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GRB 230307A: JWST RIVELA ELEMENTI PESANTI NELL’ESPLOSIONE DI UNA KILONOVA

Il James Webb Space Telescope (JWST) ha svelato che il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, osservato il 7 marzo 2023, ha avuto origine dalla fusione esplosiva di due stelle di neutroni. Il potente evento ha prodotto ed espulso nelle zone circostanti diversi elementi pesanti, tra cui il tellurio. Allo studio, pubblicato su Nature, hanno partecipato diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e di altri istituti di ricerca e atenei italiani.

Un team internazionale di scienziati ha identificato l’origine di un potente lampo di raggi gamma (gamma-ray burst, o GRB) osservato lo scorso marzo: a generarlo è stata una kilonova, ovvero l’esplosione causata dalla fusione tra due stelle di neutroni. La ricerca è basata su osservazioni realizzate con il James Webb Space Telescope (JWST), che ha anche permesso di rilevare l’elemento chimico tellurio nel materiale espulso dalla potente esplosione. Il lampo, denominato GRB 230307A, è il secondo più luminoso mai scoperto in oltre 50 anni di osservazioni. È stato individuato il 7 marzo 2023 dal telescopio spaziale per raggi gamma Fermi, a cui ha fatto seguito il Neil Gehrels Swift Observatory, entrambi della NASA. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

“Il materiale in queste esplosioni è lanciato nello spazio a velocità molto elevate, causando una rapida evoluzione della luminosità e della temperatura del plasma in espansione”, afferma Om Sharan Salafia, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Milano, tra gli autori dello studio. “Con l’espansione, il materiale si raffredda e il picco della sua luce si sposta sempre più verso il rosso, per poi passare all’infrarosso su scale temporali che vanno da giorni a settimane”.

Le kilonove sono esplosioni estremamente rare, il che ne rende difficile l’osservazione. Per molto tempo, si è ritenuto che i GRB brevi, dalla durata inferiore a due secondi, derivassero da questi eventi, mentre i GRB più lunghi fossero associati alla morte esplosiva di una stella massiccia, o supernova. Il caso di GRB 230307A è peculiare: il lampo è durato 200 secondi, come i GRB di lunga durata, eppure le osservazioni di JWST indicano chiaramente che proviene dalla fusione di due stelle di neutroni. Oltre al tellurio, è probabile che nel materiale espulso nella kilonova  siano presenti anche altri elementi pesanti, vicini ad esso sulla tavola periodica, come ad esempio lo iodio, necessario per gran parte della vita sulla Terra.

Bright galaxies and other light sources in various sizes and shapes are scattered across a black swath of space: small points, hazy elliptical-like smudges with halos, and spiral-shaped blobs. The objects vary in colour: white, blue-white, yellow-white, and orange-red. Toward the centre right is a blue-white spiral galaxy seen face-on that is larger than the other light sources in the image. The galaxy is labelled “former home galaxy.” Toward the upper left is a small red point, which has a white circle around it and is labelled “GRB 230307A kilonova.
GRB 230307A è il secondo lampo di raggi gamma più luminoso di sempre, generato da una kilonova: elementi pesanti rilevati nell’esplosione. Immagine del lampo di raggi gamma GRB 230307A e la relativa kilonova (in alto a sinistra) realizzata con la fotocamera NIRCam a bordo del telescopio spaziale Webb. La galassia di colore bluastro in basso a destra è il luogo d’origine delle due stelle di neutroni che, dopo aver viaggiato per circa 120mila anni luce, hanno dato luogo all’esplosione. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI, A. Levan (IMAPP, Warw), A. Pagan (STScI)

La collaborazione di molti telescopi, sia a terra che nello spazio, ha permesso al team di raccogliere una gran quantità di informazioni su questo evento subito dopo il primo rilevamento, aiutando loro a individuare la sorgente nel cielo e a monitorare la sua luminosità nel tempo. Le osservazioni nei raggi gamma, nei raggi X, nell’ottico, nell’infrarosso e in banda radio hanno mostrato che la controparte ottica/infrarossa era debole, evolvendosi rapidamente e passando dal blu al rosso: i tratti distintivi di una kilonova. In particolare, la sensibilità di JWST nell’infrarosso ha aiutato gli scienziati a identificare l’origine delle due stelle di neutroni che hanno prodotto la kilonova: una galassia a spirale a circa 120mila anni luce dal luogo della fusione. I progenitori del poderoso evento erano due stelle massicce che formavano un sistema binario in questa galassia: le esplosioni che le hanno trasformate in stelle di neutroni, tuttavia, hanno espulso il sistema binario dalla galassia. Prima di fondersi e dare luogo alla kilonova, diverse centinaia di milioni di anni più tardi, hanno percorso un tragitto pari al diametro della Via Lattea.

Alla campagna osservativa ha partecipato anche il VST (VLT Survey Telescope), telescopio dell’INAF presso l’Osservatorio di Paranal, in Cile.

“Quando il GRB fu scoperto, non si conosceva ancora la sua controparte ottica, in quanto Swift non lo aveva osservato e quindi non si aveva idea della posizione esatta con precisione di arcosecondi, in modo da attivare il follow-up classico”

spiega il co-autore Luca Izzo, ricercatore presso l’INAF a Napoli e presso il Dark Cosmology Center, Niels Bohr Institute, Università di Copenhagen, in Danimarca.

“Avendo del tempo di osservazione al VST per un mio programma sulle galassie vicine, decisi di pianificare delle osservazioni per la ricerca della controparte nella notte a me riservata, due giorni dopo la scoperta del GRB. Queste osservazioni hanno identificato correttamente la controparte ottica poche ore dopo la prima conferma, ottenuta dalla ULTRACAM sul New Technology Telescope. Questo dimostra il contributo del VST nell’identificazione ottica di sorgenti ad alta energia e nel successivo follow-up e caratterizzazione. Una cosa che faremo sicuramente nel futuro immediato”.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Heavy element production in a compact object merger observed by JWST”, di Andrew Levan, Benjamin P. Gompertz, Om Sharan Salafia, Mattia Bulla, Eric Burns, Kenta Hotokezaka, Luca Izzo, Gavin P. Lamb, Daniele B. Malesani, Samantha R. Oates, Maria Edvige Ravasio, Alicia Rouco Escorial, Benjamin Schneider, Nikhil Sarin, Steve Schulze, Nial R. Tanvir, Kendall Ackley, Gemma Anderson, Gabriel B. Brammer, Lise Christensen, Vikram S. Dhillon, Phil A. Evans, Michael Fausnaugh, Wen-fai Fong, Andrew S. Fruchter, Chris Fryer, Johan P. U. Fynbo, Nicola Gaspari, Kasper E. Heintz, Jens Hjorth, Jamie A. Kennea, Mark R. Kennedy, Tanmoy Laskar, Giorgos Leloudas, Ilya Mandel, Antonio Martin-Carrillo, Brian D. Metzger, Matt Nicholl, Anya Nugent, Jesse T. Palmerio, Giovanna Pugliese, Jillian Rastinejad, Lauren Rhodes, Andrea Rossi, Andrea Saccardi, Stephen J. Smartt, Heloise F. Stevance, Aaron Tohuvavohu, Alexander van der Horst, Susanna D. Vergani, Darach Watson, Thomas Barclay, Kornpob Bhirombhakdi, Elm e Breedt, Alice A. Breeveld, Alexander J. Brown, Sergio Campana, Ashley A. Chrimes, Paolo D’Avanzo, Valerio D’Elia, Massimiliano De Pasquale, Martin J. Dyer, Duncan K. Galloway, James A. Garbutt, Matthew J. Green, Dieter H. Hartmann, Páll Jakobsson, Paul Kerry, Chryssa Kouveliotou, Danial Langeroodi, Emeric Le Floc’h, James K. Leung, Stuart P. Littlefair, James Munday, Paul O’Brien, Steven G. Parsons, Ingrid Pelisoli, David I. Sahman, Ruben Salvaterra, Boris Sbarufatti, Danny Steeghs, Gianpiero Tagliaferri, Christina C. Th one, Antonio de Ugarte Postigo, David Alexander Kann, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GAS CALDO AI RAGGI X PER SPIEGARE LA MASSA BARIONICA MANCANTE NELLE GALASSIE

Un gruppo di ricercatrici e ricercatori guidati dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha sfruttato gli spettri ad alta risoluzione nei raggi X, ottenuti con il satellite ESA XMM-Newton e il Chandra X-ray Observatory della NASA, per rilevare, per la prima volta, la presenza di una grande quantità di gas caldo (un milione di gradi) negli aloni di tre galassie esterne simili alla Via Lattea, a distanze di circa 120 kiloparsec (ovvero 400 mila anni luce) dal centro delle galassie stesse. Questa scoperta è stata pubblicata sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

satellite Chandra X-ray Observatory galassie gas caldo massa barionica
Raffigurazione artistica del satellite Chandra X-ray Observatory. Foto NASA/CXC/NGST, in pubblico dominio

Fabrizio Nicastro, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’INAF di Roma, spiega che

“la presenza del gas in questo stato fisico è stata predetta dalla teoria ma non era mai stato direttamente osservato se non nella nostra Galassia, nella quale però non è possibile distinguere fra gas nel disco della galassia, nel suo alone, o addirittura nel mezzo esterno la galassia e permeante il Gruppo Locale di galassie”.

La scoperta è significativa perché la massa totale che si deriva per questo gas caldo, all’interno del raggio viriale delle galassie è tale da risolvere il problema della massa barionica mancante di queste galassie.

E aggiunge: “Il nostro risultato indica anche che il feedback stellare o nucleare delle galassie non è stato sufficiente a espellere la massa al di fuori dell’influenza gravitazionale delle galassie stesse (oltre il raggio del viriale), ma ha contribuito ad arricchire di metalli il mezzo primordiale che accrescendo forma la galassia stessa e costituisce il carburante per la formazione stellare all’interno di queste, fino ad un valore pari circa al 30% della metallicita’ osservata nel Sole. Questo ha importanti conseguenze per la nostra comprensione del continuo ciclo di barioni da e verso le galassie (quello che comunemente viene detto feedback) e quindi per affinare le predizioni teoriche sulla formazione delle strutture nell’Universo”.

Nicastro sottolinea che “il problema della massa barionica mancante nelle galassie è uno dei problemi astrofisici più importanti, ormai da diversi decenni. La rilevazione di questo gas caldo era stata molto difficile in precedenza, sia a causa di limitazioni strumentali, sia per la difficoltà di mettere in atto strategie osservative adeguate allo scopo. La nostra idea è stata quella di usare degli indicatori della presenza di tale gas caldo negli aloni di galassie esterne, e di utilizzare tutti i dati di archivio esistenti, sia XMM che Chandra, per ‘sommarli’ opportunamente (una procedura denominata stacking) con la speranza di tirare fuori un segnale, dove aspettato”.

E ci sono riusciti: “La strategia ha pagato, e per la prima volta abbiamo rilevato un segnale della presenza dello ione altamente ionizzato dell’ossigeno cui sono rimasti solo due elettroni (OVII) a una distanza di circa 120 kiloparsec dal centro di queste galassie”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “X-Ray Detection of the Galaxy’s Missing Baryons in the Circum-Galactic Medium of L∗ Galaxies”, di Fabrizio Nicastro et al., è stato pubblicato su pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GJ 367 b, UN PIANETA DAL CUORE DI FERRO IN UN SISTEMA EXTRASOLARE

LA SCOPERTA DEI RICERCATORI DI UNITO ARRICCHISCE
IL PUZZLE SULLA FORMAZIONE DEI PIANETI

Insieme agli scienziati del Thüringer Landessternwarte, i ricercatori dell’Ateneo torinese hanno confermato che l’esopianeta GJ 367 b ha una densità altissima, quasi doppia rispetto a quella della Terra. Il team ha anche trovato altri due pianeti che orbitano attorno alla stessa stella.

GJ 367 b
– Illustrazione artistica del sistema planetario attorno alla stella GJ 367, con il pianeta più interno e ultra-denso GJ 367 b, e i due pianeti esterni (GJ 367 c e GJ 367 d) appena scoperti © Elisa Goffo

Negli ultimi decenni, gli astronomi hanno scoperto diverse migliaia di pianeti extrasolari. I pianeti extrasolari orbitano attorno a stelle al di fuori del nostro sistema solare. La nuova frontiera in questo campo di ricerca include lo studio della loro composizione e struttura interna, al fine di comprendere meglio il loro processo di formazione.

Elisa Goffo, dottoranda presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e il Thüringer Landessternwarte (Germania), insieme a un team di ricerca internazionale, ha fatto una scoperta unica, relativamente al pianeta GJ 367 b, che solleva domande interessanti su come nascano i pianeti. È la prima autrice dell’articolo Company for the ultra-high density, ultra-short period sub-Earth GJ 367 b: discovery of two additional low-mass planets at 11.5 and 34 days pubblicato sulla rivista “The Astrophysical Journal Letters”.

La ricercatrice fa parte della collaborazione internazionale KESPRINT che ha confermato come l’esopianeta, che impiega sole 7.7 ore a compiere una rivoluzione attorno alla sua stella, sia anche ultra-denso. La densità di un pianeta viene determinata a partire dalla sua massa e dal suo raggio. Il pianeta GJ 367 b è denominato ultra-denso perché i ricercatori hanno scoperto che la sua densità è di 10,2 grammi per centimetro cubo. Si tratta di una densità quasi doppia rispetto a quella della Terra, il che suggerisce che questo pianeta extrasolare sia costituito quasi interamente di ferro.

Una composizione insolita

Una simile composizione per un pianeta è molto rara e pone diversi interrogativi sulla sua formazione.

Si potrebbe paragonare GJ 367 b a un pianeta simile alla Terra che ha però perso il suo mantello roccioso. Questo potrebbe avere importanti implicazioni sulla sua formazione. Ipotizziamo infatti che il pianeta possa essere stato inizialmente simile alla Terra, con un core denso di ferro circondato da uno spesso mantello ricco di silicati. Un evento catastrofico potrebbe aver stappato il mantello di GJ 367 b, scoprendo il denso core del pianeta. In alternativa GJ 367 b potrebbe essere nato in una regione del disco protoplanetario ricca di ferro“,

spiega Elisa Goffo. Durante l’osservazione di GJ 367 b, il team ha scoperto altri due pianeti di piccola massa che orbitano intorno alla stella GJ 367, rispettivamente in 11,5 e 34 giorni. Questi tre pianeti e la loro stella costituiscono un sistema planetario extrasolare.

GJ 367 b è stato individuato per la prima volta dal Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), un telescopio spaziale della NASA. TESS utilizza il metodo dei transiti per misurare il raggio degli esopianeti – oltre ad altre proprietà. I ricercatori dell’Università di Torino e del Thüringer Landessternwarte hanno utilizzato misure di velocità radiale, ottenute con lo spettrografo HARPS dell’ESO, per determinare con precisione la sua massa e confermare che il pianeta ha una densità molto elevata. Lo spettrografo HARPS è uno strumento ad alta precisione installato presso il telescopio con uno specchio di 3,6 metri di diametro dell’European Southern Observatory (ESO) a La Silla, in Cile.

Il consorzio di ricerca KESPRINT, composto da oltre 40 membri di nove Paesi (Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Italia, Giappone, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti), è specializzato nella conferma e nella caratterizzazione di esopianeti transitanti individuati da diversi telescopi spaziali. Per determinare la densità di GJ 367 b, il team ha ottenuto quasi 300 misure in due anni utilizzando lo spettrografo HARPS, nell’ambito di una campagna osservativa coordinata dal professor Davide Gandolfi, docente del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Grazie a queste numerose osservazioni i ricercatori sono riusciti a misurare la densità con grande precisione.

Grazie all’intensa campagna osservativa con lo spettrografo HARPS abbiamo anche rivelato la presenza di altri due pianeti di piccola massa con periodi orbitali di 11,5 e 34 giorni. Questo riduce il numero di scenari possibili che potrebbero aver portato alla formazione di un pianeta così denso“, afferma Davide Gandolfi. “Mentre GJ 367 b potrebbe essersi formato in un ambiente ricco di ferro, non escludiamo uno scenario di formazione che coinvolga eventi violenti e catastrofici come la collisione tra pianeti“.

Artie Hatzes, direttore del Thüringer Landessternwarte, sottolinea l’importanza di questa scoperta: “GJ 367 b è un caso estremo. Prima di poter sviluppare valide teorie sulla sua formazione abbiamo dovuto misurare con elevata precisione la sua massa e il suo raggio. Ci aspettiamo che un sistema planetario sia composto da diversi pianeti, quindi era importante cercare e trovare altri pianeti in orbita nel sistema – studiare cioè la sua architettura“.

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SCHEDA TECNICA

ALLA SCOPERTA DI GJ 367 b

ULTERIORI INFORMAZIONI

KESPRINT. Il consorzio KESPRINT si occupa della conferma e della caratterizzazione di esopianeti transitanti individuati da missioni spaziali (ad esempio Kepler, K2, TESS) e, in particolare, della caratterizzazione dei pianeti più piccoli. È un team internazionale che include ricercatori del Dipartimento di Fisica, Università di Torino (Italia), del Thüringer Landessternwarte Tautenburg (Germania), dell’Institute of Planetary Research, German Aerospace Center (Germania), del Technische Universität Berlin (Germania), del Rheinisches Institut für Umweltforschung an der Universität zu Köln (Germania), dell’Astronomical Institute of the Czech Academy of Sciences (Repubblica Ceca), del Chalmers University of Technology (Svezia), Instituto de Astrofísica de Canarias (Spagna), del Mullard Space Science Laboratory, University College London (Regno Unito), dell’University of Oxford (Regno Unito), del Stellar Astrophysics Centre, Department of Physics and Astronomy, Aarhus University (Danimarca), dell’Astronomy Department and Van Vleck Observatory, Wesleyan University (USA), del McDonald Observatory, The University of Texas at Austin (USA), del The University of Tokyo (Giappone), dell’Astrobiology Center, National Institute of Natural Sciences (Giappone).

La nomenclatura del pianeta GJ 367 b. Solitamente i pianeti prendono il nome dalla stella attorno a cui orbitano. I pianeti che orbitano la stella GJ 367 sono stati chiamati usando il nome di questa seguito dalle lettere minuscole b, c, d, etc, seguendo l’ordine di scoperta. Tuttavia, al pianeta GJ 367 b e alla sua stella GJ 367 sono stati assegnati dei nomi particolari nell’ambito dell’iniziativa “NameExoWorlds” del 2022 coordinata dall’Unione Astronomica Internazionale. Il pianeta GJ 367 b si chiama Tahay e la sua stella Añañuca, dal nome di fiori selvatici cileni.

Tra le sue tante peculiarità, GJ 367 b si distingue da altri pianeti per il suo periodo orbitale estremamente breve di 7,7 ore. Un anno su questo pianeta dura solo 7,7 ore! La sua massa è pari al 60% di quella della Terra. Il suo raggio è pari al 70% di quello terrestre. Pertanto è più piccolo del nostro pianeta Terra e meno massiccio.

A causa della sua vicinanza alla stella, si stima che la superficie del pianeta rivolta a questa abbia una temperatura di quasi 1.100 gradi Celsius. La stella GJ 367 (Añañuca) si trova a circa 31 anni luce dalla Terra. Questo vuol dire che la luce della stella impiega 31 anni per raggiungere la Terra.

Come funziona il metodo dei transiti: Il telescopio TESS della NASA utilizza il metodo dei transiti per cercare pianeti intorno a stelle diverse dal Sole. Un transito avviene quando un pianeta si muove tra la sua stella e noi. Ogni volta che passa davanti alla sua stella, blocca una piccola parte della luce di questa. Il metodo dei transiti misura questa variazione di luce, da cui si ricavano il periodo e l’inclinazione orbitale, il raggio e altri parametri del pianeta.

Come funziona il metodo delle velocità radiali: Il team di KESPRINT osserva gli esopianeti utilizzando il metodo delle velocità radiali. Questo metodo rivela l’esistenza di un pianeta attorno alla sua stella sfruttando l’effetto Doppler. Nell’immaginario collettivo si pensa che i pianeti orbitino attorno alle loro stelle, ma non è del tutto vero! I pianeti e le stelle orbitano attorno al loro comune centro di massa. A causa del moto orbitale attorno a questo, la luce che riceviamo dalle stelle diventa “più blu” o “più rossa” a seconda che queste si avvicinino o si allontanino da noi. Combinato con il metodo dei transiti, il metodo delle velocità radiali consente di determinare la massa del pianeta.

Informazioni sul Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Da quasi 10 anni il gruppo di esopianeti del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino si occupa dello studio e della caratterizzazione di esopianeti transitanti, combinando dati acquisiti con telescopi spaziali e spettrografi di elevata precisione. Il gruppo di Torino ha coordinato la campagna di osservazione di GJ 367 condotta con lo spettrografo HARPS.

 

Testi e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

L’ESOPIANETA TOI-1853b, IL NETTUNIANO SUPER-MASSICIO, UNA SCOPERTA CHE PORTA PIÙ DOMANDE CHE RISPOSTE

Scoperto da un team di scienziati internazionale guidato dall’Università di Roma Tor Vergata e da INAF un esopianeta dalle caratteristiche straordinarie – individuato grazie al satellite TESS della NASA e caratterizzato con il Telescopio Nazionale Galileo – le cui proprietà fisiche mettono in crisi le teorie convenzionali di formazione ed evoluzione planetarie. La ricerca pubblicata oggi su Nature.

Roma, 30 agosto 2023 – Si chiama TOI-1853b ed è estremamente peculiare: ogni 30 ore compie un giro completo intorno alla sua stella (la Terra impiega un anno per compiere un giro completo intorno al Sole), ha un raggio comparabile con quello di Nettuno (3,5 raggi terrestri, da cui il nome) ma una massa di circa quattro volte più grande (73 masse terrestri). Ciò gli conferisce il primato della densità più elevata fra gli esopianeti nettuniani noti ad oggi (circa 10 g/cm3, il doppio della densità della Terra). Distante 545 anni luce da noi, TOI-1853b si trova nella costellazione di Boote e la sua scoperta, pubblicata oggi su Nature, è stata realizzata da un team internazionale di ricercatori, guidato da Luca Naponiello, 31 anni, dottorando in Astrofisica all’università di Roma Tor Vergata e primo autore del lavoro. Diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) hanno dato un contributo di fondamentale importanza allo studio.

Illustrazione artistica dell'esopianeta TOI-1853b. Crediti: L. Naponiello
Illustrazione artistica dell’esopianeta TOI-1853b. Crediti: Luca Naponiello

TOI-1853b si trova nel cosiddetto ‘deserto dei Nettuniani’, una regione vicina alle stelle in cui non si trovano pianeti delle dimensioni di Nettuno: ricevendo una forte irradiazione dalla stella, questi  pianeti non possono trattenere le loro atmosfere gassose che evaporano, lasciando così esposto un nucleo solido di dimensioni molto inferiori a quelle di Nettuno.

“In base alle teorie di formazione ed evoluzione planetaria, non ci si aspettava che potesse esistere un pianeta simile e così vicino alla sua stella”, commenta Naponiello. “È un pianeta con densità troppo elevata per essere un classico pianeta di tipo nettuniano e, di conseguenza, deve essere estremamente ricco di elementi pesanti”. La sua presenza nel ‘deserto dei Nettuniani’ è, dunque, un ulteriore mistero da chiarire.

Non si conosce esattamente la sua composizione. Naponiello aggiunge:

“Ci aspettiamo che TOI-1853b sia prevalentemente roccioso e circondato da un piccolo inviluppo gassoso di idrogeno ed elio che costituisce al più l’1% della massa del pianeta. Oppure, un’altra ipotesi molto affascinante è che possa essere composto per metà da rocce e per metà da ghiaccio di acqua. Data l’elevata temperatura del pianeta (circa 1500 gradi Kelvin), in questo secondo caso TOI-1853b potrebbe avere un’atmosfera ricca di vapore acqueo”.

“Anche la sua origine è un mistero dal momento che nessuno dei modelli teorici di formazione planetaria prevede che possa esistere un pianeta con tali caratteristiche”, dice Luigi Mancini, professore presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e secondo autore del lavoro. “Tuttavia, simulazioni numeriche che abbiamo condotto in scenari estremi ci suggeriscono che la sua origine possa essere dovuta a scontri fra protopianeti massicci nel disco proto-stellare originario”. “Tali scontri”, continua Naponiello, “potrebbero aver rimosso quasi tutta l’atmosfera del pianeta, il che ne spiegherebbe le dimensioni ridotte e la grande densità, come se fosse rimasto solo il nucleo nudo del pianeta”.

In alternativa allo scenario delle collisioni planetarie, secondo i ricercatori il pianeta potrebbe essere stato inizialmente un gigante gassoso come Giove o più massiccio, e avrebbe assunto un’orbita molto ellittica in seguito a instabilità dinamiche dovute ad interazioni gravitazionali con altri pianeti. Questo lo avrebbe portato a compiere dei passaggi molto ravvicinati alla sua stella, che gli avrebbero fatto perdere i suoi strati atmosferici esterni e avrebbero, allo stesso tempo, circolarizzato e stabilizzato la sua orbita alla distanza attuale dalla sua stella.

“Al momento, non riusciamo a distinguere quale dei due scenari di formazione sia quello più plausibile, ma continueremo ad osservare questo pianeta per capirlo. Non possiamo neanche escludere che studi teorici successivi, a partire da questa eccezionale scoperta, possano portare a nuovi modelli di formazione per i pianeti nettuniani molto massicci”, commenta Aldo Bonomo, ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo.

TOI-1853b è stato inizialmente identificato nel 2020 come candidato planetario dal satellite della NASA TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) con il metodo dei transiti, ovvero osservando le diminuzioni di luce periodiche della sua stella prodotte dal passaggio del pianeta davanti ad essa. La conferma della natura planetaria di TOI-1853b e la misura della sua massa e densità sono state possibili grazie ad osservazioni spettroscopiche di velocità radiale ottenute dal team con lo spettrografo HARPS-N (High Accuracy Radial Velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere) al Telescopio Nazionale Galileo (TNG), che si trova sull’isola di La Palma nelle Canarie. Tali osservazioni hanno permesso di rivelare e caratterizzare con elevata precisione il segnale gravitazionale del pianeta sul moto della sua stella.

“HARPS-N è ormai operativo al TNG da più di 10 anni (ha ottenuto la prima luce a marzo del 2012). È uno dei pochi strumenti di punta a disposizione della comunità astronomica per misurare con alta precisione le masse e le densità dei pianeti extrasolari, in certi casi anche con dimensioni della Terra”, conclude Alessandro Sozzetti, primo ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo. “Come in questo caso, nuove scoperte e misure portano spesso più domande che risposte”.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “A super-massive Neptune-sized planet”, di Luca Naponiello, Luigi Mancini, Alessandro Sozzetti, Aldo S. Bonomo, Alessandro Morbidelli, Jingyao Dou, Li Zeng, Zoe M. Leinhardt, Katia Biazzo, Patricio E. Cubillos, Matteo Pinamonti, Daniele Locci, Antonio Maggio, Mario Damasso, Antonino F. Lanza, Jack J. Lissauer, Karen A. Collins, Philip J. Carter, Eric L. N. Jensen, Andrea Bignamini, Walter Boschin, Luke G. Bouma, David R. Ciardi, Rosario Cosentino, Silvano Desidera, Xavier Dumusque, Aldo F. M. Fiorenzano, Akihiko Fukui, Paolo Giacobbe, Crystal L. Gnilka, Adriano Ghedina, Gloria Guilluy, Avet Harutyunyan, Steve B. Howell, Jon M. Jenkins, Michael B. Lund, John F. Kielkopf, Katie V. Lester, Luca Malavolta, Andrew W. Mann, Rachel A. Matson, Elisabeth C. Matthews, Domenico Nardiello, Norio Narita, Emanuele Pace, Isabella Pagano, Enric Palle, Marco Pedani, Sara Seager, Joshua E. Schlieder, Richard P. Schwarz, Avi Shporer, Joseph D. Twicken, Joshua N. Winn, Carl Ziegler e Tiziano Zingales, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa di Ateneo Università di Roma Tor Vergata e dall’Ufficio Stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Rilevato gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nel mezzo interstellare della galassia che ospita il quasar Pōniuā‘ena

Osservato per la prima volta gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nella galassia che ospita un buco nero supermassiccio in un’epoca remota della storia del cosmo, quando l’Universo aveva solo settecento milioni di anni. La scoperta, realizzata da un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è stata possibile grazie all’osservatorio NOEMA sulle Alpi francesi.

Le 12 antenne dell’osservatorio NOEMA, sulle Alpi francesi.
Crediti: IRAM, J.Boissier

Come si influenzano a vicenda la crescita di un buco nero supermassiccio e quella della galassia che lo ospita? Che impatto hanno questi buchi neri sulle primissime fasi evolutive delle galassie? Un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) si è posto questi quesiti, tra i più spinosi dell’astrofisica contemporanea, e per affrontarli ha osservato uno dei tre quasar luminosi più distanti noti, la cui luce è partita circa tredici miliardi di anni fa, quando l’universo aveva un’età di appena settecento milioni di anni.

Illustrazione del quasar Pōniuāʻena.
Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/P. Marenfeld

I quasar sono nuclei estremamente brillanti di galassie attive, la cui enorme luminosità deriva dall’intensa attività del buco nero supermassiccio nascosto nel cuore della galassia. Il quasar scelto dal team si chiama Pōniuā‘ena, che in lingua hawaiana “evoca l’invisibile fonte rotante della creazione, circondata da brillantezza”, ed è alimentato da un buco nero la cui massa è pari a un miliardo e mezzo di volte quella del Sole. La galassia che lo ospita si trova nel mezzo dell’epoca della reionizzazione, quel periodo della storia cosmica, verificatosi alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, durante il quale l’Universo è diventato trasparente alla radiazione emessa da stelle e galassie, così che la loro luce può raggiungerci oggi. Quasar come questo si sono formati molto presto nella sequenza temporale del cosmo, trovandosi in ambienti estremi caratterizzati dall’accumulo di enormi quantità di gas e polvere, ma le ragioni di una comparsa così rapida sono ancora uno dei misteri più grandi nell’astrofisica extragalattica.

gas molecolare freddo quasar Pōniuā‘ena
Mappa dell’emissione di gas molecolare (monossido di carbonio) da parte del quasar Poniua‘ena, realizzata dall’osservatorio NOEMA.
Crediti: IRAM/NOEMA/C. Feruglio (INAF)

Osservando il quasar Pōniuā‘ena con il Northern Extended Millimeter Array (NOEMA), il più potente radiotelescopio del suo genere nell’emisfero nord, il team ha rilevato gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nel mezzo interstellare della galassia che ospita il quasar. Si tratta di un rilevamento da record: non era mai stato osservato gas molecolare freddo a epoche così antiche nella storia dell’Universo. I risultati sono stati pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.

gas molecolare freddo quasar Pōniuā‘ena
Mappa dell’emissione di gas molecolare (monossido di carbonio) da parte del quasar Poniua‘ena, realizzata dall’osservatorio NOEMA.
Crediti: IRAM/NOEMA/C. Feruglio (INAF)

Si ritiene che il gas molecolare freddo sia uno degli ingredienti chiave per una efficiente formazione stellare. Per questo, gli astronomi ritengono che il gas molecolare fosse presente già nell’Universo primordiale, anche prima che le stelle si formassero in grandi quantità. Di conseguenza, la scoperta del monossido di carbonio nel quasar Pōniuā’ena rappresenta una nuova pietra miliare per comprendere la formazione delle primissime molecole nell’Universo.

“È la prima volta che misuriamo la riserva di gas molecolare freddo e polvere nell’Universo primordiale, appena qualche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang”, spiega Chiara Feruglio, ricercatrice INAF a Trieste e prima autrice dello studio. “Troviamo che le galassie ospiti di quasar nell’Universo antico hanno già la capacità di accumulare una massa di gas e polvere molto elevata: circa venti miliardi di masse solari, comparabile con quanto osservato in epoche cosmiche successive. È interessante notare che, nonostante il breve tempo cosmico intercorso dal Big Bang all’epoca in cui osserviamo il quasar Pōniuā‘ena, le quantità relative di gas freddo e polvere fredda è già molto simile al valore misurato nella nostra galassia, la Via Lattea, e altre galassie che popolano l’Universo odierno”.

“Sappiamo che questo quasar ospita un buco nero molto massiccio, che deve essersi formato o da una marcata concentrazione primordiale di massa oppure tramite accrescimento di gas a un tasso molto elevato su concentrazioni di massa più piccole” nota la co-autrice Francesca Civano, Chief Scientist presso il Physics of the Cosmos Program Office del NASA Goddard Space Flight Center a Greenland nel Maryland, Stati Uniti. “Le osservazioni erano state programmate per studiare solamente la componente della polvere, non ci aspettavamo di rilevare anche una grande riserva di gas freddo, anche perché, per gli altri due quasar noti a distanze così elevate, il gas freddo non è stato ancora individuato. Invece con sorpresa abbiamo trovato due righe molto forti, che indicano una massiccia riserva di gas freddo e denso”.

“Solo la notevole sensibilità recentemente raggiunta da NOEMA, unita alla sua ampia larghezza di banda di frequenza, ha consentito la scoperta del monossido di carbonio a Pōniuā’ena” aggiunge Jan Martin Winters, astronomo dell’Institut de radioastronomie millimétrique (IRAM) in Francia e co-autore dello studio. “La potenza recentemente acquisita da NOEMA mantiene ora la promessa di rilevare il gas molecolare freddo in molte più sorgenti che ospitano quasar in queste epoche cosmiche primordiali. Tali rilevazioni permetterebbero di far luce anche sulla produzione di elementi pesanti nelle primissime fasi dell’Universo”.

L’idrogeno molecolare è di fondamentale importanza in quanto è il costituente base da cui nascono le stelle, e spesso viene invocato come il “serbatoio” della formazione stellare. Sfortunatamente, l’idrogeno molecolare non può essere osservato di per sé, ma si può utilizzare una relazione empirica tra la massa del monossido di carbonio e la massa dell’idrogeno molecolare per ricavare la quantità di idrogeno molecolare dalla quantità misurata di monossido di carbonio. L’osservazione del monossido di carbonio nel quasar Pōniuā’ena ha quindi permesso al team di ottenere una prima stima della densità cosmica di idrogeno molecolare. La stima di questo parametro fornisce importanti informazioni sulla chimica primordiale, svelando nuovi dettagli su come si sono formate le prime e più semplici molecole dell’Universo. Queste stime erano finora limitate a epoche cosmiche molto successive, a partire da circa un miliardo di anni dopo il Big Bang. “La densità cosmica di idrogeno molecolare stimata grazie alle osservazioni del quasar Pōniuā‘ena concorda con quanto predetto dai più recenti modelli di formazione ed evoluzione di gas freddo nelle prime fasi dell’Universo e dalle simulazioni cosmologiche”, ricorda il ricercatore INAF Umberto Maio, co-autore dello studio. Questo risultato indica che i modelli teorici sono sulla buona strada per spiegare le proprietà fondamentali dell’Universo primordiale.

Conclude Luca Zappacosta dell’INAF, co-autore della ricerca e a capo della collaborazione scientifica HYPERION: “Pōniuā‘ena fa parte di HYPERION, un campione dei quasar primordiali luminosi, specificamente selezionati per le ‘abitudini alimentari’ estreme dei loro buchi neri massicci. Studiando i quasar di HYPERION miriamo a comprendere la natura della comparsa così precoce di questi oggetti sorprendenti e a caratterizzare l’evoluzione simultanea di un buco nero e della sua galassia ospite. In questo contesto, questo rilevamento da record è cruciale in quanto pone le basi per scoprire il ruolo del gas molecolare freddo accumulato nei primi quasar in formazione e le avide abitudini alimentari dei buchi neri”.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo HYPERION: First constraints on dense molecular gas at z=7.5149 from the quasar Pōniuā‘ena, di Chiara Feruglio, Umberto Maio, Roberta Tripodi, Jan Martin Winters, Luca Zappacosta, Manuela Bischetti, Francesca Civano, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Fabrizio Fiore, Simona Gallerani, Michele Ginolfi, Roberto Maiolino, Enrico Piconcelli, Rosa Valiante, Maria Vittoria Zanchettin, è stato pubblicato online sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

IL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE TROVA ACQUA NEL SISTEMA PLANETARIO IN FORMAZIONE DELLA STELLA PDS 70

Il James Webb Space Telescope (JWST) stupisce ancora e si conferma l’osservatorio spaziale più potente di cui dispone la comunità scientifica al momento. Utilizzando il telescopio di NASA ed ESA, la collaborazione MINDS (MIRI mid-INfrared Disk Survey), un team di ricerca guidato dall’Istituto Max Planck per l’Astronomia e a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto acqua nella regione interna di un disco di gas e polvere attorno alla giovane stella PDS 70, a circa 370 anni luce di distanza da noi. Gli astronomi si aspettano che dei pianeti rocciosi – quindi di tipo terrestre – si stiano formando in quella zona. Come descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, si tratta del primo rilevamento di questo tipo in un disco di gas e polveri che ospita già almeno altri due pianeti.

Dall’analisi dei dati raccolti, risulta che eventuali pianeti rocciosi nati nel disco interno beneficerebbero di una significativa disponibilità d’acqua, migliorando le possibilità di sviluppare condizioni favorevoli alla vita. I ricercatori riescono quindi a provare che esiste un meccanismo che fornisce acqua a pianeti potenzialmente abitabili già durante la loro formazione.

Sulla Terra, l’acqua è alla base della vita come la conosciamo. Lo scenario attualmente più accreditato suggerisce che l’acqua sia arrivata sul nostro pianeta a seguito dei violenti impatti con asteroidi e comete che bombardarono la superficie del giovane pianeta. Ora, gli esperti ritengono però che l’acqua potrebbe essere disponibile sin dalla nascita di questi pianeti.

Rappresentazione artistica del disco intorno a PDS 70 acqua
Il James Webb Space Telescope trova acqua nel sistema planetario in formazione della stella PDS 70, lo studio è pubblicato su Nature: rappresentazione artistica del disco intorno a PDS70. Le osservazioni con JWST hanno permesso di scoprire acqua nelle regioni interne del disco, dove normalmente si formano pianeti di tipo terrestre. Due giganti gassosi, osservati in precedenza, hanno scavato un ampio spazio anulare nel disco di gas e polvere. Crediti: Istituto Max Planck per l’Astronomia

Alessio Caratti o Garatti, ricercatore dell’INAF di Napoli e co-autore dello studio, commenta:

“La scoperta di acqua intorno a PDS 70, una stella ancora in formazione e un pò meno massiccia del nostro Sole, ha un’importanza molteplice. Prima di tutto perché PDS 70 è l’unica stella giovane in cui sono stati osservati direttamente due pianeti in formazione (probabilmente dei giganti gassosi) posizionati nelle regioni esterne del disco. Quindi ci aspettiamo che ce ne possano essere altri di tipo roccioso in formazione nelle regioni più interne e non ancora osservati”. E aggiunge: “Il fatto più importante è che l’acqua osservata è situata proprio in questa regione interna, quindi ora sappiamo che possibili pianeti in formazione hanno una riserva d’acqua da cui possono attingere”.

Le osservazioni sono state effettuate sfruttando lo strumento MIRI (Mid-InfraRed Instrument) a bordo del James Webb. Secondo l’analisi dei dati, l’acqua è sotto forma di vapore caldo, compatibile  con una temperatura di circa 330 gradi Celsius (600 kelvin).

PDS 70 è il primo disco relativamente “anziano” – dall’età stimata di circa 5,4 milioni di anni – in cui gli astronomi abbiano trovato l’acqua. Nel corso del tempo, il contenuto di gas e polvere dei dischi che formano i pianeti diminuisce. Poiché studi precedenti non erano riusciti a rilevare l’acqua nelle regioni centrali di dischi simili, gli astronomi hanno sempre sospettato che potesse non sopravvivere alla radiazione stellare, portando così i pianeti rocciosi a formarsi in ambienti asciutti e aridi. Le osservazioni di MIRI confermano, però, che dopotutto i perimetri interni dei dischi privi di polvere potrebbero non essere così asciutti. In tal caso, molti pianeti terrestri che si formano in quelle zone potrebbero già nascere con un ingrediente chiave per garantirne l’abitabilità.

Di pianeti rocciosi nel disco di PDS 70 non vi è traccia al momento,  poiché sarebbero troppo deboli e vicini alla stella per essere osservati direttamente con gli attuali strumenti a disposizione. PDS 70 b e c sono gli unici due pianeti, gassosi, all’interno di questo sistema planetario. I due oggetti hanno accumulato polvere e gas orbitando attorno alla loro stella ospite, creando un ampio spazio anulare quasi privo di qualsiasi materiale rilevabile.

Ma da dove viene questo vapore acqueo? L’acqua trovata all’interno del disco potrebbe essere un residuo di una nebulosa inizialmente ricca di questa molecola. Un’altra fonte potrebbe essere polvere interstellare ricca di acqua e gas che entrano dai bordi esterni del disco di PDS 70. In determinate circostanze, l’ossigeno e l’idrogeno gassoso possono combinarsi e formare vapore acqueo.

“La verità sta probabilmente in una combinazione di tutte queste opzioni”, afferma Giulia Perotti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’istituto Max Planck per l’Astronomia ad Heidelberg, in Germania. “Tuttavia, è probabile che un meccanismo svolga un ruolo decisivo nel sostenere il serbatoio d’acqua del disco PDS 70. Il nostro compito in futuro sarà scoprire qual è”.

“JWST sta rivoluzionando la nostra comprensione della formazione planetaria, rivelandoci la diversità e la ricchezza della chimica dei dischi, ovvero dell’habitat in cui i pianeti si formano”, conclude Alessio Caratti o Garatti. “Il progetto JWST MIRI mid-Infrared Disk Survey (MINDS) ha proprio lo scopo di studiare questo habitat in un numero significativo di stelle di tipo solare in formazione”.

 

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Water in the terrestrial planet-forming zone of the PDS 70 disk”, di G. Perotti, V. Christiaens, T. Henning, B. Tabone, L. B. F. M. Waters, I. Kamp, G. Olofsson, S. L. Grant, D. Gasman, J. Bouwman, M. Samland, R. Franceschi, E. F. van Dishoeck, K. Schwarz, M. Güdel, P.-O. Lagage, T. P. Ray, B. Vandenbussche, A. Abergel, O. Absil, A. M. Arabhavi, I. Argyriou, D. Barrado, A. Boccaletti, A. Caratti o Garatti, V. Geers, A. M. Glauser, K. Justannont, F. Lahuis, M. Mueller, C. Nehmé, E. Pantin, S. Scheithauer, C. Waelkens, R. Guadarrama, H. Jang, J. Kanwar, M. Morales-Calderón, N. Pawellek, D. Rodgers-Lee, J. Schreiber, L. Colina, T. R. Greve, G. Östlin e G. Wright, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GRB220101A, IL GRB PIÙ BRILLANTE IN OTTICO RILEVATO FINORA: UN CASO ESTREMO

Un team di ricerca a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) è riuscito a osservare le primissime fasi di un lampo di raggi gamma (GRB, dall’inglese gamma-ray burst) risultato essere il più luminoso nelle bande ottiche rilevato finora. I GRB sono fenomeni transienti esplosivi al centro di continue rivoluzioni scientifiche e INAF è impegnato sia sul piano osservativo-interpretativo che con la partecipazione a grandi missioni dallo spazio per rilevarli e studiarli. I lampi di raggi gamma sono eventi tra i più violenti dell’universo, a distanza di miliardi di anni luce da noi. La loro energia viene trasferita in potentissimi getti collimati che emettono la radiazione che osserviamo. Nello specifico, i ricercatori hanno studiato GRB220101A, il cui segnale – come dice la sigla – è stato rilevato per la prima volta nel capodanno del 2022.

Gli esperti, guidati dal Purple Mountain Observatory (Cina), hanno utilizzato un nuovo metodo sviluppato per ricavare una fotometria affidabile da fonti “catturati” dall’Ultraviolet and Optical Telescope (UVOT), uno dei tre strumenti a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory, osservatorio spaziale della NASA con una importante partecipazione italiana dell’ASI e dell’INAF.

Stefano Covino, ricercatore presso l’INAF di Milano e unico italiano tra gli autori dello studio, spiega che

“questa scoperta rivela le diverse origini dei brillamenti ultravioletti/ottici estremamente energetici e dimostra la necessità dell’osservazione ad alta risoluzione temporale nei primi istanti di evoluzione del fenomeno”. E aggiunge: “Ogni evento GRB mostra dei comportamenti originali, ma in generale troviamo che anche i casi più estremi rientrano comunque nella stessa fenomenologia. GRB220101A non fa eccezione. Non si tratta quindi di una nuova categoria di GRB ma plausibilmente di un caso estremo fra quelli già noti”.

Perché allora è un caso “monstre”? Covino osserva che

“il motivo è probabilmente duplice. Da una parte semplicemente accumulando più osservazioni si possono identificare casi più rari che normalmente ci sarebbe bassa probabilità di poter osservare. E in aggiunta c’è una questione tecnica che consiste nell’avere definito una procedura per poter ottenere informazioni affidabili dalle osservazioni da satellite anche quando, come in questo caso, i dati sono, come si dice tecnicamente, saturi. Questo ci ha permesso di poter avere informazioni nella primissima fase di questo evento e quindi identificare l’impressionante picco in luminosità di cui parliamo”.

GRB220101A è stato osservato da Swift, ma anche da altri telescopi spaziali come Fermi e Agile.

“Come sempre quando Swift identifica un GRB si ripuntano gli strumenti di bordo, come UVOT, e si ottengono dati pochi secondi dall’identificazione dell’evento di alte energie (il GRB vero e proprio). Un ottimo risultato per uno strumento che ormai vola dal 2004! Non appena l’alert per l’identificazione è arrivato a terra anche i telescopi “ground-based” hanno cominciato ad osservare ed il telescopio cinese di Xinglong, da 2,2 metri, ha ottenuto la misura di distanza, tramite uno spettro, che è risultata essere il notevole valore di z=4,6. All’epoca dell’evento che ha generato questo GRB l’universo aveva poco più di un miliardo d’anni”, dice Covino.

Il ricercatore sottolinea il grande lavoro tecnico fatto su questo GRB:

“Dobbiamo prima di tutto immaginare che un telescopio ottico, qualunque, riceve la radiazione luminosa da un oggetto celeste e la converte in un’immagine sul suo rivelatore. Ora, quello che accade è che, in dipendenza dalle caratteristiche del telescopio, l’immagine che si crea per un oggetto puntiforme, come le stelle o anche un GRB a distanze cosmologiche, ha una forma matematica ben precisa (tecnicamente è la PSF). Per visualizzarla possiamo immaginare un cappello a punta, tipo quello dei maghi, con la punta in alto e delle larghe falde intorno. Fare “fotometria” significa misurare bene l’estensione e l’altezza di questo ipotetico cappello! In pratica però, per eventi così brillanti, la parte centrale del “cappello” è cancellata, come tagliata, e quindi non è possibile ottenere le informazioni necessarie. Tuttavia esistono delle relazioni ben precise fra l’altezza del “cappello” e le faglie, che dipendono per telescopi nello spazio (cioè senza l’effetto dell’atmosfera) solo dalle caratteristiche tecniche del telescopio stesso. Con un lavoro davvero certosino siamo riusciti a misurare i parametri di queste relazioni e quindi a ricostruire a posteriori la forma del “cappello” in modo da ottenere le informazioni fotometriche complete. Anche questo può essere un esempio di come, anche con uno strumento che vola dal 2004, non si smetta mai di migliorare”.

Nonostante i decenni di studio, i GRB continuano a mostrare sorprese. Covino conclude dicendo:

“sembra quasi che siano un serbatoio inesauribile di comportamenti estremi ed ovviamente grandemente interessanti. Dal punto vista più modellistico ci mostrano come determinate combinazioni di parametri che portano alla prodigiosa luminosità in ottico osservata sono realmente possibili nel mondo reale. Questo ha importanti conseguenze ad esempio nel valutare l’impatto dei GRB nell’ambiente delle galassie che li ospitano”.

Uno dei co-autori del paper, Hao Zhou, e il primo autore, Zhi-Ping Jin, del Purple Mountain Observatory, hanno un forte legame con l’Italia. Jin è stato postdoc a Merate proprio con Covino, mentre Zhou, un giovane alla fine del suo dottorato, è attualmente in visita nella sede INAF di Merate dove lavora con Covino.


Rappresentazione artistica di un lampo di raggi gamma GRB220101A
Immagine artistica di un Gamma Ray Burst e dei suoi due getti che si propagano in direzioni opposte. Quando vediamo il Grb è grazie al fatto che il getto, che ha un angolo di apertura di pochi gradi, punta in direzione della terra. La bolla di luce che si vede al centro è la stella di grande massa che sta scoppiando, al cui centro si è appena formato il buco nero da cui hanno origine i due getti. Crediti: Eso/A. Roquette

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “An optical/ultraviolet flare with absolute AB magnitude of -39.4 detected in GRB 220101A”, di Zhi-Ping Jin, Hao Zhou, Yun Wang, Jin-Jun Geng, Stefano Covino, Xue-Feng Wu, Xiang Li, Yi-Zhong Fan, Da-Ming Wei e Jian-Yan Wei è stato pubblicato su pubblicato sulla rivista Nature Astronomy.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

IL PROTOAMMASSO PIÙ ANTICO E LONTANO DELL’UNIVERSO, A2744-z7p9OD, L’HA TROVATO WEBB. LO STUDIO PUBBLICATO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL LETTERS

Avvistato da Hubble e confermato da Webb, con la preziosa collaborazione dell’ammasso Pandora che ha agito come lente gravitazionale, il protoammasso di galassie più antico e più lontano conta, ad oggi, sette galassie. Si stava assemblando già circa 650 milioni di anni dopo il Big Bang, un periodo in cui stavano cominciando a formarsi le prime strutture cosmiche. Nel team che ha realizzato lo studio partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

Il protoammasso più antico e lontano dell'universo, A2744-z7p9OD
Le sette galassie evidenziate in questa immagine del James Webb Space telescope sono state confermate avere un redshift di 7,9 che le colloca a un’epoca di 650 milioni di anni dopo il Big Bang. Queste sono le più antiche galassie ad essere confermate spettroscopicamente come costituenti di un ammasso in formazione. Crediti: NASA, ESA, CSA, Takahiro Morishita (IPAC), image processing: Alyssa Pagan (STScI)

Ogni gigante è stato un tempo un bambino, ma riuscire a immaginarlo senza averlo mai visto può essere difficile. Un esercizio che hanno dovuto fare per anni, gli astronomi, dovendo ricostruire come si sono formate le strutture cosmiche più grandi, come gli ammassi di galassie, senza poterne vedere direttamente i progenitori. Fino ad oggi. Grazie al telescopio spaziale James Webb di NASA ed ESA, e grazie all’aiuto della lente gravitazionale di un ammasso di galassie vicino, l’inaccessibile è diventato accessibile. In un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters arriva la conferma dell’osservazione del protoammasso più antico e più lontano di sempre, in un’epoca in cui la formazione e l’assemblaggio delle galassie era cominciato da poco. Redshift 7,9, o 650 milioni di anni dopo il Big bang, a tanto si è spinto lo specchio dorato di Webb. In quel momento cominciava a formarsi questa struttura destinata – secondo i calcoli – a diventare un enorme ammasso di galassie. Grazie alle osservazioni di spettroscopia infrarossa di Webb, un gruppo di astronomi, fra cui alcuni dell’istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha confermato che si possono contare almeno sette galassie legate gravitazionalmente all’interno del protoammasso, e molte altre sono destinate a finirci dentro.

«Questo è un sito molto speciale e unico in cui le galassie evolvono in maniera accelerata, e Webb ci ha dato la possibilità senza precedenti di misurare le velocità di queste sette galassie e di confermare con sicurezza che sono legate insieme in un protoammasso», dice Takahiro Morishita, ricercatore all’IPAC-California Institute of Technology e primo autore dello studio.

Gli ammassi di galassie sono le più grandi concentrazioni di massa dell’universo conosciuto e possono ospitare migliaia di galassie legate gravitazionalmente all’interno di un’unica culla (o alone) di materia oscura. Sono talmente massicci da deformare visibilmente il tessuto dello spaziotempo, in un effetto di relatività generale noto come lensing gravitazionale. Proprio come una classica lente ottica, un ammasso di galassie produce un ingrandimento degli oggetti che si trovano, in proiezione, dietro di esso, rendendoli così visibili nonostante la distanza. L’ammasso che è stato utilizzato come lente in questo studio è l’ammasso di Pandora, o Abell 2744, che si trova a poco più di 3,5 miliardi di anni luce da noi.

“È sorprendente che solo 650 milioni di anni dopo il Big Bang ci fosse già una sovradensità di questo tipo formata, nell’universo”, commenta Benedetta Vulcani, ricercatrice dell’INAF di Padova e coautrice dell’articolo. “Il protoammasso ha un raggio di 195.000 anni luce, che è circa la distanza tra noi e la Grande nube di Magellano. È quindi abbastanza compatto, visto che il raggio di un ammasso nell’universo locale può essere 20 volte tanto. Stimare la massa è molto difficile, abbiamo seguito diversi approcci e abbiamo trovato un valore – che riteniamo conservativo – di circa 400 miliardi di masse solari. È un valore che può sembrare molto piccolo a noi addetti ai lavori che siamo abituati a pensare ai grandi ammassi moderni, ma con l’aiuto delle simulazioni abbiamo potuto vedere che questa struttura, evolvendo nel tempo, potrebbe raggiungere una massa simile all’ammasso di Coma, il più grande ammasso noto”.

La pulce nell’orecchio a Morishita e collaboratori, nel caso di A2744-z7p9OD – questo il nome del protoammasso – l’ha messa Hubble. Le sette galassie erano infatti già state individuate nel programma Frontier Fields del telescopio spaziale ottico e ultravioletto, attraverso osservazioni che sfruttavano proprio l’effetto di lente gravitazionale di alcuni ammassi di galassie vicini per vedere oggetti lontani. Per vedere i dettagli di queste strutture, però, non basta ingrandirle: occorre disporre di strumenti in grado di lavorare a lunghezze d’onda infrarosse, alle quali la luce ottica emessa da questi oggetti è stata portata a causa dell’espansione dell’Universo. Ma non potendo osservare a queste lunghezze d’onda, il telescopio Hubble non era stato in grado di dire molto sulla struttura e aveva lasciato aperta la porta della curiosità.

Curiosità che il telescopio spaziale Webb, grazie al suo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec, è riuscito a soddisfare. Per prima cosa, infatti, è riuscito a confermare la distanza delle sette galassie finora confermate come parte della struttura, a misurare la velocità con la quale si muovono all’interno dell’alone di materia oscura dell’ammasso, e le principali proprietà fisiche. E in secondo luogo, ha consentito di modellare e costruire la storia futura del protoammasso, scoprendo che somiglierà molto all’ammasso di Coma – uno degli ammassi più densi e popolosi dell’universo moderno.

Per crescere, una struttura come questa finirà per acquisire diverse centinaia e migliaia di altre galassie, delle quali gli astronomi hanno già trovato alcune tracce. Nella stessa regione di cielo ci sono infatti altre galassie che hanno un redshift fotometrico – stimato cioè con un metodo meno sicuro di quello utilizzato da Webb – simile a quello del protoammasso. Si trovano però ancora abbastanza lontane da questo, fino a un milione di anni luce di distanza dal centro della struttura, cinque volte più in là del suo raggio.

“Tutte le sette candidate che abbiamo osservato si sono rivelate parte della struttura, con un successo del 100%”, continua Vulcani. “In futuro di certo cercheremo di confermare anche gli altri candidati, per riuscire ad avere una stima più accurata delle dimensioni del protoammasso. Molto probabilmente finora ne abbiamo osservato solo il cuore, o una zona densa, ma pensiamo che ci siano altre galassie che non abbiamo individuato e che appartengono alla stessa struttura”.

Secondo la teoria della formazione e accrescimento delle strutture comiche, nel corso di miliardi di anni nuove galassie “cadranno” in questo protoammasso e contribuiranno alla sua crescita.

“La crescita delle strutture è simile a quella dei corsi d’acqua: torrenti che nascono da montagne diverse possono poi confluire in fiumi più grandi fino a formare i grandi fiumi. Così galassie inizialmente lontane con il passare del tempo si agglomerano in uno stesso spazio” commenta Vulcani, e conclude: “Quello che è sorprendente è che il nostro risultato supporta l’idea secondo cui galassie ad alto redshift che sono fisicamente lontane e magari non ancora parte di una struttura formata, in qualche modo sono già consapevoli del loro destino che le porterà a confluire in un ammasso. Queste galassie, infatti, formano stelle in maniera e quantità molto simili nel corso degli anni e hanno tutte un’evoluzione accelerata rispetto alle altre galassie che vivono la stessa epoca cosmica ma sono isolate. Come se, tornando all’immagine del fiume, le gocce d’acqua che nascono da sorgenti diverse in qualche modo sapessero che prima o poi si incontreranno”.

L’articolo Early results from GLASS-JWST. XVIII:A spectroscopically confirmed protocluster 650 million years after the Big Bang di Takahiro Morishita, Guido Roberts-Borsani, Tommaso Treu, Gabriel Brammer, Charlotte A. Mason, Michele Trenti, Benedetta Vulcani, Xin Wang, Ana Acebron, Yannick Bah´e, Pietro Bergamini, Kristan Boyett, Marusa Bradac, Antonello Calabrò, Marco Castellano, Wenlei Chen, Gabriella De Lucia, Alexei V.Filippenko, Adriano Fontana, Karl Glazebrook, Claudio Grillo, Alaina Henry, Tucker Jones, Patrick L. Kelly, Anton M. Koekemoer, Nicha Leethochawalit, Ting-Yi Lu, Danilo Marchesini, Sara Mascia, Amata Mercurio, Emiliano Merlin, Benjamin Metha, Themiya Nanayakkara, Mario Nonino, Diego Paris, Laura Pentericci, Piero Rosati, Paola Santini, Victoria Strait, Eros Vanzella, Rogier A.Windhorst e Lizhi Xie è stato pubblicato sul sito web della rivista The Astrophysical Journal Letters. DOI: 10.3847/2041-8213/acb99e

 Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GRB 221009A, IL LAMPO GAMMA PIÙ LUMINOSO DI TUTTI I TEMPI

Il potente lampo di raggi gamma scoperto il 9 ottobre 2022 è un evento estremamente raro, che si verifica una volta ogni 10mila anni. Le osservazioni, realizzate da telescopi nello spazio e a terra con forte coinvolgimento italiano, saranno determinanti per comprendere le colossali esplosioni da cui hanno origine i lampi gamma. L’annuncio oggi durante una conferenza stampa presso il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society, alle Hawaii, in occasione della pubblicazione dei primi risultati, che vedono la partecipazione di numerosi team di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e Agenzia Spaziale Italiana.

I raggi X del lampo gamma GRB 221009A sono stati rilevati per settimane come luce diffusa dalla polvere nella nostra galassia, portando alla comparsa di una serie di anelli in espansione. Questa animazione mostra le immagini catturate nel corso di 12 giorni dal telescopio a raggi X a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory della NASA.
Crediti: NASA/Swift/A. Beardmore (University of Leicester)

Il 9 ottobre 2022, numerosi telescopi spaziali in orbita attorno alla Terra e sonde operanti in diverse aree del Sistema solare hanno rivelato un forte impulso di radiazione ad altissima energia, seguita da un’emissione prolungata su tutto lo spettro elettromagnetico. La sorgente era un lampo di raggi gamma (gamma ray burst, GRB), una delle esplosioni più potenti dell’universo, così eccezionale da guadagnarsi subito il soprannome di “BOAT” dall’inglese “Brightest Of All Time”, ovvero “il più luminoso di tutti i tempi”.

GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi
GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi. Il telescopio spaziale XMM-Newton dell’ESA ha registrato 20 anelli di polvere, 19 dei quali sono mostrati in questa immagine, che combina le osservazioni effettuate due e cinque giorni dopo la scoperta del GRB 221009A. Le strisce scure indicano gli spazi tra i rilevatori del telescopio. L’anello più grande visibile in questa immagine è paragonabile alle dimensioni apparenti della luna piena in cielo.
Crediti: ESA/XMM-Newton/M. Rigoselli (INAF)

Chiamato correntemente GRB 221009A, il lampo è stato rivelato per la prima volta dal Fermi Gamma-Ray Space Telescope della NASA, che vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Agenzia spaziale italiana (ASI), l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), mentre il primo a dare l’annuncio è stato il satellite Neil Gehrels Swift Observatory, sempre della NASA, anch’esso con una forte partecipazione italiana attraverso ASI e INAF. Inizialmente si riteneva che la sua sorgente potesse trovarsi nella nostra galassia, la Via Lattea, ma ulteriori dati raccolti da Swift e Fermi e dal satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno indicato un’origine molto più lontana. Grazie alle osservazioni realizzate poche ore dopo con lo strumento X-Shooter sul Very Large Telescope dell’ESO, in Cile, si è potuta finalmente identificare la sorgente del GRB: una galassia a circa 2 miliardi di anni-luce da noi. Si tratta di una distanza ragguardevole dalla Via Lattea ma relativamente vicina se si considerano le immense scale cosmiche. È il GRB più intenso di cui sia mai stata misurata la luminosità, e il più luminoso mai visto dalla Terra nei 55 anni da quando i primi satelliti per lo studio dei raggi gamma sono stati messi in orbita. È inoltre uno dei più vicini mai osservati tra i GRB lunghi, quelli la cui emissione iniziale dura più di 2 secondi.

Marco Tavani, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dichiara: “Il lampo gamma cosmico GRB 221009A è un evento a dir poco eccezionale per vari motivi. Prima di tutto, per la sua intrinseca potenza, durata e straordinaria intensità; ma anche per il fatto che si sia verificato, in termini cosmici, relativamente vicino alla Terra. Una combinazione rara, che non ha eguali tra i lampi gamma cosmici osservati negli ultimi decenni. La radiazione X e gamma delle prime fasi di GRB 221009A, e di seguito quella radio, ottica e X nella fase di emissione ritardata, è stata rivelata da diversi telescopi da terra e dallo spazio in cui l’Istituto Nazionale di Astrofisica è fortemente coinvolto se non primo attore. I telescopi utilizzati nello studio di questo GRB sono equipaggiati con strumenti all’avanguardia per poter catturare la radiazione dalla sorgente associata a GRB 221009A, analizzarla e comprendere i dettagli della poderosa esplosione da cui ha avuto origine. Il lavoro delle nostre ricercatrici e dei nostri ricercatori, che hanno guidato diversi studi sin dalle prime fasi di GRB 221009A, è stato fondamentale per caratterizzare questo peculiare lampo gamma cosmico e coglierne a pieno le sue potenzialità per la comprensione dei fenomeni più energetici dell’Universo che portano alla formazione delle stelle di neutroni e dei buchi neri”.

L’analisi dei dati, confrontati con quelli di circa 7mila GRB osservati nei decenni passati con il telescopio spaziale Fermi e lo strumento russo Konus a bordo del satellite NASA Wind, ha permesso di stimare la frequenza con cui si verifica un evento così luminoso e relativamente vicino: una volta ogni 10mila anni. Il lampo era così luminoso che ha letteralmente accecato la maggior parte degli osservatori spaziali a raggi gamma, che non hanno potuto misurare la reale intensità dell’emissione. Dopo aver ricostruito i dati mancanti di Fermi e grazie al confronto con i risultati del team russo che lavora sui dati Konus e con i team cinesi che analizzano le osservazioni del rivelatore GECAM-C a bordo del satellite SATech-01 e degli strumenti a bordo dell’osservatorio Insight-HXMT, si è dimostrato che l’esplosione è stata 70 volte più luminosa di qualsiasi altra mai vista.

L’evento è stato così brillante che la sua radiazione residua, il cosiddetto afterglow, è ancora visibile e rimarrà tale per molto tempo. I risultati sono stati presentati oggi durante il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society a Waikoloa, Hawaii. Gli articoli che presentano i risultati sono stati pubblicati in un numero speciale della rivista The Astrophysical Journal Letters e su Astronomy & Astrophysics.

Hanno osservato il GRB anche lo strumento NICER a bordo della Stazione spaziale internazionale, il telescopio spaziale NuSTAR della NASA, la sonda Voyager 1 che esplora lo spazio interstellare, il satellite italiano AGILE, realizzato dall’ASI con il contributo di INAF e INFN, e diversi satelliti dell’ESA, tutti con importanti contributi italiani: dai telescopi spaziali XMM-Newton e INTEGRAL alle sonde Solar Orbiter e BepiColombo fino al satellite Gaia. INTEGRAL, trovandosi in posizione ottimale, ne ha registrato sia l’emissione immediata sia l’afterglow con un’accuratezza senza precedenti. Gli scienziati ritengono che i GRB lunghi, come questo, derivino dal collasso del nucleo di una stella massiccia e la conseguente nascita di un buco nero, che emette getti di particelle ad altissima energia in direzioni opposte mentre ingurgita la materia circostante. Osservare l’afterglow del GRB, causato proprio da questi getti bipolari, ha permesso di testare i diversi modelli teorici che descrivono i processi fisici in atto nelle fasi iniziali dell’esplosione.

“Si tratta di una scoperta importante – commenta il presidente dell’ASI Giorgio Saccoccia – resa possibile anche grazie al contribuito di tutte le sonde come Fermi, Swift, INTEGRAL, AGILE, NuSTAR, IXPE, XMM, Solar Orbiter, Bepi Colombo, Gaia e CSES. Satelliti in orbita a cui ASI ha dato il suo contributo. Il merito va anche al nostro Space Science Data Center (SSDC) che mette da diverso tempo a fattor comune i dati scientifici provenienti da tutte queste missioni che hanno a bordo strumentazioni fornite da ASI. Questa visione multidisciplinare della scienza spaziale rappresenta il percorso vincente per aumentare le competenze italiane nello studio dell’Universo. Si tratta di una forte capacità dell’ASI che, da sempre, lavora insieme all’intera comunità scientifica, per lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, che consentono di avere una visione dell’Universo più completa”.

Dopo aver viaggiato attraverso lo spazio intergalattico, la radiazione proveniente dal GRB 221009A si è imbattuta nelle nubi di polvere presenti nel mezzo interstellare che permea la nostra galassia, la Via Lattea. Quando i raggi X incontrano la polvere, una parte di essi viene dispersa, creando anelli concentrici che sembrano espandersi verso l’esterno: una sorta di eco luminosa del lampo mentre attraversa la galassia. Il telescopio spaziale XMM-Newton ha fornito un’immagine profonda e dettagliata di 20 anelli, osservando in diversi giorni dopo la scoperta del GRB, mentre il satellite Swift ne ha monitorato l’evoluzione nel tempo. L’anello più distante è sorto dall’impatto con una nube di polvere situata a 61mila anni luce di distanza, dall’altro lato della Via Lattea, mentre il più vicino, visto solo da Swift, si è formato a circa 700 anni luce da noi. Il modo in cui una nube di polvere diffonde i raggi X dipende dalla sua distanza, dalle dimensioni dei granelli di polvere e dall’energia dei raggi X: l’analisi degli anelli creati dal GRB ha permesso di ricostruire parte della sua emissione iniziale a raggi X ma anche la distribuzione e composizione delle nubi di polvere nella nostra galassia. I dati indicano che i granelli di polvere sono composti principalmente da grafite, una forma cristallina del carbonio.

Gli anelli di polvere sono stati rivelati anche dall’osservatorio spaziale IXPE, una collaborazione tra NASA e ASI con un importante contributo di INAF e INFN, che osserva la polarizzazione dei raggi X. Il piccolo grado di polarizzazione misurato da IXPE nella fase di afterglow conferma che uno dei due getti è stato osservato in direzione quasi frontale. Da questo tipo di GRB, gli scienziati si aspettano di osservare anche una supernova poche settimane dopo, che però non è stata rivelata. Uno dei possibili motivi della mancata osservazione potrebbe essere l’attenuazione da parte di spesse nubi di polvere nel piano della Via Lattea. Tuttavia, non ha sortito successo nemmeno la ricerca nell’infrarosso effettuata con il telescopio spaziale James Webb, che ha osservato l’afterglow in contemporanea con il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF. Può darsi che la stella fosse così massiccia che, dopo l’esplosione iniziale, abbia immediatamente formato un buco nero che ha inghiottito tutto il materiale circostante, impedendo la formazione di una nube di gas, il cosiddetto resto di supernova.

“Un evento davvero unico per la sua intensità e vicinanza cosmica – spiega Marco Pallavicini, vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – che conferma il potere diagnostico delle misure di polarizzazione offerte da IXPE e dallo strumento innovativo che INFN ha sviluppato e messo a disposizione della missione, il quale si innesta in una ormai consolidata tradizione di successi ottenuti nell’ambito della realizzazione di rivelatori spaziali di sempre maggiore efficacia e capacità risolutive. Risultati certificati anche dai contributi forniti a molti degli osservatori spaziali, tra cui Fermi e AGILE, protagonisti della caratterizzazione di questo GRB senza precedenti.”

Anche sulla Terra il GRB 221009A ha fatto sentire i suoi effetti, rilasciando nei pochi minuti della sua durata circa un gigawatt di potenza nella porzione superiore della nostra atmosfera, ionizzando fortemente la parte alta della ionosfera su una larga regione geografica centrata sull’India e che ha interessato anche Europa e Asia. L’aumento del flusso di elettroni correlato con il GRB è stato misurato dal rivelatore di particelle cariche HEPP-L a bordo del China Seismo-Electromagnetic Satellite (CSES-01), che vede la partecipazione di ASI e INFN, il quale stava orbitando sopra l’Europa al momento dell’arrivo del GRB.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO

Un team internazionale di ricercatrici e ricercatori guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha studiato 29 galassie ai primordi dell’universo, stimando per la prima volta la frazione di luce da esse rilasciata in grado di ionizzare il gas circostante. Questo lavoro è stato reso possibile grazie al telescopio spaziale JWST e l’aiuto di un massiccio ammasso di galassie che, come una lente, ha amplificato la luce proveniente dalle galassie ancora più distanti.

Le prime stelle e galassie nella storia dell’universo, nate oltre tredici miliardi di anni fa, quando il cosmo aveva solo poche centinaia di milioni di anni d’età, si sono formate a partire da una miscela di gas neutro, costituito principalmente da atomi di idrogeno. La radiazione energetica proveniente da queste prime stelle e galassie ha poi contribuito, nelle centinaia di milioni di anni seguenti, a trasformare questo gas e ionizzarlo, cioè scinderlo in elettroni e protoni. Gli astronomi la chiamano “reionizzazione” poiché durante questa fase il mezzo intergalattico che pervade l’universo, da neutro, torna a essere ionizzato come lo era nel cosmo primordiale. Non è però ancora chiaro quali galassie abbiano contribuito maggiormente a reionizzare il mezzo intergalattico nei primi stadi di questo processo, né quale percentuale di fotoni – le particelle di luce – con energie sufficienti a ionizzare il gas circostante sia fuoriuscita dai diversi tipi di galassie presenti all’epoca.

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO
JWST cattura le galassie che hanno reionizzato l’universo. JWST-Abell-2744: L’ammasso di galassie Abell 2744, chiamato anche Ammasso di Pandora, osservato con il telescopio spaziale Webb. L’ammasso agisce da lente gravitazionale, amplificando la luce proveniente da sorgenti più distanti e permettendo di rilevare galassie tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Crediti: NASA, ESA, CSA, I. Labbe (Swinburne University of Technology), R. Bezanson (University of Pittsburgh), A. Pagan (STScI)

Con il suo specchio dal diametro di 6,5 metri e la sensibilità osservativa nella banda infrarossa, il James Webb Space Telescope (JWST), osservatorio spaziale della NASA in collaborazione con ESA e CSA, può spingersi indietro nel tempo fino alle galassie più distanti, tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Il progetto GLASS, una collaborazione internazionale di ricercatrici e ricercatori in 24 istituti di ricerca e università tra Italia, Stati Uniti, Giappone, Danimarca, Australia, Cina e Slovenia, che utilizza JWST per cercare risposta ai quesiti ancora aperti sulla reionizzazione cosmica, ha recentemente pubblicato un nuovo articolo a guida italiana sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

“Abbiamo studiato, tramite osservazioni spettroscopiche e fotometriche ottenute con JWST, 29 galassie lontane e siamo riuscite a misurare in maniera indiretta le loro capacità ionizzanti, dato che a distanze così elevate non è possibile osservare direttamente i fotoni di così alta energia che sono quelli che hanno portato alla reionizzazione del mezzo intergalattico”, spiega la prima autrice del nuovo articolo Sara Mascia, dottoranda in Astronomy, Astrophysics and Space Science all’Università di Roma Tor Vergata, che porta avanti la sua ricerca presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). “Questo studio dimostra la capacità di JWST non solo di trovare le galassie più distanti ma anche di svelarne le proprietà fisiche.”

La luce proveniente da queste galassie, catturata con gli strumenti NIRCam e NIRSPec a bordo di JWST, è stata emessa quando l’universo aveva un’età compresa tra circa 650 milioni e 1,3 miliardi di anni. Prima di queste osservazioni, le proprietà ionizzanti di queste lontanissime galassie erano ignote, soprattutto per quanto riguarda le galassie di piccola massa, molto difficili da studiare.

“Abbiamo stimato per la prima volta la capacità ionizzante delle galassie nell’epoca della reionizzazione: in particolare, siamo riusciti a stimare quanti fotoni ionizzanti fuoriescono dalle galassie di piccola massa grazie all’effetto di lente gravitazionale da parte di Abell 2744, un ammasso di galassie che si trova tra noi e le galassie distanti e amplifica il loro segnale”,

aggiunge Laura Pentericci, ricercatrice INAF a Roma e co-autrice del nuovo lavoro.

“I nostri risultati indicano che oltre l’80 percento delle galassie osservate contribuisce in maniera significativa alla reionizzazione.”

Nuove osservazioni che saranno realizzate prossimamente con JWST estenderanno questa analisi a campioni più grandi di galassie, includendo quelle con masse più elevate o più distanti. Lo scopo è di determinare se la maggior parte dei fotoni che hanno contribuito a reionizzare l’universo sia stata fornita da galassie più massicce e luminose di quelle osservate oppure se, come ritenuto dai principali modelli attuali, il contributo maggiore sia dovuto alle galassie più deboli, molto più numerose.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Closing in on the sources of cosmic reionization: first results from the GLASS-JWST program”, di S. Mascia, L. Pentericci, A. Calabrò, T. Treu, P. Santini, L. Yang, L. Napolitano, G. Roberts-Borsani, P. Bergamini, C. Grillo, P. Rosati, B. Vulcani, M. Castellano, K. Boyett, A. Fontana, K. Glazebrook, A. Henry, C. Mason, E. Merlin, T. Morishita, T. Nanayakkara, D. Paris, N. Roy, H. Williams, X. Wang, G. Brammer, M. Bradac, W. Chen, P. L. Kelly, A. M. Koekemoer, M. Trenti, R. A. Windhorst, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Allo studio hanno partecipato anche ricercatori delle università di Ferrara e Statale di Milano.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)