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SPIRALI DI PLASMA NELLO SPAZIO: LO STRUMENTO METIS A BORDO DELLA MISSIONE SOLAR ORBITER SVELA LA NATURA CONTORTA DEL VENTO SOLARE, OSSERVANDO UNA STRUTTURA RADIALE NELLA CORONA SOLARE CHE EVOLVE PER DIVERSE ORE 

Osservata per la prima volta dallo strumento Metis a bordo della missione Solar Orbiter, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunta prima, una struttura radiale nella corona solare che evolve per diverse ore fino a distanze di tre raggi solari.

Immagine in luce visibile ottenuta dal coronografo Metis il 12 ottobre 2022, durante il passaggio al perielio della sonda Solar Orbiter. Al centro del campo di vista, il Sole ripreso dallo strumento EUI nella lunghezza d'onda di 174 Angstrom. Il riquadro giallo ritrae la struttura elicoidale oggetto dello studio.Crediti: Metis e EUI (Solar Orbiter/ESA). L'immagine è stata realizzata da Vincenzo Andretta (INAF di Napoli)
Immagine in luce visibile ottenuta dal coronografo Metis il 12 ottobre 2022, durante il passaggio al perielio della sonda Solar Orbiter. Al centro del campo di vista, il Sole ripreso dallo strumento EUI nella lunghezza d’onda di 174 Angstrom. Il riquadro giallo ritrae la struttura elicoidale oggetto dello studio.
Crediti: Metis e EUI (Solar Orbiter/ESA). L’immagine è stata realizzata da Vincenzo Andretta (INAF di Napoli)

Roma, 26 marzo 2025 – Il 12 ottobre 2022, durante un passaggio ravvicinato al Sole, le riprese ottenute dal coronografo italiano Metis a bordo della missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno catturato un fenomeno spettacolare e inedito per livello di dettaglio: l’evoluzione, nella corona solare, di una lunga struttura radiale che si anima di un moto elicoidale persistente per diverse ore. Per la prima volta, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunte prima, è stato possibile osservare direttamente l’espulsione di strutture a spirale dalla corona solare, compatibili con le torsioni magnetiche che i modelli teorici associano all’origine del vento solare.

Grazie alla combinazione di immagini in luce visibile e tecniche di elaborazione avanzate, Metis – progettato da Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Università di Firenze, Università di Padova, CNR-IFN, e realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) con la collaborazione dell’industria italiana – ha mostrato come il Sole possa trasferire energia e materia verso lo spazio in forma di onde e plasma intrecciati tra loro, rivelando un meccanismo fondamentale nella dinamica dell’eliosfera.

Alla guida dello studio, pubblicato oggi sul sito web della rivista The Astrophysical Journal, c’è Paolo Romano, primo ricercatore dell’INAF di Catania. Romano, che ha coordinato il lavoro di un ampio team internazionale, afferma:

“È la prima volta che osserviamo direttamente un fenomeno così esteso e duraturo, compatibile con la riconnessione magnetica in una struttura chiamata pseudostreamer. Questa osservazione offre una finestra inedita sulla fisica che sta alla base della formazione del vento solare. Questo risultato non solo conferma teorie elaborate da anni, ma fornisce finalmente un riscontro visivo diretto”.

Ma cos’è uno pseudostreamer? Si tratta di una configurazione del campo magnetico solare in cui due regioni chiuse di polarità opposta sono immerse in un ambiente di campo magnetico aperto. Nella corona, gli pseudostreamer sono le “canne del vento” del Sole: regioni da cui, in seguito a un’eruzione, possono aprirsi nuovi canali per il flusso del plasma verso lo spazio interplanetario.

Nel caso dell’evento ripreso da Metis, tutto ha avuto inizio con l’eruzione di una protuberanza polare – un gigantesco arco di plasma “appeso” ai campi magnetici nella regione nord del Sole – che ha innescato una piccola espulsione di massa coronale (CME). Ma il vero spettacolo è arrivato dopo, nella lunga fase di rilassamento che ha seguito l’eruzione. È lì che Metis ha osservato il susseguirsi di strutture filamentose, luminose e scure, che si attorcigliano lungo la linea radiale della corona, a distanze comprese tra 1,5 e 3 raggi solari.

Il team ha interpretato questi segnali come la firma visibile di un processo previsto da tempo: la riconnessione magnetica, che trasferisce il plasma e la torsione magnetica dalle regioni chiuse del campo solare verso quelle aperte, innescando onde di tipo torsionale – le onde di Alfvén – e lanciandole nello spazio.

Un tassello fondamentale è arrivato dal confronto con sofisticate simulazioni numeriche condotte da Peter Wyper, della Durham University, in collaborazione con Spiro Antiochos del NASA Goddard Space Flight Center. Le immagini sintetiche prodotte da queste simulazioni mostrano un’evoluzione sorprendentemente simile a quella ripresa da Metis: strutture elicoidali che si propagano lungo il campo aperto, con caratteristiche geometriche e dinamiche in forte accordo con i dati osservati.

“Le prestazioni uniche di Metis in termini di risoluzione spaziale e temporale aprono una nuova finestra sulla comprensione dell’origine del vento solare”, commenta Marco Romoli, dell’Università di Firenze e responsabile scientifico dello strumento Metis. “Per la prima volta vediamo l’intera evoluzione di un processo di rilascio di energia magnetica, dalle sue radici nel Sole fino all’apertura nello spazio interplanetario”.

“Le onde di Alfvén torsionali e in generale i meccanismi fisici che innescano fluttuazioni magnetiche di questo tipo – dichiara Marco Stangalini responsabile del programma Solar Orbiter per l’Agenzia Spaziale Italiana – sono da tempo ritenuti tra i principali meccanismi alla base dell’accelerazione del vento solare. Metis, grazie alla elevata cadenza temporale delle sue immagini, ci offre la possibilità di osservare direttamente questi processi fisici, consentendo anche un miglioramento della modellistica fisica ad essi associata”.

Le osservazioni di Metis non solo confermano i modelli teorici più avanzati, ma suggeriscono che lo stesso meccanismo – la riconnessione magnetica a piccola scala – possa avvenire continuamente sulla superficie del Sole, generando quei “microgetti” che alimentano il vento solare Alfvénico rivelato anche dalla sonda Parker Solar Probe.

In altre parole, quella spirale luminosa che Metis ha visto danzare nella corona potrebbe essere solo la versione gigante di un processo che avviene ovunque, continuamente, e che rende possibile l’esistenza stessa del vento solare.

Per maggiori informazioni:

Il video pubblicato dall’ESA con immagini composite del Sole che evidenziano la presenza di spirali di plasma in propagazione nella corona solare (Crediti: V. Andretta e P. Romano (INAF), ESA & NASA/Solar Orbiter/Metis/EUI).

L’articolo Metis Observations of Alfvenic Outflows Driven by Interchange Reconnection in a Pseudostreamer di P. Romano, P. Wyper, V. Andretta, S. Antiochos, G. Russano, D. Spadaro, L. Abbo, L. Contarino, A. Elmhamdi, F. Ferrente, R. Lionello, B.J. Lynch, P. MacNeice, M. Romoli, R. Ventura, N. Viall, A. Bemporad, A. Burtovoi, V. Da Deppo, Y. De Leo, S. Fineschi, F. Frassati, S. Giordano, S.L. Guglielmino, C. Grimani, P. Heinzel, G. Jerse, F. Landini, G. Naletto, M. Pancrazzi, C. Sasso, M. Stangalini, R. Susino, D. Telloni, L. Teriaca, M. Uslenghi è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF e dall’Agenzia Spaziale Italiana – ASI

Big Wheel” (Ruota Panoramica), scoperta una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale

In un articolo su “Nature Astronomy”, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang, professore e post-doc del gruppo di ricerca “Cosmic Web” dell’Università di Milano-Bicocca, descrivono la rapida e inaspettata crescita di un enorme disco galattico nelle prime fasi di sviluppo dell’universo. Uno studio condotto grazie ai dati ricevuti dal James Webb Space Telescope e che apre una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie.

La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico
La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico. La galassia è un gigantesco disco rotante a redshift z = 3,25, con chiari bracci a spirale. È finora unica per le sue grandi dimensioni del disco, che si estende per più di 30 kpc, più grande di qualsiasi altro disco di galassia confermato in questa epoca dell’universo

Milano, 17 marzo 2025 – Una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale, ovvero in un periodo cosmico iniziale – circa due miliardi di anni dopo il Big Bang – e che presenta quindi dimensioni più tipiche dei dischi galattici giganti dell’Universo attuale. È la scoperta del gruppo di ricerca “Cosmic Web”, nato all’interno dell’Unità di Astrofisica del dipartimento di Fisica dell’Università di Milano-Bicocca, riportata in un articolo pubblicato oggi su “Nature Astronomy” (“A giant disk galaxy two bilion years after the Big Bang”, DOI: 10.1038/s41550-025-02500-2), a firma di Weichen Wang e Sebastiano Cantalupo, rispettivamente assegnista di ricerca (post-doc) e professore ordinario dell’ateneo, oltre agli altri membri del gruppo “Cosmic Web” e collaboratori internazionali. Una scoperta basata sui dati ottenuti dai ricercatori di Milano-Bicocca dal James Webb Space Telescope (JWST), l’osservatorio spaziale più grande e potente mai costruito finora, erede di Hubble, frutto di una partnership tra la NASA, l’ESA e l’Agenzia spaziale canadese (Canadian Space Agency).

«Quando e come si formano i dischi galattici è ancora un enigma nell’astronomia moderna – afferma Sebastiano Cantalupo – I primi anni di osservazioni del James Webb Space Telescope hanno rivelato una pletora di dischi galattici nell’Universo primordiale, che corrisponde a un’epoca cosmica di undici miliardi di anni fa, o due miliardi di anni dopo il Big Bang. Prima della nostra osservazione, erano tuttavia stati scoperti da JWST solo dischi galattici molto più piccoli di quelli che vediamo nell’universo locale. Per questo motivo, si pensava fino ad ora che la formazione dei dischi più grandi avesse richiesto la maggior parte dell’età dell’universo. Per poter fare nuova luce sulla questione, abbiamo rivolto la nostra attenzione all’Universo primordiale e, in particolare, ad uno speciale ambiente cosmico».

Gli studiosi del Cosmic Web Group, hanno condotto il loro studio utilizzando nuove osservazioni dal JWST, integrate da dati provenienti da altre strutture come il telescopio spaziale Hubble, il Very Large Telescope (VLT) e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA). Queste osservazioni erano mirate verso una specifica regione del cielo, che si trova a 11-12 miliardi di anni luce di distanza da noi e che è incorporata in una struttura su larga scala che probabilmente evolverà in un ammasso di galassie, una regione quasi unica nell’universo, eccezionalmente densa, con un’alta concentrazione di galassie, gas e buchi neri. «Un laboratorio nel quale si possono studiare i meccanismi di formazione delle galassie. Infatti, grazie alla velocità finita della luce, osservazioni e immagini del telescopio sono una foto di quella regione di cielo quando l’universo aveva “solo” 2 miliardi di anni».

«Utilizzando i dati di due strumenti – prosegue Weichen Wang – la Near-Infrared Camera e il Near-Infrared Spectrograph, a bordo del JWST, abbiamo identificato le galassie all’interno di questa regione iperdensa e abbiamo analizzato i loro redshift, la loro morfologia e la loro cinematica, tutti necessari per l’identificazione dei dischi galattici. Le osservazioni ci hanno portato alla scoperta di un disco sorprendentemente grande nella struttura su larga scala. Questa galassia, che abbiamo chiamato “Big Wheel”, o “Ruota Panoramica” in italiano date le sue enormi dimensioni (Figura 1), ha un raggio effettivo (cioè il raggio che contiene metà della luce totale) di circa 10 kiloparsec. “Big Wheel” è circa tre volte più grande delle galassie scoperte in precedenza con masse stellari e tempi cosmici simili, ed è anche almeno tre volte più grande di quanto previsto dalle attuali simulazioni cosmologiche. È invece paragonabile alle dimensioni della maggior parte dei dischi massicci visti nell’attuale Universo».

Ulteriori analisi spettroscopiche hanno confermato che “Big Wheel” è un disco che ruota come una galassia a spirale, ovvero come la Via Lattea, la nostra galassia».

La crescita precoce e rapida di questo disco potrebbe essere correlata al suo ambiente altamente sovradenso, che, a differenza di quanto dicano i modelli di formazione galattica più diffusi, potrebbe offrire condizioni fisiche favorevoli a questa formazione precoce.

«Ambienti eccezionalmente densi come quello che ospita la Big Wheel rimangono un territorio relativamente inesplorato – conclude Sebastiano Cantalupo –. Sono necessarie ulteriori osservazioni mirate per costruire un campione statistico di dischi giganti nell’Universo primordiale e aprire così una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie».

Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang
Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang

Sebastiano Cantalupo, Weichen Wang e il Cosmic Web Group

Classe 1980, Sebastiano Cantalupo è professore ordinario di Astrofisica all’Università di Milano-Bicocca. Vincitore di un finanziamento ERC (European Research Council) nel 2020, rientra in Italia dopo 17 anni all’estero (Politecnico di Zurigo,Università di CambridgeUniversità della California a Santa Cruz), scegliendo l’Università di Milano-Bicocca per proseguire le sue linee di ricerca. Cantalupo guida un team chiamato “Cosmic Web”, dal nome del suo progetto di ricerca, formato da otto ricercatori e, oltre all’ERC, ha ricevuto nel 2020 un finanziamento da Fondazione Cariplo (bando “Attrattività e competitività su strumenti dell’European Research Council”) e un ulteriore supporto, nel 2021, dal bando Fare, il programma MUR (Ministero Università e Ricerca) per la ricerca di eccellenza.

Weichen Wang è nato nel 1994. Si è laureato (bachelor degree) in Fisica nel 2016 alla Tsinghua University di Pechino e ha conseguito nel 2022 un dottorato in Astrofisica alla Johns Hopkins University di Baltimora. Dal 2022 è assegnista di ricerca (post-doc) all’Università di Milano-Bicocca.

Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang
Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

JWST OSSERVA UN ANTICHISSIMO BUCO NERO SUPERMASSICCIO DORMIENTE, A ‘RIPOSO’ DOPO UN’ABBUFFATA COSMICA, NELLA GALASSIA GN-1001830

È uno dei più grandi buchi neri supermassicci non attivi mai osservati nell’universo primordiale e il primo individuato durante l’epoca della reionizzazione. La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, è stata possibile grazie alle rilevazioni del telescopio spaziale James Webb. Allo studio hanno partecipato anche INAF, Scuola Normale Superiore di Pisa e Sapienza Università di Roma.

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Illustrazione artistica che rappresenta l'aspetto potenziale del buco nero supermassiccio scoperto dal team di ricerca durante la sua fase di intensa attività super-Eddington. Crediti: Jiarong Gu
Illustrazione artistica che rappresenta l’aspetto potenziale del buco nero supermassiccio scoperto dal team di ricerca durante la sua fase di intensa attività super-Eddington. Crediti: Jiarong Gu

Anche i buchi neri schiacciano un sonnellino tra una mangiata e l’altra. Un team internazionale di scienziati, guidato dall’Università di Cambridge, ha scoperto un antichissimo buco nero supermassiccio “dormiente” in una galassia compatta, relativamente quiescente e che vediamo come era quasi 13 miliardi di anni fa. La galassia è GN-1001830. Il buco nero, descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, ha una massa pari a 400 milioni di volte quella del Sole e risale a meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang, rendendolo uno degli oggetti più antichi e massicci mai rilevati.

Questo mastodontico oggetto è inoltre il primo buco nero supermassiccio non attivo, in termini di accrescimento di materia, osservato durante l’epoca della reionizzazione, una fase di transizione nell’universo primordiale durante la quale il gas intergalattico è stato ionizzato dalla radiazione delle prime sorgenti cosmiche. Probabilmente rappresenta solo la punta dell’iceberg di una intera popolazione di buchi neri “a riposo” ancora da osservare in questa epoca lontana. La scoperta, a cui partecipano ricercatrici e ricercatori anche dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), della Scuola Normale Superiore di Pisa e della Sapienza Università di Roma, si basa sui dati raccolti telescopio spaziale James Webb (JWST), nell’ambito del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey).

In che senso il buco nero è “dormiente”? Grazie a questi dati, il gruppo di ricerca ha stabilito che, nonostante la sua dimensione colossale, questo buco nero sta accrescendo la materia circostante a un ritmo molto basso a differenza di quelli di massa simile osservati nella stessa epoca (i cosiddetti quasar) – circa 100 volte inferiore al limite teorico massimo – rendendolo praticamente inattivo.

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Immagine in falsi colori ottenuta dal telescopio spaziale JWST, che mostra una piccola frazione del campo GOODS-North. La galassia evidenziata nel riquadro ospita un antichissimo buco nero supermassiccio 'dormiente'. Crediti: JADES Collaboration
Immagine in falsi colori ottenuta dal telescopio spaziale JWST, che mostra una piccola frazione del campo GOODS-North. La galassia evidenziata nel riquadro ospita un antichissimo buco nero supermassiccio ‘dormiente’. Crediti: JADES Collaboration

Un’altra peculiarità di questo buco nero ad alto redshift (ossia collocato nell’universo primordiale) è il suo rapporto con la galassia ospite: la sua massa rappresenta il 40 per cento della massa stellare totale, un valore mille volte superiore a quello dei buchi neri normalmente osservati nell’universo vicino. Alessandro Trinca, ricercatore post-doc oggi in forza all’Università degli studi dell’Insubria ma già post-doc presso l’INAF di Roma per un anno, spiega:

“Questo squilibrio suggerisce che il buco nero abbia avuto una fase di crescita rapidissima, sottraendo gas alla formazione stellare della galassia. Ha rubato tutto il gas che aveva a disposizione prima di diventare dormiente lasciando la componente stellare a bocca asciutta”.

Alessandro Trinca, ricercatore post-doc presso l’Università degli studi dell’Insubria
Alessandro Trinca, ricercatore post-doc presso l’Università degli studi dell’Insubria

Rosa Valiante, ricercatrice dell’INAF di Roma coinvolta nel team internazionale e coautrice dell’articolo, aggiunge:

“Comprendere la natura dei buchi neri è da sempre un argomento che affascina l’immaginario collettivo: sono oggetti apparentemente misteriosi che mettono alla prova ‘famose’ teorie scientifiche come quelle di Einstein e Hawking. La necessità di osservare e capire i buchi neri, da quando si formano a quando diventano massicci fino a miliardi di volte il nostro Sole, spinge non solo la ricerca scientifica a progredire, ma anche l’avanzamento tecnologico”.

Rosa Valiante, ricercatrice presso l’INAF di Roma
Rosa Valiante, ricercatrice presso l’INAF di Roma

I buchi neri supermassicci così antichi, come quello descritto nell’articolo su Nature, rappresentano un mistero in astrofisica. La rapidità con cui questi oggetti sono cresciuti nelle prime fasi della storia dell’Universo sfida i modelli tradizionali, che non sono in grado di spiegare la formazione di buchi neri di tale portata. In condizioni normali, i buchi neri accrescono materia fino a un limite teorico, chiamato “limite di Eddington”, oltre il quale la pressione della radiazione generata dall’accrescimento contrasta ulteriori flussi di materiale verso il buco nero. La scoperta di questo buco nero primordiale supporta l’ipotesi che fasi brevi ma intense di accrescimento dette “super-Eddington” siano essenziali per spiegare l’esistenza di questi “giganti cosmici” nell’universo primordiale. Si tratta di fasi durante le quali i buchi neri riuscirebbero a inglobare materia a un ritmo molto superiore, sfuggendo temporaneamente a questa limitazione, intervallate da periodi di dormienza.

“Se la crescita avvenisse a un ritmo inferiore al limite di Eddington, il buco nero dovrebbe accrescere il gas in modo continuativo nel tempo per sperare di raggiungere la massa osservata. Sarebbe quindi molto improbabile osservarlo in una fase dormiente”, spiega Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza.

Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza
Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza

Gli scienziati ipotizzano che buchi neri simili siano molto più comuni di quanto si pensi, ma oggetti in un tale stato dormiente emettono pochissima luce, il che li rende particolarmente difficili da individuare, persino con strumenti estremamente avanzati come il telescopio spaziale Webb. E allora come scovarli? Sebbene non possano essere osservati direttamente, la loro presenza viene svelata dal bagliore di un disco di accrescimento che si forma intorno a loro. Con il JWST, telescopio delle agenzie spaziali americana (NASA), europea (ESA) e canadese (CSA) progettato per osservare oggetti estremamente poco luminosi e distanti, sarà possibile esplorare nuove frontiere nello studio delle prime strutture galattiche.

Stefano Carniani, ricercatore della Scuola Normale Superiore di Pisa e membro del team JADES commenta:

“Questa scoperta apre un nuovo capitolo nello studio dei buchi neri distanti. Grazie alle  immagini del James Webb, potremo indagare le proprietà dei buchi neri dormienti, rimasti finora invisibili. Queste osservazioni offrono i pezzi mancanti per completare il puzzle della formazione e dell’evoluzione delle galassie nell’universo primordiale”.

Stefano Carniani, ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa
Stefano Carniani, ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa

La scoperta rappresenta solo l’inizio di una nuova fase di indagine. Il JWST sarà ora utilizzato per individuare altri buchi neri dormienti simili, contribuendo a svelare nuovi misteri sull’evoluzione delle strutture cosmiche nell’universo primordiale.Le osservazioni utilizzate in questo lavoro sono state ottenute nell’ambito della collaborazione JADES tra i team di sviluppo degli strumenti Near-Infrared Camera (NIRCam) e Near-Infrared Spectrograph (NIRSpec), con un contributo anche dal team statunitense del Mid-Infrared Instrument (MIRI).

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Un’immagine in tre colori del nucleo galattico attivo e della galassia ospite JADES GN 1146115. L’immagine è stata creata con diversi filtri (rosso F444W, verde F277W e blu F115W) utilizzando gli strumenti dal James Webb Space Telescope NIRCam e NIRSpec in modalità multi-oggetto, come parte del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey). La galassia si trova a un redshift di 6.68, che corrisponde a un’epoca di meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Crediti: I. Juodzbalis et al. / Nature (2024)
Un’immagine in tre colori del nucleo galattico attivo e della galassia ospite JADES GN 1146115. L’immagine è stata creata con diversi filtri (rosso F444W, verde F277W e blu F115W) utilizzando gli strumenti dal James Webb Space Telescope NIRCam e NIRSpec in modalità multi-oggetto, come parte del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey). La galassia si trova a un redshift di 6.68, che corrisponde a un’epoca di meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Crediti: I. Juodzbalis et al. / Nature (2024)

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A dormant, overmassive black hole in the early Universe”, di Ignas Juodžbalis, Roberto Maiolino, William M. Baker, Sandro Tacchella, Jan Scholtz, Francesco D’Eugenio, Raffaella Schneider, Alessandro Trinca, Rosa Valiante, Christa DeCoursey, Mirko Curti, Stefano Carniani, Jacopo Chevallard, Anna de Graaff, Santiago Arribas, Jake S. Bennett, Martin A. Bourne, Andrew J. Bunker, Stephane Charlot, Brian Jiang, Sophie Koudmani, Michele Perna, Brant Robertson, Debora Sijacki, Hannah Ubler, Christina C. Williams, Chris Willott, Joris Witstok, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa INAF, Scuola Normale Superiore Pisa, Ufficio Stampa e Comunicazione Sapienza Università di Roma

Sotto la superficie di Io non c’è un oceano di magma liquido, ma un mantello solido

Un nuovo studio pubblicato su Nature, basato sui dati di gravità raccolti dalla sonda Juno della NASA durante dei sorvoli della luna Io di Giove esclude la presenza di un oceano di magma sotto la sua superficie

Sotto la superficie di Io, il satellite Galileiano più vicino a Giove, non c’è un oceano di magma liquido come si era pensato fino ad oggi, ma un mantello solido. A rivelarlo è uno studio pubblicato su Nature realizzato anche grazie al lavoro di diversi ricercatori della Sapienza Università di Roma e dell’Università di Bologna.

La ricerca, coordinata da Ryan Park del Jet Propulsion Laboratory dalla NASA, ha sfruttato i dati collezionati dalla sonda Juno della NASA durante due recenti sorvoli ravvicinati della luna insieme ai dati storici della missione Galileo, la sonda della NASA che tra il 1995 e il 2003 ha esplorato il sistema di Giove.

“La combinazione dei dati acquisiti da Juno con quelli collezionati dalla sonda Galileo oltre 20 anni fa – spiega Daniele Durante, ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale – ha permesso di migliorare la stima della risposta mareale di Io, che fornisce indicazioni dirette della deformabilità della struttura interna della luna.”

Io è un satellite unico nel sistema di Giove grazie alla sua intensa attività vulcanica, che lo rende l’oggetto geologicamente più attivo del sistema solare. Per decenni si è creduto che l’enorme attrazione gravitazionale di Giove fosse sufficiente a creare un oceano di magma sotto la sua superficie, che alimentasse i suoi vulcani. Le misure di induzione magnetica condotte dalla sonda Galileo avevano infatti suggerito la presenza di un oceano di magma sotto la superficie di questa luna.

Questo scenario è stato però rivisto a seguito delle nuove osservazioni realizzate da Juno, la sonda che dal 2016 sta esplorando Giove e, più recentemente, le sue lune. Juno ha sorvolato per due volte Io a circa 1.500 chilometri di quota, raccogliendo dati del campo gravitazionale della luna molto accurati. I risultati dell’analisi mostrano una risposta gravitazionale della luna alle forze di marea piuttosto modesta.

“La risposta della luna alle forze di marea esercitate da Giove è risultata piuttosto bassa – afferma Luciano Iess, professore presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale – indicazione dell’assenza di un oceano di magma vicino alla superficie e, piuttosto, della presenza di un mantello solido profondo al suo interno”.

Lo studio è stato pubblicato su Nature con il titolo “Io’s tidal response precludes a shallow magma ocean”. Per Sapienza Università di Roma hanno partecipato Daniele Durante e Luciano Iess, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Bologna, Luis Gomez Casajus, Marco Zannoni, Andrea Magnanini e Paolo Tortora. Le attività di ricerca sono state realizzate nell’ambito di un accordo finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana.

Struttura interna di Io. La nuova misura della deformazione mareale suggerisce che la luna non abbia un oceano globale di magma vicino la superficie ma è coerente con la presenza di un mantello più solido (sfumature di verde), con una quantità significativa di materiale fuso (in giallo e arancione) che ricopre un nucleo liquido (in rosso/nero). Illustrazione di Sofia Shen (JPL/Caltech).
Struttura interna di Io. La nuova misura della deformazione mareale suggerisce che la luna non abbia un oceano globale di magma vicino la superficie ma è coerente con la presenza di un mantello più solido (sfumature di verde), con una quantità significativa di materiale fuso (in giallo e arancione) che ricopre un nucleo liquido (in rosso/nero). Illustrazione di Sofia Shen (JPL/Caltech).

Riferimenti bibliografici:

Park, R.S., Jacobson, R.A., Gomez Casajus, L. et al. Io’s tidal response precludes a shallow magma ocean, Nature (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08442-5

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

DOPO DART-LICIACUBE, SU DIDYMOS E DIMORPHOS ANCHE I MASSI PARLANO: DUE STUDI A GUIDA INAF NELL’EDIZIONE SPECIALE DI OGGI DI NATURE COMMUNICATIONS

 Difesa planetaria, detriti spaziali e asteroidi Near-Earth: questo il tema dell’edizione speciale pubblicata oggi da Nature Communications, e nella quale rientra una serie di cinque articoli – due dei quali a guida INAF – che analizzano le caratteristiche della coppia di asteroidi Didymos e Dimorphos, osservati da vicino dagli strumenti della sonda DART prima dell’impatto sul secondo dei due, in un primo esperimento di difesa planetaria realizzato da NASA e ASI.

 immagine di Dimorphos. Il conteggio dei massi e la misura delle loro dimensioni su Dimorphos, e sull’asteroide principale Didymos, ha permesso di comprendere che essi hanno origine da un progenitore comune e che Dimorphos ha ereditato i propri massi dal compagno più grande. Crediti: NASA/Johns Hopkins APL
immagine di Dimorphos. Il conteggio dei massi e la misura delle loro dimensioni su Dimorphos, e sull’asteroide principale Didymos, ha permesso di comprendere che essi hanno origine da un progenitore comune e che Dimorphos ha ereditato i propri massi dal compagno più grande. Crediti: NASA/Johns Hopkins APL

Dopo l’impatto della sonda della NASA DART il 26 settembre 2022 contro Dimorphos, la luna del sistema binario di asteroidi Near-Earth (65803) Didymos, gli occhi degli esperti si sono concentrati sugli effetti dell’esperimento di difesa planetaria. L’obiettivo era testare la possibilità di deviare un corpo vagante come un asteroide nel caso in cui costituisca una minaccia per il nostro pianeta. Eventualità, questa, che dipende anche dalle caratteristiche geologiche del corpo, dalla sua dinamica, e più in generale dalla sua storia. Nature Communications ha pubblicato oggi un’edizione speciale a tema “Difesa planetaria, detriti spaziali e asteroidi Near-Earth” contenente, fra gli altri, cinque articoli che analizzano le caratteristiche e la storia geologica dei due asteroidi Near-Earth di tipo S osservati dalla missione DART-LICIACube, Didymos e Dimorphos. Coautori di tutti, e primi autori di due, Alice Luchetti e Maurizio Pajola dell’INAF di Padova. Agli articoli hanno partecipato anche ulteriori ricercatrici e ricercatori dell’INAF, dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), di IFAC-CNR, del Politecnico di Milano e delle Università di Bologna e Parthenope. I due articoli a guida INAF si focalizzano, rispettivamente, sull’analisi delle fratture presenti nei massi dell’asteroide Dimorphos – causate da shock termici fra il giorno e la notte – e sul processo di formazione dei due asteroidi, tramite l’identificazione e l’analisi dei massi sulla loro superficie.

LICIACube analizza i lunghi pennacchi di Dimorphos

Anamnesi e storia famigliare di Didymos e Dimorphos

Osservare da vicino la superficie di un asteroide e analizzarne la geologia può dire molto sulla sua storia di formazione. Utilizzando le immagini ad alta risoluzione di Didymos e Dimorphos riprese dalla missione della NASA DART pochi istanti prima dello schianto su Dimorphos, Pajola e il suo team hanno identificato tutti i massi visibili sulla superficie dell’asteroide primario Didymos (per un totale di 169) e dell’asteroide secondario Dimorphos (per un totale di 4734), ricavandone le dimensioni. Hanno poi studiato la distribuzione in taglia di questi massi (in gergo scientifico chiamata SFD, dall’inglese Size-Frequency Distribution) contando quanti massi più grandi di una data dimensione ci sono, in vari intervalli di “taglia”, e collegato questa stima con la distribuzione delle taglie in latitudine, longitudine, pendenza superficiale, accelerazione gravitazionale e insolazione.

“Lo studio della distribuzione in taglia dei massi più grandi di 5 metri su Dimorphos, e di quelli più grandi di 22,8 metri su Didymos, ci ha permesso di dire che questi si sono formati a seguito di un singolo evento di frammentazione – un impatto catastrofico – di un asteroide padre”,

spiega Maurizio Pajola, ricercatore all’INAF di Padova e primo autore dello studio. I due corpi sarebbero, secondo i risultati, aggregati di frammenti rocciosi formatisi a seguito della distruzione catastrofica di un unico genitore comune. Scoperta, questa, confermata anche dalle simulazioni di impatti iperveloci svolte in laboratorio, nonché dall’identificazione dei massi più grandi presenti sui due corpi: 16 metri quello su Dimorphos, e 93 metri quello su Didymos, valori che equivalgono a circa un decimo della dimensione dell’asteroide su cui si trovano. Massi così grandi, infatti, non potrebbero essersi formati a seguito di impatti sulle superfici dei due corpi, che sarebbero rimasti disintegrati nello scontro.

a) Mosaico ad alta risoluzione di Dimorphos in cui il riquadro rosa mostra l'area analizzata nell’articolo di Lucchetti et al. (2024); b) Primo piano dell'immagine acquisita 1,818 s prima dell'impatto del DART in cui sono visibili e identificabili le fratture dei massi; c) Fratture dei massi mappate da Lucchetti et al. (2024). Il masso più grande della scena (6,62 m di diametro), Atabaque Saxum, presenta 6 fratture sulla sua superficie. Crediti: NASA/Johns Hopkins APL; 10.1038/s41467-024-50145-y
a) Mosaico ad alta risoluzione di Dimorphos in cui il riquadro rosa mostra l’area analizzata nell’articolo di Lucchetti et al. (2024); b) Primo piano dell’immagine acquisita 1,818 s prima dell’impatto del DART in cui sono visibili e identificabili le fratture dei massi; c) Fratture dei massi mappate da Lucchetti et al. (2024). Il masso più grande della scena (6,62 m di diametro), Atabaque Saxum, presenta 6 fratture sulla sua superficie. Crediti: NASA/Johns Hopkins APL; 10.1038/s41467-024-50145-y

L’eredità di Dimorphos

Due asteroidi, un genitore comune, dunque. Non solo: la distribuzione in taglia dei massi sui due corpi si è rivelata molto simile, cosa che fa pensare che Dimorphos, il più piccolo dei due, in orbita attorno a Didymos, abbia ereditato i propri massi dal compagno. Come? Attraverso il cosiddetto effetto YORP. In pratica, mentre un asteroide ruota su sé stesso, la sua superficie viene illuminata dal Sole in maniera disomogenea, dal momento che la sua geologia è complessa e irregolare. Il risultato è che diverse regioni vengono riscaldate e si raffreddano a velocità differenti, creando una differenza di temperatura che a sua volta può far accelerare o rallentare la rotazione. Un effetto apprezzabile per asteroidi di dimensioni chilometriche o sub-chilometriche, come nel caso di Didymos. L’asteroide attualmente ha un periodo di rotazione di 2,26 ore, ma secondo le simulazioni numeriche basterebbe una lievissima accelerazione che riduca il periodo di rotazione a 2,2596 ore per causare l’eiezione di massi dalla regione equatoriale. È possibile, dunque, secondo i ricercatori, che in passato Didymos ruotasse più velocemente a causa dell’effetto YORP, e che abbia eiettato alcuni massi formando Dimorphos. Scenario, questo, che sarebbe supportato da almeno due evidenze osservative: la prima su Dimorphos, che presenta una distribuzione in taglia simile all’asteroide primario; la seconda su Didymos, che conta una minore densità di massi all’equatore.

 

Fratture termiche

L’immagine acquisita dallo strumento DRACO (Didymos Reconnaissance and Asteroid Camera for Optical navigation) a bordo di DART poco prima dell’impatto, con la sua risoluzione di 5,5 cm sulla superficie di Dimorphos, ha infatti permesso di vedere fratture sulle rocce di Dimorphos con lunghezze variabili da 0,4 a 3 metri, secondo quanto riportato nello studio guidato da Alice Lucchetti, ricercatrice all’INAF di Padova.

“La domanda di partenza è stata: Come si formano le fratture che vediamo sui massi di Dimorphos?” dice Lucchetti. “Abbiamo mappato manualmente le fratture, misurato la loro lunghezza e orientazione, notando che esse sembrano puntare quasi tutte verso la stessa direzione (nordovest-sudest), un dato indicativo dell’azione dello stress termico su queste rocce. Infatti, se queste fossero causate da frane o impatti, punterebbero tutte in direzioni diverse”.

Tramite l’applicazione di un modello termofisico che ha determinato la variazione di temperatura fra giorno e notte sull’asteroide, gli autori sono quindi stati in grado di affermare che il calore del Sole è effettivamente in grado di fratturare le rocce di Dimorphos e, in particolare, che gli stress termici generano la formazione di fratture superficiali che si propagano più rapidamente nella direzione orizzontale al masso stesso rispetto a quella verticale. Ciò avviene in un arco di tempo compreso tra 10mila e 100mila anni, e questa è la prima volta che viene effettuata una simile analisi per un asteroide di tipo S, silicatico.

“Capire come la fatica termica (questo il nome in gergo del fenomeno) agisca su piccoli corpi di diversa composizione è importante non solo per avanzare la conoscenza riguardo la formazione ed evoluzione del Sistema Solare – continua Lucchetti –, ma anche nell’ambito della difesa planetaria. Per predire la risposta e l’efficacia di un impattore cinetico, come la sonda DART su Dimorphos, bisogna conoscere bene il comportamento dei massi presenti sulla superficie dell’asteroide”.

Un fenomeno, questo della fatica termica, che sarebbe avvenuto in situ su Dimorphos dopo la formazione del corpo, e quindi dopo il trasferimento dei massi dall’asteroide Didymos. A dimostrarlo, l’orientazione delle crepe coordinata nei diversi massi: se la frattura termica fosse avvenuta sui massi di Dydimos, poi eiettati su Dimorphos, la direzione delle fratture risulterebbe disordinata e casuale.

“La fatica termica sarebbe quindi in grado di provocare crepe nelle rocce che la subiscono, fino a frantumarle”, conclude Lucchetti.

“Il problema, però – aggiunge Pajola – è che non riusciamo a identificare la polvere causata dal processo di frammentazione. Ciò suggerisce che Dimorphos sia talmente giovane che quelle che stiamo vedendo siano le prima fratture formatisi sui massi dell’asteroide. Capire questo aspetto sarà fra gli obiettivi di studio principali della missione dell’ESA HERA, che entrerà in orbita attorno al sistema binario a fine 2026”.

Riferimenti Bibliografici:

 L’articolo Evidence for multi-fragmentation and mass shedding of boulders on rubble-pile binary asteroid system (65803) Didymos di  M. Pajola, F. Tusberti, A. Lucchetti, O. Barnouin, S. Cambioni, C. M. Ernst, E. Dotto, R. T. Daly, G. Poggiali, M. Hirabayashi, R. Nakano, E. Mazzotta Epifani, N. L. Chabot, V. Della Corte, A. Rivkin, H. Agrusa, Y. Zhang, L. Penasa, R.-L. Ballouz, S. Ivanovski, N. Murdoch, A. Rossi, C. Robin, S. Ieva, J. B. Vincent, F. Ferrari, S. D. Raducan, A. Campo-Bagatin, L. Parro, P. Benavidez, G. Tancredi, Ö. Karatekin, J. M. Trigo-Rodriguez, J. Sunshine, T. Farnham, E. Asphaug, J. D. P. Deshapriya, P. H. A. Hasselmann, J. Beccarelli, S. R. Schwartz, P. Abell, P. Michel, A. Cheng, J. R. Brucato, A. Zinzi, M. Amoroso, S. Pirrotta, G. Impresario, I. Bertini, A. Capannolo, S. Caporali, M. Ceresoli, G. Cremonese, M. Dall’Ora, I. Gai, L. Gomez Casajus, E. Gramigna, R. Lasagni Manghi, M. Lavagna, M. Lombardo, D. Modenini, P. Palumbo, D. Perna, P. Tortora, M. Zannoni e G. Zanotti  è stato pubblicato all’indirizzo https://doi.org/10.1038/s41467-024-50148-9  sulla rivista Nature Communications.

 

L’articolo Fast boulder fracturing by thermal fatigue detected on stony asteroids di A. Lucchetti, S. Cambioni, R. Nakano, O. S. Barnouin, M. Pajola, L. Penasa, F. Tusberti, K. T. Ramesh, E. Dotto, C. M. Ernst, R. T. Daly, E. Mazzotta Epifani, M. Hirabayashi, L. Parro, G. Poggiali, A. Campo Bagatin, R.-L. Ballouz, N. L. Chabot, P. Michel, N. Murdoch, J. B. Vincent, Ö. Karatekin, A. S. Rivkin, J. M. Sunshine, T. Kohout, J.D.P. Deshapriya, P.H.A. Hasselmann, S. Ieva, J. Beccarelli, S. L. Ivanovski, A. Rossi, F. Ferrari, C. Rossi, S. D. Raducan, J. Steckloff, S. Schwartz, J. R. Brucato, M. Dall’Ora, A. Zinzi, A. F. Cheng, M. Amoroso, I. Bertini, A. Capannolo, S. Caporali, M. Ceresoli, G. Cremonese, V. Della Corte, I. Gai, L. Gomez Casajus, E. Gramigna, G. Impresario, R. Lasagni Manghi, M. Lavagna, M. Lombardo, D. Modenini, P. Palumbo, D. Perna, S. Pirrotta, P. Tortora, M. Zannoni e G. Zanotti è stato pubblicato all’indirizzo https://doi.org/10.1038/s41467-024-50145-y sulla rivista Nature Communications.

 

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Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

JWST CATTURA IL QUASAR DEL SISTEMA PJ308–21 E GALASSIE IN RAPIDA CRESCITA NELL’UNIVERSO LONTANO

Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha utilizzato lo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec a bordo del James Webb Space Telescope (JWST di NASA, ESA e CSA) per osservare la drammatica interazione tra un quasar all’interno del sistema PJ308–21 e due galassie satelliti massicce nell’universo lontano. Le osservazioni, realizzate a settembre 2022, hanno rivelato dettagli senza precedenti fornendo nuove informazioni sulla crescita delle galassie nell’universo primordiale. I risultati sono stati riportati in un recente articolo in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics e presentati oggi durante il meeting della Società Astronomica Europea (European Astronomical Society – EAS) a Padova.

Il quasar in questione (già descritto dagli stessi autori in un altro studio pubblicato lo scorso maggio), uno dei primi osservati con il Near Infrared Spectrograph (NIRSpec) quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni (redshift z = 6,2342), ha rivelato dati di una qualità sensazionale: lo strumento ha “catturato” il suo spettro con un’incertezza inferiore all’1% per pixel. La galassia ospite del quasar PJ308–21 mostra un’alta metallicità e condizioni di fotoionizzazione tipiche di un nucleo galattico attivo (AGN), mentre una delle galassie satelliti presenta una bassa metallicità e fotoionizzazione indotta dalla formazione stellare; la seconda galassia satellite è caratterizzata invece da una metallicità più elevata ed è parzialmente fotoionizzata dal quasar. Per metallicità si intende l’abbondanza di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. La scoperta ha permesso di determinare la massa del buco nero supermassiccio al centro del sistema (circa 2 miliardi di masse solari) e di confermare che sia il quasar che le galassie circostanti sono altamente evolute, in termini di massa e di arricchimento metallico, e in costante crescita.

 Mappa delle emissioni di riga dell'idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale ("QSO"). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / INAF / A&A 2024
Mappa delle emissioni di riga dell’idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale (“QSO”). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / INAF / A&A 2024

Roberto Decarli, ricercatore presso l’INAF di Bologna e primo autore dell’articolo, spiega:

“Il nostro studio rivela che sia i buchi neri al centro di quasar ad alto redshift, sia le galassie che li ospitano, attraversano una crescita estremamente efficiente e tumultuosa già nel primo miliardo di anni di storia cosmica, coadiuvata dal ricco ambiente galattico in cui queste sorgenti si formano”.

I dati sono stati ottenuti a settembre 2022 nell’ambito del Programma 1554, uno dei nove progetti a guida italiana del primo ciclo osservativo di JWST. Decarli è alla guida di questo programma che ha come obiettivo osservare proprio la fusione fra la galassia che ospita il quasar (PJ308-21) e due sue galassie satelliti.

Le osservazioni sono state realizzate in modalità di spettroscopia a campo integrale: per ogni pixel dell’immagine si ottiene l’intero spettro della banda ottica nel sistema di riferimento delle sorgenti osservate, che a causa dell’espansione dell’universo viene osservato nell’infrarosso. Ciò consente di studiare vari traccianti del gas (righe di emissione) con un approccio 3D. Grazie a questa tecnica il team (formato da 34 istituti di ricerca e università di tutto il mondo) ha rilevato emissioni spazialmente estese di diverse righe di emissione, che sono state utilizzate per studiare le proprietà del mezzo interstellare ionizzato, comprese la fonte e la durezza del campo di radiazione fotoionizzante, la metallicità, l’oscuramento della polvere, la densità elettronica e la temperatura, e il tasso di formazione stellare. Inoltre, è stata rilevata marginalmente l’emissione di luce stellare continua associata alle sorgenti compagne.

Federica Loiacono, astrofisica, assegnista di ricerca in forze all’INAF di Bologna, commenta entusiasta i risultati:

“Grazie a NIRSpec, possiamo per la prima volta studiare, nel sistema PJ308-21, la banda ottica ricca di preziosi dati diagnostici sulle proprietà del gas vicino al buco nero nella galassia che ospita il quasar e nelle galassie circostanti. Possiamo vedere, per esempio, l’emissione degli atomi di idrogeno e confrontarla con quella degli elementi chimici prodotti dalle stelle, per stabilire quanto sia ricco di metalli il gas nelle galassie. L’esperienza ottenuta nella riduzione e calibrazione di questi dati, alcuni dei primi collezionati con NIRSpec in modalità di spettroscopia a campo integrale, ha assicurato un vantaggio strategico per la comunità italiana rispetto alla gestione di dati simili”.

Loiacono è la referente italiana per la riduzione dei dati NIRSpec al JWST Support Centre dell’INAF, che assiste la comunità astronomica italiana nell’uso dei dati provenienti dal potente osservatorio spaziale.

Loiacono aggiunge: “Grazie alla sensibilità del James Webb Space Telescope nel vicino e medio infrarosso, è stato possibile studiare lo spettro del quasar e delle galassie compagne con una precisione senza precedenti nell’universo lontano. Solo l’eccellente ‘vista’ offerta da JWST è in grado di assicurare queste osservazioni”. Il lavoro ha rappresentato un vero e proprio “rollercoaster emotivo”, continua Decarli, “con la necessità di sviluppare soluzioni innovative per superare le difficoltà iniziali nella riduzione dei dati”.

Decarli conclude sottolineando la straordinaria importanza degli strumenti a bordo del telescopio Webb:

“Fino a un paio di anni fa, dati sull’arricchimento dei metalli (indispensabile per capire l’evoluzione chimica delle galassie) erano quasi al di là della nostra portata, soprattutto a queste distanze. Ora possiamo mappare in dettaglio con poche ore di osservazione anche in galassie osservate quando l’universo era agli albori”.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A quasar-galaxy merger at z ∼ 6.2: rapid host growth via accretion of two massive satellite galaxies“, di Roberto Decarli, Federica Loiacono, Emanuele Paolo Farina, Massimo Dotti, Alessandro Lupi, Romain A. Meyer, Marco Mignoli, Antonio Pensabene, Michael A. Strauss, Bram Venemans, Jinyi Yang, Fabian Walter, Julien Wolf, Eduardo Bañados, Laura Blecha, Sarah Bosman, Chris L. Carilli, Andrea Comastri, Thomas Connor, Tiago Costa, Anna-Christina Eilers, Xiaohui Fan, Roberto Gilli, Hyunsung D. Jun, Weizhe Liu, Madeline A. Marshall, Chiara Mazzucchelli, Marcel Neeleman, Masafusa Onoue, Roderik Overzier, Maria Anne Pudoka, Dominik A. Riechers, Hans-Walter Rix, Jan-Torge Schindler, Benny Trakhtenbrot, Maxime Trebitsch, Marianne Vestergaard, Marta Volonteri, Feige Wang, Huanian Zhang, Siwei Zou, in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

 

Testo, video e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

VLT E ALMA CATTURANO RAFFICHE DI VENTO RELATIVISTICO DAL QUASAR DELLA GALASSIA J0923+0402, IN PIENA ATTIVITÀ

Un team di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dall’Università degli studi di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar lontano ma decisamente attivo (uno dei più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’Universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli esperti hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.

alone quasar della galassia J0923+0402 Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti
Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti

La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi, per la precisione a redshift z = 6.632 (ossia la sua radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni) con al centro un quasar. La luce dei quasar (o quasi-stellar radio source) viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.

“L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso rilevato in epoche remote (circa 50 mila anni luce)”, spiega Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’INAF e l’Università degli studi di Trieste.

I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, ha captato raffiche di materia, in gergo BAL winds (dall’inglese venti con righe di assorbimento larghe o broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array sempre dell’ESO), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del Cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti BAL e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.

La ricercatrice sottolinea: “I BAL sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, osserviamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso. Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il BAL di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento BAL è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di ALMA ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia”.

La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (HSC), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dall’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone (National Astronomical Observatory of Japan – NAOJ), e – con una misura molto più accurata – dalla NIRCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (JWST delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA).

“Questo quasar verrà osservato nuovamente dal JWST in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone”, annuncia Bischetti.

La ricercatrice prosegue spiegando il perché di questa survey: “Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia”. Le misure effettuate “sono di routine nell’Universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z>6”, aggiunge.

“Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’Universo che vediamo oggi”, conclude Bischetti.


 

Per altre informazioni:

L’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin, Yongda Zhu, è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

NANE BIANCHE E PIANETI DISTRUTTI: GLI INDIZI TROVATI DAL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE

Il telescopio spaziale James Webb (JWST) delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA ci regala nuove immagini mozzafiato del nostro vicinato galattico. Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) ha sfruttato le enormi potenzialità di JWST per osservare, per la prima volta all’infrarosso, l’intera sequenza di raffreddamento delle nane bianche in un vicino ammasso globulare, rivelando un eccesso di emissione infrarossa, potenziale indizio di antichi sistemi planetari distrutti. L’articolo è stato pubblicato di recente nella rivista Astronomische Nachrichten (Astronomical Notes).

La maggior parte delle stelle, soprattutto quelle di massa simile al Sole (da 8 fino a 0.07-0.08 masse solari), terminano la loro evoluzione come nane bianche, cosa che alla nostra stella madre accadrà fra circa 5 miliardi di anni. Dopo aver esaurito il “combustibile” stellare (idrogeno ed elio), questi oggetti non sono in grado di innescare reazioni termonucleari e collassano sotto il proprio peso raffreddandosi fino al loro definitivo spegnimento, perdendo lo strato più esterno della loro atmosfera.

I dati utilizzati nella survey, estrapolati dall’archivio ventennale di Hubble e da recenti osservazioni con il telescopio spaziale Webb, hanno permesso al gruppo di ricerca di sondare le proprietà fondamentali delle nane bianche e di cercare indizi della possibile esistenza di antichi sistemi planetari attorno a esse. Luigi Bedin, ricercatore presso l’INAF di Padova e primo autore dello studio, spiega:

«Abbiamo scoperto che le osservazioni in infrarosso delle nane bianche ci hanno permesso di ricavare informazioni preziose sulle proprietà delle loro dense atmosfere di idrogeno. Dai dati si evince, inaspettatamente, un numero sorprendente di nane bianche con un relativo eccesso di emissione infrarossa. I risultati andranno confermati, ma lasciano intendere che queste nane bianche presentano le tracce di antichi sistemi planetari ormai estinti».

Il team di ricerca ha osservato, in diverse nane bianche, anomalie nella distribuzione spettrale dell’energia. Bedin si riferisce agli eccessi di emissioni nella banda di radiazione infrarossa:

«Questi possono essere dovuti a compagni di taglia sub-stellare o a residui di sistemi planetari distrutti durante l’evoluzione della stella da nane a gigante. Cosa accade? Durante la combustione dell’idrogeno dal nucleo, il guscio della stella si gonfia fino a inglobare i pianeti più interni del suo sistema».

Le osservazioni si riferiscono al vicino ammasso globulare Ngc 6397 (noto anche come C 86), un oggetto abbastanza luminoso e visibile anche a occhio nudo in direzione della costellazione dell’Altare, a 7200 anni luce dal Sole. La survey guidata da Bedin e colleghi con il JWST prevede l’osservazione di stelle intrinsecamente deboli e poco luminose, quindi la vicinanza alla sorgente è fondamentale anche se si utilizza lo strumento operativo nell’infrarosso attualmente più potente in orbita. «In questo ammasso abbiamo osservato circa il 20% di nane bianche con questo eccesso infrarosso, mentre nel campo galattico solo poche sorgenti mostrano un tal anomalo alto flusso nell’infrarosso», aggiunge Bedin.

Il gruppo di ricerca ha in programma una seconda campagna osservativa con la camera/spettrografo Miri del James Webb, uno strumento che – osservando nel medio infrarosso – riesce a caratterizzare l’energia emessa dalle nane bianche con eccesso di infrarosso, discriminando fra la presenza di compagni sub-stellari, dischi di sistemi planetari estinti, residui della fase di gigante rossa. «Queste nuove osservazioni che mapperanno lo spettro fra 2 e 20 micron ci permetteranno di risolvere il mistero», conclude il ricercatore.


immagine somma in tre colori del campo studiato con la camera NIRCam al fuoco del JWST. Crediti per l'immagine: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF - L. R. Bedin et al. 2024
Nane bianche e pianeti distrutti: gli indizi trovati da Webb. Immagine somma in tre colori del campo studiato con la camera NIRCam al fuoco del JWST. Crediti per l’immagine: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF – L. R. Bedin et al. 2024

Per altre informazioni:

L’articolo “JWST Imaging of the Closest Globular Clusters — I. Possible Infrared Excess Among White Dwarfs in NGC 6397”, di L. R. Bedin, D. Nardiello, M. Salaris, M. Libralato, P. Bergeron, A. J. Burgasser, D. Apai, M. Griggio, M. Scalco, J. Anderson, R. Gerasimov, A. Bellini, è stato pubblicato sulla rivista Astronomische Nachrichten.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

TOI-5398, IL PIÙ GIOVANE SISTEMA MULTI-PLANETARIO COMPATTO

Il pianeta gigante al suo interno risulta essere il miglior candidato per studi di caratterizzazione atmosferica con il telescopio spaziale James Webb tra tutti i giganti caldi conosciuti.

TOI-5398 b dal sito della NASA: https://exoplanets.nasa.gov/exoplanet-catalog/8661/toi-5398-b/

TOI-5398, una sigla che potrebbe non dirci molto eppure nasconde un record: si tratta del più giovane sistema multi-planetario “compatto”, in cui vi è la compresenza di un piccolo pianeta vicino alla stella assieme a un compagno planetario gigante con periodo orbitale di circa 10 giorni. Questo sistema è solamente il sesto con tale caratteristica compresenza tra i più di 500 sistemi che ospitano pianeti giganti a corto periodo. I dati relativi a questa conferma sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics da un gruppo guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e dall’Università di Padova. Secondo gli autori dell’articolo, questo sistema è praticamente unico nel suo genere, potenzialmente una “pietra miliare” per lo studio e la comprensione dei pianeti giganti a corto periodo.

 Il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) di INAF, un telescopio di 3,58 metri di diametro situato sulla sommità dell'isola di San Miguel de La Palma. Il TNG è il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova - INAF
Il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) di INAF, un telescopio di 3,58 metri di diametro situato sulla sommità dell’isola di San Miguel de La Palma. Il TNG è il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova – INAF

Le misurazioni sono state ottenute con lo spettrografo HARPS-N al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) di INAF alle Canarie (INAF) nell’ambito della collaborazione nazionale GAPS (Global Architecture of Planetary Systems). In questo studio, è stato inoltre fondamentale l’utilizzo di dati spaziali del Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA, e del coordinamento di numerosi ricercatori ed osservatori astronomici sparsi in tutto il mondo.

TOI-5398 è di gran lunga il più giovane tra i cosiddetti sistemi “compatti”: 650 milioni di anni contro i 3-10 miliardi di anni degli altri sistemi. Un infante, si potrebbe dire. Inoltre, il pianeta maggiore nel sistema risulta il miglior candidato per studi di caratterizzazione atmosferica tramite il telescopio spaziale James Webb della NASA tra tutti i giganti caldi conosciuti. Per “giganti caldi” si intende pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale (inglese “warm giants”), da non confondere con gli “hot giants”, che possiedono periodi orbitali sotto i 10 giorni”.

TOI-5398 è costituito da un “sub-Nettuno” caldo (TOI-5398 c) orbitante internamente rispetto al suo compagno di massa simile a Saturno a corto periodo orbitale (TOI-5398 b).

“Tale studio – afferma Valerio Nascimbeni, ricercatore presso l’INAF di Padova – supporta una delle teorie di formazione dei pianeti giganti a corto periodo, la quale vede questi ultimi formarsi nelle regioni esterne del sistema e farsi spazio (in un sistema multi-planetario) tramite migrazioni ‘tranquille’, che prevengono il sovrapponimento delle orbite planetarie e della conseguente distruzione del sistema. Tale teoria risale al 1996, frutto di uno studio teorico guidato dal Prof. Lin dell’University of California, Santa Cruz, ma è da pochissimi anni che abbiamo un riscontro osservativo di simili sistemi (solo 5 su più di 500 sistemi con pianeti giganti a corto periodo mostra tale configurazione/architettura orbitale)”.

Gli altri cinque sistemi planetari con queste caratteristiche, ossia un’origine non violenta e la compresenza di piccoli pianeti assieme al pianeta gigante a corto periodo sono WASP-47, Kepler-730, WASP-132, TOI-1130, e TOI-2000. ovvero pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale (inglese “warm Jupiter”), da non confondere con gli “hot jupiter”, i quali possiedono periodi orbitali < 10 giorni.

TOI-5398, come detto, è solo il sesto sistema in questa ristrettissima cerchia e mostra una caratteristica molto particolare, perchè rispetto agli altri è giovanissimo. Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato INAF, aggiunge:

“La sua formazione, infatti, anziché datare, come gli altri, fra i 3 e 10 miliardi di anni, viene misurata in circa 650 milioni di anni. Questo è l’aspetto eccezionale, perché tale sistema non si trova in una situazione congelata e definitiva come gli altri, ma è appunto giovane e quindi in evoluzione. Può offrire quindi nuove risposte rispetto all’evoluzione dei pianeti e della loro atmosfera”.

“Comprendere il processo di formazione e sviluppo dei pianeti giganti a corto periodo è di estrema importanza anche per la comprensione del Sistema solare, in quanto non esiste un corrispettivo planetario del nostro vicinato planetario. Per comprendere questa mancanza nel nostro sistema e le sue possibili implicazioni – ad esempio sulla presenza della vita – è fondamentale esaminare la storia di formazione di tali pianeti nei sistemi planetari in cui essi sono presenti”, prosegue il ricercatore.

Mantovan analizza gli sviluppi futuri di questa ricerca. “TOI-5398 è un interessante sistema in ottica futura, in quanto entrambi i pianeti del sistema sono candidati ideali per svolgere caratterizzazioni atmosferiche precise, ed anche grazie alla loro giovane età. L’unione di queste due proprietà ed alla presenza di due pianeti con differenti caratteristiche (raggio, massa, ecc), offre la rara opportunità di poter studiare i segni distintivi di differenti storie di formazione planetaria sotto l’influenza della stessa stella, solitamente inaccessibili in sistemi planetari più evoluti e vecchi”.

E conclude: “TOI-5398 potrebbe quindi potenzialmente diventare una pietra miliare per comprendere la formazione di sistemi planetari dove sono presenti giganti a breve periodo orbitale, e potrebbe diventare un punto di riferimento anche all’interno del limitatissimo sottocampione di sistemi ove sono presenti anche piccoli compagni planetari tra il gigante a corto periodo e la stella”.

 Il ricercatore Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo su TOI-5398 e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato INAF. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova - INAF
Il ricercatore Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo su TOI-5398 e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato INAF. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova – INAF


 

Per altre informazioni:

L’articolo “The GAPS programme at TNG XLIX. TOI-5398, the youngest compact multi-planet system composed of an inner sub-Neptune and an outer warm Saturn”, di G. Mantovan et al., è stato pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa  Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF e Università di Padova

GRB 230307A: JWST RIVELA ELEMENTI PESANTI NELL’ESPLOSIONE DI UNA KILONOVA

Il James Webb Space Telescope (JWST) ha svelato che il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, osservato il 7 marzo 2023, ha avuto origine dalla fusione esplosiva di due stelle di neutroni. Il potente evento ha prodotto ed espulso nelle zone circostanti diversi elementi pesanti, tra cui il tellurio. Allo studio, pubblicato su Nature, hanno partecipato diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e di altri istituti di ricerca e atenei italiani.

Un team internazionale di scienziati ha identificato l’origine di un potente lampo di raggi gamma (gamma-ray burst, o GRB) osservato lo scorso marzo: a generarlo è stata una kilonova, ovvero l’esplosione causata dalla fusione tra due stelle di neutroni. La ricerca è basata su osservazioni realizzate con il James Webb Space Telescope (JWST), che ha anche permesso di rilevare l’elemento chimico tellurio nel materiale espulso dalla potente esplosione. Il lampo, denominato GRB 230307A, è il secondo più luminoso mai scoperto in oltre 50 anni di osservazioni. È stato individuato il 7 marzo 2023 dal telescopio spaziale per raggi gamma Fermi, a cui ha fatto seguito il Neil Gehrels Swift Observatory, entrambi della NASA. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

“Il materiale in queste esplosioni è lanciato nello spazio a velocità molto elevate, causando una rapida evoluzione della luminosità e della temperatura del plasma in espansione”, afferma Om Sharan Salafia, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Milano, tra gli autori dello studio. “Con l’espansione, il materiale si raffredda e il picco della sua luce si sposta sempre più verso il rosso, per poi passare all’infrarosso su scale temporali che vanno da giorni a settimane”.

Le kilonove sono esplosioni estremamente rare, il che ne rende difficile l’osservazione. Per molto tempo, si è ritenuto che i GRB brevi, dalla durata inferiore a due secondi, derivassero da questi eventi, mentre i GRB più lunghi fossero associati alla morte esplosiva di una stella massiccia, o supernova. Il caso di GRB 230307A è peculiare: il lampo è durato 200 secondi, come i GRB di lunga durata, eppure le osservazioni di JWST indicano chiaramente che proviene dalla fusione di due stelle di neutroni. Oltre al tellurio, è probabile che nel materiale espulso nella kilonova  siano presenti anche altri elementi pesanti, vicini ad esso sulla tavola periodica, come ad esempio lo iodio, necessario per gran parte della vita sulla Terra.

Bright galaxies and other light sources in various sizes and shapes are scattered across a black swath of space: small points, hazy elliptical-like smudges with halos, and spiral-shaped blobs. The objects vary in colour: white, blue-white, yellow-white, and orange-red. Toward the centre right is a blue-white spiral galaxy seen face-on that is larger than the other light sources in the image. The galaxy is labelled “former home galaxy.” Toward the upper left is a small red point, which has a white circle around it and is labelled “GRB 230307A kilonova.
GRB 230307A è il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, generato da una kilonova: elementi pesanti rilevati nell’esplosione. Immagine del lampo di raggi gamma GRB 230307A e la relativa kilonova (in alto a sinistra) realizzata con la fotocamera NIRCam a bordo del telescopio spaziale Webb. La galassia di colore bluastro in basso a destra è il luogo d’origine delle due stelle di neutroni che, dopo aver viaggiato per circa 120mila anni luce, hanno dato luogo all’esplosione. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI, A. Levan (IMAPP, Warw), A. Pagan (STScI)

La collaborazione di molti telescopi, sia a terra che nello spazio, ha permesso al team di raccogliere una gran quantità di informazioni su questo evento subito dopo il primo rilevamento, aiutando loro a individuare la sorgente nel cielo e a monitorare la sua luminosità nel tempo. Le osservazioni nei raggi gamma, nei raggi X, nell’ottico, nell’infrarosso e in banda radio hanno mostrato che la controparte ottica/infrarossa era debole, evolvendosi rapidamente e passando dal blu al rosso: i tratti distintivi di una kilonova. In particolare, la sensibilità di JWST nell’infrarosso ha aiutato gli scienziati a identificare l’origine delle due stelle di neutroni che hanno prodotto la kilonova: una galassia a spirale a circa 120mila anni luce dal luogo della fusione. I progenitori del poderoso evento erano due stelle massicce che formavano un sistema binario in questa galassia: le esplosioni che le hanno trasformate in stelle di neutroni, tuttavia, hanno espulso il sistema binario dalla galassia. Prima di fondersi e dare luogo alla kilonova, diverse centinaia di milioni di anni più tardi, hanno percorso un tragitto pari al diametro della Via Lattea.

Alla campagna osservativa ha partecipato anche il VST (VLT Survey Telescope), telescopio dell’INAF presso l’Osservatorio di Paranal, in Cile.

“Quando il GRB fu scoperto, non si conosceva ancora la sua controparte ottica, in quanto Swift non lo aveva osservato e quindi non si aveva idea della posizione esatta con precisione di arcosecondi, in modo da attivare il follow-up classico”

spiega il co-autore Luca Izzo, ricercatore presso l’INAF a Napoli e presso il Dark Cosmology Center, Niels Bohr Institute, Università di Copenhagen, in Danimarca.

“Avendo del tempo di osservazione al VST per un mio programma sulle galassie vicine, decisi di pianificare delle osservazioni per la ricerca della controparte nella notte a me riservata, due giorni dopo la scoperta del GRB. Queste osservazioni hanno identificato correttamente la controparte ottica poche ore dopo la prima conferma, ottenuta dalla ULTRACAM sul New Technology Telescope. Questo dimostra il contributo del VST nell’identificazione ottica di sorgenti ad alta energia e nel successivo follow-up e caratterizzazione. Una cosa che faremo sicuramente nel futuro immediato”.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Heavy element production in a compact object merger observed by JWST”, di Andrew Levan, Benjamin P. Gompertz, Om Sharan Salafia, Mattia Bulla, Eric Burns, Kenta Hotokezaka, Luca Izzo, Gavin P. Lamb, Daniele B. Malesani, Samantha R. Oates, Maria Edvige Ravasio, Alicia Rouco Escorial, Benjamin Schneider, Nikhil Sarin, Steve Schulze, Nial R. Tanvir, Kendall Ackley, Gemma Anderson, Gabriel B. Brammer, Lise Christensen, Vikram S. Dhillon, Phil A. Evans, Michael Fausnaugh, Wen-fai Fong, Andrew S. Fruchter, Chris Fryer, Johan P. U. Fynbo, Nicola Gaspari, Kasper E. Heintz, Jens Hjorth, Jamie A. Kennea, Mark R. Kennedy, Tanmoy Laskar, Giorgos Leloudas, Ilya Mandel, Antonio Martin-Carrillo, Brian D. Metzger, Matt Nicholl, Anya Nugent, Jesse T. Palmerio, Giovanna Pugliese, Jillian Rastinejad, Lauren Rhodes, Andrea Rossi, Andrea Saccardi, Stephen J. Smartt, Heloise F. Stevance, Aaron Tohuvavohu, Alexander van der Horst, Susanna D. Vergani, Darach Watson, Thomas Barclay, Kornpob Bhirombhakdi, Elm e Breedt, Alice A. Breeveld, Alexander J. Brown, Sergio Campana, Ashley A. Chrimes, Paolo D’Avanzo, Valerio D’Elia, Massimiliano De Pasquale, Martin J. Dyer, Duncan K. Galloway, James A. Garbutt, Matthew J. Green, Dieter H. Hartmann, Páll Jakobsson, Paul Kerry, Chryssa Kouveliotou, Danial Langeroodi, Emeric Le Floc’h, James K. Leung, Stuart P. Littlefair, James Munday, Paul O’Brien, Steven G. Parsons, Ingrid Pelisoli, David I. Sahman, Ruben Salvaterra, Boris Sbarufatti, Danny Steeghs, Gianpiero Tagliaferri, Christina C. Th one, Antonio de Ugarte Postigo, David Alexander Kann, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)