JWST per osservare, per la prima volta all’infrarosso, l’intera sequenza di raffreddamento delle nane bianche in un vicino ammasso globulare, rivelando un eccesso di emissione infrarossa, potenziale indizio di antichi sistemi planetari distrutti. L’articolo è stato pubblicato di recente nella rivista Astronomische Nachrichten (Astronomical Notes).

La maggior parte delle stelle, soprattutto quelle di massa simile al Sole (da 8 fino a 0.07-0.08 masse solari), terminano la loro evoluzione come nane bianche, cosa che alla nostra stella madre accadrà fra circa 5 miliardi di anni. Dopo aver esaurito il “combustibile” stellare (idrogeno ed elio), questi oggetti non sono in grado di innescare reazioni termonucleari e collassano sotto il proprio peso raffreddandosi fino al loro definitivo spegnimento, perdendo lo strato più esterno della loro atmosfera.

I dati utilizzati nella survey, estrapolati dall’archivio ventennale di Hubble e da recenti osservazioni con il telescopio spaziale Webb, hanno permesso al gruppo di ricerca di sondare le proprietà fondamentali delle nane bianche e di cercare indizi della possibile esistenza di antichi sistemi planetari attorno a esse. Luigi Bedin, ricercatore presso l’INAF di Padova e primo autore dello studio, spiega:

«Abbiamo scoperto che le osservazioni in infrarosso delle nane bianche ci hanno permesso di ricavare informazioni preziose sulle proprietà delle loro dense atmosfere di idrogeno. Dai dati si evince, inaspettatamente, un numero sorprendente di nane bianche con un relativo eccesso di emissione infrarossa. I risultati andranno confermati, ma lasciano intendere che queste nane bianche presentano le tracce di antichi sistemi planetari ormai estinti».

Il team di ricerca ha osservato, in diverse nane bianche, anomalie nella distribuzione spettrale dell’energia. Bedin si riferisce agli eccessi di emissioni nella banda di radiazione infrarossa:

«Questi possono essere dovuti a compagni di taglia sub-stellare o a residui di sistemi planetari distrutti durante l’evoluzione della stella da nane a gigante. Cosa accade? Durante la combustione dell’idrogeno dal nucleo, il guscio della stella si gonfia fino a inglobare i pianeti più interni del suo sistema».

Le osservazioni si riferiscono al vicino ammasso globulare Ngc 6397 (noto anche come C 86), un oggetto abbastanza luminoso e visibile anche a occhio nudo in direzione della costellazione dell’Altare, a 7200 anni luce dal Sole. La survey guidata da Bedin e colleghi con il JWST prevede l’osservazione di stelle intrinsecamente deboli e poco luminose, quindi la vicinanza alla sorgente è fondamentale anche se si utilizza lo strumento operativo nell’infrarosso attualmente più potente in orbita. «In questo ammasso abbiamo osservato circa il 20% di nane bianche con questo eccesso infrarosso, mentre nel campo galattico solo poche sorgenti mostrano un tal anomalo alto flusso nell’infrarosso», aggiunge Bedin.

Il gruppo di ricerca ha in programma una seconda campagna osservativa con la camera/spettrografo Miri del James Webb, uno strumento che – osservando nel medio infrarosso – riesce a caratterizzare l’energia emessa dalle nane bianche con eccesso di infrarosso, discriminando fra la presenza di compagni sub-stellari, dischi di sistemi planetari estinti, residui della fase di gigante rossa. «Queste nuove osservazioni che mapperanno lo spettro fra 2 e 20 micron ci permetteranno di risolvere il mistero», conclude il ricercatore.


immagine somma in tre colori del campo studiato con la camera NIRCam al fuoco del JWST. Crediti per l'immagine: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF - L. R. Bedin et al. 2024
Nane bianche e pianeti distrutti: gli indizi trovati da Webb. Immagine somma in tre colori del campo studiato con la camera NIRCam al fuoco del JWST. Crediti per l’immagine: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF – L. R. Bedin et al. 2024

Per altre informazioni:

L’articolo “JWST Imaging of the Closest Globular Clusters — I. Possible Infrared Excess Among White Dwarfs in NGC 6397”, di L. R. Bedin, D. Nardiello, M. Salaris, M. Libralato, P. Bergeron, A. J. Burgasser, D. Apai, M. Griggio, M. Scalco, J. Anderson, R. Gerasimov, A. Bellini, è stato pubblicato sulla rivista Astronomische Nachrichten.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

TOI-5398, IL PIÙ GIOVANE SISTEMA MULTI-PLANETARIO COMPATTO

Il pianeta gigante al suo interno risulta essere il miglior candidato per studi di caratterizzazione atmosferica con il telescopio spaziale James Webb tra tutti i giganti caldi conosciuti.

TOI-5398 b dal sito della NASA: https://exoplanets.nasa.gov/exoplanet-catalog/8661/toi-5398-b/

TOI-5398, una sigla che potrebbe non dirci molto eppure nasconde un record: si tratta del più giovane sistema multi-planetario “compatto”, in cui vi è la compresenza di un piccolo pianeta vicino alla stella assieme a un compagno planetario gigante con periodo orbitale di circa 10 giorni. Questo sistema è solamente il sesto con tale caratteristica compresenza tra i più di 500 sistemi che ospitano pianeti giganti a corto periodo. I dati relativi a questa conferma sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics da un gruppo guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e dall’Università di Padova. Secondo gli autori dell’articolo, questo sistema è praticamente unico nel suo genere, potenzialmente una “pietra miliare” per lo studio e la comprensione dei pianeti giganti a corto periodo.

 Il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) di INAF, un telescopio di 3,58 metri di diametro situato sulla sommità dell'isola di San Miguel de La Palma. Il TNG è il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova - INAF
Il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) di INAF, un telescopio di 3,58 metri di diametro situato sulla sommità dell’isola di San Miguel de La Palma. Il TNG è il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova – INAF

Le misurazioni sono state ottenute con lo spettrografo HARPS-N al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) di INAF alle Canarie (INAF) nell’ambito della collaborazione nazionale GAPS (Global Architecture of Planetary Systems). In questo studio, è stato inoltre fondamentale l’utilizzo di dati spaziali del Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA, e del coordinamento di numerosi ricercatori ed osservatori astronomici sparsi in tutto il mondo.

TOI-5398 è di gran lunga il più giovane tra i cosiddetti sistemi “compatti”: 650 milioni di anni contro i 3-10 miliardi di anni degli altri sistemi. Un infante, si potrebbe dire. Inoltre, il pianeta maggiore nel sistema risulta il miglior candidato per studi di caratterizzazione atmosferica tramite il telescopio spaziale James Webb della NASA tra tutti i giganti caldi conosciuti. Per “giganti caldi” si intende pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale (inglese “warm giants”), da non confondere con gli “hot giants”, che possiedono periodi orbitali sotto i 10 giorni”.

TOI-5398 è costituito da un “sub-Nettuno” caldo (TOI-5398 c) orbitante internamente rispetto al suo compagno di massa simile a Saturno a corto periodo orbitale (TOI-5398 b).

“Tale studio – afferma Valerio Nascimbeni, ricercatore presso l’INAF di Padova – supporta una delle teorie di formazione dei pianeti giganti a corto periodo, la quale vede questi ultimi formarsi nelle regioni esterne del sistema e farsi spazio (in un sistema multi-planetario) tramite migrazioni ‘tranquille’, che prevengono il sovrapponimento delle orbite planetarie e della conseguente distruzione del sistema. Tale teoria risale al 1996, frutto di uno studio teorico guidato dal Prof. Lin dell’University of California, Santa Cruz, ma è da pochissimi anni che abbiamo un riscontro osservativo di simili sistemi (solo 5 su più di 500 sistemi con pianeti giganti a corto periodo mostra tale configurazione/architettura orbitale)”.

Gli altri cinque sistemi planetari con queste caratteristiche, ossia un’origine non violenta e la compresenza di piccoli pianeti assieme al pianeta gigante a corto periodo sono WASP-47, Kepler-730, WASP-132, TOI-1130, e TOI-2000. ovvero pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale (inglese “warm Jupiter”), da non confondere con gli “hot jupiter”, i quali possiedono periodi orbitali < 10 giorni.

TOI-5398, come detto, è solo il sesto sistema in questa ristrettissima cerchia e mostra una caratteristica molto particolare, perchè rispetto agli altri è giovanissimo. Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato INAF, aggiunge:

“La sua formazione, infatti, anziché datare, come gli altri, fra i 3 e 10 miliardi di anni, viene misurata in circa 650 milioni di anni. Questo è l’aspetto eccezionale, perché tale sistema non si trova in una situazione congelata e definitiva come gli altri, ma è appunto giovane e quindi in evoluzione. Può offrire quindi nuove risposte rispetto all’evoluzione dei pianeti e della loro atmosfera”.

“Comprendere il processo di formazione e sviluppo dei pianeti giganti a corto periodo è di estrema importanza anche per la comprensione del Sistema solare, in quanto non esiste un corrispettivo planetario del nostro vicinato planetario. Per comprendere questa mancanza nel nostro sistema e le sue possibili implicazioni – ad esempio sulla presenza della vita – è fondamentale esaminare la storia di formazione di tali pianeti nei sistemi planetari in cui essi sono presenti”, prosegue il ricercatore.

Mantovan analizza gli sviluppi futuri di questa ricerca. “TOI-5398 è un interessante sistema in ottica futura, in quanto entrambi i pianeti del sistema sono candidati ideali per svolgere caratterizzazioni atmosferiche precise, ed anche grazie alla loro giovane età. L’unione di queste due proprietà ed alla presenza di due pianeti con differenti caratteristiche (raggio, massa, ecc), offre la rara opportunità di poter studiare i segni distintivi di differenti storie di formazione planetaria sotto l’influenza della stessa stella, solitamente inaccessibili in sistemi planetari più evoluti e vecchi”.

E conclude: “TOI-5398 potrebbe quindi potenzialmente diventare una pietra miliare per comprendere la formazione di sistemi planetari dove sono presenti giganti a breve periodo orbitale, e potrebbe diventare un punto di riferimento anche all’interno del limitatissimo sottocampione di sistemi ove sono presenti anche piccoli compagni planetari tra il gigante a corto periodo e la stella”.

 Il ricercatore Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo su TOI-5398 e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato INAF. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova - INAF
Il ricercatore Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo su TOI-5398 e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato INAF. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova – INAF


 

Per altre informazioni:

L’articolo “The GAPS programme at TNG XLIX. TOI-5398, the youngest compact multi-planet system composed of an inner sub-Neptune and an outer warm Saturn”, di G. Mantovan et al., è stato pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa  Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF e Università di Padova

GRB 230307A: JWST RIVELA ELEMENTI PESANTI NELL’ESPLOSIONE DI UNA KILONOVA

Il James Webb Space Telescope (JWST) ha svelato che il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, osservato il 7 marzo 2023, ha avuto origine dalla fusione esplosiva di due stelle di neutroni. Il potente evento ha prodotto ed espulso nelle zone circostanti diversi elementi pesanti, tra cui il tellurio. Allo studio, pubblicato su Nature, hanno partecipato diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e di altri istituti di ricerca e atenei italiani.

Un team internazionale di scienziati ha identificato l’origine di un potente lampo di raggi gamma (gamma-ray burst, o GRB) osservato lo scorso marzo: a generarlo è stata una kilonova, ovvero l’esplosione causata dalla fusione tra due stelle di neutroni. La ricerca è basata su osservazioni realizzate con il James Webb Space Telescope (JWST), che ha anche permesso di rilevare l’elemento chimico tellurio nel materiale espulso dalla potente esplosione. Il lampo, denominato GRB 230307A, è il secondo più luminoso mai scoperto in oltre 50 anni di osservazioni. È stato individuato il 7 marzo 2023 dal telescopio spaziale per raggi gamma Fermi, a cui ha fatto seguito il Neil Gehrels Swift Observatory, entrambi della NASA. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

“Il materiale in queste esplosioni è lanciato nello spazio a velocità molto elevate, causando una rapida evoluzione della luminosità e della temperatura del plasma in espansione”, afferma Om Sharan Salafia, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Milano, tra gli autori dello studio. “Con l’espansione, il materiale si raffredda e il picco della sua luce si sposta sempre più verso il rosso, per poi passare all’infrarosso su scale temporali che vanno da giorni a settimane”.

Le kilonove sono esplosioni estremamente rare, il che ne rende difficile l’osservazione. Per molto tempo, si è ritenuto che i GRB brevi, dalla durata inferiore a due secondi, derivassero da questi eventi, mentre i GRB più lunghi fossero associati alla morte esplosiva di una stella massiccia, o supernova. Il caso di GRB 230307A è peculiare: il lampo è durato 200 secondi, come i GRB di lunga durata, eppure le osservazioni di JWST indicano chiaramente che proviene dalla fusione di due stelle di neutroni. Oltre al tellurio, è probabile che nel materiale espulso nella kilonova  siano presenti anche altri elementi pesanti, vicini ad esso sulla tavola periodica, come ad esempio lo iodio, necessario per gran parte della vita sulla Terra.

Bright galaxies and other light sources in various sizes and shapes are scattered across a black swath of space: small points, hazy elliptical-like smudges with halos, and spiral-shaped blobs. The objects vary in colour: white, blue-white, yellow-white, and orange-red. Toward the centre right is a blue-white spiral galaxy seen face-on that is larger than the other light sources in the image. The galaxy is labelled “former home galaxy.” Toward the upper left is a small red point, which has a white circle around it and is labelled “GRB 230307A kilonova.
GRB 230307A è il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, generato da una kilonova: elementi pesanti rilevati nell’esplosione. Immagine del lampo di raggi gamma GRB 230307A e la relativa kilonova (in alto a sinistra) realizzata con la fotocamera NIRCam a bordo del telescopio spaziale Webb. La galassia di colore bluastro in basso a destra è il luogo d’origine delle due stelle di neutroni che, dopo aver viaggiato per circa 120mila anni luce, hanno dato luogo all’esplosione. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI, A. Levan (IMAPP, Warw), A. Pagan (STScI)

La collaborazione di molti telescopi, sia a terra che nello spazio, ha permesso al team di raccogliere una gran quantità di informazioni su questo evento subito dopo il primo rilevamento, aiutando loro a individuare la sorgente nel cielo e a monitorare la sua luminosità nel tempo. Le osservazioni nei raggi gamma, nei raggi X, nell’ottico, nell’infrarosso e in banda radio hanno mostrato che la controparte ottica/infrarossa era debole, evolvendosi rapidamente e passando dal blu al rosso: i tratti distintivi di una kilonova. In particolare, la sensibilità di JWST nell’infrarosso ha aiutato gli scienziati a identificare l’origine delle due stelle di neutroni che hanno prodotto la kilonova: una galassia a spirale a circa 120mila anni luce dal luogo della fusione. I progenitori del poderoso evento erano due stelle massicce che formavano un sistema binario in questa galassia: le esplosioni che le hanno trasformate in stelle di neutroni, tuttavia, hanno espulso il sistema binario dalla galassia. Prima di fondersi e dare luogo alla kilonova, diverse centinaia di milioni di anni più tardi, hanno percorso un tragitto pari al diametro della Via Lattea.

Alla campagna osservativa ha partecipato anche il VST (VLT Survey Telescope), telescopio dell’INAF presso l’Osservatorio di Paranal, in Cile.

“Quando il GRB fu scoperto, non si conosceva ancora la sua controparte ottica, in quanto Swift non lo aveva osservato e quindi non si aveva idea della posizione esatta con precisione di arcosecondi, in modo da attivare il follow-up classico”

spiega il co-autore Luca Izzo, ricercatore presso l’INAF a Napoli e presso il Dark Cosmology Center, Niels Bohr Institute, Università di Copenhagen, in Danimarca.

“Avendo del tempo di osservazione al VST per un mio programma sulle galassie vicine, decisi di pianificare delle osservazioni per la ricerca della controparte nella notte a me riservata, due giorni dopo la scoperta del GRB. Queste osservazioni hanno identificato correttamente la controparte ottica poche ore dopo la prima conferma, ottenuta dalla ULTRACAM sul New Technology Telescope. Questo dimostra il contributo del VST nell’identificazione ottica di sorgenti ad alta energia e nel successivo follow-up e caratterizzazione. Una cosa che faremo sicuramente nel futuro immediato”.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Heavy element production in a compact object merger observed by JWST”, di Andrew Levan, Benjamin P. Gompertz, Om Sharan Salafia, Mattia Bulla, Eric Burns, Kenta Hotokezaka, Luca Izzo, Gavin P. Lamb, Daniele B. Malesani, Samantha R. Oates, Maria Edvige Ravasio, Alicia Rouco Escorial, Benjamin Schneider, Nikhil Sarin, Steve Schulze, Nial R. Tanvir, Kendall Ackley, Gemma Anderson, Gabriel B. Brammer, Lise Christensen, Vikram S. Dhillon, Phil A. Evans, Michael Fausnaugh, Wen-fai Fong, Andrew S. Fruchter, Chris Fryer, Johan P. U. Fynbo, Nicola Gaspari, Kasper E. Heintz, Jens Hjorth, Jamie A. Kennea, Mark R. Kennedy, Tanmoy Laskar, Giorgos Leloudas, Ilya Mandel, Antonio Martin-Carrillo, Brian D. Metzger, Matt Nicholl, Anya Nugent, Jesse T. Palmerio, Giovanna Pugliese, Jillian Rastinejad, Lauren Rhodes, Andrea Rossi, Andrea Saccardi, Stephen J. Smartt, Heloise F. Stevance, Aaron Tohuvavohu, Alexander van der Horst, Susanna D. Vergani, Darach Watson, Thomas Barclay, Kornpob Bhirombhakdi, Elm e Breedt, Alice A. Breeveld, Alexander J. Brown, Sergio Campana, Ashley A. Chrimes, Paolo D’Avanzo, Valerio D’Elia, Massimiliano De Pasquale, Martin J. Dyer, Duncan K. Galloway, James A. Garbutt, Matthew J. Green, Dieter H. Hartmann, Páll Jakobsson, Paul Kerry, Chryssa Kouveliotou, Danial Langeroodi, Emeric Le Floc’h, James K. Leung, Stuart P. Littlefair, James Munday, Paul O’Brien, Steven G. Parsons, Ingrid Pelisoli, David I. Sahman, Ruben Salvaterra, Boris Sbarufatti, Danny Steeghs, Gianpiero Tagliaferri, Christina C. Th one, Antonio de Ugarte Postigo, David Alexander Kann, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GAS CALDO AI RAGGI X PER SPIEGARE LA MASSA BARIONICA MANCANTE NELLE GALASSIE

Un gruppo di ricercatrici e ricercatori guidati dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha sfruttato gli spettri ad alta risoluzione nei raggi X, ottenuti con il satellite ESA XMM-Newton e il Chandra X-ray Observatory della NASA, per rilevare, per la prima volta, la presenza di una grande quantità di gas caldo (un milione di gradi) negli aloni di tre galassie esterne simili alla Via Lattea, a distanze di circa 120 kiloparsec (ovvero 400 mila anni luce) dal centro delle galassie stesse. Questa scoperta è stata pubblicata sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

satellite Chandra X-ray Observatory galassie gas caldo massa barionica
Raffigurazione artistica del satellite Chandra X-ray Observatory. Foto NASA/CXC/NGST, in pubblico dominio

Fabrizio Nicastro, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’INAF di Roma, spiega che

“la presenza del gas in questo stato fisico è stata predetta dalla teoria ma non era mai stato direttamente osservato se non nella nostra Galassia, nella quale però non è possibile distinguere fra gas nel disco della galassia, nel suo alone, o addirittura nel mezzo esterno la galassia e permeante il Gruppo Locale di galassie”.

La scoperta è significativa perché la massa totale che si deriva per questo gas caldo, all’interno del raggio viriale delle galassie è tale da risolvere il problema della massa barionica mancante di queste galassie.

E aggiunge: “Il nostro risultato indica anche che il feedback stellare o nucleare delle galassie non è stato sufficiente a espellere la massa al di fuori dell’influenza gravitazionale delle galassie stesse (oltre il raggio del viriale), ma ha contribuito ad arricchire di metalli il mezzo primordiale che accrescendo forma la galassia stessa e costituisce il carburante per la formazione stellare all’interno di queste, fino ad un valore pari circa al 30% della metallicita’ osservata nel Sole. Questo ha importanti conseguenze per la nostra comprensione del continuo ciclo di barioni da e verso le galassie (quello che comunemente viene detto feedback) e quindi per affinare le predizioni teoriche sulla formazione delle strutture nell’Universo”.

Nicastro sottolinea che “il problema della massa barionica mancante nelle galassie è uno dei problemi astrofisici più importanti, ormai da diversi decenni. La rilevazione di questo gas caldo era stata molto difficile in precedenza, sia a causa di limitazioni strumentali, sia per la difficoltà di mettere in atto strategie osservative adeguate allo scopo. La nostra idea è stata quella di usare degli indicatori della presenza di tale gas caldo negli aloni di galassie esterne, e di utilizzare tutti i dati di archivio esistenti, sia XMM che Chandra, per ‘sommarli’ opportunamente (una procedura denominata stacking) con la speranza di tirare fuori un segnale, dove aspettato”.

E ci sono riusciti: “La strategia ha pagato, e per la prima volta abbiamo rilevato un segnale della presenza dello ione altamente ionizzato dell’ossigeno cui sono rimasti solo due elettroni (OVII) a una distanza di circa 120 kiloparsec dal centro di queste galassie”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “X-Ray Detection of the Galaxy’s Missing Baryons in the Circum-Galactic Medium of L∗ Galaxies”, di Fabrizio Nicastro et al., è stato pubblicato su pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GJ 367 b, UN PIANETA DAL CUORE DI FERRO IN UN SISTEMA EXTRASOLARE

LA SCOPERTA DEI RICERCATORI DI UNITO ARRICCHISCE
IL PUZZLE SULLA FORMAZIONE DEI PIANETI

Insieme agli scienziati del Thüringer Landessternwarte, i ricercatori dell’Ateneo torinese hanno confermato che l’esopianeta GJ 367 b ha una densità altissima, quasi doppia rispetto a quella della Terra. Il team ha anche trovato altri due pianeti che orbitano attorno alla stessa stella.

GJ 367 b
– Illustrazione artistica del sistema planetario attorno alla stella GJ 367, con il pianeta più interno e ultra-denso GJ 367 b, e i due pianeti esterni (GJ 367 c e GJ 367 d) appena scoperti © Elisa Goffo

Negli ultimi decenni, gli astronomi hanno scoperto diverse migliaia di pianeti extrasolari. I pianeti extrasolari orbitano attorno a stelle al di fuori del nostro sistema solare. La nuova frontiera in questo campo di ricerca include lo studio della loro composizione e struttura interna, al fine di comprendere meglio il loro processo di formazione.

Elisa Goffo, dottoranda presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e il Thüringer Landessternwarte (Germania), insieme a un team di ricerca internazionale, ha fatto una scoperta unica, relativamente al pianeta GJ 367 b, che solleva domande interessanti su come nascano i pianeti. È la prima autrice dell’articolo Company for the ultra-high density, ultra-short period sub-Earth GJ 367 b: discovery of two additional low-mass planets at 11.5 and 34 days pubblicato sulla rivista “The Astrophysical Journal Letters”.

La ricercatrice fa parte della collaborazione internazionale KESPRINT che ha confermato come l’esopianeta, che impiega sole 7.7 ore a compiere una rivoluzione attorno alla sua stella, sia anche ultra-denso. La densità di un pianeta viene determinata a partire dalla sua massa e dal suo raggio. Il pianeta GJ 367 b è denominato ultra-denso perché i ricercatori hanno scoperto che la sua densità è di 10,2 grammi per centimetro cubo. Si tratta di una densità quasi doppia rispetto a quella della Terra, il che suggerisce che questo pianeta extrasolare sia costituito quasi interamente di ferro.

Una composizione insolita

Una simile composizione per un pianeta è molto rara e pone diversi interrogativi sulla sua formazione.

Si potrebbe paragonare GJ 367 b a un pianeta simile alla Terra che ha però perso il suo mantello roccioso. Questo potrebbe avere importanti implicazioni sulla sua formazione. Ipotizziamo infatti che il pianeta possa essere stato inizialmente simile alla Terra, con un core denso di ferro circondato da uno spesso mantello ricco di silicati. Un evento catastrofico potrebbe aver stappato il mantello di GJ 367 b, scoprendo il denso core del pianeta. In alternativa GJ 367 b potrebbe essere nato in una regione del disco protoplanetario ricca di ferro“,

spiega Elisa Goffo. Durante l’osservazione di GJ 367 b, il team ha scoperto altri due pianeti di piccola massa che orbitano intorno alla stella GJ 367, rispettivamente in 11,5 e 34 giorni. Questi tre pianeti e la loro stella costituiscono un sistema planetario extrasolare.

GJ 367 b è stato individuato per la prima volta dal Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), un telescopio spaziale della NASA. TESS utilizza il metodo dei transiti per misurare il raggio degli esopianeti – oltre ad altre proprietà. I ricercatori dell’Università di Torino e del Thüringer Landessternwarte hanno utilizzato misure di velocità radiale, ottenute con lo spettrografo HARPS dell’ESO, per determinare con precisione la sua massa e confermare che il pianeta ha una densità molto elevata. Lo spettrografo HARPS è uno strumento ad alta precisione installato presso il telescopio con uno specchio di 3,6 metri di diametro dell’European Southern Observatory (ESO) a La Silla, in Cile.

Il consorzio di ricerca KESPRINT, composto da oltre 40 membri di nove Paesi (Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Italia, Giappone, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti), è specializzato nella conferma e nella caratterizzazione di esopianeti transitanti individuati da diversi telescopi spaziali. Per determinare la densità di GJ 367 b, il team ha ottenuto quasi 300 misure in due anni utilizzando lo spettrografo HARPS, nell’ambito di una campagna osservativa coordinata dal professor Davide Gandolfi, docente del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Grazie a queste numerose osservazioni i ricercatori sono riusciti a misurare la densità con grande precisione.

Grazie all’intensa campagna osservativa con lo spettrografo HARPS abbiamo anche rivelato la presenza di altri due pianeti di piccola massa con periodi orbitali di 11,5 e 34 giorni. Questo riduce il numero di scenari possibili che potrebbero aver portato alla formazione di un pianeta così denso“, afferma Davide Gandolfi. “Mentre GJ 367 b potrebbe essersi formato in un ambiente ricco di ferro, non escludiamo uno scenario di formazione che coinvolga eventi violenti e catastrofici come la collisione tra pianeti“.

Artie Hatzes, direttore del Thüringer Landessternwarte, sottolinea l’importanza di questa scoperta: “GJ 367 b è un caso estremo. Prima di poter sviluppare valide teorie sulla sua formazione abbiamo dovuto misurare con elevata precisione la sua massa e il suo raggio. Ci aspettiamo che un sistema planetario sia composto da diversi pianeti, quindi era importante cercare e trovare altri pianeti in orbita nel sistema – studiare cioè la sua architettura“.

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SCHEDA TECNICA

ALLA SCOPERTA DI GJ 367 b

ULTERIORI INFORMAZIONI

KESPRINT. Il consorzio KESPRINT si occupa della conferma e della caratterizzazione di esopianeti transitanti individuati da missioni spaziali (ad esempio Kepler, K2, TESS) e, in particolare, della caratterizzazione dei pianeti più piccoli. È un team internazionale che include ricercatori del Dipartimento di Fisica, Università di Torino (Italia), del Thüringer Landessternwarte Tautenburg (Germania), dell’Institute of Planetary Research, German Aerospace Center (Germania), del Technische Universität Berlin (Germania), del Rheinisches Institut für Umweltforschung an der Universität zu Köln (Germania), dell’Astronomical Institute of the Czech Academy of Sciences (Repubblica Ceca), del Chalmers University of Technology (Svezia), Instituto de Astrofísica de Canarias (Spagna), del Mullard Space Science Laboratory, University College London (Regno Unito), dell’University of Oxford (Regno Unito), del Stellar Astrophysics Centre, Department of Physics and Astronomy, Aarhus University (Danimarca), dell’Astronomy Department and Van Vleck Observatory, Wesleyan University (USA), del McDonald Observatory, The University of Texas at Austin (USA), del The University of Tokyo (Giappone), dell’Astrobiology Center, National Institute of Natural Sciences (Giappone).

La nomenclatura del pianeta GJ 367 b. Solitamente i pianeti prendono il nome dalla stella attorno a cui orbitano. I pianeti che orbitano la stella GJ 367 sono stati chiamati usando il nome di questa seguito dalle lettere minuscole b, c, d, etc, seguendo l’ordine di scoperta. Tuttavia, al pianeta GJ 367 b e alla sua stella GJ 367 sono stati assegnati dei nomi particolari nell’ambito dell’iniziativa “NameExoWorlds” del 2022 coordinata dall’Unione Astronomica Internazionale. Il pianeta GJ 367 b si chiama Tahay e la sua stella Añañuca, dal nome di fiori selvatici cileni.

Tra le sue tante peculiarità, GJ 367 b si distingue da altri pianeti per il suo periodo orbitale estremamente breve di 7,7 ore. Un anno su questo pianeta dura solo 7,7 ore! La sua massa è pari al 60% di quella della Terra. Il suo raggio è pari al 70% di quello terrestre. Pertanto è più piccolo del nostro pianeta Terra e meno massiccio.

A causa della sua vicinanza alla stella, si stima che la superficie del pianeta rivolta a questa abbia una temperatura di quasi 1.100 gradi Celsius. La stella GJ 367 (Añañuca) si trova a circa 31 anni luce dalla Terra. Questo vuol dire che la luce della stella impiega 31 anni per raggiungere la Terra.

Come funziona il metodo dei transiti: Il telescopio TESS della NASA utilizza il metodo dei transiti per cercare pianeti intorno a stelle diverse dal Sole. Un transito avviene quando un pianeta si muove tra la sua stella e noi. Ogni volta che passa davanti alla sua stella, blocca una piccola parte della luce di questa. Il metodo dei transiti misura questa variazione di luce, da cui si ricavano il periodo e l’inclinazione orbitale, il raggio e altri parametri del pianeta.

Come funziona il metodo delle velocità radiali: Il team di KESPRINT osserva gli esopianeti utilizzando il metodo delle velocità radiali. Questo metodo rivela l’esistenza di un pianeta attorno alla sua stella sfruttando l’effetto Doppler. Nell’immaginario collettivo si pensa che i pianeti orbitino attorno alle loro stelle, ma non è del tutto vero! I pianeti e le stelle orbitano attorno al loro comune centro di massa. A causa del moto orbitale attorno a questo, la luce che riceviamo dalle stelle diventa “più blu” o “più rossa” a seconda che queste si avvicinino o si allontanino da noi. Combinato con il metodo dei transiti, il metodo delle velocità radiali consente di determinare la massa del pianeta.

Informazioni sul Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Da quasi 10 anni il gruppo di esopianeti del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino si occupa dello studio e della caratterizzazione di esopianeti transitanti, combinando dati acquisiti con telescopi spaziali e spettrografi di elevata precisione. Il gruppo di Torino ha coordinato la campagna di osservazione di GJ 367 condotta con lo spettrografo HARPS.

 

Testi e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

L’ESOPIANETA TOI-1853b, IL NETTUNIANO SUPER-MASSICIO, UNA SCOPERTA CHE PORTA PIÙ DOMANDE CHE RISPOSTE

Scoperto da un team di scienziati internazionale guidato dall’Università di Roma Tor Vergata e da INAF un esopianeta dalle caratteristiche straordinarie – individuato grazie al satellite TESS della NASA e caratterizzato con il Telescopio Nazionale Galileo – le cui proprietà fisiche mettono in crisi le teorie convenzionali di formazione ed evoluzione planetarie. La ricerca pubblicata oggi su Nature.

Roma, 30 agosto 2023 – Si chiama TOI-1853b ed è estremamente peculiare: ogni 30 ore compie un giro completo intorno alla sua stella (la Terra impiega un anno per compiere un giro completo intorno al Sole), ha un raggio comparabile con quello di Nettuno (3,5 raggi terrestri, da cui il nome) ma una massa di circa quattro volte più grande (73 masse terrestri). Ciò gli conferisce il primato della densità più elevata fra gli esopianeti nettuniani noti ad oggi (circa 10 g/cm3, il doppio della densità della Terra). Distante 545 anni luce da noi, TOI-1853b si trova nella costellazione di Boote e la sua scoperta, pubblicata oggi su Nature, è stata realizzata da un team internazionale di ricercatori, guidato da Luca Naponiello, 31 anni, dottorando in Astrofisica all’università di Roma Tor Vergata e primo autore del lavoro. Diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) hanno dato un contributo di fondamentale importanza allo studio.

Illustrazione artistica dell'esopianeta TOI-1853b. Crediti: L. Naponiello
Illustrazione artistica dell’esopianeta TOI-1853b. Crediti: Luca Naponiello

TOI-1853b si trova nel cosiddetto ‘deserto dei Nettuniani’, una regione vicina alle stelle in cui non si trovano pianeti delle dimensioni di Nettuno: ricevendo una forte irradiazione dalla stella, questi  pianeti non possono trattenere le loro atmosfere gassose che evaporano, lasciando così esposto un nucleo solido di dimensioni molto inferiori a quelle di Nettuno.

“In base alle teorie di formazione ed evoluzione planetaria, non ci si aspettava che potesse esistere un pianeta simile e così vicino alla sua stella”, commenta Naponiello. “È un pianeta con densità troppo elevata per essere un classico pianeta di tipo nettuniano e, di conseguenza, deve essere estremamente ricco di elementi pesanti”. La sua presenza nel ‘deserto dei Nettuniani’ è, dunque, un ulteriore mistero da chiarire.

Non si conosce esattamente la sua composizione. Naponiello aggiunge:

“Ci aspettiamo che TOI-1853b sia prevalentemente roccioso e circondato da un piccolo inviluppo gassoso di idrogeno ed elio che costituisce al più l’1% della massa del pianeta. Oppure, un’altra ipotesi molto affascinante è che possa essere composto per metà da rocce e per metà da ghiaccio di acqua. Data l’elevata temperatura del pianeta (circa 1500 gradi Kelvin), in questo secondo caso TOI-1853b potrebbe avere un’atmosfera ricca di vapore acqueo”.

“Anche la sua origine è un mistero dal momento che nessuno dei modelli teorici di formazione planetaria prevede che possa esistere un pianeta con tali caratteristiche”, dice Luigi Mancini, professore presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e secondo autore del lavoro. “Tuttavia, simulazioni numeriche che abbiamo condotto in scenari estremi ci suggeriscono che la sua origine possa essere dovuta a scontri fra protopianeti massicci nel disco proto-stellare originario”. “Tali scontri”, continua Naponiello, “potrebbero aver rimosso quasi tutta l’atmosfera del pianeta, il che ne spiegherebbe le dimensioni ridotte e la grande densità, come se fosse rimasto solo il nucleo nudo del pianeta”.

In alternativa allo scenario delle collisioni planetarie, secondo i ricercatori il pianeta potrebbe essere stato inizialmente un gigante gassoso come Giove o più massiccio, e avrebbe assunto un’orbita molto ellittica in seguito a instabilità dinamiche dovute ad interazioni gravitazionali con altri pianeti. Questo lo avrebbe portato a compiere dei passaggi molto ravvicinati alla sua stella, che gli avrebbero fatto perdere i suoi strati atmosferici esterni e avrebbero, allo stesso tempo, circolarizzato e stabilizzato la sua orbita alla distanza attuale dalla sua stella.

“Al momento, non riusciamo a distinguere quale dei due scenari di formazione sia quello più plausibile, ma continueremo ad osservare questo pianeta per capirlo. Non possiamo neanche escludere che studi teorici successivi, a partire da questa eccezionale scoperta, possano portare a nuovi modelli di formazione per i pianeti nettuniani molto massicci”, commenta Aldo Bonomo, ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo.

TOI-1853b è stato inizialmente identificato nel 2020 come candidato planetario dal satellite della NASA TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) con il metodo dei transiti, ovvero osservando le diminuzioni di luce periodiche della sua stella prodotte dal passaggio del pianeta davanti ad essa. La conferma della natura planetaria di TOI-1853b e la misura della sua massa e densità sono state possibili grazie ad osservazioni spettroscopiche di velocità radiale ottenute dal team con lo spettrografo HARPS-N (High Accuracy Radial Velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere) al Telescopio Nazionale Galileo (TNG), che si trova sull’isola di La Palma nelle Canarie. Tali osservazioni hanno permesso di rivelare e caratterizzare con elevata precisione il segnale gravitazionale del pianeta sul moto della sua stella.

“HARPS-N è ormai operativo al TNG da più di 10 anni (ha ottenuto la prima luce a marzo del 2012). È uno dei pochi strumenti di punta a disposizione della comunità astronomica per misurare con alta precisione le masse e le densità dei pianeti extrasolari, in certi casi anche con dimensioni della Terra”, conclude Alessandro Sozzetti, primo ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo. “Come in questo caso, nuove scoperte e misure portano spesso più domande che risposte”.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “A super-massive Neptune-sized planet”, di Luca Naponiello, Luigi Mancini, Alessandro Sozzetti, Aldo S. Bonomo, Alessandro Morbidelli, Jingyao Dou, Li Zeng, Zoe M. Leinhardt, Katia Biazzo, Patricio E. Cubillos, Matteo Pinamonti, Daniele Locci, Antonio Maggio, Mario Damasso, Antonino F. Lanza, Jack J. Lissauer, Karen A. Collins, Philip J. Carter, Eric L. N. Jensen, Andrea Bignamini, Walter Boschin, Luke G. Bouma, David R. Ciardi, Rosario Cosentino, Silvano Desidera, Xavier Dumusque, Aldo F. M. Fiorenzano, Akihiko Fukui, Paolo Giacobbe, Crystal L. Gnilka, Adriano Ghedina, Gloria Guilluy, Avet Harutyunyan, Steve B. Howell, Jon M. Jenkins, Michael B. Lund, John F. Kielkopf, Katie V. Lester, Luca Malavolta, Andrew W. Mann, Rachel A. Matson, Elisabeth C. Matthews, Domenico Nardiello, Norio Narita, Emanuele Pace, Isabella Pagano, Enric Palle, Marco Pedani, Sara Seager, Joshua E. Schlieder, Richard P. Schwarz, Avi Shporer, Joseph D. Twicken, Joshua N. Winn, Carl Ziegler e Tiziano Zingales, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa di Ateneo Università di Roma Tor Vergata e dall’Ufficio Stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Rilevato gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nel mezzo interstellare della galassia che ospita il quasar Pōniuā‘ena

Osservato per la prima volta gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nella galassia che ospita un buco nero supermassiccio in un’epoca remota della storia del cosmo, quando l’Universo aveva solo settecento milioni di anni. La scoperta, realizzata da un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è stata possibile grazie all’osservatorio NOEMA sulle Alpi francesi.

Le 12 antenne dell’osservatorio NOEMA, sulle Alpi francesi.
Crediti: IRAM, J.Boissier

Come si influenzano a vicenda la crescita di un buco nero supermassiccio e quella della galassia che lo ospita? Che impatto hanno questi buchi neri sulle primissime fasi evolutive delle galassie? Un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) si è posto questi quesiti, tra i più spinosi dell’astrofisica contemporanea, e per affrontarli ha osservato uno dei tre quasar luminosi più distanti noti, la cui luce è partita circa tredici miliardi di anni fa, quando l’universo aveva un’età di appena settecento milioni di anni.

Illustrazione del quasar Pōniuāʻena.
Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/P. Marenfeld

I quasar sono nuclei estremamente brillanti di galassie attive, la cui enorme luminosità deriva dall’intensa attività del buco nero supermassiccio nascosto nel cuore della galassia. Il quasar scelto dal team si chiama Pōniuā‘ena, che in lingua hawaiana “evoca l’invisibile fonte rotante della creazione, circondata da brillantezza”, ed è alimentato da un buco nero la cui massa è pari a un miliardo e mezzo di volte quella del Sole. La galassia che lo ospita si trova nel mezzo dell’epoca della reionizzazione, quel periodo della storia cosmica, verificatosi alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, durante il quale l’Universo è diventato trasparente alla radiazione emessa da stelle e galassie, così che la loro luce può raggiungerci oggi. Quasar come questo si sono formati molto presto nella sequenza temporale del cosmo, trovandosi in ambienti estremi caratterizzati dall’accumulo di enormi quantità di gas e polvere, ma le ragioni di una comparsa così rapida sono ancora uno dei misteri più grandi nell’astrofisica extragalattica.

gas molecolare freddo quasar Pōniuā‘ena
Mappa dell’emissione di gas molecolare (monossido di carbonio) da parte del quasar Poniua‘ena, realizzata dall’osservatorio NOEMA.
Crediti: IRAM/NOEMA/C. Feruglio (INAF)

Osservando il quasar Pōniuā‘ena con il Northern Extended Millimeter Array (NOEMA), il più potente radiotelescopio del suo genere nell’emisfero nord, il team ha rilevato gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nel mezzo interstellare della galassia che ospita il quasar. Si tratta di un rilevamento da record: non era mai stato osservato gas molecolare freddo a epoche così antiche nella storia dell’Universo. I risultati sono stati pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.

gas molecolare freddo quasar Pōniuā‘ena
Mappa dell’emissione di gas molecolare (monossido di carbonio) da parte del quasar Poniua‘ena, realizzata dall’osservatorio NOEMA.
Crediti: IRAM/NOEMA/C. Feruglio (INAF)

Si ritiene che il gas molecolare freddo sia uno degli ingredienti chiave per una efficiente formazione stellare. Per questo, gli astronomi ritengono che il gas molecolare fosse presente già nell’Universo primordiale, anche prima che le stelle si formassero in grandi quantità. Di conseguenza, la scoperta del monossido di carbonio nel quasar Pōniuā’ena rappresenta una nuova pietra miliare per comprendere la formazione delle primissime molecole nell’Universo.

“È la prima volta che misuriamo la riserva di gas molecolare freddo e polvere nell’Universo primordiale, appena qualche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang”, spiega Chiara Feruglio, ricercatrice INAF a Trieste e prima autrice dello studio. “Troviamo che le galassie ospiti di quasar nell’Universo antico hanno già la capacità di accumulare una massa di gas e polvere molto elevata: circa venti miliardi di masse solari, comparabile con quanto osservato in epoche cosmiche successive. È interessante notare che, nonostante il breve tempo cosmico intercorso dal Big Bang all’epoca in cui osserviamo il quasar Pōniuā‘ena, le quantità relative di gas freddo e polvere fredda è già molto simile al valore misurato nella nostra galassia, la Via Lattea, e altre galassie che popolano l’Universo odierno”.

“Sappiamo che questo quasar ospita un buco nero molto massiccio, che deve essersi formato o da una marcata concentrazione primordiale di massa oppure tramite accrescimento di gas a un tasso molto elevato su concentrazioni di massa più piccole” nota la co-autrice Francesca Civano, Chief Scientist presso il Physics of the Cosmos Program Office del NASA Goddard Space Flight Center a Greenland nel Maryland, Stati Uniti. “Le osservazioni erano state programmate per studiare solamente la componente della polvere, non ci aspettavamo di rilevare anche una grande riserva di gas freddo, anche perché, per gli altri due quasar noti a distanze così elevate, il gas freddo non è stato ancora individuato. Invece con sorpresa abbiamo trovato due righe molto forti, che indicano una massiccia riserva di gas freddo e denso”.

“Solo la notevole sensibilità recentemente raggiunta da NOEMA, unita alla sua ampia larghezza di banda di frequenza, ha consentito la scoperta del monossido di carbonio a Pōniuā’ena” aggiunge Jan Martin Winters, astronomo dell’Institut de radioastronomie millimétrique (IRAM) in Francia e co-autore dello studio. “La potenza recentemente acquisita da NOEMA mantiene ora la promessa di rilevare il gas molecolare freddo in molte più sorgenti che ospitano quasar in queste epoche cosmiche primordiali. Tali rilevazioni permetterebbero di far luce anche sulla produzione di elementi pesanti nelle primissime fasi dell’Universo”.

L’idrogeno molecolare è di fondamentale importanza in quanto è il costituente base da cui nascono le stelle, e spesso viene invocato come il “serbatoio” della formazione stellare. Sfortunatamente, l’idrogeno molecolare non può essere osservato di per sé, ma si può utilizzare una relazione empirica tra la massa del monossido di carbonio e la massa dell’idrogeno molecolare per ricavare la quantità di idrogeno molecolare dalla quantità misurata di monossido di carbonio. L’osservazione del monossido di carbonio nel quasar Pōniuā’ena ha quindi permesso al team di ottenere una prima stima della densità cosmica di idrogeno molecolare. La stima di questo parametro fornisce importanti informazioni sulla chimica primordiale, svelando nuovi dettagli su come si sono formate le prime e più semplici molecole dell’Universo. Queste stime erano finora limitate a epoche cosmiche molto successive, a partire da circa un miliardo di anni dopo il Big Bang. “La densità cosmica di idrogeno molecolare stimata grazie alle osservazioni del quasar Pōniuā‘ena concorda con quanto predetto dai più recenti modelli di formazione ed evoluzione di gas freddo nelle prime fasi dell’Universo e dalle simulazioni cosmologiche”, ricorda il ricercatore INAF Umberto Maio, co-autore dello studio. Questo risultato indica che i modelli teorici sono sulla buona strada per spiegare le proprietà fondamentali dell’Universo primordiale.

Conclude Luca Zappacosta dell’INAF, co-autore della ricerca e a capo della collaborazione scientifica HYPERION: “Pōniuā‘ena fa parte di HYPERION, un campione dei quasar primordiali luminosi, specificamente selezionati per le ‘abitudini alimentari’ estreme dei loro buchi neri massicci. Studiando i quasar di HYPERION miriamo a comprendere la natura della comparsa così precoce di questi oggetti sorprendenti e a caratterizzare l’evoluzione simultanea di un buco nero e della sua galassia ospite. In questo contesto, questo rilevamento da record è cruciale in quanto pone le basi per scoprire il ruolo del gas molecolare freddo accumulato nei primi quasar in formazione e le avide abitudini alimentari dei buchi neri”.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo HYPERION: First constraints on dense molecular gas at z=7.5149 from the quasar Pōniuā‘ena, di Chiara Feruglio, Umberto Maio, Roberta Tripodi, Jan Martin Winters, Luca Zappacosta, Manuela Bischetti, Francesca Civano, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Fabrizio Fiore, Simona Gallerani, Michele Ginolfi, Roberto Maiolino, Enrico Piconcelli, Rosa Valiante, Maria Vittoria Zanchettin, è stato pubblicato online sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)